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2014/10/27

Mamma, dona i miei occhi, il mio cuore...


La lettera alla madre di Reyhaneh Jabbari, la 26enne impiccata il 25 ottobre a Teheran perché si era difesa dall'uomo che voleva violentarla.

«Cara mamma,
oggi ho scoperto che è arrivato il mio momento di affrontare la Qisas (1) . Mi fa male pensare che tu non mi abbia informato che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di mio padre? 

Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella notte terribile sarei dovuta essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificarmi e solo in quel momento avresti capito che sono anche stata stuprata. 
Non avrebbero mai trovato l’assassino visto che non siamo ricchi come lui. Tu avresti vissuto soffrendo e vergognandoti e saresti morta per colpa di questo dolore.

Con quel "maledetto colpo" la mia vita è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da nessuna parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. Poi in quella di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti: tu sai bene che la morte non è la fine. Proprio tu mi hai insegnato che si vive per fare esperienze e imparare. Ogni persona che nasce ha sulle spalle una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare.

Mi ricordo quando mi hai detto che l’uomo che guidava la carrozza ha protestato contro l’uomo che mi stava fustigando, ma poi mi hai detto che lui l’ha colpito con la frusta in testa e in faccia, ed è morto. Mi hai insegnato che se uno crede in un valore ci deve credere fino alla morte.

Quando andavo a scuola mi hai insegnato che dovevo sempre comportarmi “come una signora” davanti alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto ci tenevi a questa cosa? Questo tuo insegnamento è sbagliato. Quando mi è successo questo incidente, il tuo insegnamento non mi è stato d’aiuto. Come mi sono presentata davanti alla corte mi ha fatto sembrareun’assassina fredda e premeditatrice. Come mi hai insegnato tu non ho pianto, non ho implorato perché credevo nella legge.

Ma sono stata anche accusata della mia indifferenza davanti a un crimine. Tu lo sai, io non ho mai ucciso neanche una zanzara, per liberarmi dagli scarafaggi li sollevavo prendendoli dalle loro antenne. E ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato dal giudice come un comportamento maschile, ma non si è nemmeno preoccupato di notare che nel momento dell’incidente avevo lo smalto.

Che ottimista colui che crede nella giustizia. Il giudice non hai mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, di un pugile. E questo Paese che amo grazie a te, non mi ha mai voluto. Nessuno mi ha sostenuto quando incalzata dagli inquirenti piangevo e gridavo per quei termini così volgari. Quando ho perso anche il mio ultimo segno di bellezza rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.

Cara mamma, non piangere per queste parole. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia un agente vecchia zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non è per quest’epoca. La bellezza di un corpo, dei pensieri, dei desideri, degli occhi, della bella scrittura e la bellezza di una voce. 
Cara mamma, i miei ideali sono cambiati e non è colpa tua. Le mie parole sono eterne e le affido a qualcuno così quando verrò impiccata da sola, senza di te, saranno date a te. Ti lascio queste parole scritte come eredità.

Comunque, prima della mia morte, vorrei qualcosa da te. Qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo Paese e anche da te. Lo so che hai bisogno di tempo per questa cosa, ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dalla prigione perché il capo non l’approverebbe mai, soffrirai ancora per me. È una cosa per cui potrai anche implorare, anche se ti ho sempre detto di non implorare per la mia salvezza.

Mia dolce madre, l’unica che mi è cara più della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque cosa possa essere trapiantata venga data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il mio destinatario conosca il mio nome, o che mi compri un mazzo di fiori o che preghi per me. Dal profondo del mio cuore ti dico che non voglio una tomba su cui tu puoi piangere. Non voglio che tu ti vesta di nero, fai il possibile per dimenticare questi giorni difficili. Dammi al vento che mi porti via.

Il mondo non ci ama, non ha voluto che si compisse il mio destino. Mi arrendo a esso e accetto la morte. Di fronte al tribunale di Dio accuserò gli ispettori, accuserò i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato e minacciato. Accuserò Dr. Farvandi, Qassem Shabani e tutti quelli che per colpa della loro ignoranza o delle loro bugie mi hanno messo in questa posizione e ucciso i miei diritti oscurando che a volte quello che sembra verità non lo è. Cara mamma dal cuore tenero, nell’altro mondo saremo io e te gli accusatori e gli altri gli accusati. Vedremo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. 


Ti amo, 
Reyhaneh»


(1) la legge del taglione in Iran, ndr

2014/10/25

Gli scialatori...


No, non mi sono sbagliato, scialatori, coloro che spendono e sprecano, in questo caso, denaro pubblico. In questo modi si dovrebbero chiamare i presidenti delle regioni a statuto speciale dove sembra, ma è solo un'impressione, che tutto vada bene invece va male come nel resto d'Italia. Parliamo oggi di politica, tanto per cambiare, di quella schietta e pungente e vediamo se a qualcuno viene in mente che gli italiani non sono sempre mucche da mungere ma hanno un cuore e un'anima anche quando si lamentano e dicono che non arrivano a fine mese.

Mentre Renzi sulla legge di stabilità fa un po’ il gradasso in Europa (e vedremo come finirà) tiene banco la polemica sui “tagli” agli enti locali e specialmente alle regioni.
Se si vuole risparmiare perché non si spiega chiaramente agli italiani i motivi per cui le regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Valle D’Aosta) possono spendere infinitamente di più rispetto a tutte le altre?

Lasciando perdere Molise e Valle d’Aosta che sono micro-regioni (e dove peraltro – secondo Confartigianato – circa il 75% dei dipendenti non sarebbe indispensabile) perché in Lombardia – e considerando nel conteggio sono esclusi i dipendenti della sanità – bastano 3 (tre!) dipendenti regionali ogni 10,000 abitanti che salgono a 6 in Veneto e a 7 in Piemonte mentre in Sicilia ce ne devono essere 38, ma anche 25 in Sardegna e – sempre ogni 10,000 abitanti -  ben 85 a Bolzano con il record di addirittura 90 a Trento, ovvero trenta volte di più per ogni abitante rispetto alla Lombardia?  

Certo che poi a Trento e Bolzano si sta bene, ma i servizi offerti ai siciliani sono forse dieci volte migliori di quelli lombardi o invece è l’esatto contrario? 
In realtà in Sicilia (come a Trento e Bolzano) si sciala e si è super-sprecato nel tempo e allora Mr. Renzi tolga a queste regioni una parte delle loro risorse e non pretenda di farlo allo stesso modo con quelle regioni che – pur tra tanti sprechi - almeno dimostrano di saper impiegare meglio i propri soldi.

Perché di sprechi ce n’è e se ne continuano a fare , anche in Piemonte. 
Questa settimana, per esempio, agli insegnanti piemontesi è giunta, stampata a spese del consiglio regionale, la “AGENDA SCUOLA 2014-2015” ovvero un semplice diario scolastico che, comunque è arrivato 40 giorni dopo l’inizio delle lezioni, non serve a nessuno. Quanto è costato, pur impreziosito con la ridondante presentazione del neo-presidente  Mauro Laus che nel presentare il diario arriva addirittura a citare Victor Hugo e “I Miserabili”? 

Certo nessun insegnante piemontese leggerà le corpose pagine allegate del “Contratto Collettivo nazionale del Comparto Scuola quadriennio giuridico 2006-2009 sottoscritto il 29.11.2007 con successive modificazioni” che, più economicamente, è gratuitamente disponibile (aggiornato) su internet!

Bisogna risparmiare, certo, ma anche avviarsi sulla strada di trasferire a ogni regione e ogni comune lo stesso importo per ciascun suo cittadino oppure trasferire di più ma solo in cambio di obiettivi strategici raggiunti. 
Circa poi l’essere regioni “a statuto speciale” poteva avere un significato 60 anni fa ma non più oggi e quindi questi benefit devono ridursi perché sono ingiustificati per le finanze pubbliche. Perché un paese montano in provincia di Trento deve ricevere così tanto di più rispetto a uno ossolano, valtellinese o a un confinante comune bellunese tutti comuni esattamente uguali per problematiche, distanze, disagi e geografia? 
Non è giusto!

Se si applicassero questi tagli non ci sarebbe alcuna ragione di aumentare le tasse agli italiani, soprattutto con alcune scelte assurde come gli aumenti spropositati delle trattenute sulle rendite vitalizie, le assicurazioni, la previdenza professionale che invece dovrebbe esser incentivata. Ricordiamoci che le pensioni pubbliche saranno sempre più povere e da anni si sostiene quindi l’utilità delle polizze integrative e dei fondi pensione che crescono con i versamenti degli associati e con i guadagni che vengono capitalizzati. 

Il governo Renzi ha deciso di tassare al 26% (ovvero quasi di un terzo) la loro “resa” e quindi di fatto ha impoverito tutti i risparmiatori che avevano investito sulla propria pensione. E i più danneggiati saranno proprio i giovani, quelli che solo su una pensione integrativa possono pensare ad un loro futuro, altro che parlare di incentivi!

Si tassino piuttosto le grandi rendite, le speculazioni che danno guadagni grazie all’elusione fiscale e soprattutto da un certo importo in poi, le troppe transazioni finanziarie immotivate e speculative, le società di comodo ma non i piccoli patrimoni della gente comune e il risparmio di tanti milioni di italiani che tra l’altro, reinvestito in Italia, è fonte di sviluppo economico per l’intera nazione.

Una piccola parentesi finale, mi vengono in mente certe analogie...
Non capisco: Berlusconi dice che Forza Italia “resterà all’opposizione di questo governo” e poi  concorda con il PD di Renzi sulla legge di stabilità, sul sistema elettorale, sulle coppie gay con “il sistema alla tedesca” (specifica espressione – peraltro imprecisa – di entrambi) e adesso perfino sullo “jus soli” per dare la cittadinanza ai figli dei clandestini. 

Dov’è allora, al netto della demagogia, l’“opposizione” di Berlusconi? Soprattutto – ammesso che invece sia giusto sostenere Renzi – dov’è il “rinnovamento” annunciato per Forza Italia se lo stesso Silvio Berlusconi, alla soglia degli 80 anni, conferma che si ripresenterà senz’altro come suo leader alle prossime elezioni? 

Elezioni che peraltro Matteo Renzi vincerà a mani basse soprattutto se passerà il sistema elettorale da lui emendato in questi giorni che nel concreto darà al primo partito, ovvero al PD (e non più alle coalizioni) l’intero premio di maggioranza della futura unica Camera, anche se resterà ben al di sotto del 50% dei voti, per giunta con candidati tutti scelti dallo stesso premier, ovvero da Renzi.

ADESSO VOI VERIFICATE LE SINGOLARI ANALOGIE CON IL SISTEMA DI VOTO ADOTTATO PER LE ELEZIONI POLITICHE DEL 1924 CHE PORTARONO ALL’INSTAURARSI DEL REGIME FASCISTA…

2014/10/18

Il giorno prima era estate


Il 13 agosto scorso ricadeva il settantesimo anniversario del disastro della diga di Molare. Dimenticato da molti, quasi tutti si ricordano del più noto Vajont che invero fu capace di mietere alcune migliaia di vittime, anche questo disastro, come molti in Italia, si origina da una disattenzione, enorme, che rappresenta anche, ai giorni nostri, la ragione delle alluvioni e allagamenti delle nostre città: l'idrologia e più in dettaglio l'analisi delle rocce e del sottosuolo è argomento trattato con insignificante attenzione nel nostro paese e, quando si verificano disastri, lo scaricamento delle responsabilità diventa uno sport nazionale.

Godiamoci questo racconto, sintesi di una storia vera, di un disastro perso nella nostra memoria che bisognerebbe ricordare come un frutto marcio della fretta.

Il giorno prima era estate. Quello dopo, ognuno lo vedeva a suo modo. C'era chi tirava il fiato per la gran paura. Chi alla paura guardava ancora negli occhi, perché era dietro a cercare qualcuno o qualcosa che l'acqua si era portata via. L'acqua. Sempre lei. E quel fiume a dettare a tutti il tempo.

Il giorno prima era estate anche per quei due di Bandita che si erano procurati una corba a testa di uva luglienga da portare a spalle da Marciazza sino all'Acquabianca. 
Roba da non credere, fatiche da non dire. Cose da record, ma nel libro dei primati ci stava per finire la gran acqua che in 4 ore, il 13 agosto del 35, andava nei libri di idrologia a far gara con altre piogge raccolte da fiumi lontani sino all'India. Specialisti nel settore, quelli si abituati a diluvi fuori dal nostro pensare.
Andava così. Che i due di Bandita trovavano rifugio alla casa di Poldo, in faccia alla Sella. E sotto un tetto, loro, destinati a portarsi in spalla tutto quel peso, dovevano star più contenti di quelli che per l'indomani avevano solo pensato a giorni di festa e si ritrovavano con quell'ansia che dà sempre l'acqua quando scroscia e non smette.

Scroscia e non smette.

Poldo era ragazzo. Diceva che dalla loro casa la sella era in faccia e la si vedeva coperta da 3 metri buoni d'acqua. Che saltava il bastione e picchiava sulla terra, sulla roccia, su quello che c'era. Che il giorno prima sembrava indistruttibile ed in quelle ore diventava burro agli occhi dei pochi testimoni.
Due moriranno.
Tra i lampi, qualcuno, dai bastioni di lato più saldi, si sbracciava a cercare di segnalare che per il lago non ci sarebbe stato più scampo. Chi si è salvato lo deve a quella storia che dicevo. Le cose ed i panorami che tutti i giorni si vedono vengono quasi a noia, ma anche se non ci se ne accorge entrano nella pelle ed in certi casi la salvano. Quel panorama abituale alla famiglia di Poldo, in quattro ore era diventato una vista intollerabile. Ci si leggeva la fine di tutto e loro scappavano sotto l'acqua in salita su dalla scarpata. Lasciando quelli dell'uva luglienga a scaldarsi una minestra. Loro non c'erano abituati a quella diga e pensavano che le cose fatte dagli uomini non potessero averla persa in mezza giornata. Sotto l'acqua Poldo scappava e la cosa che più ricordava di quegli attimi, anni ed anni dopo, erano le caviglie di sua madre piantate dentro gli zoccoli a schizzare fango davanti a lui. Quelli dell'uva, ora, erano quelli della minestra. Uno avrà avuto la testa bassa a guardare il fuoco e girare nella pentola col mestolo. Ma l'altro di sicuro l'occhio verso la diga l'ha tirato, all'ennesimo lampo, e credo che lo spostamento d'aria l'abbia sollevato, lui, la minestra ed il compagno, tanto in fretta da fargli solo pensare a quei diavoli che i frati delle Rocche avevano ancora il vezzo di descrivere dal pulpito per spaventare i bambini, nel coro dell'Oratorio tra l'ultimo sbuffo di incenso e l'attacco del Tantum Ergo, i giorni della novena dell'Assunta. 
Quando Poldo me lo raccontava mi faceva venire i brividi. Come tutti quelli che in vita han letto poco, ma han sudato abbastanza, usava frasi corte per esprimere paure lunghe delle giornate: "neanche i colombi sono usciti dai coppi". L'acqua che saltava la Sella Zerbino e poi la faceva crollare aveva generato un maglio, fatto solo d'aria, che colpiva la collina di fronte e quella prima casa, disfandola con quello che c'era rimasto: gli oggetti di una famiglia contadina, due corbe d'uva, due di passaggio, una minestra ormai calda e quei colombi che sotto i coppi erano abituati a rifugiarsi.

Poldo quel giorno diventava uomo. Non credo che a correre via avesse il comando, ma il giorno dopo, quando arrivarono i primi carabinieri e qualche giornalista per spiegarsi tutto il disastro che era successo a valle, servivano braccia forti e gente che conoscesse tutte le curve del fiume, vecchie e nuove di quel giorno. Poldo era lì e a differenza di altri sapeva cosa cercare. Lasciamo stare i colombi, ma quei due di Bandita erano cristiani e se non si fossero fermati a casa sua sarebbero spariti. Neanche buoni per le statistiche. Poldo fu arruolato "volontario" ad entrare nelle acque limacciose che ora scorrevano lente e formavano nuovi grandi laghi, pericolosi perché pieni di mulinelli e detriti. "Castellunzè" sembrava un'isola e la spalla dove era stata la sua casa, la vigna e sopra, la strada per Olbicella, avevano perso ogni dettaglio lasciato dal lavoro degli uomini. Dopo quel maglio fatto d'aria compressa, era arrivata una mazzata d'acqua tanto dura e forte da compattare qualsiasi profilo, qualsiasi segno. Dove c'erano state terrazze coltivate, ora c'era una parete liscia come un intonaco. In fondo alla scarpata Poldo trovava il primo morto ufficiale di quel disastro. Uno che lì non avrebbe dovuto essere. Partito con il sole e previsioni di gran fatica, si era fatto tentare da una minestra nel posto sbagliato. Aveva finito la sua strada terrena sbucciato come un limone a galleggiare in acque che due giorni prima non c'erano. Poldo l'aveva trovato incastrato tra gli arbusti, duro e pesante, e l'aveva trascinato, mi diceva lui, afferrandolo in mezzo alle gambe dove un po' di stoffa rimasta lo faceva scivolare di meno. Per quei giochi che fa il destino, quel viaggio a riva aveva la sua importanza. Furono dati, voglio sperare, aiuti alle famiglie colpite, ma credo che dimostrare d'aver avuto dei lutti fosse necessario. E aiuti credo proprio che servissero a chi per arrotondare portava per chilometri in spalla una corba d'uva. Dimostrare di esserci, anzi, di esserci stato, lì a prendersi tutta la sventura sino all'ultima goccia, era certo difficile per chi non poteva contare su una residenza conosciuta da quelle parti. Non mi risulta che il compagno di minestra abbia avuto altrettanta fortuna. Altri corpi a valle se ne trovavano, ma fu certo più semplice attribuirli a chi si sapeva per certo che da qualche parte doveva pur essere finito.

Quel giorno di agosto fu una specie di sposalizio tra il torrente ed il paese. Dissero chiaro e tondo a tutti gli invitati che si trattava di un'unione ufficiale e definitiva. Nel bene e nel male. Si erano sempre frequentati e la vita certo ne era derivata. Ma quel giorno l'acqua era scesa, sulle sue solite strade, con un vestito nuovo, ampio come un turbine. Travolgeva, faceva nuovi passi e si faceva annunciare da un rombo sordo che durò tutto il tempo di pranzo.

Al meglio, sarebbe occorso un maestro di cerimonia che la precedesse fino al paese per mettere in riga gli invitati - una carrozza che corresse sotto l'acqua a perdifiato per i tornanti dalla diga sino a San Sebastiano. Capitò invece come quelle volte che in piazza c'è animazione crescente per qualche macchina lustra e qualche buon vestito che vanno a fermarsi davanti al sagrato. E chi passa si immagina di lì a poco l'arrivo di quelli della sposa. E aspetta e chiede chi sono. E' un po' preparato alla sorpresa ed un po' no. Ma aspetta per vedere. Il preannuncio non fu quindi dato al telefono, né da qualche uomo che fosse riuscito a correre davanti a quella lingua d'acqua che riempiva le gole. Prima di un metro, poi di dieci, venti, sino a strozzarsi contro qualche barriera e poi riesplodere nella corsa. Niente campane. Un muggito sordo, basse frequenze che toccano qualcosa dentro e fan prima a spaventare gatti ed uccelli, ma tormentano anche i cristiani più sensibili.
Quelli agitati quel giorno o da quando eran nati.

Pagine fa avevamo un bel posto per seguire le storie e raccontarle. La riva 
che punta verso Battagliosi sulla riva destra del fiume. La miglior terrazza per guardare il paese. Ma sarà il caso che ci si tolga, che si vada via. A guardare si, ma da più lontano. E' quello che tanti per fortuna hanno pensato. Meno quelli che avevano le cose in basso e che avevano poco tempo per decidere e molti motivi per convincersi che l'impossibile non potesse succedere.

Di quell'ora ho parlato con tanti.

Ora so che c'era un gruppo numeroso in fondo al paese all'imbocco del ponte.
Una banda di ragazzi che si muoveva tra la Chiccolina e la scarpata sotto l'Oratorio.
Qualcuno della famiglia Bruno dentro la loro casa nuova.

Sarà il nostro testimone. I nostri occhi tutti questi anni dopo. A fermare un rumore. Trasformare un rimbombo che durava da un'ora e che adesso aveva la sua forma liquida a divorare il paesaggio.

Il nostro uomo al riparo della casa, scattava la foto alla sposa che arrivava in paese.

Eccola.

Disastro di Molare
Con il suo strascico avrebbe fatto una decina di vittime tra la "fontana" e la "ghiaia". Avrete capito che forse qualcosa nel conto saltò e che i nomi ed i corpi per farli coincidere ci volle molta buona volontà. Ma proseguendo su Ovada ebbe la sua gloria, incrementò il bottino e conobbe giorni dopo i Reali in visita. Noi ci fermiamo dove siamo. Altri hanno raccontato e bene quello che accadde passato il ponte di ferro. 
Sotto San Giorgio era roba da uomini. L'acqua lambiva le prime case del paese. C'era qualche carabiniere, braccia forti pronte a far qualcosa e di sicuro una macchina fotografica dalla quale nulla ci è pervenuto. L'hanno vista in più d'uno ed ho idea di chi l'avesse. Non so che possa aver visto e a noi non testimoniato. Doveva essere un diluvio. Assordante il rumore delle acque che sbattevano contro il ponte, sgretolandolo con i colpi d'ariete scagliati da tronchi, pietre e macerie trascinate dalla valle. Una foto, da lì, sarebbe certo stata difficile da fare ed avrebbe offerto poco da vedere: solo un gran tumulto di grigi impastati l'uno con l'altro dal tremore della mano. Ci mancherà quindi, e non potremo far altro che immaginarcelo, un gruppo di cappellacci grondanti d'acqua con volti sotto mezzi coperti e con in vista solo gli occhi sbarrati ed un braccio teso ad indicare a tutti qualcosa. Sul bordo del fotogramma due carabinieri, più composti degli altri, a fornire un minimo di règia dignità e sicurezza. In fondo in fondo, a salire, qualche puntino ad indicare ragazzi e qualche donna a spingerli in direzione di Cassinelle e Cremolino. Verso case di cugini che offrissero riparo e il tempo per pensare. Dalla casa dei Bruno invece si vedeva tutto con comodo ed il tetto era nuovo e l'orrore poteva riguardare solo quanto era di altri e non proprio. Che lì tutto era sicuro. Tante furono le foto. Una sola quella arrivata sin qui. Mostra un mare d'acqua che trova ostacolo nel ponte e vi rigurgita sopra, scavalcandolo, ma sentendone ancora la consistenza forma un profilo, come di un'onda, su tutto quel bastione che legava Molare ad Ovada. Persino il Rio Granozza ha trovato da riempirsi ed allagare tutta la sua gola. Quello che si prepara è l'ennesimo sfondamento che trasformerà l'acqua, che sta ribollendo contro la diga precaria rappresentata dal ponte materiale, nel fronte in grado di travolgere e far scomparire l'intero ponte ferroviario. Sono i ragazzotti che abitano nella parte alta del paese gli unici a vedere tutto con occhio diverso. Le loro famiglie sono già abituate da un pezzo a non seguirli perché non si ha tempo e perché si impara in fretta a badare a se stessi. Le loro case sono in cima alla rocca, che ora sembra un promontorio su un mare in burrasca. Non hanno niente di particolare da mettere al sicuro. Quello spettacolo in compenso merita di essere seguito in modo estremo ed allora il posto migliore è la scarpata sotto l'Oratorio. Anni dopo Nizzurin, parlandomi, non ricordava quasi più nulla, confondendo volti, tempi e luoghi perché la vita per fortuna è lunga e tante sono le cose che si ammucchiano. Ma come Poldo con i suoi colombi sotto il tetto, anche a lui un'immagine era rimasta impressa e per combinazione ancora di animali si parlava. Il ponte della Genova-Acqui, voluto dal Ministro Saracco 37 anni prima piroettava nel cielo ed i binari erano "bisce per aria" a sibilare come fruste dentro il rimbombo cupo e generale che da un'ora passava dal terreno allo stomaco della gente.
Quei ragazzotti i giorni prima erano polverosi come patate appena raccolte. Il 13 agosto del 1935, tempo d'arrivare all'una dopo pranzo, erano lavati dalla testa ai piedi. Anzi, quelli lasciamoli da parte, che gli zoccoli erano a casa. Dalla riva del Tanarone, dove si erano fermati quando era volato per aria il ponte, erano rimasti per un attimo, finalmente, tutti fermi e zitti. E schierate ad assistere a quello scempio si contavano le loro dita dei piedi, allineate e sporche di fango.
Angelo, che era tra loro, anni dopo fece un quadro per dare forma a quei momenti (che secondo lui foto non ce ne potevano essere). E non poté trattenersi dal dedicare qualche centimetro di tela in basso a destra ad un dettaglio che aveva bene a memoria: quella riga di dita che sembravano una tastiera di pianoforte. Il ricordo più chiaro di se stesso e della sua banda di amici. Era l'effetto finale di quella scena da incubo, vista come un imponente cinemascope che li aveva schiacciati e fatti star zitti e confinati ai bordi del mondo. 
Con solo le dita che spuntavano, quel giorno e per molti di loro per tutta la vita, dentro il trambusto delle cose che succedono.
Disastro di Molare
Non so se gli fosse chiaro, ad uno per l'altro, che lì si trattava di morte e di destini di intere famiglie che avrebbero cambiato strada. Certo c'era chi diceva che la diga aveva liberato solo parte dell'acqua (e Cristo, aveva ragione) e che sarebbe da lì a poco potuto arrivare ben di peggio. Toccava a loro, più agili di tutti, curiosi, protagonisti più di uomini, cercare un posto dove vedere. Volevano raggiungere la Priarona, ma non c'era ponte di ferro, spazzato via e a quest'ora impegnato ad arare i campi della Rebba. L'unica era risalire verso il Casello e trovare il passo per scavalcare il Crosio che si era gonfiato tanto da far sembrare la scarpata sotto la casa delle Suore l'ingresso di un fiordo. Fu così che a mettere il piede sui binari, prima dell'imbocco della galleria di Prasco, a qualcuno di loro venne in mente che il treno sarebbe sceso puntando su un ponte che non c'era. Questa storia gira in cento versioni. Certo che qualcuno fermò il treno che viaggiava senza notizie e a noi piace pensare che toccasse a questi ragazzi l'impresa. Fu una beffa cavare dai guai due carrozze ed una motrice, che, passata la guerra, li avrebbero portati per anni ed anni su e giù per Genova a lavorare in qualche fabbrica.
Arrivarono alla fine nel punto più alto. Saran state le 6 dopopranzo. Era spiovuto e si vedeva, ora, tutto. E tornava qualche colore. Furono raggiunti da un signore di Cremolino che aveva in mano una fotocamera coi fiocchi. Non vi erano ancora né giornalisti, né soccorsi.

Ancora una volta basta uno scatto e tanta fortuna a non averlo perso. E' come una foto della scentifica sulla scena del crimine. Niente è stato ancora toccato e c'è l'impronta del colpevole in quello sbuffo bianco che compare in alto a destra su dalla Valle dell'Orba.
(Da un racconto di Paolo Arbetelli)

2014/10/09

Cinque Passi

Questa volta non e' un mio racconto a essere qui pubblicato ma uno di uno scrittore indipendente che apprezzo. Una bella storia, breve e intensa che spero possa piacere anche a voi.  Dopo il racconto una breve biografia dell'autore. I suoi libri sono pubblicati online, su Amazon e le principali case di distribuzione ne dispongono, non esistate a acquistare e leggere i suoi scritti, lui e' uno che sa entrare nell'anima della gente.

- Cinque passi - 

Uniti. Nel bene e nel male. 

Aveva sceso le scale urlando lasciami stare. Ivan era rimasto sul divano con le mani 
tra i capelli. Erano passati giorni, ma lo ricordava ancora bene. Eccome.
Anni di convivenza buttati nel cesso. Così, con un lasciami stare. Avesse aggiunto brutto stronzo! No, nemmeno quello. Doveva finire perché era la sua decisione, ogni spiegazione l’aveva ritenuta superflua. 
Il ragazzo tirò su col naso e strizzò gli occhi umidi di dolore.
«La Padania ha una sua storia!» urlava la TV.
Non poteva ancora crederci. Come quando senti al TG di un infanticidio e pensi non è possibile. Come quando vedi scene di guerra e credi che non esistano. Come quando t’illudi che il destino possa riservare dolori solo agli altri. E poi ti svegli dal sogno, per comprendere che quegli altri possiamo diventare noi. E allora ti dici: sì, tutto è possibile.
«Non parteciperemo ai festeggiamenti dei 150 anni di Italia!». Guardò la TV con un senso di schifo. Gli faceva schifo tutto. I sacrifici, le gioie, i dolori. Aveva condiviso con Irene una vita, o almeno così la vedeva lui. Una vita di speranze e progetti. Molti sacrifici e diverse gioie. Ma era stato fatto tutto insieme. I meriti e le colpe erano di entrambi. 
Da quel giorno non più. Non più.

Ognuno riprendeva i propri meriti e le proprie colpe. Ma avevano ancora valore? 
Lo avevano ancora adesso che ognuno tornava per la propria strada? Aveva senso aver faticato e sofferto tanto per tutto quello che avevano costruito insieme e che ora non esisteva più? 

No, non lo aveva. Si alzò. Cinque passi. Solo cinque.

Tanto lo separava dal balcone. Guardò giù da quell’undicesimo piano. La città festeggiava. Festeggiava un’Italia unita contro la volontà di alcuni. Un’unità che non gli apparteneva più. Quei visi sorridenti, la parata musicale. 

Chiuse gli occhi e spiccò il volo.

Ma un uomo non ha le ali.

Non più dopo aver sofferto l’abbandono.

L’autore
Roberto Tartaglia, nato il 25 Luglio 1977, giornalista e, dal 2009, scrittore indipendente. Da sempre animo irrequieto e sensibile all’arte. Nel corso degli anni ha studiato solfeggio, canto, clarinetto, arti marziali, letteratura, filosofia, psicologia e tutto ciò che lo affascinava. La scrittura, però, è sempre stata la sua vera passione e fonte di grandi soddisfazioni. Il lavoro di giornalista gli ha permesso, sinora, di entrare in contatto e intervistare personaggi dello spettacolo, come l’attore/regista Clemente Pernarella, il grande Roberto Vecchioni, protagonisti della cronaca nazionale come l’ex comandante dei RIS di Parma, Luciano Garofano, e personaggi di fama mondiale come il professor Yuri Bandazhevsky, primo uomo a sfidare i poteri forti e a rendere noti al mondo i segreti del disastro di Chernobyl.
Il mestiere di scrittore, invece, gli ha dato modo di pubblicare, dal 2007 a oggi, numerosi racconti e un romanzo collettivo con l’editoria tradizionale, di essere finalista in diversi concorsi di scrittura e selezionato per partecipare alla stesura di opere in occasione di importanti ricorrenze, come i 150 anni d’Italia e la Giornata Mondiale UNESCO del Libro e del Diritto d’Autore. Ha avuto modo di scrivere insieme a grandi del calibro di Maria Luisa Spaziani, Leandro Castellani, Pedro Casals, Andrea Carlo Cappi, Paola Barbato, Andrea Pinketts, Ben Pastor e tanti altri. Davvero grandi soddisfazioni e ottime occasioni di crescita, non solo professionale.
Nel 2009, a seguito di una serie di delusioni ricevute dall’editoria tradizionale, però, ha deciso di pubblicare il suo primo romanzo, “Casus belli”, in self publishing. Risultato? 5 mila copie in circa sei mesi. Da allora ha deciso di diventare a tutti gli effetti uno scrittore indipendente. Senza casa editrice, senza direttive editoriali e limiti contrattuali. Libero di scrivere ciò che voleva, quando e come voleva.

Un’emozione unica!

Roberto al proposito scrive: "E allora mi sono chiesto: quanti altri autori, come me, vorrebbero percorrere questa strada ma non sanno come fare? Tantissimi! Per questo ho deciso di creare anche il progetto “Vivere di scrittura”: per aiutare questi amici di 
penna, guidandoli passo passo sulla via per diventare scrittori indipendenti."