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2020/02/18

Greta chi? Nessuna prova scientifica del riscaldamento globale.



Il mio amico Franco Battaglia scrive:

Un caro amico ingegnere col quale di tanto in tanto scambiamo quattro chiacchiere al bar, m’ha così lucidamente espresso alcune sue riflessioni sulla questione del clima che, almeno all’osso, val la pena qui riportarle. La scienza, osserva Giuliano (il nome dell’amico ingegnere, un fuoriclasse dal Politecnico di Milano), è fatta di errori che sono ammessi, ma la scienza punisce chi mente.

La strada degli scienziati, anche dei più grandi, è lastricata di sbagli e cantonate. In effetti chi per mestiere fa lo scienziato sa bene quanto una clamorosa cantonata possa assomigliare a un’intuizione geniale. Ma il cuore del metodo galileiano è la verifica sperimentale, che dà agli scienziati la straordinaria libertà di concedersi a ipotesi quanto mai azzardate, ma con la consapevolezza di poterle sottoporre a controllo. Nel caso del riscaldamento globale, della sua origine antropica non esiste alcuna verifica sperimentale, né prova alcuna che possa avvalersi della qualifica “scientifico”. Anzi esistono prove fattuali incontestabili che la contraddicono.

La congettura che addebita all’uomo il riscaldamento globale appartiene così ad una realtà virtuale che è ben diversa dalla realtà reale, ben rappresenta dalle parole della nostra cara Greta seguite a quel famoso “ci avete rubato il futuro”, e cioè: «non avete fatto niente in 25 anni». Greta ha così sancito il de profundis della COP-25 di Madrid.

In sostanza, la realtà virtuale va da una parte, con tante, tantissime chiacchiere, proclami, annunci, promesse, una copertura mediatica molto ampia ed una propaganda ossessiva. Il tutto per produrre poco o nulla in termini concreti (da cui il lamento di Greta), mentre la realtà reale va da tutt’altra parte. Paesi come Stati Uniti, Canada, Brasile, India, Cina (che ora ha sicuramente altre priorità), Australia, hanno contribuito al fallimento del Trattato di Parigi e al flop della COP-25. Ma anche in Europa, che si dichiara la parte “virtuosa”, non si è fatto niente, come osserva la piccola innocente. Persino i Paesi che si dichiarano pronti a finanziare il Green New Deal, pongono severi limite agli investimenti cosiddetti verdi.

Alla fine della fiera, quel 97% degli scienziati che secondo quella certa statistica farlocca  che piace tanto ai gonzi – ha ricevuto da Madrid una bastonata nelle parti basse che ricorderanno a lungo, e che li ha trasformati in eunuchi impotenti.

Potremmo anche concludere che – come s’usava poco appropriatamente dire per la filosofia – la climatologia dei suddetti eunuchi è una disciplina – ma ora molto appropriatamente – con la quale o senza la quale il mondo rimane tale e quale.


Franco Battaglia, 15 febbraio 2020

2017/01/18

Riscaldamento globale Glaciazione Europea, cosa non va?



Il pianeta si sta riscaldando? Lo affermano tutti, tecnicamente è riscaldamento antropico. Ma cosa significa in realtà? Riscaldamento globale non significa solo parlare di anidride carbonica, ma di Sole e di tutti quei fattori antropici o naturali capaci di modificare su varie scale temporali, la temperatura del pianeta, è però interessante ripercorrere la strada che ha portato dai primi pionieri dell'effetto serra, alla certezza che le attività antropiche sono in grado di modificare, in buona misura, la composizione atmosferica e quindi la temperatura globale. La teoria del ‘cambiamento climatico di origine antropica’ è un’ipotesi infondata secondo cui il nostro clima è stato influenzato negativamente dall’utilizzo dei combustibili fossili. Utilizzo che negli ultimi 100 anni ha leggermente aumentato la temperatura media sulla superficie terrestre, con conseguenze ambientali disastrose secondo una parte della scienza. L'altra parte afferma esattamente il contrario. In effetti non è l'utilizzo dei combustibili fossili il problema vero ma l'emissione di CO2 in grandi quantità e questa, si è visto, non deriva solo dai combustibili fossili ma dai bovini.

Nel secolo precedente, quello dei nostri nonni, il numero di ruminanti distribuiti sulla superficie terrestre era inferiore di circa il 70% rispetto ai valori attuali. I gas a effetto serra emessi dal bestiame, sono responsabili di circa il 10% delle emissioni a effetto serra globali. Il bestiame rilascia metano attraverso i microorganismi che sono coinvolti nel processo di digestione animale, e protossido di azoto attraverso la decomposizione del letame. Il 74% delle emissioni mondiali è causato dai bovini. Questo è principalmente dovuto all'abbondanza di vacche da latte ma anche dalla grande quantità di metano e protossido di azoto emessi dai bovini da carne rispetto agli altri animali. Le pecore contribuiscono per il 9%, i bufali il 7%, i maiali il 5% e le capre il 4%.

Ciò che in un certo momento sembra corretto, può diventare nel tempo, incerto, superato o sbagliato, alla luce di nuove tecniche di indagine e di nuovi dati osservati. Ci sono tanti esempi nella storia della scienza; la continua evoluzione delle tecniche di misura, delle teorie e l'ampliamento dei dati a disposizione, permette di sviluppare ipotesi sempre più precise ed articolate, e di verificare le teorie con nuovi dati. 

Così è avvenuto nelle ricerche sul cambiamento climatico dove si è arrivati ad attribuire all'anidride carbonica, da prima considerata un gas di scarso rilievo perchè presente solo in tracce nell'atmosfera, il ruolo di termostato atmosferico. Tuttavia la teoria che un aumento di anidride carbonica nell'atmosfera, aumenterebbe le temperature globali, e causerebbe altre modifiche al clima della Terra, pur non essendo nuova, lascia ancora ampi margini di interpretazione. Da quasi 200 anni si addebita a essa le responsabilità del nostro attuale stato, tuttavia i carotaggi profondi effettuati in Antartide, dicono che un riscaldamento globale è avvenuto in passato e la colpa non era certo dell'uomo che, a quel tempo, parliamo di 600 anni fa,  e come spesso accade, all'inizio fu avversata da molti scienziati, prima di di arrivare a una condivisione.

Tuttavia alcune considerazioni sono importanti. Nella fisica di un sistema caotico, come lo è la meteo, gli eventi possono accadere con le frequenze su tutte le scale temporali. Qualsiasi punto su una pianura può essere inondato fino ad un certo livello su tutte le scale di tempo, da cinque giorni, ad un mese, a milioni di anni, è del tutto imprevedibile. E allora? Come è possibile affermare che il pianeta si sta riscaldando?

Una massa calda di acqua dolce si alza e si sposta a nord attraverso l’Oceano Atlantico.
È diretta verso l’Artico. Lì, venti gelidi le sottrarranno calore e liquido dalla superficie e l’acqua affonderà, più fredda, più salata, più densa fino al fondo dell’oceano – e comincerà un lento viaggio di ritorno verso le latitudini più basse, scivolando sotto altra acqua calda, diretta a nord.

Tutto quel calore portato via dalla sua superficie rimodella il clima locale. Entra nell’atmosfera del Nord Atlantico, riscaldando appena appena il clima di luoghi come l’Islanda, la Gran Bretagna e il Nord Europa. Questo è il motivo principale per cui queste regioni sono, se non calde, almeno vivibili.

Il ciclo di acqua più dolce, più calda che si muove verso nord al di sopra di acqua più salata, densa e fredda diretta a sud nell’Atlantico settentrionale, si chiama Circolazione Termoalina Meridionale Atlantica (o AMOC per Atlantic Meridional Overturning Circulation). Fa parte di un complesso sistema globale tridimensionale, basato su differenze di salinità, densità e temperatura, che fa circolare calore e materia per le profondità degli oceani in tutto il mondo, detto anche Grande Nastro trasportatore (nell’immagine qui sotto).

Il grande nastro trasportatore, o circolazione termoalina. Luis Fernández García/Wikipedia

E sta cambiando. In un trend che risale al 2004, l’AMOC ha visto una diminuzione di circa due terzi della sua forza precedente, il che può aver portato ad alcuni inverni rigidi nel Regno Unito e in Europa occidentale. Alcuni scienziati hanno anche agitato lo spettro di un crollo totale dell’AMOC – un paradossale scenario di riscaldamento che porterebbe a inverni molto più duri e all’espansione delle calotte di ghiaccio nel Nord Atlantico. Sarebbe un paradosso, ma non impossibile, conseguenza di un riscaldamento globale.

Vi ricorda qualcosa? Forse ai cinefili più incalliti: se ne parla nel bizzarro film del 2004 “The Day After Tomorrow”. Confesso di non averlo visto di recente, ma ecco il riassunto di quello che ricordo dall’unica volta in cui l’ho visto: uno scienziato coraggioso assiste al distacco di un’enorme parte della banchisa antartica (che peraltro sta realmente avvenendo ndr) mette in guardia i suoi colleghi che l’AMOC collasserà nel giro di alcuni anni.

Ma loro gli rispondono tipo: “Naaa!”. Invece, naturalmente, l’AMOC crolla tutto d’un tratto. Ed è un bel problema! Ora ci sono tre giganteschi uragani di ghiaccio e tutti devono correre via dal Messico, o era la Biblioteca Pubblica di New York? Comunque alla fine il vice presidente, che ha una vaga somiglianza con Dick Cheney, chiede scusa.
Quel film era, certamente, non proprio scientifico. E negli anni a venire è diventato una sorta di parodia per fare a pezzi i veri climatologi.

Ma una nuova ricerca suggerisce che il seme su cui quell’idea è cresciuta – che il cambiamento climatico potrebbe guidare un crollo totale dell’AMOC – potrebbe essere una minaccia ben più significativa di quanto chiunque si renda conto.
In un documento pubblicato la settimana scorsa su Science Advances il geofisico di Yale Wei Liu e i suoi coautori dimostrano quella che dicono essere una significativa distorsione nei modelli climatici esistenti riguardo alla stabilità dell’AMOC, e mostrano come l’aumento di calore e di CO2 nell’atmosfera potrebbe direttamente portare al collasso dell’AMOC.

“I modelli climatici attribuiscono eccessiva stabilità all’AMOC” ha detto Liu a Business Insider. “I modelli lo mostrano molto stabile. Persino in caso di surriscaldamento globale, registra soltanto un indebolimento moderato”.
Ma il suo lavoro, dice, basato su osservazioni recenti del mondo reale, mostra che l’AMOC potrebbe passare da un equilibrio – stabile – a un altro – collassato – in un lasso di tempo abbastanza breve, geologicamente parlando.

“In questo scenario, il raffreddamento nell’Atlantico del nord sarebbe così forte che supererebbe il riscaldamento [in quella regione], portando, al netto, ad un raffreddamento nell’Atlantico del nord”.
Il risultato? Anche quando il resto del mondo si riscalda, parti d’Europa potrebbero sperimentare significanti raffreddamenti annuali, per un periodo di alcuni secoli.

Liu avverte che questo risultato si basa ancora su un unico modello. Invece di lavorare su un costante aumento di CO2 nell’arco di decenni, lui e i suoi coautori hanno utilizzato un semplice raddoppio del CO2 tutto in una volta, dopo di che resta costante nell’atmosfera. Questo è un modello più approssimativo, ma i suoi risultati sono abbastanza significativi per indicare la strada verso la ricerca futura. Liu ha detto che il prossimo passo per i ricercatori è quello di eseguire esperimenti simili in tutta una vasta gamma di modelli complessi.

Più informazioni ricavate da modelli faranno brillare di nuova luce l’ipotesi secondo cui un collasso totale dell’AMOC è probabile, e indicherebbero quali regioni potrebbero essere influenzate, e in quanto tempo potrebbe accadere.

2016/01/05

Trappole climatiche e antropogeniche, in sintesi: ci stanno fregando!



Tra revisionismi, correzioni e ipocriti silenzi, la religione del clima esce dalla Cop21 di Parigi piuttosto acciaccata. All’apparenza compatta nell’obiettivo prometeico: contenere l’aumento temuto della temperatura del pianeta, entro la fine del secolo, sotto i due gradi (1,5). 

In realta’, tra le pieghe, pesantemente, segnata da divisioni, scetticismi, sospetti, fardelli propagandistici e aspettative non credibili. Premessa: il dogmatismo climatico e’ segnato da quella che si potrebbe definire la trappola della CO2. Vale a dire, la pretesa di ridurre il clima, fenomeno caotico per eccellenza, a un modello di laboratorio, astratto e informatico, movimentato da un solo fattore: la quantita’ di CO2 antropogenica immessa in atmosfera. 

Operazione da sciamani. 

Predire matematicamente il clima, ammonisce il bistrattato professor Zichichi, comporterebbe l’uso di equazioni differenziali con un numero di variabili troppo elevato per consentirne la soluzione. Impresa razionalmente impossibile. E che riporta, piuttosto, alla mente il diavoletto di Maxwell che divide le singole molecole di gas (per ridurre la probabilita’ a certezza) o l’apologo di Laplace: “ …se esistesse una possibilita’ di calcolare e misurare i movimenti di ogni singola particella fisica, sarebbe possibile descrivere passato, presente e futuro del mondo con esattezza matematica…”. 

Esattamente quello che pretendono di fare gli ideologi dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il club internazionale di esperti governativi custode della dottrina ufficiale sul clima. E’ ovviamente impossibile controllare le interazioni della meccanica del clima, al fine di prevederne l’evoluzione. Un calcolo che comporterebbe, esattamente come il diavoletto di Maxwell, la misura di ogni gas o composto atmosferico e del feedback con fattori, naturali e artificiali, variabili nel tempo. 

Impossibile. 

E cosi’, per comodita’ intellettuale, i modellisti del clima hanno ridotto gli algoritmi a una sola variabile: i tassi di CO2 antropogenica immessi in atmosfera. 

Rasoio di Occam? No: riduzionismo elementare. 

Che produce, percio’, modelli irreali, distanti da un effettivo rispecchiamento della realta’, artificiali e, puramente, ipotetici. Basti dire che vengono esclusi, dagli algoritmi della modellistica del clima, i fattori chiave dei suoi andamenti evolutivi, quelli naturali: attivita’ del sole, magnetismo terrestre, oscillazioni orbitali, irraggiamento cosmico ecc. Perche’? Non tanto per la difficolta’ di misurare tali fattori quanto una pretesa programmatica intenzionale: isolare l’attivita’ umana (la CO2 antropogenica) come esclusivo fattore di incidenza. Al fine di farne l’imputato unico del riscaldamento. 

Una metodologia, osserverebbe Einstein, poco “elegante”. 

Essa semplifica l’oggetto indagato, il clima, oltre il lecito e il necessario, riduce eccessivamente la complessita’ delle variabili e insinua nei calcoli un solo fattore ad hoc, una singola costante, i volumi di emissione della CO2, per giungere a esiti pre-determinati. Nella dottrina del clima, i tassi di emissione della CO2 antropica funzionano come una sorta di termometro artificiale: tarato su una scala in cui a ogni grado di misura delle emissioni corrispondono temperature. E a ogni grado di temperatura corrispondono eventi deterministici e effetti conseguenziali. Fino a una soglia, i due gradi di aumento rispetto alle medie attuali, che segna un avvento: l’inizio di un’epoca di catastrofi. 

Insomma: millenarismo. 

Nella letteratura dell’IPCC, l’evoluzione climatica viene raffigurata in modelli predittivi e “scenari” (a 20, 30 o 50 anni e piu’) fondati, tutti, sulle medesime premesse metodologiche e differenziati, negli esisti predeterminati, solo in base a assunzioni del comportamento umano. Davvero l’uomo funziona, nei modelli dell’Ipcc, come il prometeico regolatore del clima. Una proto-scienza, insomma, quella dell’Ipcc e una sorta di religione con tutti gli ingredienti conseguenti: la pretesa del devotismo dai credenti, l’irrisione degli scettici, la scomunica dei negazionisti. Dagli “scenari” proto-scientifici dell’Ipcc, si pretende di dedurne prescrizioni e dettare comportamenti per i policy makers, condotte dei governi e contenuti delle agende politiche. 

Il problema e’ che, col passare degli anni (siamo ormai con quella di Parigi del 2015 alla 21 conferenza sul clima e a 25 anni dalla “madre” di tutti gli eventi sul riscaldamento climatico, la Conferenza di Kyoto del 1997) la dottrina del clima mostra una crescente e imbarazzante contraddizione: l’allarme degli esiti catastrofici sale sempre piu’, e sempre piu’ ravvicinato, ma l’efficacia delle prescrizioni si rivela, crescentemente, discutibile. Di piu’: la CO2 antropica, isolata e esagerata come esclusivo fattore scatenante dei cambiamenti, si rivela una trappola. 

Laddove i suoi effetti sono descritti, ansiologicamente, come sempre piu’ minacciosi, la possibilita’ e la capacita’ anche solo di mitigarne il peso in atmosfera si dimostra impossibile. In 25 anni di politiche anticarbonifere e in 20 anni di denunce e prescrizioni dell’IPCC, la quantita’ di CO2 antropica in atmosfera e’ aumentata del 60%. E con essa i costi della (inefficace) mitigazione. I criteri e le ricette della dottrina del clima inchiodano i governi a condotte e agende tanto piu’ costose quanto inefficaci ai fini dell’obiettivo dichiarato: un arresto della crescita delle emissioni. 

Una dottrina, quella del riscaldamento del clima, nata per contestare la sostenibilita’ dei modelli di sviluppo dell’ultimo secolo e mezzo, si va dimostrando, crescentemente, insostenibile nella costosa inefficacia delle prescrizioni. Negli ultimi quindici anni, tralaltro, in cui la CO2 e’ sempre aumentata, non si registrano aumenti delle temperature. La correlazione clima-CO2 non appare cosi’ salda. Appare salda, al contrario, la correlazione inversa tra costi delle politiche climatiche e efficacia. 

Il burden economico delle politiche del clima, tra il 2005 e il 2015, e’ impressionante: 176 miliardi di dollari (dati World Bank del 2011). E solo considerando il global carbon market: l’enorme bolla alimentata dal trading delle emissioni e e dai progetti di investimenti verdi. A questi volumi della finanza verde vanno aggiunti il costo degli incentivi fuori mercato alle energie rinnovabili e la fattura legata all’ import dei loro componenti impiantistici. Questa enorme esplosione finanziaria (in cui e’ prevalsa, col tempo, la componente puramente speculativa) ha partorito un aumento delle emissioni di CO2 e un costo dell’energia crescente. 

L’80 % del fardello di queste politiche si e’ concentrato in Europa. Dove, non a caso, il decennio del global carbon market ha coinciso con la crescita lenta, la crisi del debito e l’arretramento manifatturiero. Il bilancio delle politiche verdi comincia a indurre stress nei governi. E a Parigi lo si e’ avvertito. La trappola della CO2 comincia a far sentire la stretta dei suoi lacci. E fa aggrovigliare i calcoli. Il bilancio dei 25 anni alle spalle pesa. Il 90% del mondo, formalmente, sottoscrive l’impegno della Cop21: tenere le temperature del pianeta sotto i due gradi di aumento nel 2050. Ma il pathway verso l’obiettivo e’ del tutto incerto, evanescente e problematico. Azzerare in 34 anni le emissioni di CO2 (aumentate invece, come abbiamo visto, del 60% negli ultimi 25) e’, palesemente, irrealistico. 

Nelle stesse conclusioni della Cop21 il problema si e’ evidenziato in modi bizzarri: da un lato, l’unanimita’ commossa sull’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura sotto I due gradi; dall’altro, l’evidenza che gli impegni sottoscritti dai governi portano a sforare quel tetto e a attestare l’aumento delle temperature, oltre la soglia, a 2,7 gradi. Come dire: piena catastrofe (se stessimo alle assunzioni dell’IPCC). Quello che appare sempre piu’ imbarazzante per molti osservatori e policy makers e’ l’impasse delle politiche climatiste: raggiungere l’azzeramento delle emissioni serra al 2050, attraverso la sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili e con il risparmio energetico, e’ tecnicamente irrealizzabile. 

I conti dell’IPCC non stanno in piedi. 

Il World Energy Outlook (WEO) smentisce, clamorosamente, scenari e aspettative del climatismo ufficiale: nel 2040 le fonti fossili e emissive peseranno, ancora, per il 55% dei consumi energetici (solo 15% di riduzione, quindi, rispetto ai consumi attuali); le fonti rinnovabili rappresenteranno solo un quarto del mix di energia del 2040 (e solo comprendendo il nucleare tra le fonti carbon free). Il nucleare, tralaltro, con buona pace di Greenpeace, e’ la fonte che conoscera’ il maggiore boost rispetto ai dati attuali (con una crescita del 60%). Questa e’ la vera novita’. Che gli ideologi dell’IPCC non avevano considerato. La percezione crescente di un ruolo limitato delle tecnologie rinnovabili come sostituzione delle fonti fossili, ha riproposto l’attualita’ e l’indispensabilita’ del nucleare come fonte carbon-free. 

Con evidente imbarazzo dell’attivismo climatista. 

L’esistenza di una quota di energia nucleare, attestata piu’ o meno intorno ai livelli attuali (6% di contributo di energia e 11% di energia elettrica) e’, ormai, ineliminabile in qualsiasi scenario realistico di mix energetico che intenda ridurre la quota di gas e carbone. Con 438 reattori attivi in 30 paesi e una potenza installata di 400 GWe, il nucleare e’ diventato imprescindibile nella contabilita’ della de-carbonizzazione: in termini di CO2 evitata e in termini di mix futuro. Senza la stabilizzazione della quota attuale di contributo del nucleare al portafoglio energetico non sarebbe ipotizzabile alcuno scenario di riduzione delle fonti fossili. 

Archiviati, ormai, irrazionalismi e emotivita’del post-Fukushima, la partita del nucleare si gioca non piu’ sulla sicurezza ma, solo sulla sua affordability economica: i costi degli investimenti fissi piu’ alti comparati a quelli degli impianti fossili (gas e carbone). Uno scenario destinato a cambiare: per il peso che assumeranno le politiche di tassazione della CO2; per la possibile ripresa di investimenti orientati al lungo periodo: le tecnologie di oggi consentono a una centrale nucleare un ciclo vita di oltre 60 anni (fino a quasi 100) rispetto ai 20 di media degli impianti fossili. 

In ogni caso la de-carbonizzazione totale e’ un mito da sfatare. Secondo il WEO lo scenario che ne prevede la realizzabilita’ al 2050, risultera’ gia’ vanificato nel 2040. I numeri evidenziano un racconto del tutto diverso. Le fonti fossili (gas e carbone) copriranno, alla fine del secolo, ancora oltre la meta’ del mix energetico. Le energie rinnovabili non riusciranno a essere sostitutive delle fonti convenzionali (gas, carbone e nucleare) e si attesteranno, inesorabilmente, intorno al 30% del mix energetico. Il risparmio energetico non portera’ a una decrescita dei consumi di energia ma, in base al cosiddetto paradosso di Jevons e al rebound effect (“una risorsa energetica, resa piu’ efficiente, e’ usata di piu’”) piuttosto a un aumento di essi. La de-carbonizzazione entro questo secolo, dunque, non esiste. E, conseguentemente, si dovranno rivedere le correlazioni, schematiche e perentorie, tra CO2 e temperatura imposte dalla dottrina del clima. 

Ben piu’ importante, nel medio-periodo, sara’ un dilemma che va insinuandosi, dietro l’immagine di facciata delle foto di gruppo di Parigi. Gli ultimi 25 anni, in contrasto con la retorica climatista, hanno registrato un aumento continuo delle emissioni di CO2. Secondo alcuni a tassi che sono i piu’ alti di sempre. Sara’ un caso che gli ultimi due decenni sono stati anche quelli di una prepotente riduzione degli indici di poverta’? E dell’ingresso, a un ritmo inedito nella storia moderna, di due miliardi di persone nel perimetro dello sviluppo? C’e’ una correlazione tra i due processi? C’e’ chi non si sente di escluderlo. E inoltre. Per i prossimi 34 anni (fino al 2050) la politica “ufficiale” del clima si propone non piu’ una “mitigazione” degli impatti emissivi ma, addirittura, un azzardato “azzeramento” delle emissioni fossili e, comunque, un loro drastico abbassamento. Quale sara’ l’effetto sociale di tale proposito? Come abbiamo visto l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni carbonifere e’, tecnicamente, irrealizzabile dal lato della generazione di energia (le fonti rinnovabili si attesteranno solo sul 30% del mix di energia e sul 40 % di quello elettrico). E allora? Il timore e’ che possa farsi strada l’idea di abbordare l’azzeramento delle emissioni dal lato, invece, dei consumi. 

C’e’ un dato piuttosto inquietante degli scenari dell’IPCC per il 2050: la scarsa considerazione e, spesso, il silenzio sul tema dei consumi energetici futuri. Qualcuno (R.Partenen & M.Korhonen, Climate Gamble) vi ha visto il gioco d’azzardo che allignerebbe nella contabilita’ energetica del climatismo ufficiale: la velleita’ e l’illusione di congelare, sul lungo periodo, i consumi di energia. Tendenzialmente la domanda di energia nel mondo aumentera’ del 37% gia’ nel 2040. La popolazione mondiale, dai 7 miliardi attuali, raggiungera’ i 10 miliardi di persone nel 2050. 

Gli scenari dell’IPCC riflettono scarsamente questo dato. Nei modelli piu’ ottimistici del club del clima si percepisce una convinzione: al 2050 la dotazione di energie rinnovabili sara’ tale da coprire, da sola, il livello attuale di consumi energetici. Appunto: il livello attuale! E che ne facciamo della domanda di energia di tre miliardi di persone in piu’ esistenti a quella data? Proiettato sulla popolazione mondiale al 2050, il livello attuale di consumi soddisfarebbe solo un terzo del fabbisogno energetico dell’unanita’. Per non parlare dei numeri diffusi nei programmi dell’ambientalismo radicale. Per Greenpeace al 100% dei fabbisogni energetici al 2050 provvederanno fonti rinnovabili (80%) e risparmio energetico (20%). 

Ma il fabbisogno ipotizzato al 2050 e’ l’attuale livello dei consumi. Vale a dire: 9 miliardi e mezzo di persone dovrebbero, necessariamente, dimezzare il consumo di energia oppure, in cambio, 3 miliardi e mezzo di persone dovrebbero rinunciare, quasi del tutto, a consumare energia e elettricita’. Il sospetto dei paesi poveri o in via di sviluppo verso le implicazioni sociali e sottosviluppiste della de-carbonizzazione e’, dunque, fondato. 

La trappola della CO2 puo’ operare, effettivamente, come un fattore di freno dello sviluppo: nell’impossibilita’ tecnica di sostituire le fonti fossili dal lato della generazione di energia, qualcuno immagina, follemente, di realizzare l’obiettivo dal lato dei consumi. Una prospettiva terrificante di impoverimento e di stagnazione. E una clausola dissolvente formidabile frapposta alle aspettative dei paesi in ritardo. Strano che questo sospetto sociale e malthusiano della retorica della de-carbonizzazione sia sfuggito alla Chiesa della Laudato si. 

A Parigi, invece, nel backstage delle celebrazioni ufficiali della Cop21, la diffidenza sociale e la preoccupazione del gamble stagnazionista si e’ fatta avvertire: con il nulla di fatto sulle ipotesi di massiccio ricorso alla tassazione del carbonio; con il rifiuto dei paesi poveri di aderire, sin da oggi, a impegni troppo vincolanti sulle emissioni future; con lo stesso ridimensionamento lessicale della de-carbonizzazione nei documenti ufficiali; con la richiesta di massicci trasferimenti verso I paesi poveri. La talpa del revisionismo climatico sembra aver iniziato a scavare.

Scritto da Umberto Minopoli per Il Foglio 6 Gennaio 2016

2016/01/01

Zuppa di smog a colazione, pranzo e cena...



Scritto da Nicola Porro per il giornale.it

La mini polemica tra il sindaco Pisapia e Beppe Grillo su smog e alberi tagliati a Milano, conforta la tesi dello storico Robert Conquest: «Tutti sono di destra nelle cose di cui si intendono».

Pisapia sembra un pericoloso conservatore quando ricorda al leader dei Cinque stelle che sì, a Milano, sono stati tagliati circa cinquecento alberi, ma per far posto ad una verde metropolitana. Entrambi, vittime dell’integralismo ambientale, sbagliano però il bersaglio.
Non è certo che questo inquinamento sia così mortale come lo dipingono (tra poco lo vedremo) ma è sicuro che nulla ha a che vedere con il mito della deforestazione. In Italia si realizza, i sorrisi si evitino please, un censimento pubblico degli alberi. Ebbene non è mai esistita una stagione (in migliaia di anni dicono gli esperti) con un maggior numero di foreste. 

Vi sembra grossa? Anche a chi scrive, ma è così: abbiamo 210 alberi pro capite. Negli ultimi dieci anni, mentre ci raccontavano del consumo del suolo e piripi piripa, in Italia abbiamo piantumato quasi fossimo dei maniaci di Hay Day. Ecco i numeri totali: nel 2005 avevamo 10,4 milioni ettari di bosco (circa un terzo della nostra superficie); dieci anni dopo l’estensione è salita ad 11 milioni. Il che vuol dire 600mila ettari di boschi in più. Nella sola Lombardia si sono sviluppati 26mila ettari di boschi e foreste aggiuntivi. Tra un po’ gli alberi diventeranno come i cinghiali in Maremma: un discreto fastidio per gli abitanti del luogo.

La relazione tra deforestazione ed inquinamento non funziona più. Anzi, a voler essere polemici essa si sarebbe invertita: più alberi uguale più inquinamento. Tocca inventarne un’altra. E la tendenza riguarda l’intero continente. L’Europa (la fonte questa volta è Forest.org) dal 1990 al 2015 ha piantumato come una pazza. La superficie boschiva è cresciuta di 17,5 milioni di ettari, per intendersi è come dire che in Europa nell’ultimo quarto di secolo è nato un bosco grande come tutto il Friuli Venezia Giulia ogni anno. Piogge acide (ve le ricordate?) permettendo.

Come la mettiamo allora con i 68mila morti in più dell’Italia che si registreranno nel 2015? E di cui i politici illuminati si fanno un gran cruccio. Per Grillo rischiano di essere legati proprio all’inquinamento. Anche l’Oms parla di record di «morti premature», causa smog. Partiamo da una piccola considerazione: quella dei morti è l’unica statistica che si riesce a fare con precisione prima della fine del periodo di osservazione. Ma prendiamoli pure per buoni. Nel 2015 ci potrebbero essere più morti (lo ricordava anche Silvio Garattini) grazie alla chimica. 

Ma non quella inquinante: quella buona. Grazie alla quale siamo tra le popolazioni più longeve del mondo. Si arriva ad un punto in cui però tocca morire: non più a 70 anni, ma in media per le donne in Italia a 84 anni. Questa media si è spostata in avanti e ciò corrisponde ad un effetto statistico semplice: bassa mortalità ieri, recupero oggi. Garattini addirittura ci ricorda come la folle campagna antivaccini (tra cui quelli influenzali soprattutto per i più anziani) stia determinando una piccola, ma pericolosa, epidemia nelle fasce di popolazione più a rischio. 

Riguardo all’Oms e ai suoi morti non bisogna aggiungere molto a quanto scritto da Umberto Veronesi: «Morti premature è un termine ambiguo su cui sono scettici molti scienziati. Tumori al polmone e malattie cardiovascolari riconducibili in qualche modo all’aria che respiriamo sono in diminuzione». Avanti con la prossima frottola ambientalista.

Ps. Per favore considerate la vostra responsabilità ambientale prima di non stampare questo articolo. Se potete, stampatelo su un bel foglio di carta A4, alimenterete così l’industria cartaia, di cui l’Italia era un’eccellenza, contribuirete a generare posti di lavoro e al taglio degli alberi in eccesso.



2015/12/06

Scienza ad capocchiam


Scienza ad capocchiam 

Primo: L’aumento della temperatura del pianeta è stato di 0,8 gradi in quasi un secolo e mezzo circa (dal 1850). Poi nel 1998 si è fermato. Da 17 anni non aumenta più? Di quanto dovrebbe riprendere, nei prossimi pochissimi anni, per portarci ai 4 gradi in più previsti dai religiosi del clima riuniti a Parigi? Nessuno lo dice.... 

Secondo: se in un secolo e mezzo (1850/1998) di piena industrializzazione e di CO2 umana immessa in atmosfera, la temperatura è aumentata di 0,8 gradi come è possibile che nei soli prossimi 80 anni (previsioni dei religiosi del clima) aumenti di 5 gradi? 

Cervellotico. Niente di scientifico. Sciamanismo. 

Dovuto al fatto che siccome non si possono fare previsioni esatte sul clima, data l’inferenza sull’andamento del clima di variabili che lo influenzano e i cui effetti non sono calcolabili, i climatisti hanno scelto, per comodità, un solo criterio (il gas serra immesso dall’uomo, la CO2) ) e su di esso si costruiscono modelli matematici di proiezioni sul futuro. Che non sono dunque previsioni scientifiche. 

Che sono impossibili. 

Terzo: come fa ad essere antropico l’effetto dovuto alla CO2 industriale che è solo il 5% della CO2 naturale in atmosfera. Che è solo, a sua volta, il 10% degli altri gas serra (vapore acqueo e metano ) di origine naturale. Che però hanno un effetto serra cumulato assai maggiore della CO2. La fisica e la chimica nelle proiezioni dei climatisti religiosi sono ad capocchiam. Di catastrofico c’è solo il conto economico delle assurde politiche anti CO2. Che, tralaltro, sono realizzate dalla sola Europa che però nel conto della CO2 internazionale umana (che pure è, come abbiamo visto, infinitesimale) conta come la briscola a merenda. 

Però è sufficiente a tenere bassa la crescita europea. Ai poveracci seguaci della religione del warming sfugge che quelle risorse enormi che pure si spendono inutilmente (perché le emissioni stanno aumentando sempre nonostante le 20 conferenze sul clima che hanno preceduto questa di Parigi) sulla CO2 (emission trading, incentivi fuori portata per le rinnovabili) potrebbero essere spesi per combattere, invece, l’inquinamento, i pericoli alla salute (Hiv, epidemie ecc), per tecnologie a difesa degli eventi estremi (città costiere, assetti idrogeologici ecc).

Quarto: nessun criterio fisico, chimico e ambientale può dimostrare una correlazione tra CO2 e catastrofi climatiche. In 12,000 anni di vita dell’uomo noi abbiamo sperimentato solo effetti benefici della CO2. Perché, invece, un 5% di CO2 umana (sul 95% che è naturale) dovrebbe, in futuro, essere catastrofico? È solo una premonizione religiosa. 

Biblioteche di libri anticonformisti e schiere di migliaia di scienziati (una di essi era la coraggiosa Montalcini) che la dittatura del pensiero unico del warming antropico mette al bando, smentiscono. 

Quinto: la causa dei periodi di riscaldamento (anche assai superiori all’attuale) vissuti in precedenza, quando non c’era CO2 umana, a che erano dovuti? Erano dovuti a cause naturali: oscillazioni dell’asse terrestre, attività del sole, oscillazioni dell’orbita terrestre, cicli degli oceani. Siccome, però, di queste cause fisiche conosciamo ancora poco, i chierici del warming si buttano sulla “politica” delle cause antropiche e della CO2, in mancanza di meglio. 

Scienza da scarpari. 

Ci sarebbe abbastanza da potersi togliere i paraocchi. O no?