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2014/04/30

Ayrton Senna, la leggenda della Formula 1 - Tribute

Vent’anni fa, il primo maggio del 1994, morì a Imola Ayrton Senna, uno dei piloti più amati della Formula 1. Un grande uomo, non solo in pista, dove oltre a essere grande era anche un combattente, ma nella vita.

Ayrton Senna è rimasto nella memoria di tutti appassionati e non solo, anche in quella della gente che di F1 non conosceva nulla, per il grande talento e la capacità di emozionare, con gare sempre al limite (e a volte anche oltre), oltre che per la sua grande umanità, non sempre così facile da trovare in un ambiente come la Formula 1. Se dobbiamo però prendere solo alcune delle sue qualità principali, quelle rimaste più impresse, parliamo della sua abilità di guidare in condizioni estreme e quella capacità di saper sfruttare l’ultimo giro utile nelle qualifiche, per strappare la pole position ai rivali.

I suoi numeri strepitosi rendono solo in parte il suo feeling con quel giro secco, per partire davanti a tutti nella gara del giorno dopo, ma vale comunque la pena di citarli: 65 pole position conquistate in 162 gare, cioè una ogni 2 o 3 gran premi. Una media mostruosa, diventata ancora più incredibile se consideriamo solo gli anni in cui aveva una macchina competitiva per il titolo (41 in quattro anni tra il 1988 ed il 1991). E proprio partendo davanti a tutti ha salutato il mondo terreno: tre pole nelle prime tre gare del 1994, seppur senza mai riuscire a terminare la gara.

La domenica, invece, Senna si esaltava se pioveva o, ancor meglio, diluviava. Mentre tutti gli avversari rallentavano o andavano fuori pista, lui macinava giri veloci e sorpassi, quasi come se l’asfalto fosse bagnato solo per gli altri. Le sue prime vittorie sono arrivate tutte con gli ombrelli aperti: la prima grande gara a Montecarlo 1984, il primo successo in Portogallo l’anno successivo ed il primo titolo mondiale a Suzuka 1988. Non è certo un caso, così come non lo è essere stato nominato il "mago della pioggia".

Ayrton Senna il campione. Quarantuno sigilli, poi il brusco stop. La carriera di Ayrton Senna in Formula 1 inizia nel 1984, ma dovrà aspettare un anno prima di salire sul gradino più alto del podio, all’Estoril, in Portogallo. Da allora, una marcia inarrestabile che lo porterà a dominare praticamente ovunque. Avrebbe infranto molti più record di quanti non abbia fatto nella sua carriera, Ayrton Senna. Tra il brasiliano e la conquista di tutte le classifiche si intromise però il destino. 

Ayrton diceva che con il Cielo aveva un rapporto speciale, un'amicizia consolidata, una fede incrollabile: ''Nessuno mi può separare dall'Amore di Dio''. Lui, che qualche tratto divino l'aveva nei lineamenti, nei gesti e soprattutto nell'enorme talento, se ne andò un pomeriggio di 20 anni fa facendo la cosa che, dopo Dio, amava di più: la velocità. Andando al massimo. A 300 all'ora.

Bisogna che qualcuno lo dica chi fosse davvero Ayrton Senna. Che possono saperne i ragazzi d'oggi, vent'anni fa non erano ancora nati! Il mondo al tempo di internet brucia in fretta i suoi protagonisti. Un'ora fa è il vecchio, ieri è il passato. E’ un modo diverso, quello del terzo millennio, di approcciare la storia. Tutto è così immediato, e l'istante dopo qualcosa distrae già l'attenzione. C'è altro da vedere. Vivere nella velocità è un dovere. Ecco, qui tra voi e lui c'è una somiglianza che forse vi aiuta a capire chi fosse in realtà questo gentiluomo brasiliano. Amava la velocità, si diceva. Viveva per lei. Morì, per lei.

Era l'1 maggio del 1994. Festa dei lavoratori. Forse fu l'unico giorno della sua vita, oltre che l'ultimo, in cui andò a lavorare contro voglia. Presagio di quello che sarebbe accaduto alle 14:17 di 20 anni fa? Forse (il Cielo gli era vicino, si diceva), ma soprattutto era quello che era accaduto nei giorni precedenti in quel maledetto fin di settimana imolese che lo turbava.

Lui era il miglior pilota in circolazione, da poco approdato alla corte di Frank Williams, dopo i trionfi e i tre mondiali conquistati con la McLaren. Nel frattempo una diavoleria ingegneristica che teneva le monoposto incollate al suolo, quali erano le sospensioni attive, era stata abolita, circostanza che purtroppo avrebbe giocato un ruolo, assieme a troppe altre, sul suo destino terreno. Lui era il più forte e sicuramente il più veloce in pista. Nelle prime tre gare di quell’anno fatale non a caso partì sempre dalla pole position, di cui era il recordman, 65 in carriera.

Eppure già in Brasile, al debutto, e nel prosieguo, in Giappone, non era riuscito ad arrivare alla bandiera a scacchi, vittima di piccoli e se vogliamo banali incidenti di percorso che avrebbero dovuto avvisarlo che c'era qualcosa nel mezzo che non andava a dovere. Primo al traguardo in entrambe quelle gare arrivò un certo Michael Schumacher, su Benetton. Che effetto fa pensare che, vent'anni dopo la scomparsa di Ayrton, il kaiser tedesco sia in un limbo di incoscienza per danni cerebrali analoghi, anche se non fatali, a quelli che uccisero il tre volte campione sette giri dopo il via del Gp di San Marino. Qualche astuzia tra i paletti del regolamento rendeva velocissima la macchina di Michael, ma soprattutto lui arrivava in fondo. La Williams no.

C'era qualcosa che disturbava la guida pulita (Ayrton resta l’eroe di sempre del giro perfetto) del miglior pilota della storia. Di certo, il nostro non sopportava di subire da quello sprezzante tedesco. E poi c'era qualcosa nella progettazione della sua macchina che non andava. Non c’era spazio a sufficienza, per le mani guantate, tra scocca e volante, le nocche sfregavano sul metallo che le circondava. I tecnici e i meccanici della scuderia fresarono quella parte del telaio, per dare maggiore agio alle manovre del pilota. Ma non bastava, forse fresarono il supporto sbagliato, forse fu quell'azione riparatrice la responsabile di quel cedimento strutturale del supporto che reggeva il volante, forse furono solo dettagli di un grande disegno che era stato scritto da qualche parte e doveva solo avverarsi.

Agli ingegneri, categoria sempre osannata a torto o ragione, venne in mente una soluzione stile uovo di Colombo. Segarono il piantone dello sterzo e saldarono una sezione di pochi centimetri, tra i due monconi separati, di spessore più ridotto nel giunto in cui l’asta si appoggiava, l’intero sistema sterzante sarebbe potuto scendere verso il basso di qualche millimetro, per dare maggiore agio alle mani di Ayrton.

Questo empirismo da officina ebbe un ruolo nel destino del campione brasiliano. Non c’erano più le sospensioni intelligenti, gli asfalti che fino a un anno prima risultavano lisci come un biliardo si rivelarono quell’anno per le nuove e meno sofisticate sospensioni un po' meno confortevoli, almeno il fondo del Circuito del Santerno. Dove prima le macchine passavano come sui binari, ecco che all’improvviso pareva di correre una sorta di rally. Pieni di dossi e di avvallamenti, di rugosità, i circuiti ’94. Le monoposto ballavano sull’asfalto come fosse un’esibizione di tip-tap. Troppo, evidentemente troppo, per l’indebolito piantone della Williams su cui Ayrton scaricava la forza delle sue mani per le curve e le correzioni di rotta.

E poi… Ci sono troppi poi in questa storia, eccolo, un ennesimo poi: i regolamenti erano meno sofisticati di oggi, le vie di fuga per ridurre le conseguenze di fuoripista erano meno lunghe, i muri erano di cemento e non protetti da schermi di gomma, e i prati in alcuni casi non erano in salita com’è logico ma a volte in discesa, con conseguente perdita di contatto col suolo e un devastante effetto planante. Così era quella al Tamburello di triste memoria.

E come un presagio di morte, l’uomo che sussurrava al Cielo aveva fatto triste tesoro dell’incidente a Roland Ratzenberger, in cui uno schianto su un muro costò la vita allo sfortunato pilota austriaco nel sabato di qualifica.

Nulla sarebbe più stato come prima. Prima di Senna. Dopo Senna. E non è un caso che dopo Ayrton, in pista, non sia più morto nessuno. Cambiò tutto, a partite dai regolamenti e dai crash test. Lui amava la velocità, i milioni di appassionati che lo compiangono come nessuno odiano che la velocità e un banale guasto meccanico abbiano privato il mondo del suo immenso talento. 

Oggi è tutto più sicuro. Almeno quel sacrificio non fu del tutto vano.
















Pensiero della sera: Se fosse sopravvissuto al terribile incidente di Imola, oggi Ayrton Senna avrebbe 54 anni.
Sicuramente si sarebbe ritirato molto prima di Schumacher, forse già dopo aver vinto almeno due mondiali con la Ferrari. Se avesse firmato lui con la Ferrari, non ci sarebbe andato Schumacher che di mondiali con la Ferrari ne ha vinti 5. Avremmo tutti preferito che Ayrton restasse in vita e continuasse a correre per la sua e nostra gioia e chissenefrega dei mondiali di Schumacher.
Purtroppo è andata diversamente e, francamente, non mi sento di gioire per qualche mondiale in più!

Condannato a una morte di sofferenza



Era doveroso affrontare questo argomento che ha sempre attirato critiche e commenti al vetriolo, ora piu' che mai dopo la tremenda esecuzione effettuata ieri, 29 Aprile, in Oklahoma, Stati Uniti. Lui, il condannato alla fine ha esalato l’ultimo respiro dopo atroci sofferenze, forse a causa della rottura della vena in cui gli è stato iniettato il mix letale di veleni. I testimoni raccontano di aver assistito a una scena raccapricciante. Era stato condannato alla pena capitale perché accusato di omicidio. Alla fine un infarto ha posto fine al supplizio uccidendolo. 

La vecchia storia dell'occhio per occhio che, abbiamo visto ormai da oltre un secolo, non funziona affatto come deterrente. Morire a un certo punto del nostro cammino verso la vecchiaia, fa parte del gioco, se di gioco si tratta perche' vivere e' bello e vivere si vorrebbe per sempre. Perche' vorremmo lasciare una traccia dietro di noi in modo da essere ricordati dai posteri e alla fine vivere almeno nel ricordo della gente. 

In alcuni paesi del mondo ancora si fucila, si decapita, si impicca o si uccide con l’iniezione letale; Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran, Somalia, ma anche in Giappone, negli Stati Uniti. Ogni volta su risvegliano amaramente i più vergognosi tra i ricordi della barbarie per qualunque civiltà che sia riuscita a liberarsi del fantasma della pena capitale. Amnesty International si batte senza condizioni contro la pena di morte, ritenendola giustamente una punizione crudele, disumana e degradante superata, abolita nella legge o nella pratica da più della metà dei paesi nel mondo. Contro la pena di morte perche' essa viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione. 

Non parlo di numeri, anche se a volte costituiscono i soli dati certi, ma non è escluso che ogni anno siano ancora più elevati, i numeri tuttavia servono solo come alibi, liberano le coscienze, potrebbero essere di piu', meno male che sono di meno. Che modo barbaro di giudicare. Ogni vita, fosse anche un solo condannato a morte in un anno, rappresenta una sconfitta, l'uomo che uccide l'uomo, senza vergogna, senza pentimento, armato da uno Stato giudice. L'uomo che si erge a giudice estremo della vita altrui senza che ne sia il creatore. Solo chi la genera potrebbe, in ultima analisi, deciderne per la soppressione. Si tratta naturalmente di un concetto border line. 

Non posso tuttavia fare a meno di riflettere, sulla disumanità della pena capitale. E’ come se tutte le volte la scena di un condannato che esala l'ultimo respiro contaminasse anche le nostre coscienze, ci rendesse tutti un po’ più simili all’assassino. E’ da qui, io credo, che nasce il rifiuto della pena di morte, chiunque ne sia la vittima e quali che siano le sue colpe. Quando invochiamo l’abolizione, lo facciamo non tanto in nome della pietà per i colpevoli, quanto per un senso di rispetto di noi stessi e dei nostri valori. Non è mai stato provato che la pena capitale svolga una particolare azione deterrente, non è mai stato provato che l'uomo tende a rinunciare al crimine per evitare di finire sul patibolo anzi, a leggere certe storie di condannati alla pena capitale viene da pensare che sia davvero l'opposto. 

Una sfida dunque? 

Nella tradizione cristiana l’uomo non è padrone della propria vita, quindi non può cedere allo Stato di cui fa parte come cittadino la facoltà di ucciderlo anche se ha commesso un delitto. La pena di morte è quindi in contrasto col patto sociale. Rousseau aveva già mostrato che tale contrasto non sussiste; ma, quel che più conta, l’argomento presuppone l’intera e gigantesca costruzione filosofico-teologica elaborata dalla tradizione occidentale, che già l’illuminismo, pur appartenendole, incomincia a mettere in crisi. Si può allora sostenere che la pena di morte è meno temibile, per il delinquente, della reclusione a vita. E dunque questa è la posta in palio, il rischio oppure il regalo per finire presto le sofferenze? Se la morte non è la pena più temuta da chi compie il massimo dei delitti, cioè l’omicidio, ne viene che la morte è una delle pene che sono più adatte a punire i delitti minori? A questo punto, infatti, non si può replicare che no, che la pena di morte non deve essere mai inflitta altrimenti si cadrebbe nell'inganno di giudicare per punire le intenzioni e non già i delitti?

L'uccisione del colpevole non è la via per ricostruire la giustizia e riconciliare la società c'è semmai il rischio, direi la prova inconfutabile, che al contrario si alimenti lo spirito di vendetta e si semini nuova violenza.

Sono questi i termini della sfida?

Il Beccaria, nella sua ormai famosa opera "Dei delitti e delle pene" scrive:

Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.

Per concludere, appare sempre più evidente come gli Stati che ancora condannano a morte siano sempre meno e sempre più isolati dalla comunità internazionale: ciò, purtroppo, non ha impedito ai Governi di tali Stati di continuare e, talvolta, incrementare ancor più il ricorso a questa estrema forma di inciviltà inutile e violenta.

2014/04/25

Cent'anni di solitudine - Tributo a Gabriel Garcia Marquez

Chissà se quel giorno in cui Gabo si accorse che stava per morire chiamato dal grande signore che sta in cielo, si ricordò del giorno in cui scrisse il suo più grande e indimenticato romanzo "Cent'anni di solitudine"?

Quel romanzo epico e travolgente, abbastanza da attirare milioni di lettori a leggerlo e rileggerlo inizia grosso modo così, con un ricordo di molti anni prima: 
""Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito."

La fucilazione del colonnello Aureliano Buendia
in un dipinto di autore ignoto.
Venite gente a Macondo, un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come pietre preistoriche. Avvicinatevi signore e signori e lasciatevi ammaliare da Melquìades, lo zingaro che "diceva di possedere le chiavi di Nostradamus". Volate con Josè Arcadio Buendìa verso un futuro fantastico, fatto di pindarici progetti e illimitate fantasie. Combattete e amate donne in ogni dove, al fianco del generale Aureliano Buendìa. Guardate, guardate bene signori, e vedrete sei generazioni di Buendìa segnare le sorti di questo paese, divenuto alla fine, un "pauroso vortice di polvere e macerie centrifugato dalla collera dell'uragano biblico". Una saga familiare ricca di forza e visioni, un romanzo eccezionale, scritto nello stile suggestivo di uno dei padri della letteratura Sudamericana.

Chi era Gabriel Garcia Marquez?

Era prima di tutto un amante dello scrivere, scrivere per affascinare, per attrarre il lettore, anche quello più distratto. Per distrazione o per noia iniziai a leggere il mio primo libro di Gabo, quei Cent'anni di solitudine che non m'hanno più abbandonato. L'unico libro che ho letto e riletto almeno tre volte nella mia lingua e poi in inglese, in francese e recentemente nella lingua originale. E queste continue letture possono sembrare astruse, vuote di significato, invece ne hanno molti. Leggere e rileggere focalizzandosi ogni volta su un diverso filone della storia per cogliere le sfumature. Cent'anni di solitudine credo che sia l'unico libro che permette, attraverso un lirismo mitico e un accentuato surrealismo, svariate interpretazioni personalizzate. Diviene difficile scrivere un commento al libro perché arriva a sfiorare delle corde profonde, che appartengono a ognuno di noi e sono parte del nostro (più o meno celato, ma immancabile) disagio esistenziale. Tra queste pagine c'è solitudine, appunto, c'è malinconia, rabbia, volontà di cambiare, e nonostante la lotta si giunge sempre alla resa davanti ad un “tiempo” che sembra riproporre, quasi beffardo, giorni sempre uguali, in cui si succedono generazioni di uomini dal nome altrettanto uguale, che ricorda loro - fin dalla nascita - un destino segnato e distinato alla solitudine. 

Gabriel García Márquez, morto il 17 Aprile 2014 a Città del Messico aveva 87 anni. Era stato ricoverato in ospedale il 3 aprile per una polmonite che tardava a guarire ma anche una lunga malattia succeduta al tumore estratto e apparentemente ben curato che lo colpi nel 1999. L'autore colombiano, premio Nobel per la Letteratura e padre del realismo magico ibero-americano, se n'è andato in silenzio e tutto il mondo piange la sua scomparsa.

Il simbolo di Macondo copertina di una 
versione Italiana di Cent'anni di Solitudine.
Prima di diventare l’autore-simbolo di un’intera generazione, di un continente e di una lingua, "Gabo" è stato per anni un grande giornalista, un periodista attento, poetico e duro, dei più drammatici avvenimenti che avevano mutato la mappa di mezzo mondo, dalle rivoluzioni di Cuba e del Portogallo alla tragedia cilena, a Ernesto "Che" Guevara, ai cubani in Angola, ai montoneros, ai dittatori centroamericani, alla Spagna postfranchista di Felipe Gonzales. Nato ad Aracataca, Magdalena, nel 1928, ha mescolato nella propria opera la dimensione reale e quella fantastica, dando impulso allo stile della narrativa latino-americana definito "realismo magico", di cui “Cien anos de soledad” (1967) rappresenta un manifesto. Nel 1982 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Pubblicò “La hojarasca” nel 1955, analisi di un suicidio attraverso il monologo di tre testimoni che portano alla luce vicende e passioni di tutto un paese nel corso di un secolo. Seguirono Nessuno scrive al colonnelle (1961), I funerali della Mamà Grande (1962) e La mala ora (1962).

La sua opera di maggior successo, “Cent’anni di solitudine”, narra di un paese leggendario, Macondo, sul cui sfondo si intrecciano avvenimenti e fantasticherie, eroismi, crudeltà e solitudine. Ma ciò che più conta nel romanzo è la particolare struttura narrativa in cui la metafora e il mito acquistano valore nel quadro di una nuova visione della realtà. Dopo “Racconto di un naufrago” (1970), il volume di racconti “La incredibile e triste storia de la candida Erendira e della sua nonna snaturata” (1972) e una raccolta di articoli torna al romanzo con “L’autunno del patriarca” (1975), in cui rievoca, con il suo personale lirismo mitico e con accentuato surrealismo, la figura tragico-grottesca di un dittatore sudamericano. 

Disegni raffiguranti gli abitanti di Macondo
La sua produzione, quasi interamente tradotta in italiano, comprende i romanzi “Cronaca di una morte annunciate” (1982), “L’amore ai tempi del colera” (1985) e “Il generale nel suo labirinto” (1989), riflessione sul potere attraverso la narrazione degli ultimi giorni di vita di Simon Bolivar. Del 1992 è, invece, la raccolta di racconti “Dodici racconti raminghi”, a metà tra realtà e fantasia. “Dell’amore e altri demoni” (1994) indaga, attraverso la storia di una ragazza internata in un convento perché ritenuta indemoniata, sull’ineluttabilità e sull’inspiegabilità del sentimento amoroso. Ha poi scritto “Vivere per raccontarla” (2002) e “Memoria delle mie puttane tristi” (2004), un romanzo che racconta la storia di un vecchio giornalista che, a novant’anni, trascorre una notte con una ragazzina illibata, rimanendone piacevolmente sconvolto al punto da incominciare, quasi, un nuovo percorso di vita.
Rappresentazione dell'allegoria 
di Macondo e della sua gente

Lo scoprirono i tanti figli del Sessantotto, colpiti proprio da “Cent’anni di solitudine”, presto imitati dalla generazione successiva: milioni di lettori sparsi ovunque. Gli amici lo chiamavano Gabo. Per tutti gli altri era uno dei più amati premi Nobel per la letteratura, che vinse 1982. I titoli dei suoi romanzi sono entrati perfino nei luoghi comuni, quante volte avrete sicuramente letto titoloni sui quotidiani recitare a caratteri cubitali “Cronaca di una morte annunciata” a proposito di qualche politico caduto in disgrazia? Ebbene si tratta di un libro di Gabriel Garcia Marquez, un libro di successo come molti altri. Anche quell'altro “L’amore ai tempi del colera” trova spesso mezione per altri intendimenti nei nostri luoghi comuni.
Gabo non aveva mai nascosto le sue simpatie per Fidel Castro e per il regime di Chavez in Venezuela, tantomeno la sua acerrima avversità per i narcos che ammorbano la Colombia con immensi traffici di droga. Era perfino celebre la rivalità, anche in amore, con il peruviano Mario Vargas Llosa, che lo sfidò a duello a pugni, anche se poi non mancò di lodarlo come un gigante della letteratura.
Il tumore che lo afflisse nel 1999 lo portò anche ad una svolta letteraria, più rivolta verso uno stile memorialistico, ma sempre caratterizzato dall’ironia. Fu così che pubblicò “Memoria delle mie puttane tristi”, ultimo sforzo narrativo. I quotidiani di tutto il mondo hanno riportato la notizia della sua morte con grande risalto in prima pagina.
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†  Rest in Peace Gabo.

Sewol. Chronicle of a tragedy.

Sometimes the sea is not as kind as we would like to believe. Sometimes the sea is brutal. This time, however, was not only the sea, but the criminal incompetence of those who ruled the ship a handful of minutes before the tragedy was taking place. Who didn't wish to be present to avoid, expertly, that the incident occurred, who for only greed has increased dramatically the carrying capacity of the ship, helping to raise the center of gravity and, in fact, jeopardize all passengers. Sooner or later it would happen! 
Hurts to find out what happened at the time that over 300 young student were aboard to reach an island vacation.

Cries my heart to read this terrible news, I'm a father, I understand the pains of those parents, and I am horrified at the thought. There is still much to be done so that do not happen again, not by the hand of man, not to earn a few dollars more. What ever are now those dollars faced with the death of so many young lives?

What caused Sewol sinking? 

Human errors, which accounted for 85% responsible in all maritime accidents; will not reduce in accidents waiting to happen; but number of accidents could decrease in a climate of more improved safety culture in maritime sector. All of as are accounted for this challenging task. The 6,325-ton Sewol was carrying 476 people, including 325 students from a high school in Ansan, just south of Seoul, when it sent out a distress signal at 8:58 a.m. in waters 20 kilometers off the island of Byeongpoong.

MS Sewol, previously Ferry Naminoue or Naminoue-Maru, was built by the Japanese company Hayashikane in 1994. She had 146 m (479 ft) in length and 22 m (72 ft) in width, it could carry 921 passengers, 956 including the crew.  It was operated by Cheonghaejin Marine Company, Incheon.

It had been reported to have space for 180 or 220 cars and could carry 152 20-foot shipping containers. The maximum speed of the ship was 22 knots (41 km/h; 25 mph
Sewol operated in Japan for 18 years (from 1994). The ship was brought in from Japan on October 2012. 

Since then extra passenger cabins were added on the third, fourth and fifth decks, increasing the passenger capacity by 181, and increasing the weight of the ship by 239 tons. The construction was legal and passed regulatory tests.
After regulatory safety checks by the government of South Korea, the ship began its operation in South Korea on 15 March 2013. 
The ship then made two-to-three round-trips every week from Incheon to Jeju.

It was reported that Sewol again passed a vessel safety inspection by the South Korean Cost Guard on 19 February 2014.
This inspection was called an “Intermediate Survey” which according to International Association of Classification Societies (IACS), “include examinations and checks as specified in the Rules to determine whether the ship remains in a general condition which satisfies the Rule requirements.”


How the accident happened?

On 16 April 2014; about 30 kilometres (19 mi) off the southwest coast, the ferry began to list badly as it headed for Jeju. There were reports of the ferry having veered off course but the co-ordinates of the accident provided by port authorities indicated it was not far out of the regular shipping lane. 

The ship, reportedly altered the course with a very big rudder angle (a sharp turn) and during that turn (to starboard side?), ship very heavily listed on her port side. Right at that moment, a very Rescued passengers reported hearing a loud noise and the ferry coming to a shuddering halt – indicating it may have run aground although the water was reportedly 37 metres (121 ft) deep at the place where the ship capsized. Rescued passengers also reported that they were told "don't move" by an announcement over the ship's intercom system, whilst the ship was sinking.

Inside the ferry, chaos unfolded, survivors said, as the walls and floor seemed to exchange positions. Bottles and dishes fell. The ship’s twisting stairways became almost impossible to negotiate. Passengers were tossed to one side. Trays and soup bowls overturned, said Song Ji-cheol, a college student who worked part-time in the cafeteria.
The ferry was reported to be sinking at 8:58 am Korean Time.

At 9:30 am, the ferry was reported to have tilted 20 degrees to the Port side..
By around 11:18 am, the bow of the ship was submerged, with about 2 metres of height and 20 to 30 metres in length showing. 
At 8 am KST on April 18, only 1 metre of the bow was above water
As of 1:03 pm, the ship was completely submerged.

During the capsizing, it was first believed that passengers trapped in the vessel were able to send text messages to friends and family as the vessel sank. However, subsequent investigations by the Cyber Terror Response Center reported that survivors had not used their phones from noon on the 16th to 10 am on the 17th and determined that all reported text messages were fake.

Ocean temperatures in the area where the ship capsized were around 12 °C (54 °F), and the length of time before signs of hypothermia are exhibited at that temperature is approximately 90 minutes.
As of 25 April 2014;  188 of the ship’s 476 passengers and crew members confirmed dead and about 118 missing, compared to 179 survivors.


Captain accused of leaving the bridge

Initial investigations showed that at the time of accident, the third officer- an inexperienced officer who started to work onboard just 6 months ago-  was on duty and the Ship’s captain Lee Joon-seok- a 68-years old professional-  arrived into the bridge right after the accident.  According the report of third officer, the Captain was calm and asked the angle of ship’s list. 

According to my experience, what Captain’s behaviour was the proper practice and there is nothing to blame. Captain can not be expected to be on the bridge at all times and duty officer is eligible for navigation at open seas,  as far as the ship is not navigation in high risk areas or pilotage waters. According to reports, neither was the case. So what happened? We can only estimate. 

Can a sharp turn cause sinking?

Answer is quite simple: Yes, it can. It can and for various reasons this can take place. But, there should be other assisting factors for this result. First, if the ship has got a very narrow GM (Metesantric Height)  distance, or negative GM that can occur. Such ships are called as "tender ship" (Contrary to a "stiff ship")  and they ususally have difficulty to correct themselves if listed to one side. The metacentric height (GM) is a measurement of the initial static stability of a floating body. It is calculated as the distance between the centre of gravity of a ship and its metacentre. A larger metacentric height implies greater initial stability against overturning. 

Metacentric height also has implication on the natural period of rolling of a hull, with very large metacentric heights being associated with shorter periods of roll which are uncomfortable for passengers. Hence, a sufficiently high but not excessively high metacentric height is considered ideal for passenger ships. An excessively low or negative GM increases the risk of a ship capsizing in rough weather, for example HMS Captain or the Vasa. 

It also puts the vessel at risk of potential for large angles of heel if the cargo or ballast shifts, such as with the Cougar Ace. A ship with low GM is less safe if damaged and partially flooded because the lower metacentric height leaves less safety margin. For this reason, maritime regulatory agencies such as the International Maritime Organization specify minimum safety margins for seagoing vessels. 

A larger metacentric height on the other hand can cause a vessel to be too "stiff"; excessive stability is uncomfortable for passengers and crew. As greater the metacentrik height goes, righting lever increases accordingly.  It corrects the ship to come upright again. If a ship floods, the loss of stability is caused by the increase in KB, the centre of buoyancy, and the loss of waterplane area - thus a loss of the waterplane moment of inertia - which decreases the metacentric height.  

This additional mass will also reduce freeboard (distance from water to the deck) and the ship's angle of down flooding (minimum angle of heel at which water will be able to flow into the hull). The range of positive stability will be reduced to the angle of down flooding resulting in a reduced righting lever. 

When the vessel is inclined, the fluid in the flooded volume will move to the lower side, shifting its centre of gravity toward the list, further extending the heeling force. This is known as the free surface effect.

The island group on the Port side of the ship let us think that ship altered the course to Starboard, not to Port. The island group on the Port side of the ship let us think that ship altered the course to Starboard, not to Port.


Which could be the case in Sewol accident? 

If Sewol was not in a collision-with a submerged rock or any other unknown object- then, most probably, the ship had a very narrow metacenter height and large heel periods. 
Using the helm with a great angle- due to the inexperience of the officer on watch or a technical failure, as mentioned above-  could result in a big outwards heel. 

When turning, especially in a sharp turn for which a greater angle of rudder has been used,  the initial heel when the wheel is put over is inwards, because the rudder force is acting at a point below the centre of gravity of the ship.  
As the ship begins to turn, the centripetal force on the hull (which is greater than the rudder force), acting through water pressure at a point below the centre of gravity, overcomes the tendency to heel inwards and causes her to heel outwards.  

This outward heel is very noticeable when turning at good speed.  If the wheel is eased quickly the angle of outward heel will increase, because the counteractive rudder force is removed while the centripetal force remains, until the rate of turning decreases.  Should an alarming heel develop, speed should be reduced instantly.

Then, returning to Sewol case; this is a question which remains to be answered:  why the ship's rudder was put in a very large angle-most probably to hard to starboard (less likely to port) which resulted in the sharp turn and heel? Answers may vary: there might be another ship, a sailing or fishing boat, or the island was too close on the port bow due to a drift (remembering the strong currents in the area, drifting should be expected; and inexperience of the officer might play a role here, again) caused a panic to officer,  forcing her to put the helm hard to either side. The inexperience of watch officer could play a role in here. Because, if she was aware of the metacenter height of the ship, she would not do so. 

On the other hand, the officer on duty, appears to be a female officer, said to reporters that, she did not make a sharp turn, but "the steering turned much more than usual."
What is the meaning of this? To my interpretation; She means that she did not give a rudder command with a big angle; but, however, due to the Helmsman's error or a technical failure, the rudder went all the way to the side. Well, hard to port or hard to starboard. An exceptional order which could be used very easily in harbor operations but never -except emergency- on a ship with little metacenter margin at full speed ahead! 

Of course, a human error of helmsman, or a mechanical failure of the rudder, should not be omitted. What third officer said could be just the truth. But the result remains unchanged: A rudder command was given with a great angle while the ship was proceeding in her full speed. As a counter action, the ship’s speed should be dropped immediately and in this case, according to wittness reports, this was also done. 

Whatever happened; had happened at the initial heel, the very first one. Witnesses say that there was a very big noise. If not crashing to a submerged rock, or obstacle, what could be the cause of this, if not the clushing of cargo, either with each other or with ship's side plates? And, in this case, as the cargo of Sewol were nothing else than cars and vehicles in the garage and some containers on the fore deck, shifting-sliding-overturning of the vehicles at ship’s garage during the heavy listing  could be the case. This could push the center of gravity towards the listed side and crashing  of vehicles could damage the ship’s shell plates which could lead sea water inside- further worsening the scenario. The result is an immediate and inevitable capsize. 

Sewol Captain: Did he know the ship was tender?

And how this emergency situation was handled by the ship’s crew? Reports seem that crew- and obviously the Captain- underestimated the situation at the very first moment.  In a good risk evaluation should result by alarming all crew and passengers to gather at muster stations. Ship’s emergency alarm should be announced. This was not the case, however. The passengers were asked to stay in their cabins, assuming this wold be safer. Wrong assumption!

Another important point. Many people trying to find an answer to the question: why Sewol captain was so late to give the order for evacuation? Captain's answer to this question is clear: "I did not want to risk the passengers in cold water and strong currents until the assistance arrives" he says. But; he could have ordered passengers to vacate the inner cabins and come upper decks, where they would have had a greater chance of survival -- without telling them to abandon ship. So why he did not do that?

To my estimation: the Captain knew the small metacentre margin that  the ship had. If all passengers rushed up to upper deck, this would even worsen the situation by changing the center of gravity further up. That's why he did not call all passengers to the upper deck, hoping to balace the ship in the mean time. Big risk, at the cost of the life of passengers!

"You couldn't turn the wheel very sharply on that boat. You just couldn't. It was dangerous because the dynamic stability was not very good." This is the statement one of the ex-crewmembers of Sewol ferry, concurring with my early remarks about the accident that the ship had a stability problem with marginal metacenter height. 

Ex-workers  also said that "the vertical extension and renovations to the cabin deck raised the ship's center of gravity without taking into proper account the water levels in the ballast tanks" which further justifies my insight. 

Lessons to take 

This is another maritime accident to take lessons, but it costed to so many young lives. Maritime business requires serioussness. Accident has no mercy once it happened. Human errors, which accounted for 85% responsible in all maritime accidents; will not reduce in accidents waiting to happen; but number of accidents could decrease in a climate of more improved safety culture in maritime sector. All of as are accounted for this challenging task. 

Some compare this accident with the Costa Concordia accident. Well. In some point of view, Captain Schettino handled the emergency situation much better with much more passengers had been evacuated with less victims in comparison. But, he was luckier. He had much more time before the ship capsized. But, we must appreciate that except his very early flock out of the ship, and except the wrong maneuvering right before hitting the rocks Capt. Schettino did the right things to do in the emergency situation. But, every situation has it's exceptions. Let's see the end of judgements. 

A prayer for the poor victims. 
R.I.P.


2014/04/23

Hot Dog

Luckily I have not eaten dog in Hanoi. By a kind of basic disgust I avoid eating meat that I don't have the slightest idea of the origin, so I keep me well away from certain restaurants too cheap or those exhibiting live animals in cages just outside, means that sooner or later the hairy inhabitant of the cage ends up in the pot. The following article was suggested to me by a friend, is hilarious in some form for humans to read, not for dogs. I am against these practices that I consider barbaric. Indeed I am disgusted just thinking about it. 
If you like read it, otherwise change page, I'll understand. 
SB

Hey, you know what everyone does in Hanoi? Eats tons of dog. All the time. If you don't believe me, come here, get up early, and watch the salivating packs of humans gather at dawn to chase strays through the streets. Most of the time they don't even bother to kill the dog before they start tearing away at its flesh. If they do, it's because the kids aren't quite as adept at eating live prey as the adults are. And that's totally fine, these things take time—just like how, in this country, not all children are born with the ability to keep down jellied eels.

Dog eating in Vietnam isn't just a stereotype. It dates back thousands of years and seems to be a present from the Chinese. It’s mainly eaten in the North and is believed to bring good luck and male virility. Rather ominously, no one has been able to tell me precisely what breed is eaten since I moved here, which might explain the large number of “dognappings” that take place in Hanoi.

The streets are full of men sporting chipped teeth and NY Yankees caps, all urging you to try their restaurant’s tasty "thit chó." Others have portable stalls with the dead canines revolving on a spit. I've yet to work up the courage or become desensitized enough to take a trip down "Dog Street," which I imagine looks something like the Westminster Dog Show after a terrorist attack.

I know that eating dog is the norm here, much as it's the norm in the US to eat Big Macs. I love dogs and have been surrounded by them since I was a baby. But after a few weeks of speaking to locals, coworkers, and fellow Westerners, the barrier was starting to crumble. I wanted to feel like more than a tourist in Hanoi, and I saw no point in remaining a conscientious objector.

So, one Friday after a couple of Bia Hanois (beers), my American friend and I set off in search of canine cuisine. The search didn't take long. Within a couple of minutes, we were being led to the side of a central Hoan Kiem restaurant, where we found a live dog laid out on the table.

At least I thought it was still alive.

It was only as I neared the head that I realized something was amiss. As in missing. Half of its rib cage was missing. Out sprung an animated chef, dancing some kind of crazed knife dance with jazz hands. Evading this guy and working our way round to the head, I was amazed to see that all its teeth were present and it still looked lifelike—just with a slightly darker coat. I later discovered this is because there isn’t any preparation or oven basting. The dogs are just cooked whole with a blowtorch.


By now, the momentary machismo of ordering dog had been quickly supplanted by a strong feeling of dread. This wasn’t going to be a pleasant experience. As I eyed the mountain of cold, unappetizing dog carcass towering in front of me, my thoughts returned to poor Digby (my aunt's dog) and every other canine I’d stroked/cuddled in my life. Sorry, guys. I was about to betray all of you.

I reached hesitantly for my drink, but by now a dozen pairs of eyes were fixed on my trembling hand, willing it to grab the nearby chopsticks. Twenty-two years of Westernization was no match for this unbearable peer pressure I felt. It would be easy to draw this out, but ultimately what happened is that I succumbed, I shut my eyes and slipped a slimy piece of dog into my mouth.

The first thing that struck me was the sheer chewiness. Ten gabbers on MDMA couldn't work up the gum power between them to gnaw through a chunk of this stuff in less than two minutes. What had started as a harmless foray into local tradition had quickly become a living nightmare where I was choking on an Everlasting Gobstopper of guilt. Lassie, Sounder, my ex’s adorable puppy Boris, the Tatler dachshund, your boys took one hell of a beating.

While it was torture for my jaw, the taste wasn't nearly as bad—just unremarkable. The texture was awful though: semi hard wood glue peppered with pieces of reinforced concrete. The closest taste description I can muster is a disconcertingly vague hybrid of turkey and pork.

As if reading my mind, the waiter suggested adding some spice by mixing the meat with his “special sauce.” I was ready for any kind of flavor at this point. Then I found out his special sauce was fermented shrimp paste, which tasted like a medieval prostitute’s gusset. I immediately regretted my decision.

Having managed eight or nine chunks of the clammy canine flesh, I uncovered the cold sausages made of dog's blood below—“doggy black pudding” as our waiter excitedly exclaimed. One bite of this, and I was done. Absolutely, unequivocally, eternally fucking done.

I’d be lying through my teeth if I said I felt pride after trying dog, but what I felt wasn't exactly shame, either. Clearly it’s a taboo in the West, but it wasn't hard to remind myself how commonplace it is in Vietnam as soon as I walked out of the restaurant and was confronted with more delicious little doggies being pushed around on carts. 

The price, for anyone who’s interested, was only $10 for the two of us. They cost a lot more alive, which can probably be explained by the fact that they're a lot more fun climbing over your stomach than up through it and out of your mouth.


2014/04/21

La strage degli innocenti


Inorridire sarebbe il minimo, nei primi mesi di questo 2014 nato sotto tutti i buoni auspici, stiamo assistendo a quella che potrebbe tranquillamente essere classificata negli annali storici come una strage di innocenti. Chi dovrebbe proteggerci non lo fa, chi dovrebbe vegliare su di noi, sui nostri figli, sulle nostre famiglie, con piglio sicuro e condotta da buon padre di famiglia, non lo fa.
I comandanti "Schettino" o suoi emuli volontariamente o involontariamente, si moltiplicano come i pani e pesci di una famosa parabola. Che succede in questo nostro mondo, che giudico imperfetto, da farci inorridire e fuggire da tanti malanni degni della peggiore legge di Murphy?

Quando la HMS Birkenhead, una nave britannica che trasportava truppe, cominciò ad affondare al largo della costa del Sud Africa nel 1852, il capitano e gli ufficiali militari a bordo notoriamente consentirono alle donne e bambini l'accesso a bordo delle scialuppe di salvataggio prima di tutto. Il capitano e molti dei soldati rimasti sulla nave fino all'ultimo, perirono in mare pur di aiutare le donne e i bambini nella loro strada verso la salvezza. Il loro gesto cavalleresco di sacrificio è considerato un esempio, lo standard per il nobile comportamento in mare.

In seguito altre manifestazioni di coraggio da capitani e membri dell'equipaggio che hanno messo i loro passeggeri in salvo hanno scandito decenni successivi, come il capitano Edward J. Smith, che è andato giù con il Titanic.

Ma tale coraggio non si e' manifestato nel corso di due grandi catastrofi marittime negli ultimi tempi.

Il capitano Lee Joon-seok del Sewol, traghetto che batteva bandiera della Corea del Sud affondato la scorsa settimana, è stato oggetto di pesanti critiche per aver abbandonato la nave, mentre centinaia di passeggeri sono rimasti a bordo. Decine di loro sono morti e più di 200 mancavano ancora all'appello e sicuramente sono annegati o assiderati nella bara d'acciaio che li stava trasportando all'isola di Jeju per una breve vacanza. Le azioni a dir poco criminali di Lee e di una parte del suo equipaggio hanno spinto al confronto con quelle non meno criminali del capitano Francesco Schettino, che era al commando della nave da crociera Costa Concordia, schiantatasi su uno scoglio al largo delle coste italiane nel 2012, uccidendo 32 persone.

Testimoni hanno detto che Schettino si gettò in una scialuppa di salvataggio per fuggire dalla nave, anche se centinaia di passeggeri erano ancora a bordo. Nel corso della sua difesa il capitano ha detto di essere caduto in una scialuppa di salvataggio quando la nave si inclinò bruscamente. Sappiamo che Schettino è ora sotto processo con l'accusa di omicidio colposo plurimo, per aver causato un disastro marittimo e per aver abbandonato la nave con passeggeri ancora a bordo. Anche se nega gli illeciti per tutti sarà sempre additato come il comandante codardo, anzi, già adesso “Schettino” è sinonimo di codardia. 

I casi del Sewol e della Costa Concordia hanno sollevato domande circa gli obblighi di un capitano di una nave passeggeri che rischia di affondare, soprattutto quando le colpe dirette o indirette del naufragio sono da addossare al capitano stesso. Lasciando il Sewol subito dopo aver iniziato l’affondamento, Lee ha rinnegato alcune delle sue funzioni fondamentali. Il primo obbligo del capitano è la sicurezza del suo equipaggio e dei passeggeri. Lui deve rimanere a bordo della nave fino a quando tutti i passeggeri sono stati evacuati in modo sicuro. E poi l'altra ragione per cui deve rimanere a bordo della nave riguarda i diritti di salvataggio (vedasi il link http://www.fog.it/legislaz/cn-0489-0513.htm). 

Per un capitano lasciare la nave prima e in una situazione di pericolo, con la minaccia di affondamento non è esattamente il modo professionale di agire. Una convenzione marittima internazionale sulla sicurezza della vita in mare prevede che un capitano sia responsabile della nave e di tutte le persone a bordo, ma non prevede che il capitano rimanga sulla nave durante l'affondamento. Non necessariamente si vuole un capitano morente con la propria nave. Tuttavia lui ha la responsabilità della sicurezza di tutti a bordo di quella nave.

Alcuni paesi, tra cui l'Italia e la Corea del Sud, fanno dell'abbandonare la nave un crimine marittimo. E analogamente a Schettino in Italia, Lee si trova ad affrontare accuse penali relative al suo ruolo nel disastro, tra cui appunto l'abbandono, la negligenza, l’aver causato lesioni personali e non aver richiesto il soccorso da altre navi. Il presidente sudcoreano Park Geun-hye ha paragonato le azioni di Lee e alcuni membri dell'equipaggio del traghetto a un omicidio.

Schettino e Lee tuttavia non sono i soli a aver abbandonato una nave, destinata all'affondamento, davanti ai loro passeggeri. Così come per il ruolo d'onore dei capitani che andavano giù con le loro navi, non c'è una sala della vergogna per chi ha abbandonato la nave prima dei passeggeri. Un esempio del passato: il piroscafo italiano Sirio naufragò al largo della costa spagnola nel 1906, uccidendo più di 150 persone. Il suo capitano fu segnalato per aver abbandonato la nave alla prima occasione, ma morì di "crepacuore" in seguito, secondo un rapporto delle autorità.

Lee ha attirato soprattutto critiche per aver ordinato ai passeggeri di non muoversi, apparentemente per ritardare l'evacuazione della Sewol prima che naufragasse. Si fanno molte congetture sulla questione. I siti coreani e statunitensi parlano di ordini dell'armatore a ritardare l'evacuazione in attesa di una nave di soccorso della stessa compagnia, per evitare di dover pagare il diritto di soccorso. Il capitano avrebbe dovuto essere il tramite di informazioni oneste e chiare per tutti relativamente alla situazione, non avrebbe dovuto ordinare di sedersi ma evacuare la nave. Lee ha difeso le sue azioni adducendo scuse puerili e senza senso. 

Sapeva che nel braccio di mare, dove stava affondando il Sewol, le correnti erano abbastanza veloci, e la temperatura dell'acqua era piuttosto fredda e ha usato queste informazioni per discolparsi. Ma provare a salvare le vite è diverso che lasciarle sedute aspettando che succeda qualcosa “perché l'acqua è fredda o la corrente forte”. Meglio tentare di salvarsi che morire annegati. Inoltre l'abbandono anticipato di Lee potrebbe aver aggravato la crisi a bordo della nave. Quando non esiste più una leadership a bordo, essa lascia un vuoto che è quasi impossibile da colmare. I membri superstiti dell'equipaggio senza una guida capace hanno manovrato erroneamente le zattere di salvataggio, riuscendo a metterne in acqua solo un paio senza armarle, palloni galleggianti inutile, e corre veloce il sospetto che le zattere non fossero a norma. 

Ci sarebbero dovuto essere abbastanza membri dell'equipaggio per gestire i passeggeri 
Angosciati e impauriti. In quei casi allora conta la testa. Se ci sono persone scomparse, avrebbe dovuto esserci altri membri dell'equipaggio alla loro ricerca per condurle in superficie e salvarsi. Ma un traghetto non ha molti membri dell'equipaggio, di solito si limitano allo stretto necessario non includendo nelle necessità quegli esperti in grado di gestire con freddezza e capacità la situazione.

Sebbene la legge scritta non specifica che abbandonare la nave sia un crimine, è una tradizione marinaresca di lunga data che il capitano sia l'ultimo a essere tratto in salvo da una nave che affonda, e questo discorso vale anche secondo gli esperti legali.
In generale, il capitano è l'ultimo a scendere dalla nave.

In un video promozionale dal 2010, Lee è raffigurato nella timoniera di una nave mentre scruta il mare con un binocolo. Loda la sicurezza che una nave offre ai suoi passeggeri. 

"Credo che sia più sicuro di qualsiasi altro veicolo", disse in quell video "purché si seguano le istruzioni dei nostri membri dell'equipaggio." Lee ha avuto modo di essere lì e poter prendersi cura di tutti. Ma non l'ha fatto. Incredibilmente ha abbandonato al loro destino trecento ragazzi impauriti, trecento govani vite. 

Proprio per colpa loro sono morti trecento giovani, ironia della sorte si sono salvati solo coloro che le istruzioni non le hanno seguite.



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