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2015/07/27

Il Pellet da riscoprire


Oggi parliamo di pellet e in particolare del pellet di abete.

Il pellet di abete è, a torto o a ragione, probabilmente il più blasonato in Italia. Pellet di abete rosso o di abete bianco, la sostanza non cambia, sono equiparabili e nel tempo hanno trovato moltissimi estimatori.

Non a caso la maggior parte di pellet di abete proviene da Austria e Germania, due Paesi che oltre ad avere grande disponibilità di boschi di abete, hanno anche un’attitudine all’efficienza e al lavoro preciso. Si spiega anche così il blasone del pellet di abete rosso (o bianco): spesso e volentieri sono marche di pellet austriache o tedesche, quindi prodotti fatti con criterio, senza aggiunte o mancanze, nel rispetto dei processi. I prezzi del pellet di abete risentono di questo doppio fattore, da un lato la qualità dei processi produttivi, dall’altro della forte domanda di prodotto; e infatti sono prezzi spesso superiori alla media, non sempre però a fronte di qualità altrettanto superiore. 

La certificazione ENPlus A1, forse la più importante, è tipica di molti pellet d’oltralpe, ed è nata per premiare una filiera, un processo produttivo, che va da produttore a dettagliante. Tutto deve essere fatto con criterio e secondo certi standard, a partire dalla materia prima utilizzata e dal produttore che deve seguire un processo molto chiaro. La maggioranza degli utilizzatori di pellet cerca il pellet d’abete, rosso o bianco non fa tanta differenza. E alcuni produttori o Distributori poco seri, anzi assolutamente non seri, si approfittano di questa situazione per mettere in atto furbate, spacciando pellet per quello che non è.

Ancor prima della provenienza, quindi, occorre prestare attenzione alle certificazioni, e anche ai numeri di certificazioni, garanzia di qualità. Una volta appurato questo, si può procedere più tranquilli nella scelta del pellet. E a quel punto non fa differenza se di abete rosso, bianco, di rovere, di faggio o altri legnami. A quel punto subentrano altri fattori di valutazione, come prezzo, resa, residui di cenere.

I pellet di abete sono davvero tanti, i più noti sono probabilmente lo Pfeifer, il Firestixx, il Norica, il Binderholz il Mayr Melnhof. La maggioranza comunque del pellet austriaco. 

Meglio faggio o abete?

Ma il miglior pellet è di abete o di faggio? Il pellet di faggio ha generalmente una resa maggiore ma anche un consumo maggiore e un residuo di cenere più corposo.
Il pellet di abete, in quanto conifera (come il pino), ha una resa analoga a quella del faggio o di poco inferiore, brucia più lentamente e comporta quindi un consumo inferiore. Anche il residuo di cenere dalla combustione del pellet di abete spesso è inferiore a quello generato dal combustibile di faggio.

Ci sono differenze importanti, ma che vanno poi unite alle considerazioni sulla marca di pellet che si utilizza nonché alla propria stufa o caldaia. Una cosa fondamentale che bisogna sempre tenere in mente è che ogni stufa o caldaia lavora in maniera diversa, ognuna ha le sue tipicità che valorizzano al meglio un combustibile legnoso piuttosto che un altro. Quindi a parità di qualità di pellet, una stufa può performare meglio con un tipo che con un altro, a seconda della durezza e delle altre caratteristiche di cui bisogna tenere conto.

Alla domanda sul pellet, su quale sia meglio tra faggio e abete rispondiamo con un “dipende”, e vi invitiamo a fare prove pratiche con la vostra stufa. Le risposte possono essere diverse, e nessuna è più giusta o sbagliata. I prezzi del pellet di faggio sono tendenzialmente più bassi rispetto a quelli di abete. Anche questo è un fattore da tenere in dovuta considerazione, soprattutto a parità di performance, è verosimile che tutti preferiamo risparmiare un po’.

Altri tipi di pellet

Non solo abete e faggio, non sono gli unici due tipi di pellet presenti in commercio. Come in ogni mercato in crescita, l’offerta è varia e in evoluzione; si possono trovare pellet di rovere, di pino, di castagno, di larice, misti, anche di cereali. In particolare ci sentiamo di spezzare una lancia a favore del pellet di pino, che per la nostra esperienza si sono sempre dimostrati essere pellet di qualità (Pellexo Bianca in particolare). Hanno tutti caratteristiche diverse che si possono sposare bene o meno bene con le stufe e con le caldaie a pellet. Ma stiamo attenti a dare il giusto peso al tipo di legname di cui è composto il pellet: è senza dubbio un fattore da considerare, ma ce ne sono altri che si tendono a trascurare ma che in realtà hanno la stessa importanza o addirittura maggiore.

Pensiamo ai processi di produzione, che in un pellet certificato ENPlus A1 sono garantiti. Pensiamo alla presenza o meno di agenti leganti o di additivi all’interno del pellet; e non dimentichiamoci degli aspetti visivi e olfattivi, da valutare con attenzione per essere sempre maggiormente preparati in fase di acquisto di pellet e di valutazione dei tipi di pellet.

2015/07/21

... bambini che muoiono di fame

Fotografia di Patrizia Masuri


Sono così educati i bambini che muoiono di fame:

non parlano con la bocca piena, non sprecano il pane,

non giocano con la mollica per farne palline,

non fanno mucchietti di cibo sul bordo del piatto,

non fanno capricci, non dicono: “Questo non mi piace!!”,

non arricciano il naso quando si porta in tavola qualcosa,

non pestano i piedi a terra per avere caramelle,

non danno ai cani il grasso del prosciutto,

non ci corrono tra le gambe, non si arrampicano dappertutto…

hanno il cuore così pesante, e il corpo così debole, che vivono in ginocchio…

per avere il loro pasto, aspettano buoni, buoni…

qualche volta piangono, quando l’attesa è troppo lunga…

No, no, state tranquilli, non grideranno, non ne hanno più la forza: 

solo i loro occhi possono parlare…

incroceranno le braccia sul ventre gonfio, 

si metteranno in posa per fare una bella foto…

moriranno piano piano, senza far rumore, senza disturbare…

Quei bimbi lì…sono così educati.

Si, sono così educati i bambini che muoiono di fame…


--Roberto Clandestino--

2015/07/16

La bomba atomica in Iran

L'Iran avrà la promessa bomba atomica. L'accordo firmato è un'elegante beffa gestita con pazienza e capacità ("abbiamo trattato a lungo, ha detto il capo delegazione iraniano Zarif, e siamo riusciti ad affascinare l'Occidente"): le ispezioni programmate con un mese d'anticipo e rifiutabili da una commissione sono uno scherzo; dieci o quindici anni di tempo ridicoli rispetto alla possibilità successiva di armare la bomba atomica sotto gli occhi di tutti; l'apertura al mercato delle armi in cinque anni esteso a otto per i missili balistici; la diluizione dell'uranio già arricchito e il basso arricchimento sono assurdi quando si resta in possesso di 6000 centrifughe e degli impianti "sperimentali" e "medici" che possono trasformarsi. L'Iran era in grado di mettere in funzione una bomba atomica in due mesi; adesso gli ci vorrebbe un anno. In sostanza, è evidente che quello che deve giocare qui è la fiducia fra le parti, l'idea che l'Iran vuole davvero fermare la corsa al nucleare. 



Ma l'Iran vuole solo che entrino nelle sue casse i 1500 miliardi di dollari delle sanzioni che nel giro di un anno andranno a rimpinguare le casse che finanziano gli Hezbollah per occupare il Libano e difendere Assad, gli Houti che si sono impossessati dello Yemen, le Guardie della Rivoluzione di stanza in Iraq. Serviranno anche a finanziare le imprese terroristiche in cui l'Iran è campione in tutto il mondo e a rafforzare i Basiji, la milizia che tiene il suo tallone su un Paese sofferente non solo per la miseria. La legge shariatica prevede l'impiccagione degli omosessuali, e nelle campagne ancora si incontra la lapidazione, nei tribunali la donna vale metà; si chiudono i giornali e i giornalisti vanno in galera. Ma come si fa a fidarsi, come fa Obama, di un accordo con un Paese che per vent'anni ha trattato tirando in lungo per seguitare ad arricchire l'uranio mentre illudeva l'interlocutore che l'accordo fosse dietro l'angolo?

Durante le trattative dell'EU3 (Inghilterra, Francia e Germania) a Teheran nel 2004, il presidente Rouhani, allora capo dei negoziatori, ha poi detto ai giornalisti iraniani rivendicando il ruolo di costruttore del nucleare: "Coi colloqui siamo riusciti a provvedere il tempo necessario per completare il lavoro a Ishfahan “una centrale importante" così il mondo fu costretto a capire che l'equazione era del tutto cambiata". Rouhani portò il numero delle centrifughe da 164 a 1500, ora restiamo con le seimila della trattativa. E l'Iran, lentamente perché deve pagare un pedaggio per le sanzioni, può seguitare a guadagnare tempo nella sua marcia verso il nucleare, l'egemonia sciita nel mondo islamico, l'egemonia islamica nel mondo occidentale. 

Senza peli sulla lingua: allora tanto vale cercare anche un accordo con l'Isis, perché no? Chiediamogli di presentarsi con educazione a Vienna e trattiamo: non dovranno rinunciare né alla sharia né alla guerra per il califfato ma per dieci anni lascino terrorismo e taglio delle teste; in cambio, stabiliremo un'ambasciata a Raqqa e consentiremo grandi transazioni economiche, petrolifere e commerciando nei reperti archeologici. I barbuti col turbante, pure selvaggi, tuttavia non sono meno determinati a imporre sul mondo l'egemonia islamica, solo la guardano dal punto di vista sunnita, e non sciita.

Noi europei e americani ("occidentali" è una parola ormai senza senso) non ascoltiamo mai perché siamo poco seri: se malediciamo qualcuno, se lo minacciamo di morte domani cambieremo idea, qualcuno ci vedrà presto a braccetto col nostro nemico a prendere un caffè. Inoltre, noi non ricordiamo la nostra storia: non sappiamo più molto, noi europei, delle guerre che ci hanno contrapposto, del desiderio di divorarci che ha posseduto a turno i nostri Paesi finché la Germania ci ha battuto tutti col nazismo, non ricordiamo altro che il recente irenico desiderio di pace, seppelliamo sotto la sabbia l'odio e il rancore per comodità e per superficialità. 

L'Islam non è come noi, ricorda e sa: l'Iran sa la storia sciita e prima ancora quella dell'Impero persiano. Tre giorni fa, subito prima dell'accordo col P5+1 una enorme piazza con la guida suprema Khamenei gridava "Morte all'America" e "distruggeremo Israele". Il suo urlo di piazza deve essere inteso in forma estesa, include anche noi, ed è serio. Quando Khomeini, il grande ayatollah esiliato a Parigi tornò in patria nel 1979 a fare la rivoluzione, gli chiesero cosa sentiva tornando in Iran. Rispose "Niente". Era vero: non era l'Iran che gli interessava ma la grande rivoluzione islamico sciita che avrebbe portato, come ha spiegato più volte, a tutto il mondo. 

Questa grande guerra avrebbe portato il Mahdi a salvare la Terra, sarebbe giunta la fine dei tempi e la redenzione, come pensa lo shiita credente. Con l'Iran proprio come con l'Isis, non si cerca di evitare il "MAD", Mutual Assured Distruction che la Guerra Fredda gestì fra Russia e America evitando che ci ammazzassimo tutti. Al contrario, per far giungere il Mahdi, e Ahmadinejad furioso antisemita e antiamericano lo ripeté anche all'ONU, bisogna creare il caos, non lo si deve evitare. La nuclearizzazione è l'arma migliore per farsi padrone di Gog e Magog, e per questo l'Iran l'ha scelta.

2015/07/14

Porti d'Italia allo sfascio.....


L’Italia è uno dei primi venti paesi al mondo per lunghezza delle coste, il terzo in Europa dopo Grecia e Regno Unito: ne ha circa 7.600 chilometri. Per la sua favorevole posizione (in mezzo al calmo Mediterraneo, a un paio di migliaia di chilometri dal canale di Suez) è stata a suo tempo detta la “piattaforma logistica del Mediterraneo”, un ideale punto di sbarco per le portacontainer, le navi su cui viaggiano quasi tutti gli oggetti che acquistiamo, e per le petroliere. Il soprannome ha ormai perso valore, dopo essere sopravvissuto per parecchi anni nei convegni del settore.

L’Italia ha infatti un’impossibilità strutturale ad assumere questo ruolo, quello di punto di arrivo da mare e smistamento via terra delle merci da distribuire verso il nord dell’Europa. Le ragioni sono in primo luogo morfologiche: la costa italiana, anche se molto estesa, è troppo frastagliata e la maggior parte dei grandi porti commerciali hanno a ridosso delicate e complesse zone urbane. All’interno, poi, gli Appennini tagliano trasversalmente in due il paese, rendendo problematici i trasporti su strada. In secondo luogo c’è una ragione prettamente logistica che aggrava e amplifica il problema morfologico: la faticosa macchina burocratica italiana. Una merce sbarcata in Italia dal mare per essere libera di circolare deve avere il nulla osta da 18 enti diversi, determinando tempi di sdoganamento medi di quattro giorni, contro il giorno e mezzo dei porti del Nord Europa. La World Bank quest’anno ci piazza al ventesimo posto nel mondo (su 160, dopo quasi tutti i paesi del Vecchio Continente) per performance logistica, l’anno scorso l’Europa a 28 al ventesimo (i criteri di valutazione sono differenti, ma in entrambi i casi veniamo dopo quasi tutti i paesi d’Europa).

Europa
Di conseguenza sono sempre stati i porti del nord Europa la porta di accesso del traffico marittimo diretto e in partenza dall’Europa, invece della piattaforma logistica del Mediterraneo. Ci sono i Paesi Bassi, piatti e con una burocrazia molto più efficiente della nostra, la Germania con il suo impeccabile sistema di trasporto interno e il Belgio. Tre paesi, tre porti: Rotterdam, Amburgo e Anversa, che da soli intercettano il 62% del traffico in arrivo in Europa (qui la classifica mondiale, dominata dalla Cina). L’anno scorso il solo porto di Rotterdam ha movimentato 11 milioni di container da venti piedi, più o meno lo stesso traffico di questo tipo movimentato nello stesso anno da tutti i porti italiani messi insieme (i primi per traffico di questo tipo sono Gioia Tauro, Genova e La Spezia, che fanno insieme 6,4 milioni di container).

Italia
L’Italia sembra quindi un piccolo paese marittimo, ma non è così. Come abbiamo detto, è un paese differente dal nord Europa, così la carenza logistica interna viene compensata dal grande numero di approdi che caratterizzano in generale una penisola. Se quindi nei singoli porti il confronto è impietoso, il fatto che abbia tanti chilometri di costa dà al contrario un indubbio vantaggio: quello di poter contare su molti più approdi. Finora ci siamo soffermati su un solo tipo di traffico, il container, che rappresenta soltanto una piccola parte delle tipologie di traffico via mare. C’è il petrolio per esempio, ma neanche qui l’Italia può vantare particolari primati (anche se Trieste e Genova, che intercettano le due grandi direttrici di traffico adriatica e tirrenica, se la cavano bene).

Trasporto marittimo
Il trasporto marittimo nel mondo si può dividere grossomodo in tre categorie: solido (container e rinfuse solide, per esempio il grano), liquido (petrolio e gas) e passeggeri (crociere e cabotaggio, il traffico a corto raggio, per esempio quello diretto in Sardegna e alle Eolie). Ecco la prima buona notizia: sommando tutte queste categorie, l’Italia nel 2012 risulta terza in Europa, dopo Olanda e Regno Unito.

Ma è nei passeggeri che il nostro paese da il meglio di sé. Meta turistica per eccellenza, l’Italia movimenta passeggeri come nessuno in Europa. Ogni anno sono quasi 40 milioni quelli trasportati. È la regina d’Europa, prima di Grecia e Danimarca. Capri, un’isola di appena 10 chilometri quadrati (meno della metà di San Benedetto del Tronto), nel 2012 ha movimentato sei milioni di passeggeri (Messina e Napoli circa otto milioni ciascuna).
I porti italiani moderni nacquero nel 1994, con l’arrivo della legge di riforma 84/94, Riordino della legislazione in materia portuale, che ha tra l’altro costituito il Corpo delle Capitanerie di Porto, e ha sostanzialmente sostituito con le autorità portuali i consorzi e gli enti autonomi che gestivano tutti gli scali con una cospicua attività merci e passeggeri.

Autorità portuali
Oggi le autorità portuali sono ventiquattro, ciascuna ha un presidente, un comitato portuale (formato da armatori, imprenditori, spedizionieri, agenti marittimi e autotrasportatori, sindacati, Regione e Comune), un segretario generale e un collegio di revisori dei conti. Disegnano il piano regolatore e possono richiedere l’autorizzazione al dragaggio dei fondali, opera periodica fondamentale per accogliere le navi cargo transoceaniche che seguendo le economie di scala diventano ogni anno più grandi. L’autorità portuale è un organismo pubblico-economico con compiti di “indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali” (art. 6 legge 84/94). In sostanza non può fare affari (a differenza di alcuni porti nordeuropei che somigliano a una spa) ma solo regolamentare e coordinare i soggetti imprenditoriali portuali che li fanno, oltre a programmare e indirizzare gli investimenti infrastrutturali. La sua principale fonte di incasso sono i canoni delle concessioni demaniali degli spazi portuali, per lo più banchine e cantieri nautici.

In Italia le ventiquattro “authorities” danno lavoro a più di 1.200 persone, dipendenti sottoposti al regime di impiego di diritto privato. La forma giuridica di questo ente pubblico-economico è simile a quella del Corpo Forestale dello Stato: è di fatto un’emanazione del ministero dei Trasporti, che approva il bilancio, l’organico e nomina il presidente ogni quattro anni di concerto con l’ente regionale dove risiede il porto, scegliendolo da una terna di nomi presentata rispettivamente dal Comune, dalla Camera di Commercio e dalla Provincia interessati.

Con un impianto normativo di questo tipo i porti italiani potrebbero sembrare un organismo moderno, rapido, efficiente. Ma la maggior parte delle ventiquattro autorità portuali italiane registra pesanti conflitti di interesse all’interno del comitato portuale. Ogni anno si ripete uno scontro silenzioso tra ministero dei Trasporti e dell’Economia. Quest’ultimo a ogni nuova Finanziaria vuole far valere l’elenco ISTAT degli enti pubblici, in cui è inclusa (pagina 16) l’autorità portuale, affinché anche le authorities rientrino nei tagli alla spesa o nel blocco del personale. 

Il confronto finora è stato sempre vinto dal ministero dei Trasporti che è sempre riuscito a proteggere l’autorità portuale in nome del regime di impiego “privato” dei dipendenti (è una vecchia questione controversa e particolarmente noiosa, un approfondimento si trova qui). I piani regolatori sono approvati in tempi biblici, i dragaggi vengono richiesti ma non sempre approvati perché bisogna avere prima il VAS, poi il VIA, forse nessuno dei due, forse entrambi. Infine le autorità portuali tendono ad accumulare grossi crediti sui canoni demaniali. L’esempio più eclatante è quello di Napoli, dove la principale azienda che gestisce il terminal container deve all’authority diversi milioni di euro per anni di concessioni non pagate, e siede nel comitato portuale che tra le altre cose stabilisce proprio le regole da adottare sulle pratiche creditizie.

Burocrazia e commissariamenti
Nei porti italiani si radunano tutti i problemi della pubblica amministrazione, e con essi le vicissitudini di tanti politici sia in cerca di potere che in attesa di sistemazione migliore. Nonostante l’articolo 8 della legge 84/94 stabilisca che il presidente deve essere un esperto di “massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale”, un “tecnico”, capita spesso di vedere a capo di un porto deputati o senatori in cerca di parcheggio. L’esempio più recente c’è stato a Cagliari. Nel dicembre 2011 è stato nominato all’Autorità portuale il chirurgo e senatore Pdl Piergiorgio Massida. A settembre 2013 il Consiglio di Stato aveva dichiarato illegittima la sua nomina, essendo appunto un medico senza alcuna esperienza diretta nei trasporti. A novembre dello stesso anno il ministro dei Trasporti Lupi lo ha nominato commissario (di se stesso). Infine a gennaio scorso il Consiglio di Stato ha fatto decadere anche la sua carica di commissario straordinario.

Il fenomeno del commissariamento delle autorità portuali italiane è il sintomo principale dello stato in cui si trova questa macchina pubblica. Attualmente, su ventiquattro autorità portuali ben nove sono sotto regime commissariale, il 37,5% del totale. Dalla prima all’ultima commissariata, sono: Manfredonia (da quando è nata, otto anni fa, non ha mai avuto un presidente ma solo commissari), Catania (dicembre 2012), Napoli (marzo 2013), Piombino (luglio 2013), Olbia (settembre 2013), Cagliari (novembre 2013), Augusta (dicembre 2013), Gioia Tauro e Ancona (entrambe a maggio di quest’anno). Nella maggior parte dei casi i commissari nominati sono militari delle Capitanerie di porto o gli ex presidenti.

Perché così tanti commissariamenti nei porti italiani? Fondamentalmente perché il meccanismo di nomina dei presidenti è logoro. Non ci si decide (o non ci si vuole decidere) sulla terna dei nomi e così, alla scadenza dei termini, scatta il regime commissariale che, dando un discreto vantaggio gestionale al ministero da cui dipende, da temporaneo diventa a tempo indefinito (come per Napoli, ad oggi senza governance da 523 giorni) o addirittura indeterminato (come nel caso di Manfredonia). Altre volte sono gli stessi enti locali (Comune, Provincia, Camera di Commercio) a non decidersi a dare un nome ciascuno al ministero dei Trasporti, altre volte è la commissione Trasporti che se alla Camera vota sì al candidato proposto dal ministero, lo boccia al Senato. 

C’è un delicato “equilibrio partitico” da mantenere nelle poltrone delle presidenze delle autorità portuali, per cui a volte i tempi di negoziazione si allungano, fino a paralizzarsi. Ma può anche capitare che il presidente dell’Autorità portuale sia indagato, com’è successo a Napoli nel 2008 all’allora presidente Francesco Nerli sotto inchiesta per concussione. Attualmente l’Italia ha più di un terzo dei suoi porti commissariati, scali che non possono programmare, non possono investire, non possono crescere.

Buoni esempi
Non mancano però gli esempi virtuosi. C’è Genova, storico porto italiano dall’antica tradizione, con una buona organizzazione e una dirigenza relativamente coesa per gli standard italiani. Trieste con la sua zona franca, La Spezia con i suoi container, Venezia che fa miracoli con i passeggeri, anche se adesso le navi da crociera si sono fatte troppo grandi per il delicato canale di San Marco. Napoli con uno dei golfi più affollati al mondo in estate. E poi c’è la romantica avventura imprenditoriale del porto di Gioia Tauro, piana di aranceti fino al 1993, quando storia vuole che l’imprenditore genovese Angelo Ravano, tornando a casa con l’aereo, vide gli spazi dove realizzare il grande terminal container che è oggi, uno dei primi del Mediterraneo.

Il Partito Democratico ha proposto una riforma della legge 84/94 che mira principalmente a sfoltire questo folto popolo di porti. Curata e presentata ad aprile dal senatore Marco Filippi, accorpa e riduce le autorità portuali a 14, vorrebbe velocizzare l’approvazione dei piani regolatori e regolamentare i servizi tecnico-nautici (ormeggio, rimorchio e pilotaggio). Non è chiaro però in che modo intenda intervenire sui meccanismi di nomina dei presidenti e sui vincoli alle loro qualifiche professionali.

Riforma
Le scuole di pensiero per riformare i porti italiani possono riassumersi in due posizioni, entrambe valide ed entrambe con le loro controindicazioni. La prima è quella che intende mantenere l’attuale approccio “statale”, ed è ovviamente preferita dai politici. Si sceglie di riformare la “testa”, la governance ministeriale dei porti. Una strada potrebbe essere la riforma della pubblica amministrazione, una nuova regolamentazione sugli appalti, il ripristino di quello che una volta si chiamava ministero della Marina Mercantile. La seconda scuola di pensiero è quella privatistica, logicamente preferita dagli imprenditori portuali, che interviene direttamente sulla natura giuridica delle autorità portuali seguendo il modello di efficienza nordeuropeo.

Il segretario generale viene sostituito dall’amministratore delegato e il presidente politico da un presidente-manager. Questo modello è quello più utilizzato nel mondo, soprattutto nei paesi dove il trasporto delle merci via mare è una quota considerevole (Cina, Olanda, Germania, Belgio, Stati Uniti, Brasile, solo per citarne alcuni). Stabilisce una specie di organizzazione federale dei porti: godono di autonomia finanziaria, potendo trattenere parte del loro gettito fiscale, possono acquistare terminal o costruirne di nuovi (l’Autorità portuale di Rotterdam sta ultimando il terminal container più grande d’Europa, il Maasvlakte 2, esteso più di mille campi di calcio).

Le due scuole di pensiero hanno entrambe i loro vantaggi, ma entrambe sono complicate da attuare in tempi brevi in Italia. Il modello statale potrebbe soltanto peggiorare la situazione, per esempio moltiplicando le spese e la burocrazia (si pensi al ritorno del “ministero del mare”), a meno che non porti con sé una vera riforma della pubblica amministrazione. Il secondo modello, quello “federale”, potrebbe portare a enormi speculazioni. Al momento si è scelto la strada dell’immobilismo, e il commissariamento di un terzo dei porti in Italia ne è la prova evidente. Forse per la fine dell’anno potrebbe arrivare la riforma del PD, che riducendo il numero delle autorità portuali faciliterebbe perlomeno la loro gestione, riducendo significativamente anche il fenomeno dei commissariamenti.