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2014/08/30

Perché i media raccontano Israele in maniera sbagliata?



La storia di Israele

È rimasto qualcosa da dire su Israele e Gaza? I giornali di questa estate erano pieni di ben poco d’altro. I telespettatori vedono cumuli di macerie e pennacchi di fumo anche quando dormono. Un articolo rappresentativo, in un recente numero di The New Yorker, ha descritto gli eventi dell’estate dedicando una frase ciascuno agli orrori in Nigeria e Ucraina, quattro frasi alle follie genocide dell’ISIS e tutto il resto dell’articolo – trenta frasi – a Israele e Gaza.

Quando l’isteria si attenuerà, credo che gli eventi di Gaza non saranno ricordati dal mondo come particolarmente importanti. Persone sono rimaste uccise, la maggior parte delle quali palestinesi, tra cui molti innocenti inermi. Vorrei poter dire che la tragedia della loro morte, o la morte di soldati israeliani, cambierà qualcosa, che segnano un punto di svolta. Ma non è così. Questo round non è la prima delle guerre arabe con Israele e non sarà l’ultima. La campagna israeliana era poco diversa nella sua esecuzione da qualsiasi altra condotta da un esercito occidentale contro un nemico simile negli ultimi anni, fatta eccezione per la natura più immediata della minaccia alla popolazione del proprio paese e i maggiori sforzi, tuttavia futili, per evitare morti civili.

La durevole importanza della guerra di questa estate, credo, non sta nella guerra stessa. Si trova invece nel modo in cui la guerra è stata descritta e affrontata all’estero e il modo in cui questo ha messo a nudo la rinascita di un vecchio, contorto modello di pensiero e il suo sdoganamento dalla marginalità della narrativa prevalente in occidentale, e cioè un’ostile ossessione verso gli ebrei. La chiave per comprendere questa rinascita non si trova tra i webmaster jihadisti, i teorici della cospirazione, i cantinari o gli attivisti più radicali. È invece da trovare per prima tra le persone istruite e rispettabili che popolano l’industria delle notizie internazionali; persone perbene, molte di loro, alcune di loro miei ex colleghi.

Mentre la mania globale per le azioni israeliane può considerarsi garantita, essa è in realtà il risultato di decisioni prese da singoli esseri umani in posizioni di responsabilità, in questo caso i giornalisti e i redattori. Il mondo non reagisce agli eventi che si svolgono in questo paese, ma piuttosto alla descrizione di questi eventi da parte delle organizzazioni giornalistiche. La chiave per comprendere la strana natura della reazione si viene così a trovare nella pratica del giornalismo e in particolare in un malfunzionamento grave che si sta verificando in quella professione, la mia professione, qui in Israele.

In questo saggio cercherò di fornire alcuni strumenti per rendere il senso delle notizie da Israele. Ho acquistato questi strumenti da addetta ai lavori: Tra il 2006 e la fine del 2011 sono stato giornalista e redattore nell’ufficio di Gerusalemme dell’Associated Press, uno dei due principali fornitori di notizie del mondo. Ho vissuto in Israele dal 1995 e scrivo su di essa dal 1997.

Questo saggio non è un’indagine esaustiva sui peccati dei media internazionali, oppure una polemica conservatrice o una difesa delle politiche israeliane. (Io credo nell’importanza dei media “mainstream”, sono un liberal e rimango critico verso molte delle politiche del mio paese). Esso  prevederà necessariamente alcune generalizzazioni. Inizierò col delineare i tropi centrali della storia d’Israele secondo i media internazionali, una storia sulla quale ci sono sorprendentemente poche variazioni tra tutte le strutture informative di mainstream e una che è, come la stessa parola “storia” suggerisce, un costrutto narrativo che è in gran parte finzione. Quindi noterò il più ampio contesto storico in cui Israele è venuto in argomento e discuterò e spiegherò perché credo che questo sia motivo di preoccupazione non solo per le persone interessate alla questioni ebraiche. Cercherò di essere breve.

Quanto è importante la storia di Israele?

L’assunzione di personale è la migliore misura dell’importanza di una storia per una particolare organizzazione giornalistica. Quando ero corrispondente dell’AP, l’agenzia aveva più di 40 membri di staff che coprivano Israele e i territori palestinesi. Quello era significativamente più personale giornalistico di quello che l’AP aveva in Cina, in Russia o in India o in tutti i 50 paesi dell’Africa sub-sahariana sommati. È rimasto superiore al numero totale di degli inviati in tutti i paesi in cui le rivolte della “primavera araba” alla fine esplosero.

Per offrire un senso della scala: prima dello scoppio della guerra civile in Siria, la presenza del personale permanente di AP in tale paese era costituita da un singolo inviato approvato dal regime. I redattori della AP credevano, cioè, che l’importanza della Siria fosse meno di un quarantesimo di quella di Israele. Non sto focalizzandomi sull’AP – l’agenzia è totalmente rappresentativa, questo la rende utile come esempio. I grandi protagonisti del business del giornalismo praticano il groupthink e questi assetti di personale si sono propagati in tutto il  branco. I livelli di personale in Israele sono diminuiti un po’ dal momento in cui le rivolte arabe sono iniziate, ma rimangono alti. E quando in Israele divampa un conflitto, come è successo questa estate, i giornalisti sono spesso trasferiti da altri mortali conflitti. Israele ancora trionfa su quasi tutto il resto.

Il volume di copertura mediatica che ne risulta, anche quando succede ben poco, dà a questo conflitto una prominenza rispetto al quale il suo pedaggio in vite umane rimane assurdamente piccolo. In tutto del 2013, per esempio, il conflitto israelo-palestinese è costato 42 vite umane, cioè circa il tasso mensile di omicidi nella città di Chicago. Gerusalemme, di fama internazionale come città di conflitto, aveva un po’ meno morti violente pro capite, l’anno scorso, di Portland nell’Oregon., una delle città più tranquille d’America. Al contrario, in tre anni il conflitto siriano ha provocato una stima di 190.000 vite umane, cioè circa 70.000 più del numero di persone che siano mai morte a causa del conflitto arabo-israeliano da quando esso è iniziato un secolo fa.

Le organizzazioni di notizie hanno comunque deciso che questo conflitto è più importante, per esempio, delle più di 1.600 donne uccise in Pakistan lo scorso anno (271 dopo essere state stuprate e 193 delle quali bruciate vive), della cancellazione permanente del Tibet da parte del Partito Comunista Cinese, della carneficina in Congo (più di 5 milioni di morti a partire dal 2012) o nella Repubblica Centrafricana e delle guerre di droga in Messico (con un numero di morti tra il 2006 e il 2012 uguale a 60.000), per non parlare di conflitti nessuno ha mai sentito parlare negli angoli oscuri della dell’India o della Thailandia. Essi credono che Israele sia la storia più importante del mondo o giù di lì.

Cos’è importante della storia di Israele e cosa no.

Un giornalista che lavora nelle strutture della stampa internazionale qui impara subito che ciò che è davvero importante nella storia israelo-palestinese è Israele. Se si segue la copertura tradizionale, non troverete quasi nessuna analisi reale della società palestinese o delle ideologie o dei profili dei gruppi armati palestinesi o un indagine sul governo palestinese. I palestinesi non vengono presi esattamente sul serio come protagonisti del proprio destino. L’occidente ha deciso che i palestinesi dovrebbero desiderare uno stato a fianco di Israele, in modo tale che questa opinione viene loro attribuita come un fatto, non ostante chi abbia trascorso del tempo con i palestinesi reali capisca che le cose sono (comprensibilmente, a mio parere) più complicate. Chi sono e cosa vogliono, non è importante: la storia esige che essi esistano solo in quanto vittime passive della parte che conta davvero.

La corruzione, per esempio, è una preoccupazione pressante per molti palestinesi sotto il governo dell’Autorità palestinese, ma quando io e un altro giornalista abbiamo una volta suggerito un articolo sul tema, siamo stati informati dal capo ufficio che la corruzione palestinese “non era la storia”. (La corruzione in Israele la era, l’abbiamo coperta a lungo.)

Le azioni israeliane vengono analizzate e criticate e ogni difetto nella società israeliana è segnalato aggressivamente. In un periodo di sette settimane, dall’ 8 novembre al16 dicembre 2011, ho deciso di contare gli articoli provenienti dal nostro ufficio sui vari fallimenti morali della società israeliana – le proposte legislative per sopprimere i media, la crescente influenza degli ebrei ortodossi, gli avamposti non autorizzati, la segregazione di genere e così via. Ho contato 27 distinti articoli, una media di una storia ogni due giorni. In una stima molto conservativa, in queste stesse sette settimane il riscontro è stato superiore al numero totale delle storie significativamente critiche verso il governo e la società palestinese, inclusi gli islamisti totalitari di Hamas, che il nostro ufficio aveva pubblicato nei precedenti tre anni.

La Carta di Hamas, per esempio, non invoca solamente la distruzione di Israele ma anche l’assassinio degli ebrei e accusa gli ebrei di aver organizzato le rivoluzioni francese e russa e le due guerre mondiali; La Carta non è stata mai menzionata dalla stampa mentre ero all’AP, anche se Hamas aveva vinto le elezioni nazionali palestinesi ed era diventato uno dei protagonisti più importanti della regione. Per indicare il legame con gli eventi di questa estate: un osservatore potrebbe pensare che la decisione di Hamas negli ultimi anni di costruire una installazione militare sotto le infrastrutture civili di Gaza sarebbe stata ritenuta degno di nota, se non altro per ciò che significava circa il modo in cui il conflitto successivo sarebbe stato combattuto e il costo che implicava per le persone innocenti. Ma questo non è il caso. Le postazioni di Hamas non sono importanti di per sé e sono quindi state ignorate. Ciò che era importante era la decisione israeliana di attaccarle.

Si è molto discusso recentemente di come Hamas cerchi di intimidire i giornalisti. Qualsiasi inviato veterano qui sa che l’intimidazione è reale e l’ho vista in azione io stesso come redattore dell’ufficio stampa di AP. Durante i combattimenti 2008-2009 Gaza ho personalmente cancellato una notizia particolare, secondo la quale i combattenti di Hamas erano vestiti in borghese e i loro caduti venivano contabilizzati nelle statistiche come vittime civili, a causa di una minaccia verso la nostra inviata a Gaza. (La policy adottata era allora e rimane quella di non informare i lettori che la storia è censurata, a meno che la censura non sia israeliana. All’inizio di questo mese il redattore capo di Gerusalemme della AP aveva segnalato e presentato una storia sulle intimidazioni di Hamas, la storia è stata messa nel congelatore dai suoi superiori e non è stata pubblicata.)

Ma se i critici immaginano che i giornalisti chiedano a gran voce di coprire Hamas e siano ostacolati da teppisti e minacce, generalmente non è così. Ci sarebbero molti modi a basso rischio per segnalare le azioni di Hamas, se ce ne fosse la volontà: come editoriali da Israele oppure in forma anonima oppure citando fonti israeliane. I giornalisti sono pieni di risorse, quando vogliono.

Il fatto è che l’intimidazione Hamas è in gran parte fuori luogo perché sono le azioni dei palestinesi a essere fuori luogo: La maggior parte dei giornalisti a Gaza crede che il proprio compito sia  quello di documentare la violenza diretta da Israele contro i civili palestinesi. Questa è l’essenza della storia di Israele. Inoltre, i giornalisti sono in affanno per le scadenze e spesso a rischio e molti non parlano la lingua e hanno solo la più tenue delle prese su ciò che sta accadendo realmente attorno a loro. Essi dipendono dai colleghi palestinesi e da faccendieri che o temono Hamas oppure sostengono Hamas oppure entrambe le cose. I giornalisti non hanno bisogno che Hamas li costringa lontani da fatti che infanghino la semplice storia che sono stati inviati a raccontare.

Non è un caso che i pochi giornalisti che hanno documentato i combattenti di Hamas e i lanci di razzi in aree civili questa estate non provengano in genere, come ci si potrebbe aspettare, dai grandi organi di informazione permanentemente stanziati a Gaza. Erano per lo più giornalisti frammentari, periferici e occasionali, appena arrivati, un finlandese, un team indiano, pochi altri. Queste povere anime non avevano letto il promemoria.

Che altro non è importante?

Il fatto che gli israeliani poco tempo fa avessero eletto governi moderati che cercavano la riconciliazione con i palestinesi, e che sono stati compromessi dai palestinesi, è considerato poco importante e raramente menzionato. Queste lacune sono spesso non sviste, ma una questione di politica. All’inizio del 2009, per esempio, due miei colleghi avevano ottenuto informazioni sul primo ministro israeliano Ehud Olmert e sulla sua significativa offerta di pace verso l’Autorità palestinese, diversi mesi prima, che i palestinesi aveva ritenuto insufficiente. Questo non era stato ancora segnalato ed era, o avrebbe dovuto essere, una delle più grandi storie dell’anno. I giornalisti avevano ottenuto conferma da entrambi i lati e uno aveva anche visto una mappa, ma i capo redattori dell’ufficio hanno deciso di non pubblicare la storia.

Alcuni membri dello staff erano furiosi, ma non è servito. Il nostro racconto era che i palestinesi erano moderati e gli israeliani recalcitranti e sempre più estremisti. Segnalare l’offerta di Olmert – come scavare troppo in profondità Hamas – avrebbe fatto sembrare una sciocchezza quel racconto. Così siamo stati incaricati di ignorarla e così s’è fatto, per più di un anno e mezzo.

Questa decisione mi ha insegnato una lezione che dovrebbe essere chiara ai consumatori della storia di Israele: molte delle persone che decidono quello che leggerete e vedrete da qui vedono il loro ruolo non come esplicativo ma come politico. La copertura è un’arma da mettere a disposizione del lato che loro prediligono.

Come è contestualizzata la storia di Israele?

La storia di Israele è contestualizzata negli stessi termini in uso fin dai primi anni ’90, quelli della ricerca di una “soluzione dei due stati”. Viene ritenuto che il conflitto sia “israelo-palestinese”, il che significa che si tratta di un conflitto posto sul territorio che Israele controlla – lo 0,2 per cento del mondo arabo, in cui gli ebrei sono una maggioranza e gli arabi una minoranza. Il conflitto sarebbe ben più accuratamente descritto come “arabo-israeliano” oppure “arabo-ebraico”, cioè un conflitto tra i 6 milioni di ebrei di Israele e i 300 milioni di arabi nei paesi circostanti. (Forse “israelo-musulmano” sarebbe più esatto, prendendo in considerazione l’inimicizia di stati non arabi come l’Iran e la Turchia e, più in generale, di un miliardo di musulmani in tutto il mondo.) Questo è il conflitto che si è dispiegato in diverse forme per un secolo, prima che Israele esistesse, prima che Israele conquistasse i territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e prima ancora che il termine “palestinese” venisse mai utilizzato.

L’inquadratura “israelo-palestinese” permette agli ebrei, una piccola minoranza in Medio Oriente, di essere raffigurati come la parte forte. Essa comprende anche il presupposto implicito che se il problema palestinese fosse in qualche modo risolto, il conflitto finirebbe, anche se nessuna persona informata oggi riterrebbe ciò minimamente vero. Questa definizione permette anche di descrivere il progetto degli insediamenti israeliani, che credo sia un grave errore morale e strategico da parte di Israele, non come quello che è, uno dei sintomi più distruttivi del conflitto, ma piuttosto come la sua causa.

Un osservatore esperto del Medio Oriente non può evitare l’impressione che la regione sia un vulcano e che la lava sia l’Islam radicale, un’ideologia le cui diverse incarnazioni stanno ora plasmando questa parte del mondo. Israele è un piccolo villaggio sulle pendici del vulcano. Hamas è il rappresentante locale dell’Islam radicale ed è apertamente dedicato alla eradicazione della enclave minoritaria ebraica, in Israele, proprio come Hezbollah è il rappresentante dominante dell’Islam radicale in Libano, lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, i talebani in Afghanistan e Pakistan e così via.

Hamas non è, come si afferma liberalmente, parte dello sforzo di creare uno stato palestinese a fianco di Israele. Essa ha diversi obiettivi su cui è molto sincera e che sono simili a quelli dei gruppi qui sopra elencati. Dalla metà degli anni ’90, più di ogni altro protagonista, Hamas ha distrutto la sinistra israeliana, ha fatto vacillare gli israeliani moderati nei confronti di eventuali cessioni territoriali e sepolto le possibilità di un compromesso a due stati. Questo sarebbe un modo più preciso di inquadrare la storia.

Un osservatore potrebbe anche legittimamente inquadrare la storia attraverso la lente delle minoranze in Medio Oriente, che sono tutte sotto forte pressione da parte dell’Islam: quando le minoranze sono impotenti, il loro destino è quello degli Yazidi o dei cristiani del nord dell’Iraq, come abbiamo appena visto, quando sono armate e organizzate possono reagire e sopravvivere, come nel caso degli ebrei e (dobbiamo sperare) dei curdi.

Ci sono, in altre parole, molti modi diversi di vedere ciò che sta accadendo qui. Gerusalemme è a meno di un giorno di viaggio da Aleppo o da Baghdad e dovrebbe essere chiaro a tutti che la pace è piuttosto sfuggente in Medio Oriente, anche in luoghi dove gli ebrei sono totalmente assenti. Ma i giornalisti in genere non possono vedere la storia di Israele in relazione a qualsiasi altra cosa. Invece di descrivere Israele come uno dei villaggi adiacenti il vulcano, descrivono Israele come il vulcano.

La storia di Israele è incorniciata in modo tale da sembrare che non abbia nulla a che fare con gli eventi nelle vicinanze perché la “Israele” del giornalismo internazionale non esiste nello stesso universo geo-politico, come l’Iraq, la Siria, o l’Egitto. La storia di Israele non è una storia riguardo gli eventi attuali. Si tratta di qualcosa di diverso.

Il Vecchio Schermo Vuoto

Per secoli gli ebrei apolidi hanno svolto il ruolo del parafulmine per le cattiva volontà delle popolazioni maggioritarie. Erano il simbolo di tutte le cose che erano sbagliate. Volevi puntualizzare che l’avidità è un male? Gli ebrei erano avidi. La codardia? Gli ebrei erano codardi. Eri comunista? Gli ebrei erano capitalisti. Eri capitalista? In tal caso, gli ebrei erano comunisti. Il fallimento morale era il tratto essenziale dell’ebreo. Era il suo ruolo nella tradizione cristiana, l’unica ragione per la quale la società europea sapesse o si curasse di loro in prima battuta.

Come molti ebrei che sono cresciuti nel tardo 20° secolo nelle amichevoli città occidentali, mi congedai da tali idee derubricandole a febbrili memorie dei miei nonni. Una cosa che ho imparato, e non solo da questa estate, è che è stato stupido averlo fatto. Oggi le persone in Occidente tendono a credere che i mali della nostra epoca siano il razzismo, il colonialismo, e il militarismo. L’unico paese ebraico del mondo ha provocato meno danni rispetto alla maggior parte dei paesi della terra e anche maggior bene, eppure quando la gente va alla ricerca di un paese che simboleggi i peccati del nostro nuovo mondo dei sogni post-coloniali, post-militaristi e post-etnici, il paese prescelto è proprio questo.

Quando le persone con la responsabilità di spiegare il mondo al mondo, i giornalisti, coprono la guerra degli ebrei come maggiormente degna di attenzione rispetto a quelle di qualsiasi altro, quando si ritraggono gli ebrei di Israele come la parte ovviamente dalla parte del torto, quando si omettono tutte le possibili giustificazioni per le azioni degli ebrei e si nasconde il vero volto dei loro nemici, quello che si sta dicendo ai propri lettori – lo si intendono fare o meno – è che gli ebrei sono le persone peggiori sulla terra. Gli ebrei sono la simbolizzazione dei mali che alle persone civili viene insegnato, fin dalla più tenera età, ad aborrire. La rassegna stampa internazionale è diventata un’operetta morale che ha come protagonista un familiare dalla cattiva reputazione.

Alcuni lettori potrebbero ricordarsi che la Gran Bretagna ha partecipato all’invasione nel 2003 dell’Iraq, i cui effetti collaterali hanno ucciso più di tre volte il numero di persone mai rimaste uccise in tutto il conflitto arabo-israeliano; eppure in Gran Bretagna i manifestanti condannano furiosamente il militarismo ebraico. I bianchi di Londra e Parigi, i cui genitori non molto tempo fa erano loro stessi sventagliati da persone di pelle scura nei salotti di Rangoon o di Algeri, condannano il “colonialismo ebraico”. Americani che vivono in luoghi chiamati “Manhattan” o “Seattle” condannano gli ebrei per il trasferimento del popolo nativo di Palestina. Giornalisti russi condannano le brutali tattiche militari di Israele. Giornalisti belgi condannano la tratta degli africani in Israele. Quando Israele ha inaugurato un servizio di trasporto dedicato ai lavoratori palestinesi nella Cisgiordania occupata, pochi anni fa, i consumatori americani di notizie potevano leggere  di “segregazione sugli autobus” in Israele. Ci sono poi un sacco di persone in Europa, e non solo in Germania, che godono nell’udire gli ebrei accusati di genocidio.

Non è necessario essere un professore di storia, o uno psichiatra, per capire cosa sta succedendo. Avendo riabilitato se stessi, contro qualunque probabilità, in un minuscolo angolo della terra, i discendenti di gente senza potere, che era stata espulsa dell’Europa e del Medio Oriente islamico, sono diventati ciò che i loro nonni erano stati – la sputacchiera del mondo. Gli ebrei di Israele sono lo schermo su cui è diventato socialmente accettabile proiettare le cose che odi di te e del tuo paese. Lo strumento attraverso il quale viene eseguita questa proiezione psicologica è la stampa internazionale.

A chi importa se il mondo riceve una storia di Israele sbagliata?

Perché una voragine si è aperta qui tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui esse vengono descritte, le opinioni sono sbagliate, le politiche sono sbagliate e gli osservatori sono regolarmente resi ciechi agli eventi. Queste cose sono già successe. Negli anni che portarono alla dissoluzione del comunismo sovietico nel 1991, come l’esperto di cose russe Leon Aron ha scritto in un saggio per Foreign Policy nel 2011, “praticamente nessun esperto, studioso, funzionario o politico occidentale previde l’imminente crollo dell’Unione Sovietica”. L’impero stava marcendo da anni e i segni erano tutti lì, ma le persone che avrebbero dovuto avvedersene e raccontarlo fallirono e quando la superpotenza implose tutti ne furono sorpresi.

Venne il tempo della guerra civile spagnola: «All’inizio della mia vita avevo già notato che nessun evento sia mai riportato correttamente in un giornale, ma in Spagna, per la prima volta, ho osservato dei racconti sui giornali che non mostravano alcuna relazione con i fatti, nemmeno il rapporto che è implicata in una menzogna ordinaria. … Ho visto, infatti, una storia scritta non in termini di ciò che era accaduto, ma di ciò che avrebbe dovuto accadere secondo le varie ‘linee di partito’». Questo era George Orwell, scrivendone nel 1942.

Orwell non scese da un aereo in Catalogna, stando accanto a un cannone repubblicano e facendosi filmare mentre ripeteva con fiducia ciò che chiunque altro andava dicendo, descrivendo ciò che qualsiasi sciocco avrebbe potuto vedere: armi, macerie, corpi. Guardò al di là delle fantasie ideologiche dei suoi coetanei e sapeva che ciò che era importante non era necessariamente visibile. La Spagna, capì, aveva davvero poco a che fare con la Spagna, si trattava di uno scontro tra sistemi totalitari, tedesco e russo. Sapeva che era testimone di una minaccia per la civiltà europea, lo scrisse e aveva ragione.

Capire quello che è successo a Gaza questa estate significa comprendere Hezbollah in Libano, l’ascesa dei jihadisti sunniti in Siria e in Iraq e lunghi tentacoli dell’Iran. Richiede di cercare di capire perché paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita ora vedono se stessi come più vicini a Israele che a Hamas. Soprattutto, ci impone di comprendere ciò che è chiaro a quasi tutti in Medio Oriente: le forza in ascesa in questa parte del mondo non sono la democrazia e la modernità. È piuttosto una potente vena dell’Islam che assume forme diverse e talvolta contrastanti e che è disposta a impiegare una violenza estrema in una missione di unificazione della regione sotto il proprio controllo al fine di confrontarsi con l’Occidente. Coloro che colgono questo fatto saranno in grado di guardarsi intorno e di unire i puntini.

Israele non è un’idea, un simbolo del bene o del male o una cartina di tornasole per le chiacchiere in una cena liberal. Si tratta di un piccolo paese situato in una spaventosa parte del mondo che sta diventando sempre più paurosa. Va riportato criticamente come qualsiasi altro luogo e compreso in modo contestuale e proporzionato. Israele non è una delle storie più importanti del mondo e neanche del Medio Oriente; qualunque sia l’esito di questa regione nel prossimo decennio, esso avrà tanto a che fare con Israele quanto la seconda guerra mondiale ebbe a che fare con la Spagna. Israele è un puntino sulla mappa – un evento secondario a cui tocca il destino di farsi carico di un’insolita carica emotiva.

Molti in Occidente preferiscono chiaramente l’antico conforto dell’analisi delle carenze morali degli ebrei e la familiare sensazione di superiorità a cui questo li porta, piuttosto che confrontarsi con una realtà infelice e confusa. Essi possono così autoconvincersi che tutto questo sia solo un problema degli ebrei e che in effetti sia colpa degli ebrei. Ma i giornalisti si impegnano in queste fantasie al costo della propria credibilità e di quella della loro professione. Come Orwell ci direbbe, il mondo si intrattiene in fantasie a proprio rischio e pericolo.

By Matti Friedman fonte: http://www.rightsreporter.org/

2014/08/22

Sull'orlo del baratro


Quello che sta avvenendo in Iraq, a Gaza, nel Canale di Sicilia e in molti paesi del mondo - ma soprattutto in Africa e nelle nazioni islamiche - imporrebbe lunghe riflessioni. Siamo sull'orlo del baratro? 

- Credo che le responsabilità degli USA in questi ultimi anni nell’area mediorientale siano enormi per aver destabilizzato una situazione che era precaria, ma sostanzialmente stabile.

Saddam Hussein in Iraq era sicuramente un dittatore, ma non c’erano e non si erano preparate alternative credibili. La guerra a Saddam è partita anche per evidenti interessi petroliferi e mostrando false prove USA in sede ONU. Rappresentava Saddam l’allora ministro degli esteri Tareq Aziz (cristiano) poi condannato a morte dai “liberatori”, pena in questo momento “sospesa” solo per le pressioni europee. C’era quindi un cristiano ai vertici mentre oggi il paese è nel caos e crea nuova instabilità in tutta l’area, i cristiani fuggono o vengono massacrati, la tensione tra musulmani sciiti e sunniti è enorme e negli ultimi anni in Iraq migliaia di persone sono morte in reciproci attentati nel silenzio generale

- Se l’anno scorso non ci fosse stata una forte pressione diplomatica probabilmente gli USA avrebbero attaccato allo stesso modo Assad in Siria e oggi la situazione in quel paese sarebbe anche peggiore, intanto almeno le armi chimiche sono state distrutte.

- Anche l’Afghanistan collasserà poco dopo l’addio delle truppe alleate. Quindici anni di occupazione non hanno portato alcun progresso politico nel paese dove verrà applicata la shaira islamica che nel frattempo è stata adottata in molti paesi dell’Asia e dell’Africa.

- Ogni intervento nell’area (vedi la liquidazione di Gheddafi) ha peggiorato la situazione, esattamente come avvenne in Somalia: dare calci ai formicai diffonde formiche ovunque, non risolve i problemi. 

Perché avviene questo? Perché troppe volte si pensa che il concetto di democrazia occidentale sia applicabile in paesi dove non c’è questa cultura e invece la religione ha un ruolo per noi incomprensibile e fanatico. Se poi si vota “democraticamente” ovunque vincono gli estremisti islamici proprio perché numericamente sono tantissimi e raccolgono le maggioranze: i moderati che ragionano e vorrebbero il dialogo sono pochi. Alla fine (vedi Egitto) i regimi semi-democratici ma appoggiati dai militari danno purtroppo le maggiori garanzie di stabilità. 

- I presidenti USA (come i governi occidentali) seguono le logiche dei sondaggi elettorali e la volubilità della opinione pubblica, nessuno pianifica mai il “dopo” di un intervento militare con crisi che si incancreniscono nei decenni e non si risolvono mai. Scegliere i tempi di un raid o un ritiro di forze in base al proprio tornaconto elettorale è una follia, ma è nella logica del ritorno d’immagine di un leader politico. 

- I fondamentalisti islamici non hanno alcun rispetto per le persone e i civili: è vero che a Gaza i terroristi si nascondono negli ospedali e nelle scuole, è purtroppo la stessa logica della rappresaglia che durante ogni Resistenza (anche la nostra) caratterizzava ieri le bande partigiane comuniste e oggi quelle islamiche: più attentati e eccidi scatenano più rappresaglie che generano più odio, più danni collaterali per il nemico, più terrore e alla fine maggior controllo del territorio. Il metodo non cambia.

- Gli incrementi demografici arabi in tutto il Medio Oriente sono spaventosi. A Gaza, per esempio, “non c’è più posto” e vivono ammassate milioni di persone e di profughi: l’area è e sarebbe comunque una polveriera. Ovvio che in queste situazioni di tensione cresca la possibilità di reclutare nuovi adepti per le “guerre sante” da parte dei gruppi più estremi. 

- La storia dell’ultimo secolo sottolinea drammaticamente la cecità e l’ignoranza dell’Occidente nei confronti dell’Islam e della sua cultura dando spazio e argomenti agli estremisti che vivono sulla disperazione di decine di milioni di persone che non hanno più nulla da perdere

- L’Occidente e l’Europa sono oggetto di invasione islamica, logica conseguenza di quanto sopra e purtroppo tra i milioni di nuovi ingressi ci sono anche estremisti, fondamentalisti e terroristi che hanno facile presa su frange di immigrati che di solito in Europa stanno meglio che nel loro paese di origine, ma peggio dei cittadini locali. 

Nascono ghetti, sfruttamento, tensioni, invidie e a volte violenze, cresce il rischio di epidemie ma di questi aspetti non si vuole parlare. Come per il problema profughi vince il facile “buonismo”, la commozione del momento, ma non c’è alcuna strategia di intervento oltre al doveroso aspetto umanitario immediato e con la crisi economica i problemi si complicano.

- l’Europa è debolissima sia dal punto di vista militare che culturale, contraddittoria e distratta. Si riempie la bocca di demagogia e poi non si accorge (o non si vuole accorgere) della sua fragilità o semplicemente del fatto che sarà islamizzata da qui a poche generazioni: i numeri sono inequivocabili, le progressioni evidenti, ma si fa appunto finta di dimenticarli.

- l’Europa (e tanto meno l’Italia) non fa nulla per difendersi: non impone “filtri”, controlli, accetta tutto e tutti nel nome della “libertà” come le città antiche che venivano espugnate semplicemente perché a difendere le mura non c’era più nessuno o qualche traditore apriva le porte all’invasore. La storia sempre si ripete

CHE POTREMMO FARE?

- A livello europeo e italiano tentare di avere più coraggio “selezionando” gli arrivi e ad esempio sospendendo subito l’operazione “Mare Nostrum” che in nome della solidarietà incentiva l’arrivo di decine di migliaia di persone. 
I numeri recentemente diffusi dal ministro dell'interno parlano di oltre 100.000 profughi nel solo 2014 ma quasi la metà sono spariti nel nulla, non identificati e neppure accolti nei centri di accoglienza: la malavita ringrazia per questa fornitura di manodopera a basso costo.

- Queste persone vanno aiutate seriamente a casa loro, intercettate sulle spiagge prima della partenza, selezionate creando flussi programmati anziché addirittura incentivare il “liberi tutti”. A questo proposito si deve fare chiarezza su chi (la mafia?) sta guadagnando con questi flussi che sono diventati un vero e proprio business. E perché, dovendo fare una scelta, non si aiutano allora prima i cristiani che fuggono da Siria ed Iraq?

- Alcune situazioni come quella in Eritrea sottolinea l’abbandono europeo in aree che già erano di nostra influenza. Risolvere una situazione locale in quel piccolo paese avrebbe voluto dire decine di migliaia di profughi in meno, ma non si è fatto e non si fa assolutamente nulla. Tra l’altro l’Italia ne ha una responsabilità diretta, visto che l’Eritrea è stata una nostra colonia per un secolo, si parlava italiano e la nostra presenza era visibile e importante. 

- Dobbiamo pretendere scelte coerenti dai governanti, ma anche dalle comunità islamiche presenti in Europa. Bene ha fatto il ministro dell'interno a espellere un Iman estremista, ma quanti ce ne sono? Non ci sono state molte prese di posizione chiare e inequivocabili degli esponenti musulmani italiani o europei (e soprattutto seguite da atteggiamenti conseguenti) per quanto avviene in Iraq. Il loro silenzio sulle atrocità contro i cristiani in tutto il Medio oriente è inaccettabile. Questi atteggiamenti vanno pretesi (e verificati) dai media e dalla pubblica opinione, anche per sostenere quella gran parte di musulmani moderati che in Europa oggi hanno PAURA dei loro stessi “fratelli” estremisti, ma non sono né compresi né aiutati.

- Assolutamente NO all’ “Occhio per occhio, dente per dente” ma se si rispettano le convinzioni religiose e le tradizioni altrui quando si è in un altro paese, dobbiamo difendere le nostre in regime di reciprocità. Si possono fare mille azioni pratiche per ribadire la nostra identità religiosa e culturale nazionale, europea e occidentale. Ma non si vuole farlo! 

- Chiediamoci se Israele abbia davvero tutti i torti o se invece ci sia una precisa volontà di farlo apparire “aggressore” da chi vorrebbe distruggerlo. Se è indubbio che estremisti israeliani fomentano provocazioni ed occupazioni territoriali abusive la crisi recente a Gaza è stata preceduta da settimane di lanci di razzi contro Israele: il mondo non li ha fermati, si è limitato alle chiacchiere. 

- Impariamo a distinguere anche all’interno della politica araba e palestinese: ci sono moderati che vorrebbero il dialogo ed estremisti che lo distruggono. Isis ed Hamas sono un pericolo per tutti, anche e soprattutto per l’Europa e l’Occidente, ma si fa finta di niente. Eppure nel suo statuto Hamas afferma che «la terra della Palestina è una terra islamica» e prospetta la distruzione dello stato d’Israele e l’instaurazione di uno stato islamico palestinese su tutta la terra della ex Palestina mandataria (l’attuale Israele, la Cisgiordania e Gaza). 

Per i suoi militanti e sostenitori Hamas è un movimento di legittima resistenza, ma è nella lista nera delle organizzazioni terroristiche secondo Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone che pur dialogano con essa. Dov’è la nostra coerenza?

- L’unica pressione che l’Europa potrebbe fare – contando ancora qualcosa nel G8 - è quella economico-commerciale, ma oltre all’anima ci siamo già venduti le aziende, i marchi, i mercati. Il petrolio arabo è tuttora fondamentale e quindi nessuno parla di quanto avviene in Arabia Saudita e in alcuni Emirati sul rispetto dei diritti umani, la libertà religiosa, i diritti delle donne né accenna agli aiuti economici enormi quanto inconfessabili che proprio da questi paesi – e soprattutto dai sauditi - arrivano agli estremisti sunniti.  Anche su questo fronte comunicativo è tutta una desolante sconfitta, non c’è nessuna logica strategica. 
L’ultima è stata quella per Alitalia venduta a Etihad con lo slogan che “Alitalia adesso diventerà più sexy”! Idiozie, intanto abbiamo perso un’altra fetta di un potenziale valore strategico nazionale come per altre decine di aziende, marchi e imprese italiane svendute all’estero 

I latini ci ricordavano che “Se vuoi la pace, prepara la guerra” il che è drammatico e per un cristiano profondamente sbagliato , contro ogni nostro principio morale, ma è vero.

D'altronde “La pace non è un dono di DIO, ma un compromesso degli uomini” la si costruisce solo passo passo e sul rispetto reciproco, la fiducia, la comune responsabilità ma anche con la reciproca intesa e presa d’atto tra avversari che conoscono la forza l’uno dell’altro e questa forza funge da deterrente. Se come Occidente - ma soprattutto come Europa – su questi temi siamo deboli, divisi, incerti, l’avversario islamico continuerà nella sua lotta di espansione e moltiplicherà le sue pressioni sapendo di vincere perché conosce e quotidianamente verifica le ipocrisie e la debolezza dei suoi avversari.

Per questo, purtroppo, vincerà.

2014/08/14

Palestina: vero e falso

La questione palestinese attraverso una attenta analisi e un diverso punto di vista: quello reale, non costruito a tavolino.
Tutto quello che nessuno vi aveva mai detto!

Quanto si affronta la questione palestinese, c’è una cosa che è necessaria prima di tutto – sgombrare il campo dall’idea che ci troviamo di fronte a un problema di “autodeterminazione dei popoli”. La questione palestinese non è una questione di “autodeterminazione” e non ha niente a che fare, per esempio, con le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani, dei fiamminghi o degli scozzesi.
L’autodeterminazione, in effetti, rappresenta il diritto di una determinata comunità a autogestirsi all’interno di un ambito solitamente (ma non necessariamente) territoriale, al fine di perseguire un proprio sviluppo sociale, economico e culturale. E’ un concetto che implica dei rapporti pacifici e di tipo orizzontale con le altre comunità politiche e pertanto presuppone il riconoscimento del valore della diversità, della pluralità istituzionale e della convivenza.

La “causa palestinese” per come si è presentata fino a questo momento non è la rivendicazione pacifica e difensiva di una patria nazionale per il “popolo palestinese”, all’interno della quale si declini una statualità. Se l’obiettivo fosse stato questo, sarebbe stato già conseguito da tempo, e la quantità gigantesca di denaro che negli anni è stata iniettata a favore dei palestinesi dai paesi arabi, dall’Occidente e dallo stesso Israele sarebbe stata più che sufficiente per garantire la praticabilità economica del nuovo Stato e il graduale raggiungimento della completa autosufficienza. La causa palestinese, purtroppo è stata ben altro – è stata un progetto imperialista e aggressivo mirante alla “riconquista” dello Stato di Israele e, quindi, alla negazione dei valori fondamentali alla base del principio di autodeterminazione dei popoli, cioè la pacifica convivenza, il riconoscimento e il rispetto dell’”altro”.

Dopo il disimpegno israeliano da Gaza, i palestinesi non hanno utilizzato lo spazio politico apertosi nella Striscia per “autogovernarsi”, bensì hanno de facto organizzato la Striscia come base della guerriglia antiisraeliana. Ritenere che vi possa essere una legittimità nella riconquista violenta da parte dei palestinesi di terre che sono sotto l’amministrazione israeliana è sbagliato. Non ha senso parlare di ritornare ai confini di Oslo o del 1967 o del 1947, per il semplice motivo che non è ammissibile che i palestinesi continuino a pensare di poter scatenare guerre, perderle e poi pretendere che si faccia finta di nulla e si torni alla situazione ex ante.
E’ inevitabile che i palestinesi paghino il fatto di essere stati sempre dalla parte sbagliata (dalla parte dell’aggressore e dello sconfitto) in tutte le guerre. Incidentalmente giova ricordare che, anche prima dei conflitti araboisraeliani, la leadership palestinese si schierò apertamente con i Nazisti nella seconda guerra mondiale. Peraltro nel ventesimo secolo i palestinesi non sono certo gli unici a avere perso dei territori o a avere conosciuto esodi. Noi italiani ricordiamo certamente la perdita dell’Istria, di Fiume e di Zara e la fuga di tanti nostri connazionali da quelle terre. 

La Germania ha vissuto questa situazione molto più in grande, vedendosi sottratti tutti i territori a Est dell’Oder Neisse; dodici milioni (!) di tedeschi furono costretti a andarsene. E anche i confini della Polonia usciti dalla guerra avevano poco a che fare con quelli precedenti al conflitto, con milioni e milioni di polacchi che hanno dovuto trasferirsi.

Va detto, tra l’altro, che negli anni successivi alla proclamazione dello Stato di Israele, almeno 850.000 ebrei sono stati espulsi da paesi arabi nei quali le loro famiglie avevano vissuto per centinaia di anni. Nei fatti ci fu uno “scambio di popolazioni”, nel quale moltissimi ebrei hanno dovuto abbandonare tutto quello che avevano costruito in generazioni nei paesi arabi di origine – eppure questi profughi ebrei sembrano non rientrare mai nell’equazione politica. Un’altra fase storica che ha prodotto una grande quantità di rifugiati è stata il processo di decolonizzazione. Si pensi agli italiani di Libia, ai pieds noirs d’Algeria, alla diaspora rhodesiana, ai retornados portoghesi del Mozambico e dell’Angola o agli indo-olandesi. Si tratta, nel complesso, di milioni di persone, ma nessuna di queste comunità oggi rappresenta in alcun modo una questione politica. Il fatto è che tutti i rifugiati che il ventesimo secolo ha prodotto si sono sempre rapidamente integrati  nelle rispettive madri patrie o in paesi culturalmente omogenei e sono diventati elementi pienamente produttivi nelle loro “nuove società”.

Questi “immigrati invisibili” hanno fatto di necessità virtù e, armati di dignità e di etica del lavoro, hanno ricostruito un futuro per loro e per i loro figli. Noi non abbiamo stipato per settant’anni a Gorizia i profughi giuliani e dalmati educandoli alla guerra e all’odio contro gli slavi. Né i tedeschi lo hanno fatto con i rifugiati della Pomerania, della Slesia e della Prussia. Né i vari presidenti francesi hanno addestrato per cinquant’anni gli esuli algerini a preparare la riconquista di Algeri. Invece per i quasi venti anni in cui la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono stati sotto il controllo dell’Egitto e della Giordania, i rifugiati palestinesi sono rimasti in campi profughi, a crescere in numero e in disperazione.

Di fatto la “questione palestinese” è stata creata a tavolino per precisa scelta politica dai paesi arabi che, anziché integrare i profughi hanno scelto di conferire loro il ruolo di riserva permanente di guerriglia antisionista. Il crimine più grave che sia stato compiuto finora contro i palestinesi è quello di averli illusi che fosse possibile riportare indietro l’orologio della Storia e averli incoraggiati in questi decenni a sacrificare collettivamente la propria esistenza a una guerra infinita senza speranza alcuna.

In un certo senso i palestinesi hanno combattuto una guerra non loro perché i veri beneficiari della loro lotta sono stati i leader delle élites politiche dei vari paesi arabi che nella retorica filopalestinese trovavano a buon mercato una legittimazione del proprio potere presso le masse. Naturalmente, da un simile punto di vista, è del tutto irrilevante il fatto che la guerra non possa avere alcuno sbocco positivo per i palestinesi. Non serve affatto che sia vinta, basta che sia combattuta – e anzi più è dolorosa e luttuosa per gli stessi palestinesi, più genera un capitale politico per i suoi “stakeholders”.

Naturalmente il patimento accumulato dai palestinesi in decenni di guerra e di guerriglia è tale che praticamente ogni palestinese ritiene di avere forti ragioni personali per continuare la lotta. Se ci si arrendesse a questa logica tuttavia, il mondo intero vivrebbe in una guerra permanente. Ogni guerra, infatti, porta con sé come esito le ragioni potenziali per farne un’altra. Ogni guerra ci lascia con ingiustizie da riparare, innocenti da vendicare, martiri in nome dei quali combattere affinché non siano morti invano. Eppure a un certo punto l’odio deve piegarsi alla realtà.
Sia consentito, ancora, un paragone storico: dopo la prima guerra mondiale, Adolf Hitler prese il potere in Germania cavalcando da posizioni ultranazionaliste la frustrazione per la pace ingiusta, per le condizioni vessatorie imposte dal Trattato di Versailles. Fece leva sull’orgoglio e “revanchismo” per inquadrare la popolazione tedesca in un terribile progetto imperialista. 

Per riprendersi Danzica e il suo “corridoio”, scatenò una nuova guerra mondiale ancora più sanguinosa di quella precedente. La perse e quello che ne seguì non fu certo una pace più generosa per la Germania. Il paese uscì dalla guerra con terribili ferite economiche, politiche e morali. Il massacro di Dresda, la perdita a Oriente di regioni storiche, le vendette sovietiche sulla popolazione civile, l’occupazione da parte delle potenze vincitrici e così via. Quante buone ragioni ci sarebbero state perché i tedeschi alla prima occasione decidessero di dotarsi di un nuovo Hitler che li riscattasse dalla “punizione collettiva” che era stata inflitta loro?

Eppure, anziché dare un’altra possibilità al nazionalismo estremo, la Germania ha scelto le straordinarie opportunità di sviluppo economico e sociale offerte dalla pace – anche se questo, evidentemente, ha richiesto la capacità di elaborare il lutto della sconfitta ed intraprendere un percorso di autocritica storica e politica. La scelta di pace dei tedeschi ci sembra assolutamente ovvia e scontata; non ci parrebbe proprio concepibile una scelta diversa. Non potremmo immaginare che la gioventù tedesca anziché godersi e costruirsi la vita preferisse arruolarsi in una nuova guerra. Non potremmo immaginare che dei genitori anziché vedere i propri figli laureati e felicemente sposati, preferissero che si immolassero per riguadagnare Breslavia, Danzica o Königsberg. Chiunque di noi, anche trasversalmente all’appartenenza politica, lo riterrebbe non solo folle ma anche profondamente inumano.

Eppure troppi, anche in Occidente, sono disposti a giustificare che generazioni e generazioni di palestinesi siano coscritte a vita in una battaglia ideologica nazionalista. Da questo punto di vista, la migliore sintesi della questione israelo-palestinese è probabilmente quella che fu fatta da Golda Meir. “La pace sarà possibile solo il giorno in cui i palestinesi ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”. La pace sarà possibile solamente se per un padre di Gaza il fatto che suo figlio diventi un bravo avvocato, ingegnere, ristoratore, commerciante o idraulico, si sposi e viva tranquillo con la sua famiglia sarà più importante di conquistare Gerusalemme. La “questione palestinese”, in altre parole, sarà risolta solo quando i palestinesi si renderanno conto dello straordinario valore che avrebbe per loro il dividendo economico e sociale della pace.

Significherebbe la fine delle limitazioni alle attività economiche nei territori e al movimento delle persone e dei beni. Significherebbe la possibilità di attrarre investimenti economici che oggi sono fortemente ridotti a causa delle incertezze e dei rischi dello status quo, avviando così un importante sviluppo a livello industriale, agricolo, tecnologico e turistico. Ma se i palestinesi continueranno a preferire l’illusione della “vittoria” alle ragioni della pace, nessuna simpatia, vicinanza, comprensione, giustificazione, condiscendenza è possibile. Il messaggio che va mandato oggi deve essere inequivoco: è tempo che i palestinesi si arrendano alla pace. 

E alla storia. (qui)

Malati di burocrazia

Storie di ordinaria follia burocratica in un Paese tecnicamente fallito e con l'acqua alla gola. Leggiamole inseme e se a qualcuno viene da ridere si accomodi, non ci offendiamo.

Il mancato pagamento

Un imprenditore ha effettuato un intervento di manutenzione sull’impianto di una piccola azienda e non è stata pagato. Si è quindi rivolto all’avvocato per recuperare il credito.
“Avvocato, ha depositato il ricorso per decreto ingiuntivo?”
“Si, ma se ne riparla a novembre”
“A novembre? Ma siamo a metà luglio!”
“Si, ma il decreto ingiuntivo deve essere emesso dal giudice, poi notificato dall’ufficiale giudiziario e poi occorre attendere che decorra il termine di 40 giorni, ma da inizio agosto a metà settembre i termini non decorrono essendo bloccati per la sospensione feriale”
“Mi scusi avvocato, ma se la banca mi chiede il rientro dei fidi, mi da tre giorni di tempo; e io cosa le dico, che mi ci sono voluti quattro mesi solo per iniziare la procedura per recuperare i miei crediti?”
“Veda lei cosa dire: le regole sono queste”.

La procedura esecutiva continua e si arriva alla richiesta di pignoramento dei beni mobili presenti nell’azienda debitrice; l’avvocato informa l’imprenditore dell’esito della procedura.
“L’ufficiale giudiziario ha pignorato un computer e una stampante e l’Istituto Vendite Giudiziarie li ha venduti all’asta … per 200 €”
“Ma il mio credito era molto superiore!!”
“… però la procedura di vendita è costata 450 € e dunque Lei deve 250 € all’Istituto Vendite Giudiziarie ”.
Pagati i 250 € e la parcella dell’avvocato, l’imprenditore contatta il commercialista.
“Il cliente è sparito e non mi ha pagato: per cortesia provveda dunque a recuperare le tasse che ho già dovuto pagare”
“Va bene, provvederò a recuperare le imposte dirette”
“Come sarebbe a dire che provvederà per le imposte dirette; e per l’iva?”
“In base al DPR 633/72 ed alla risoluzione n. 195/E del 16/5/08 dell’Agenzia delle entrate, se il cliente sparisce lei non può recuperare l’iva”
“Mi sta coglionando, vero?”
“Eh, no; vede per recuperare l’iva, lei deve essere in grado di dimostrare che il suo cliente è fallito, o comunque che è terminata la procedura di concordato”
“Ma le ho detto che questo è sparito; non risponde più al telefono, il capannone è vuoto; non ho la più pallida idea di dove sia finito”
“Ecco vede, è proprio come le dicevo: lei non è in grado di dimostrare che il cliente è fallito né che ha concluso la procedura di concordato, e dunque non può recuperare l’iva”.

Il giovane

Un giovane ingegnere, viste le difficoltà a trovare un lavoro subordinato, non volendo rimanere senza fare nulla, si attiva per iniziare un’attività professionale.
In questo periodo non è facile trovare clienti, ma il giovane si impegna e riesce a trovare il suo primo cliente: si tratta di un’azienda che ha bisogno di consulenze in una materia che lui conosce bene. Non è stato facile trovare questo cliente, in tanti prima gli hanno detto no; ma ora è fatta, ha trovato quest’azienda, che crede nei giovani e ha deciso di affidarsi a lui. Si reca quindi dal commercialista per aprire la partita iva.
“So che è prevista una partita iva agevolata per i giovani”
“Si, è il regime agevolato previsto dal DL 98/11: non deve però superare i 30.000 € di fatturato all’anno. Senta, ma lei quanti clienti ha?”
“Sono all’inizio, ho molte cose in ballo, ma al momento ho un solo cliente. Sono poi in trattativa con un altro..”
“Ah. Quindi non esclude di avere la gran parte del suo fatturato con uno stesso cliente e di svolgere attività per quel cliente per più di otto mesi all’anno?”
“Ma cosa vuole che escluda! Come le ho detto, inizio con un cliente, poi spero se ne aggiungano altri; le consulenze che mi darà questo cliente sono impegnative, in termini di tempo: poi, più me ne darà e meglio è, visto che abbiamo pattuito un corrispettivo per ogni consulenza”
“Allora, in base all’art. 69 bis del DLgs 276/03, deve avere un utile di almeno 19.400 €, perché in caso contrario perderà la partiva iva agevolata; inoltre sarà difficile che il suo cliente le affidi gli incarichi, perché rischia sia presunta la natura subordinata del rapporto di lavoro”
“L’utile sono i ricavi meno le spese, giusto?”
“Certo”
“Come spese avrò quelle per acquistare le attrezzature e quelle per svolgere l’attività: quest’anno ne avrò per almeno 6.500 €”
“Allora dovrà avere un fatturato di almeno 26.000 €”
“Cioè, mi faccia capire: il mio fatturato deve essere di almeno 26.000 €, per il DLgs 276/03, ma non deve superare 30.000 €, per il DL 98/11 ?”
“Esatto”.
“Mi scusi, ma io volevo fare il professionista, mica l’equilibrista!“
“Eh in effetti…”
“Riassumendo: mi sbatto per cercare i clienti, mi indebito per acquistare le attrezzature… non ho neppure iniziato e già mi trovo ad affrontare questi problemi”
“Li consideri un saluto di benvenuto, visto che sono solo l’antipasto…”
“Mmh…”
“ Comunque giovanotto, bando alle ciance: non era venuto per aprire partita iva ed iniziare la sua attività?”
“Eh si… ma ci rifletto ancora un poco… Arrivederci (a mai più)”

L’appalto pubblico

Paolo Rossi ha una piccola impresa ed ha acquisito l‘incarico di effettuare un intervento di manutenzione su un edificio di un ente pubblico: valore del lavoro 400 €.
Prima di iniziare il lavoro, il cliente gli chiede di compilare una serie di moduli e dichiarazioni in merito alla sicurezza. Il piccolo imprenditore si consulta con il consulente del lavoro.
“Dottore, la chiamo perché un cliente mi ha chiesto di compilare una marea di moduli e dichiarazioni relativi alla sicurezza”
“Hanno ragione, è previsto dal decreto 81/08”
“Si, ma impiego più tempo a compilare i moduli che a fare il lavoro”
“Compili, lo prevede la legge”
“Si, ma mi chiedono un sacco di cose..! Che senso ha tutta questa carta per un piccolo intervento come il mio… mi chiedono, tra l’altro, di indicargli anche la procedura di primo soccorso!”
“E cioè ?”
“La procedura che la mia impresa prevede di applicare nel caso mi faccia male”
“Beh… gliela indichi!”
“Vado a fare il lavoro da solo… se mi faccio male che procedura vuole che applichi…. al massimo posso lamentarmi”
“Ecco, bravo… scriva quello”.
Il piccolo imprenditore, pazientemente, compila moduli e dichiarazioni; non ha ancora terminato, che l’ente pubblico gli riscrive, chiedendogli un’ulteriore dichiarazione. Altra telefonata al consulente del lavoro.
“Mi chiedono un’altra dichiarazione: hanno citato il decreto 163/06”
“Certo, le chiederanno di dichiarare che non ricorrono le cause di esclusione dagli appalti pubblici, previste dall’art. 38 del decreto 163”.
“Ma vogliono che la dichiarazione sia resa dall’amministratore, dal responsabile tecnico e dal socio di maggioranza dell’impresa”
“E beh, fatela”
“Il socio di maggioranza non lavora in azienda, è un mero socio di capitale: in questo momento, per esempio, si trova negli Stati Uniti”
“Cosa vuole che le dica: o lo rintracciate o lo aspettate”.
L’installatore esegue il lavoro ed invia la fattura. Neppure il tempo di alzare la testa ed è già in arrivo un nuovo modulo, quello relativo al DURC; di nuovo al telefono con il consulente del lavoro.
“Questa volta vogliono che compili un modulo per richiedere il DURC”.
“E lei lo compili”
“Ma non posso inviargli direttamente il DURC ?”
“No. Gli enti pubblici non possono più chiedere il DURC ai privati, devono acquisirlo direttamente dall’Inps:
è una delle semplificazioni introdotte dal DL 5/12”
“Semplificazione ? Prima mandavo il DURC, ora devo compilare un modulo con un sacco di dati; impiego molto più tempo”
“Se dicono di avere semplificato, avranno semplificato, no…?”.
Appena compilato il modulo del DURC arriva la richiesta di un’altra dichiarazione, questa volta ai sensi della legge 136/10.
“Dottore….”
“Ancora lei ?”
“Eh si, non ci crederà, ma mi chiedono di compilare un’altra dichiarazione: fanno riferimento alla legge 136/10”
“Hanno ragione, si tratta del conto corrente dedicato: deve indicare le generalità delle persone che possono operare sul conto corrente su cui l’ente pubblico effettuerà il pagamento”
“Quindi devo compilare anche questa dichiarazione ?”
“Si; la legge 136/10 ha previsto questa procedura per contrastare le infiltrazioni della mafia negli appalti pubblici”
“Combattono le infiltrazioni della mafia negli appalti pubblici con le dichiarazioni ?”
“Si… beh, non solo, hanno poi anche previsto il CIG, il CUP, insomma … diverse cose”
“Ah ho capito … hanno deciso di sfiancare la mafia a suon di moduli e dichiarazioni… in effetti sarà terrorizzata ”.

L’incarico a altra impresa

Un’impresa ha acquisito da un cliente l’incarico di realizzare un lavoro: ne effettua direttamente una parte e, con il consenso del cliente, subappalta il resto ad altra impresa. Il lavoro viene terminato, il cliente paga, e l’impresa appaltatrice si accinge a pagare l’impresa subappaltatrice, quando interviene trafelato il commercialista.
“Prima di pagare, avete acquisito la dichiarazione ai sensi del DL 83/12 e successive modifiche ?”
“E cosa è?”
“È una dichiarazione con la quale l’impresa subappaltatrice dichiara di avere versato le ritenute sui loro dipendenti”
“Perché dobbiamo chiedere questa dichiarazione?”
“Se non lo fate e non hanno pagato le ritenute, in base alla legge, siete esposti al diritto di rivalsa”
“Diritto di rivalsa??”
“Si, per esempio l’Inps ha diritto di pretendere da voi i soldi che loro non hanno versato”
“Cioè, mi faccia capire: loro non pagano i contributi e l’Inps impone di pagarli a me?”
“Esattamente, entro i limiti del valore dell’appalto”
“Ma che senso ha?”
“Nessuno; e infatti l’avevano previsto anche per l’iva, che però è un’imposta europea, e l’Europa ha detto che non si poteva fare”
“Ah ecco… allora hanno poi cancellato la norma”
“Si, l’hanno eliminata per l’iva, ma non per le ritenute sul lavoro dipendente, che sono nazionali”
“Quindi devo richiedere questa dichiarazione?”
“Si”
“Ma devo chiederla solo a questa impresa?”
“No, a tutte le imprese a cui affida dei lavori, ad esempio anche all’impresa che pulisce i vostri uffici”
“Va bene una dichiarazione generica?”
“Nooh !! Deve contenere gli estremi degli F24 pertinenti, come indicato nella Circolare 40/E/12 dell’Agenzia delle entrate”
“Mi scusi, ma se mi fanno una dichiarazione falsa?”
“Ah, lei comunque è a posto”
“Ma secondo lei, uno che non versa le ritenute per i dipendenti, per essere pagato si pone poi tanti problemi a farmi una dichiarazione non veritiera?”
“In effetti …”
“E allora a cosa serve questa norma: a farci perdere altro tempo e a far girare altra carta?”
“Beh… non solo; serve anche ad esporre a rivalsa tutti coloro che non sanno di dover richiedere questa dichiarazione oppure che, oberati dagli adempimenti burocratici, non la richiedono”.

2014/08/10

Renzi: mille promesse, zero risultati

Matteo Renzi comincia ad arrancare, è chiaramente in difficoltà: l’economia non decolla anche perchè le promesse valgono per un po' ma poi si smontano da sole quando i risultati non arrivano.
Alla prova dei fatti la spesa pubblica non si riduce e per dare demagogicamente 80 euro a qualcuno Renzi ne ha presi molti di più a tanti altri e anziché avviare riforme serie ci si è impantanati in questioni secondarie. Il premier si avvicina già al suo capolinea?

Credo che voglia cambiare soprattutto la legge elettorale e poi andare ad elezioni per blindare i suo fedelissimi e per questo sta cercando di crearsi una legge elettorale a proprio beneficio personale che è lo stesso obiettivo di Berlusconi perché entrambi hanno bisogno di fare eleggere solo una cerchia di pretoriani fedelissimi e che dicano soprattutto sempre di sì.

Forse Napolitano dovrebbe cominciare ad esprimersi e a preoccuparsi su serio.
Se di fatto viene tolto di mezzo il senato e se tutto il potere passa alla Camera (il che non è poi così sbagliato) come si può impostare un sistema elettorale di liste bloccate dove chi vince anche per un solo voto e prendendone comunque pochi anche pochi conquista una maggioranza assoluta che poi può nominar e decidere tutto, eleggendo perfino il Presidente della Repubblica compreso?

Non è giusto, soprattutto se i cittadini non potranno neppure eleggere i propri rappresentanti ma solo indicare il partito o la coalizione, senza preferenze o serie “primarie” che pre-indichino i candidati. Non prendiamoci in giro con l’ ok alle preferenze “salvo il capolista di ogni collegio” perché in quasi tutti i collegi sarà eletto il solo capolista!

Un sistema più snello è doveroso, il superamento del bicameralismo pure, ma ci sia libertà di scelta dei candidati per scegliere i migliori e i più credibili, non persone solo obbedienti ai leader e che già in passato hanno fatto solo disastri, a destra come a sinistra. 

Ma all’Italia servono soprattutto altre riforme a cominciare dal controllo della spesa pubblica, non basta “cacciare” Cottarelli per far finta di nulla: in campo economico il fallimento di Renzi purtroppo è totale e l’Europa e i mercati temo che presto ne prenderanno atto.
Se volete divertirvi su come Renzi parli l'inglese guardate intanto questo video:


Uno degli esempi di come il governo Renzi stia affrontando i problemi con demagogia assoluta è la situazione delle province.
Si potrà anche pensare che non servano più e vadano abolite certo, ma contemporaneamente bisognerebbe però chiarire a chi andranno affidati i servizi svolti dagli enti provinciali.

Non basta tagliare i fondi alle province per poi prendere atto che le strade provinciali sono senza manutenzione e senza sgombero della neve, così come è ridicolo non trasmettere più i fondi per la manutenzione delle scuole di competenza provinciale: chi ci pensa?.

Visto che il prossimo Senato sarà composto quasi interamente da consiglieri regionali sarà anche interessante vedere come opererà per eventuali tagli alle regioni che sono – molto più delle province! – la causa del dissesto economico italiano in termini di sprechi.


2014/08/07

La macchina del fango: Schettino e la Sapienza

Comincia tutto da una notizia data male: Schettino tiene una lezione magistrale all’Università di Roma sul tema della gestione del panico.

Poi – mi direte – è stata corretta. Non conta, conta la prima parola, il primo flash che abbaglia gli occhi.  Conta che quella notizia data male toglieva al fatto il suo contesto, che è tutto, quando si dà una notizia: posso correre con una borsa in mano, ma se non scrivi che sto perdendo il treno, qualcuno mi prenderà per scippatore.

Forse andava detto che in un master – settanta-ottanta partecipanti, non una lezione pubblica, in questo caso gli studenti pagano per specializzarsi – erano previsti “case studies”, con la partecipazione dei protagonisti: quindi se c’era, per dire, da parlare di spie, ci sarebbe stata una spia. Forse andava detto che quel Master non si svolgeva “alla Sapienza” ma altrove. Che era una testimonianza di sette (quindici secondo altri) minuti, non una lezione, e poiché si studiano i casi concreti, è stato chiamato a parlare un uomo che ha vissuto un situazione limite. Ben conoscendo tutti, studenti e docenti, che quella sarebbe stata una “testimonianza di parte”. Insomma assoluto buon senso.

La pagina del Master era su Facebook, ma nessuno, prima di fare un titolo o sparare uno sms, l’ha letta. Eppure se a un fatto tu togli il contesto, ne distruggi la “logica”. E su quel fatto senza contesto, la gente giudicherà male.

Anni fa, Umberto Eco scrisse un saggio di grande forza sul caso Braibanti (Nel volume “Sotto il Nome di plagio”). Fermiamoci un attimo su quel “fatto”.

Il filosofo ed entomologo Aldo Braibanti ebbe un processo per “plagio”: era andato a vivere con un ragazzo di vent’anni, all’epoca minore età.  Un processo che la sinistra dell’epoca, non tutta (il Pci poco, in fin dei conti era una “storia di froci”) combatté duramente. Vi vedeva, quella sinistra, la manipolazione di prove e informazioni tese e condannare già prima della sentenza attraverso lo “stigma”. Erano gli anni ’60 e Umberto Eco, per dimostrare la follia di quel modo di procedere, scrisse una descrizione del contenuto del suo cassetto, il cassetto della sua scrivania, ma in prosa carabinieresca. Dimostrò alla perfezione che, se descrivi “in chiave criminale” un normale cassetto di scrivania, il titolare di quel tavolo dovrà essere arrestato per gravi sospetti.

E quindi “Lectio Magistralis” è rimasta e quel concetto ha dato l’imprinting a tutta la conversazione successiva. Soprattutto perché ci si è messa l’Università. Che nel suo comunicato di fine mattinata cita i media, non i fatti giudiziari e i principi. Invece parla della conversazione del “Salga a Bordo Cazzo”. Ma quella è una notizia, oggetto di un processo. Nel comunicato del Rettore? Nel comunicato del Rettore. Conseguentemente, molti social media people parlavano di “etica”. L’etica. Come se un paese civile si reggesse sull’etica e non sul diritto, come se l’etica non fosse diventata il fantasma di questo paese da invocare appena non sai niente del merito delle cose (questo file si autodistruggerà fra 30 secondi, non ho mai scritto una cosa simile)

E quindi chi ne scrive oggi sui giornali non analizza il fatto, ma la fantasmagoria segnica prodotta su Twitter e Facebook da un paese indignato, furente, come la belva cui hai tolto il pezzo di carne dalla bocca. Ma come – ci dicono le masse furenti – questo colpevole che avevamo già divorato, voi ce lo vomitate qui, come professore universitario? Schettino è carne morta, l’altro da noi che noi abbiamo allontanato con orrore. Non potete rimetterlo in circolazione. Stiamo solo aspettando che la sanzione del tribunale ce lo metta in galera e butti via la chiave: perché lo condanneranno, questo è certo.

Questa è la cultura di oggi, altro che cassetto di Umberto Eco. E com’erano  felici ieri i giornalisti di parlare di “rivolta sul web”. Ben inteso, amati colleghi, è lo stesso furore che si rivolge contro di voi quando “ve tocca”, come si dice a Roma. Ma in quei casi voi producete preoccupati editoriali sull’inciviltà del web e fate le vostre larvate, leggere, cavalleresche pressioni perché il Parlamento e il governo facciano qualche legge repressiva, o almeno una commissione di studio, che diamine, dalla quale poi venga fuori la martellata. Perché, insomma, la rivolta va bene se ci aiuta, non se ci distrugge non va bene. E questo è il vostro, fatale, errore. Perché non funziona e non funzionerà mai più così. I “lazzari” sono nelle strade, non faranno differenza, hanno sete e berranno anche il vostro, di sangue. Ma nelle strade ce li avete e ce li mettete voi, ogni giorno. Da decenni.

Perché poi “ce tocca” o “ce po’ toccà” a tutti, sempre come si dice a Trastevere. Quindi dimenticate il passato recente: gettate nel cestino la “macchina del fango”. Cancellate il “circuito mediatico-giudiziario”, non analizzate da destra e da sinistra. Ci siamo dentro tutti. Chi ieri ha massacrato con una falsa notizia l’avversario politico, oggi potrà riceverne lo stesso trattamento. È come se il vecchio caro giustizialismo fosse passato da analogico a digitale. Sì, l’avviso di garanzia era già condanna, ok. Sì, la detenzione è già anticipo di pena, ok. Sì, l’intercettazione è la “prova”, ma non lo senti come parla, questo criminale (Consiglierei la lettura di “Buio a Mezzogiorno” di Arthur Koestler)

Ma adesso si è aggiunta la velocità del Fatto Compiuto Senza Contesto, l’algoritmo del colpevole. Per carità, è la dinamica che porta i falsi untori della “Storia della Colonna Infame” di Manzoni ad essere prima torturati e poi squartati e avere le budella bruciate. Ma vuoi mettere i bit? È la nostra antropologia (cialtrona? Da linciatori? Totalitaria) alla velocità del computing e senza responsabili: la mia pietra è uguale alla tua (almeno i regimi totalitari prendono una responsabilità su di sé). Come noi nessuno sa come si costruisce una strega.

Questo sfugge a chi ancora oggi intinge la penna nello Schettino “simbolo” dell’Italia responsabile della “distruzione delle tradizioni marinare” (bum!). Che cosa strana, c’è un giornalismo dell’eccesso, della condanna, della Fustigazione Morale, ma è lo stesso che nega all’uomo comune della rete il diritto di eccedere e di fustigare. Non li sfiora l’idea di essere uguali, grandi e piccini, grandi penne e canari della magliana (un tipo che fece a pezzi con la tronchesi l’amante di sua moglie, assurto a Roma a simbolo del fare le cose male, già “simbolo”). Abbiamo creato il Lego della condanna sommaria: siamo tutti mattoncini nell’edificio dell’accusa. A turno andremo a comporre il rogo. Lo facciamo rosso, dai. Ché poi, se fosse chiaro che è un gioco della Menzogna, sarebbe un mondo perfetto: ma l’uomo del “ké” e l’editorialista illustre pensano che quella sia la realtà. No cari, la realtà, a questo punto, non esiste più, è delirio digitale totalitario.

Specialità italiana, non accade da nessun altra parte nel mondo. “Popolo der Web” e grandi intellettuali schierati insieme, uniti nella lotta, le signore che scrivono “qlk” e “ké” e Francesco Merlo. E senza il minimo sospetto che il problema non è la rete ma è il paese del Caso Tortora, dei cappi in parlamento, dell’eccesso verbale gratuito, del “non mi interessa il merito, parlo dell’etica”, della sommarietà intellettuale e dell’allontanamento da sé: io sono un italiano buono, lui è un italiano cialtrone. Stessa antropologia, stesso paese, mai “Scrittori e Popolo” furono una cosa così una e unita. 

Alla fine è un paese che pensa per simboli  e odia i fatti.

Eppure, all’inizio, era solo una notizia data male. La più recente. L’ultima prima della prossima.

Fonte http://www.wired.it/author/vzambardino