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2018/02/18

Il dolore ai tempi di Facebook



I post che hanno maggior successo su Facebook sono quelli in cui l’autore (autrice) parla di se stesso o mette foto di se stesso, ma ancor di più quelli in cui racconta di qualche dolore molto intimo. Qualche anno fa su Facebook si scriveva: “Ecco la mia foto mentre sto facendo colazione davanti al mare”. Oggi si scrive: “Ecco la mia foto mentre sto facendo colazione davanti al mare, nello stesso posto in cui venivo con mia madre quando era viva e adesso mi mancano tanto le sue carezze dolci.”

Quando, nel 2004, nell’era paleolitica ante-Facebook, aprii un blog, diverse persone mi domandavano se non mi sentissi a disagio a condividere su internet i miei pensieri. Quanta acqua è passata sotto i ponti dell’era dei social network! Il grado di intimità del mio blog era minimo a confronto con gli attuali standard! Se sui giornali si scrivono, pubblicano e leggono le notizie pubbliche, Facebook è, ogni giorno di più, il luogo delle cose intime.

Ma perché piace tanto il dolore messo in piazza? Perché riscuote tanto “successo”? E perché uno mette in piazza il proprio dolore, soprattutto su Facebook? Beh, innanzitutto per meccanismi vecchi quanto il mondo o vecchi quanto Facebook. Leggere o ascoltare del dolore altrui ci fa banalmente pensare: “Ah, che fortuna che non è capitato a me!”, ma anche, al contrario: “Ah, che sollievo constatare che non è capitato solo a me!”. In entrambi i casi, ci sentiamo sollevati e contenti e quindi esprimiamo tale emozione con apprezzamento. L’attrazione per il dolore è inoltre scatenata da una naturale morbosità: chi non si è mai fermato a curiosare quando un’ambulanza è ferma in mezzo alla strada? Il dolore, le lacrime, il dramma ci attraggono naturalmente. Tutto questo è sempre accaduto, ben prima dei social networks. Ma Facebook amplifica ogni comportamento, ogni tendenza.

Per quanto concerne Facebook, da sempre è fondato sugli assiomi: “approvo per essere approvato”, “ti metto un like perché tu lo metta a me”: una continua richiesta e soddisfazione del proprio bisogno di approvazione da parte degli altri, ottenuta in cambio del facile esercizio di approvare gli altri. Se dunque racconto delle mie emozioni più intime mentre mi sto recando al letto di morte di mio padre, so che tante persone mi dedicheranno attenzione perché io ho fatto altrettanto con loro.

Ma c’è di più. A cosa si sta veramente concedendo la nostra approvazione a mezzo like? Alle parole del nostro “amico” che ci racconta dei suoi ricordi di quando entrava in quel negozio con sua madre quando era piccolo…o invece al fatto di condividere quei ricordi con i propri “amici”? La sensazione è che ciò che stiamo apprezzando non sia tanto o solo l’oggetto del post, quanto l’atto di pubblicare quel tipo di post così intimo. La conseguenza implicita, ma chiara di questo comportamento è che chi non espone in pubblico la propria sfera intima è disapprovato socialmente. 

Se nel presente questa affermazione può apparire provocatoria e iperbolica, non è così assurdo pensare che stiamo andando proprio in quella direzione considerando l’enorme potere dei social network sui comportamenti di un animale così sociale come l’essere umano. Stiamo cioè avviandoci verso una società in cui non solo è ben visto esibire i propri dolori e nostalgie più intime, ma è socialmente disapprovato chi non lo fa. Personalmente, il mio comportamento sociale su Facebook è virato esattamente nella direzione opposta e, infatti, sto postando raramente foto mie e ancor più raramente miei pensieri e mai davvero intimi, i miei interventi su Facebook sono assai meno apprezzati rispetto alla media.

La nostalgia è forse il principale motore di Facebook, ossia di una delle maniere più comuni con cui comunichiamo.

Perché dunque oggi , il mettere in piazza il nostro dolore è un comportamento elogiato, mentre fino a pochissimi anni fa sarebbe stato giudicato sconveniente e impudico? Il mezzo è ovviamente cruciale. Negli ultimissimi tempi, l’uso che facciamo di Facebook si è così evoluto da diventare il luogo supremo di una comunicazione soft. È vero che i nostri sentimenti più profondi riguardanti una persona cara che non c’è più, un amore perduto o la nostra depressione li condividiamo con i nostri amici (anche se in molti casi i profili Facebook sono assolutamente pubblici), ma a quanti di questi “amici” racconteremmo le stesse cose faccia a faccia, guardandoli negli occhi? 

Su Facebook ci si può aprire completamente rimanendo però nascosti, si può comunicare con tutti, ma non avvicinarsi davvero a nessuno. Si crea cioè un “meta-rapporto”, che prescinde dal loro “esserci”, al punto che, se dovessimo incontrare davvero un nostro “amico” che ha letto di quanto siamo tristi e disperati perché nostra madre è appena morta, probabilmente non saremmo in grado di proseguire il discorso, che  verosimilmente si svolgerebbe su un altro piano, incentrato sulle solite cose e sui soliti argomenti.

In altre parole, il mezzo tecnologico consente un’enorme e nuova facilità di comunicazione che vive e cresce però in un piano diverso da quello reale, in cui ci si guarda negli occhi, ci si tocca, si sta in silenzio seduti allo stesso tavolo. E paradossalmente la facilità del primo tipo di comunicazione ha accresciuto la difficoltà del secondo tipo. Non è certamente un caso che gli adolescenti di oggi possano contattare chiunque senza grande sforzo (un WhatsApp non è così pregno di significato), ma la barriera per avvicinarsi davvero si è alzata rispetto a quando, per parlare con “la ragazza che ti piaceva”, dovevi alzare la cornetta e telefonare a casa chiedendo al padre o alla madre di parlare con lei. Niente “passatismo” per carità: semplice analisi del fatto che, se le pulsioni umane rimangono le stesse, i contesti e gli strumenti cambiano. E ciò cambia anche il declinarsi di queste pulsioni.

O forse c’è una profonda solitudine alla base di questi comportamenti? Guardare nelle vite altrui e quindi, per il tipico meccanismo di Facebook, esporre agli altri la propria vita perché sia guardata, è sintomo chiaro di solitudine. Si racconta a Facebook del proprio dolore e delle proprie tristezze per essere meno soli? E lo si fa anche perché si è così soli da non avere nessuno con cui parlare sul serio?

Forse questo tipo di comportamento è anche un po’ esibizionista (sempre soft…)? Ogni mattina, uscendo dalla doccia, cammino nudo per la stanza, le cui finestre sono a circa 100 m da quelle del palazzo di fronte. So che qualcuno può vedermi, ma la distanza è tale che la cosa non mi disturba, anzi mi procura un sottile piacere. Eppure non mi sognerei mai di fare altrettanto se le finestre fossero a 10 m di distanza. Quasi ogni settimana appaiono sulla mia bacheca Facebook pensieri intimi di persone con cui, faccia a faccia, non ho mai raggiunto, né credo mai raggiungerò un particolare grado di intimità. E non nascondo che la cosa un po’ mi disturba. Sarà perché io non sono capace di fare altrettanto e invece mi piacerebbe? Sarà perché anche io avrei bisogno di una valanga di like e commenti di appoggio e sostegno di fronte al dolore che, prima o poi, compare nella vita di chiunque?

Mentre penso a queste cose, per televisione appare Celine Dion che canta tra le lacrime una canzone che racconta del padre, del marito e del fratello morti di cancro di fronte ad un pubblico emozionato e coinvolto. Da qualche settimana, ho inoltre terminato di leggere un libro intimo ed intenso scritto dal figlio di un medico impegnato per i diritti umani, assassinato dai paramilitari colombiani qualche anno fa, in cui il dolore è ovviamente un assoluto protagonista. Il pubblico del concerto di Celine Dion e le migliaia di lettori di quel libro sentono compassione per quel dolore, ossia, etimologicamente, percepiscono la sofferenza altrui, desiderando alleviarla. L’autore del libro dichiara esplicitamente di essere riuscito a superare il terribile dolore di vedere il padre appena assassinato, sanguinante sul selciato, proprio parlandone, esprimendolo attraverso la scrittura. E probabilmente anche Celine Dion pensa lo stesso.

Mi chiedo dunque se l’autore dei post che trovo su Facebook, che racconta della moglie morta ancora giovane ogni santo giorno tanto da creare un tormentone infinito o le lacrime della mia amica che non riesce a superare l’abbandono del marito non nascano dallo stesso desiderio di comunicare il dolore per poterlo alleviare e per poter suscitare compassione. E cosa sarebbe del vostro pensiero se vi venisse detto che l'autore di cui sopra non ha mai, e ripeto mai, speso una buona parola per la moglie mentre era ancora in vita? E della mia amica? Poteva pensarci prima per salvare la sua relazione invece di piangere lacrime da coccodrillo su Facebook quando ormai è troppo tardi? 

Probabilmente una cantante e uno scrittore sono più bravi di loro a coinvolgere e far immedesimare chi la ascolta o lo legge nella propria intimità; verosimilmente la loro tecnica sarà migliore. 

E allora la domanda è: non è forse identico il bisogno, l’autenticità e anche il diritto di comunicare dei miei “amici” su Facebook?

2018/02/16

Rimborsi a Cinque Stelle



In campagna elettorale sono ovvie le polemiche incrociate, così come le accuse al M5S considerato dagli altri schieramenti un pericoloso concorrente. Infinite quindi le bordate contro i pentastellati  per la faccenda dei mercati versamenti ma è desolante che si truffi perfino su queste cose, soprattutto da parte di eletti. Del resto stiamo parlando di fondi che gli eletti hanno deciso di restituire al popolo, attraverso versamenti alle piccole e medie imprese italiane. Fondi che provengono dalle tasche degli eletti, non sono rubati e ritornano all'elettorato. Tanto di cappello.

Mi piace però andare controcorrente e così - se sono rimasto deluso per i parlamentari che non hanno versato quanto da loro promesso come versamenti volontari al fondo per il Microcredito - bisogna pur correttamente ricordare che i mancati versamenti sono stati meno del 5% degli oltre 25 milioni di euro che hanno nel complesso versato i parlamentari pentastellati più onesti, il che resta comunque a loro merito.

Se sono comprensibili critiche e polemiche sono infatti pur sempre fondi ingenti che i deputati degli altri partiti NON hanno versato, forse anche questo andrebbe ricordato. Piuttosto c’è da chiedersi che razza di controlli abbia fatto l’amministrazione del Movimento se per cinque anni non si sono accorti che anche tra loro c’erano i “furbi”: una volta di più, onesti e disonesti stanno da tutte le parti. 

Diciamo, più in generale, che questi furbi hanno fatto perdere al M5S quella auto-dichiarata connotazione di essere “diversi”. Purtroppo non è così e non è bello comunque dover prendere atto di queste cose. Va comunque aggiungo un altro aspetto veramente desolante: parte di questa gente che ha imbrogliato anche il proprio stesso partito verrà comunque rieletta in parlamento perché con il nuovo sistema elettorale chi era stato indicato (e le liste ormai sono chiuse) viene eletto automaticamente.

Se ci fosse stata la possibilità di scelta con il voto di preferenza probabilmente questi parlamentari disonesti sarebbero stati tutti bocciati dagli elrttori, invece resteranno comunque al loro posto anche nella nuova legislatura: è una legge davvero squallida, come volevasi dimostrare.

2018/02/12

Immigrazione e razzismo



Prendete ogni possibile aggettivo negativo per condannare l’episodio di Macerata, aggiungeteci ogni termine di disprezzo per l’autore con l’augurio che venga condannato al massimo della pena. Basta? No, raddoppiate il tutto… Ma poi fermatevi a ragionare non tanto sull’episodio criminale in sé, ma su quello che ci si è costruito sopra. A una settimana dai fatti siamo all’autoflagellazione nazionale, ci sono state migliaia di dichiarazioni, il buonismo trionfa, la sinistra (more solito) si è già spaccata anche solo nel decidere se fare o meno manifestazioni varie di antifascismo, ma senza che si abbia il coraggio di dire che queste (brutte) cose succedono perché per anni si è fatto finta di nulla e soprattutto senza tener conto che – a parte i pazzi – la gente è esasperata sul serio.

Il ritornello è “minimizzare” non l’aggressione – utile in fondo perché fa tanto “Salvini e Meloni istigatori fascisti” e quindi è merce buona per la campagna elettorale - ma minimizzare il malcontento e depotenziare i rischi del fenomeno immigrazione nella sua globalità. D'altronde non è vero che in Italia ci siano solo 500.000 persone senza documenti in regola perché purtroppo sono molte di più, ma non bisogna dirlo.

Quanti di voi hanno visto o letto dell’incendio che due settimane fa ha bruciato un intero campo profughi in Calabria con almeno 1500 immigrati allo sbando senza più nulla (né controlli), ora finiti chissà dove? Forse che in quella baraccopoli – così come in tante altre - erano presenti la legge o lo Stato?

Non è vero soprattutto - come sostiene Minniti - “Li abbiamo fermati”: solo la scorsa settimana a decine sono morti in mare ed erano tutti pakistani, ovvero “immigrati economici” a nessuno dei quali - in teoria – si sarebbe dovuto concedere asilo.  Leggi assurde che non affrontano i problemi personali: diventa fuorilegge gente che da anni lavora seriamente per integrarsi, ma viene formalmente espulsa (entrando così in clandestinità) mentre migliaia di altri disperati arrivano, si piazzano, delinquono spesso perché non hanno nulla altro da fare per vivere, perché non possono lavorare legalmente e quindi sono oggetto di abusi. Ma alla fine per la legge sono tutti uguali, senza verificare i buoni e i potenziali pericolosi. 

Intanto nessuno ammette - per esempio - il progressivo radicamento della mafia nigeriana che dopo la prostituzione sta impadronendosi del mercato degli stupefacenti e della droga, peggio della camorra nostrana. Mille articoli su Macerata, pensateci, ma quasi nessuno è andato ad approfondire perché la povera Pamela si drogasse proprio lì, e da dove venivano quegli stupefacenti. Un fenomeno che dilaga, ma non si può più proseguire senza affrontare i casi personali e le storie umane che ci stanno dietro.

Il primo passo è che bisognerebbe intanto fermare, filtrare e controllare gli arrivi perché è ridicolo, assurdo, profondamente ingiusto dare spazio a chi arriva senza regole né guerre alle spalle e fermare chi invece vuole arrivare in Italia con i documenti a posto, mentre questure e prefetture sono sommerse dalle pratiche. 
I “decreti flussi” – mezzo legale per arrivare in Italia e che andrebbero incentivati - non funzionano e sono una totale presa in giro.

Renzi – che ha avuto la faccia di tolla di sostenere che la colpa è di Berlusconi - se ne lava le mani, ma basta vedere i grafici dei flussi per vedere il moltiplicarsi degli sbarchi in questo suo ultimo quinquennio

Se il 95% degli immigrati irregolari sono d'altronde immigrati “economici” (termine arido e terribile) allora servono altre regole per gestire flussi che non siano un caos di falsa accoglienza “politica” (e relativo business) mentre la gente si esaspera perché vede, percepisce, comprende di essere esposta ogni giorno a una deformazione della realtà.
Un problema europeo che non sappiamo gestire e alla fine il cerino continua a bruciarci in mano anche perché non si sa dove sia finito il minacciato “pugno duro” su Bruxelles. 

Un tema “politico” sul quale è palpabile, evidente, conclamato il fallimento della sinistra. abbiano almeno il coraggio di ammetterlo.

2018/02/10

La confession d'un gagnant du Loto



Gagner au Loto, c'est impossible? Au contraire, certains remportent même deux fois le gros lot, comme ce joueur qui a récemment encaissé un chèque de la Française des jeux de 3 millions d'euros pour la seconde fois de sa vie. Gerard (nom de fantasie), lui, n'a gagné qu'une fois. Mais, devenu riche, il continue à jouer. Il témoigne.

Je m'en souviens comme si c'était hier. J'ai gagné le gros lot il y a pile cinq ans et demi. C'était un mardi. Le 14 février 2006, le jour de la Saint-Valentin. J'avais 36 ans. J'étais séparé de la mère de mon fils et celui-ci dormait à la maison ce soir-là. On est allés au café du coin, qui vendait aussi des journaux. Je lui ai acheté une petite voiture et, moi, je me suis cherché un magazine. Il n'y avait pas celui que je voulais, alors, à la place, j'ai tenté un Loto Flash. J'ai misé 10 euros. Juste comme ça, je ne jouais jamais. 

Le lendemain, je repasse devant le café. Il y a une pancarte énorme : "Ici, on a gagné 7 millions d'euros." Je rentre, je passe mon ticket dans la machine et, oui, je suis le gagnant de la supercagnotte. J'ai passé un quart d'heure sans bouger. Le patron, que je connaissais un peu, a sorti le champagne. Il n'arrêtait pas de me parler, je ne l'écoutais pas, mais il ressassait en boucle. Il pianotait sur sa calculatrice et disait : "Si tu places bien ton argent, ça va te faire du 15 000 à 20 000 euros par mois sans rien faire." Il était surexcité. Et moi, j'étais ailleurs, complètement amorphe. 

J'ai appelé la Française des jeux et on m'a donné rendez-vous à Paris quatre jours plus tard. Quatre jours d'angoisse ! Car on t'explique calmement que le chèque est remis au porteur du ticket gagnant. Si tu le perds, c'est dommage pour toi... Alors, tu ne penses qu'à ça, à ne pas le perdre. Je ne suis pas sorti de chez moi pendant quatre jours et je n'ai pas dormi non plus. Je gambergeais comme un malade. 

Est-ce un rêve ou la réalité ? Qu'est-ce que je vais faire de ce pactole ? À qui je dois le dire ? Le plus génial, c'est que cet argent m'est tombé dessus à un moment où j'étais vraiment dans la m... J'ai un CAP de tourneur-fraiseur, mais le boulot à l'usine, ça n'a jamais été mon truc. Alors, j'ai fait plein de métiers différents : crêperies, restaurants de plage, pizzerias. Quelques mois auparavant, je m'étais mis à mon compte et lancé dans la fringue. Ça ne marchait pas du tout. J'étais en dépôt de bilan, à deux doigts d'être interdit bancaire. 

Le lundi suivant, j'ai enfin récupéré mon chèque. Et là, je me suis dit : "Tu as 7 millions d'euros, tu vas claquer 1 million tout de suite." Comme ça, pour le plaisir. J'ai commencé par déménager, aussi sec. Pas question de rester dans ce quartier alors que les gens me regardaient comme le "gars qui a gagné le gros lot". Trop dangereux. Je me suis acheté une maison de 400 mètres carrés à l'autre bout de la ville**. Et puis, il a fallu la meubler... Mais je voulais vraiment de belles choses.

J'ai foncé en Italie, le royaume du design. J'ai passé une semaine dans un palace de Milan avec ma fiancée pour sélectionner mon canapé en cuir fait sur mesure. Dans les grands hôtels, je n'étais pas trop à l'aise. Je me déguisais en superriche : je déambulais en costard-cravate, je cachais mes tatouages sous des chemises à manches longues, alors que je ne suis bien qu'en jean et baskets. Et puis, j'ai découvert que les très riches sont souvent habillés n'importe comment... 

J'ai fini par trouver le canapé de mes rêves à un prix totalement indécent. Après, on est allés à Monaco. On a regardé les yachts, c'était trop cher. Mais je me suis fait plaisir avec un billard français fabriqué aux dimensions de mon salon. Je dépensais à peu près 10 000 euros par semaine. On a écumé les restaurants trois-étoiles. On passait quatre heures à table, en goûtant des vins inoubliables. J'ai pris 4 kilos en deux mois ! 

Après mon gain, j'ai rencontré d'autres "grands gagnants" par l'intermédiaire de la Française des jeux. Ils sont nombreux à ne rien dire à personne et à ne rien dépenser. Ils ont peur du qu'en-dira-t-on. Moi, je leur dis: si vous avez envie de changer de femme, de bagnole, de maison, faites-le. Sinon, à quoi ça sert de jouer au Loto ? Personnellement, j'ai joué, j'ai gagné, j'en profite. La moto, c'est ma passion. 

Avant de gagner, je roulais très vite avec une sportive. Je m'en suis séparé, je me suis acheté trois Harley-Davidson et j'ai ralenti l'allure. Je pensais que ça serait trop con de mourir maintenant ! Ah oui, je me suis aussi offert une Audi Q7. Avec le recul, ça faisait trop frimeur. Je l'ai revendue, je roule en Aston Martin.

J'ai bien rigolé avec les banquiers, aussi. J'étais client de BNP Paribas et ils me faisaient la vie dure. Quand j'ai gagné au Loto, ils ont radicalement changé d'attitude. Ah, ah, mais je les ai lâchés pour un concurrent, mon chèque sous le bras. Trois mois après, ils m'ont rappelé pour tenter de me récupérer. Ils me draguaient à mort. Ça m'a bien fait rire. Ils m'ont invité quatre jours à Paris, tous frais payés, pour assister en loge à des matchs à Roland-Garros (quart de finale, demi-finale, finale). 

Ils m'ont sorti le grand jeu, digne des super-VIP, j'ai même déjeuné avec Yannick Noah. Mais j'ai choisi de placer mon magot dans une autre banque, qui m'a invité à l'Opéra alors que je déteste ça ! Je gagne 12 000 euros par mois sans toucher à mon capital. J'ai pas mal investi dans l'immobilier. J'ai aussi monté une épicerie italienne, où je passe quelques heures tous les jours. Je dois continuer à travailler. Qu'est-ce que je raconterais à mes proches si je passais toute la journée en pyjama à regarder des DVD ?

Quand on est riche, le risque, c'est de se retrouver tout seul... Quand on gagne au Loto, de toute façon, le rapport aux autres change. Et ça, on ne peut rien y faire. C'est pour cela que je n'ai rien dit à mon gamin. Il pense que mes affaires marchent bien. Comment lui expliquer qu'il faut travailler en classe, sinon ? Je l'ai dit à mes parents, à mes frères et soeurs et à quelques amis. J'ai remboursé les emprunts immobiliers de mes frères et soeurs. Après, des potes, tu en perds forcément. 

Certains me demandaient sans cesse de l'argent. Mais j'ai réussi à garder mes meilleurs amis. Je ne leur ai pas donné d'argent, mais je leur ai offert à chacun une moto et je me suis parfois porté caution pour leur maison. Au début, ils avaient des complexes à m'inviter manger une pizza avec une bière, juste comme avant. Mais, moi, je m'en fous. Je n'ai pas changé. Et puis, je ne vais pas me goinfrer de caviar matin, midi et soir ! Ce qui m'importe, c'est d'être avec eux.

Avec mon père, c'est compliqué. C'est un ancien ouvrier à la retraite, et il a mal pris ma richesse soudaine. Il me dit toujours : "Mais qu'est-ce que tu as encore acheté là ! "Ça lui fait peur, ça l'énerve, il ne comprend pas. Je lui ai proposé de refaire sa maison, de lui payer un voyage, il a tout refusé. Quelques mois après mon gain, je me suis séparé de ma copine. J'ai aujourd'hui une fiancée dont je suis très amoureux. Mais, avec les filles, la richesse complique les choses. Je me demandais : est-elle avec moi pour mon argent ? Souvent, lors des premiers rendez-vous, je ne viens pas avec ma voiture perso et je ne les emmène pas dans ma maison, mais dans le studio d'un pote. Ça permet de se faire une idée... 

En fait, le seul truc négatif de cette chance qui m'est tombée dessus, c'est que tu es obligé de mentir tout le temps à tout le monde.

2018/02/04

Fissando un quadro che non si conosce....


Ieri ho scritto, per Il Fatto, una cosa molto personale. Eppure di tanti milioni di persone che so, capiranno:

Una delle principali industrie farmaceutiche del mondo ha deciso di sospendere la ricerca sui farmaci per combattere l’Alzheimer. E allora vi racconto una storia- la mia- che probabilmente somiglia alla storia di tante persone che sperano che la scienza non le abbandoni.

“La nonna viene a stare da noi per un po’.”. “Per un po’ quanto?”. “Per un anno.”. Avevo 15 anni e quando mia madre mi annunciò la cosa e mi parve un’idea di quelle belle. Mia nonna (mamma di mia mamma) mi piaceva un sacco. Viveva a 600 km da noi, era vedova da tempo di un uomo che era stato capitano di navi in giro per il mondo e la vedevo poco. Un po’ d’estate, quando mia madre lasciava me e i miei fratelli con lei in montagna.

Aveva 80 anni ed era stata un donna molto bella, una stanga biondissima, occhi verdi, un seno prorompente e un carattere di ferro, vagamente addolcito con l’età. Cucinava, lavorava a maglia e creava dei maglioni pazzeschi, disseminava la casa di riviste tipo “Gente” e altre letture frivole da signore annoiate. Era una donna di compagnia, mi diceva sempre che ero bella (“Hai un bel figurino!”) e in adolescenza era una carezza di quelle rassicuranti. Non capii fino in fondo perché mia nonna veniva a stare da noi. Un vago “Sta poco bene” aveva risolto la mia curiosità. Mia nonna veniva a stare da noi perché aveva l’Alzheimer. Non poteva più vivere da sola. La mamma aveva deciso che lei e i suoi due fratelli l’avrebbero tenuta con sé un anno per uno. Noi eravamo i secondi, in questo triste turno, solo che io non avevo capito. E forse, nessuno di noi aveva davvero capito cosa significasse questa malattia il cui nome, che poi è il nome dello psichiatra tedesco che l’ha studiata per primo, ha il suono duro delle cose che non lasciano scampo.

Quell’anno fu devastante. Per noi, per mia madre, per mia nonna. E’ difficile spiegare cosa sia l’Alzheimer, quante sfumature contenga questa malattia e quante nuove sfumature riesca a creare con malefica prolificità ogni giorno. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. “Polpette, nonna!”. “Oh bene, mi sono sempre piaciute le polpette!”. Trenta secondi dopo. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. Questi furono gli esordi. Io e miei fratelli, all’inizio, col sadismo tipico dell’adolescenza, ci ridevamo su. Ogni tanto ci divertivamo a darle le stesse notizia del tg ogni due minuti, per sganasciarci di fronte alla sua sorpresa sempre rinnovata. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviario?”. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviario?”. Una, due, tre, quattro volte di seguito. Finché non dimenticava tutto, per poi ricominciare. “Ehi nonna, sia che c’è stato un incidente ferroviario?”. Eravamo scemi, eravamo inconsapevoli. Non vedevamo il baratro. Mia nonna non poteva capire cosa le stesse accadendo, ma poteva sentire.

Sentiva che si annoiava, che la mente non le faceva più compagnia. Quando i ricordi si sgretolano, quando resta solo il presente, il presente va riempito. E quindi mia nonna iniziò a chiederci ininterrottamente “Posso fare qualcosa?”. Solo che lei iniziava a fare qualcosa e poi dimenticava quello che stava facendo. La vedevamo smarrita, in mezzo a un corridoio di una casa che tutti i minuti conosceva per la prima volta, con un piatto in mano. Un minuto prima le avevamo detto: “Sparecchia se vuoi!”, lei si lanciava entusiasta sulla tavola e poi due passi dopo non sapeva più perché avesse un piatto in mano. Perché fosse lì. E qui -è una cosa orribile da dire, ma i parenti dei malati di Alzheimer si scoprono delle persone orribili, talvolta- iniziò la nostra insofferenza. 

“Fammi fare qualcosa!” era lo scoglio a cui si aggrappava per non farsi inghiottire dal buio della sua mente. Ed era il nostro incubo. Quelle domande ripetute erano una goccia cinese che caricava la nostra quotidianità di nervosismo e intolleranza. Iniziammo a sbuffare, a risponderle male, qualche volta. O a ignorare le sue domande ossessive, che era anche peggio. 

A mia nonna si stava sgretolando anche il presente.

Allora le affidammo i suoi amati ferri. Qualche gomitolo colorato comprato a caso in una merceria. “Fammi una sciarpa!”, “Fammi un cappello!”, mentivamo. Il movimento dei ferri era una delle poche cose che non aveva dimenticato. Il suono delle due bacchette che si toccavano ritmicamente era la colonna sonora delle nostre giornate. Dei miei compiti. Delle serate davanti alla tv. Le sciarpe, i maglioni, i cappelli, mia nonna non li finiva mai. Ricordava la gestualità, ma non il disegno. Le sue mani andavano da sole, era stato come essere salita sui pattini dopo tanto che non ci vai. I piedi, la gambe, hanno una loro memoria fatta d’istinto. La mente no. Lo schema della sciarpa non riusciva a comporlo. Allora io e mia mamma, quando lei andava a letto, le smontavamo quel ritaglio di maglia che aveva creato e il giorno dopo lei iniziava daccapo, senza ricordare, sorprendendosi dei gomitoli nuovi, del lavoro da fare. Era una Penelope smemorata, mia nonna. Una Penelope da cui non sarebbe tornato nessuno. Da lei tutto andava via, si staccava, partiva. Per sempre.

Poi non fu più autonoma in nulla. L’Alzheimer è una malattia degenerativa di quelle che corrono in maniera imprevista. Mia mamma le faceva il bagno. Le sentivo litigare, fuori dalla porta. “L’acqua è troppo calda!”. “Mi fai male.”. “Lo shampoo puzza!”. Per via della malattia, stava diventando capricciosa, ostile, aggressiva. Mia mamma, che ne aveva patito la severità da bambina, rivedeva un film antico. Doveva improvvisamente trattare come una bambina una donna che non le aveva mai consentito di essere una bambina. L’Alzheimer polverizza o amplifica certi aspetti del carattere, è un perfido silenziatore e un’infame megafono, a seconda dei casi. Con mia nonna fu megafono. Era stata una donna dura, diventò “nemica”. Cominciò a svegliarsi la notte. Alle due, alle tre, alle quattro. Ci tiravano giù dal letto urla disumane. “Mi avete catturata!”. “Bastardi, mi tenete prigioniera!”. “Dove sono?”. “Non mi toccare!” “Mi vuoi uccidere!”. Non ridevamo più. Eravamo pugili suonati dall’angoscia e dallo stupore. “Perchè la nonna è diventata cattiva?”. Non sapevamo. Nessuno sa cosa sia davvero l’Alzheimer se non ci passa attraverso. Forse ci odiava, forse la odiavamo. Smise di farci ridere, smise di farci pena. Contavamo i giorni che mancavano alla sua partenza. Alla fine di quell’anno cominciò a non riconoscerci più. Mi scambiava per una cugina, per un’altra nipote. Non riconosceva più sua figlia, di tanto in tanto. Intanto, il suo fisico, la teneva in piedi. Tutto quello che si sgretolava in lei, era dentro di lei. Nella sua testa. Poi arrivò il giorno in cui andò dall’altro figlio e non la vedemmo più. Morì un po' di tempo dopo. Fu strano, perché quella notizia non ebbe il suono della notizia: per noi la nonna non c’era già più. Lei non ci riconosceva più, noi non la riconoscevamo più. Sono passati trent’anni.

C’è un’altra Penelope, nella nostra vita. E nonostante l’infame ci abbia trovati pronti, ci si sente anche noi, smarriti come in un corridoio, con un piatto in mano, fissando un quadro che non si conosce.

(scritto da Selvaggia Lucarelli per il Fatto Quotidiano, 2018)