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2014/09/12

Eutanasia, la dolce morte


"Sono relegata a letto, ho dolori fortissimi, le mie mani tremano. Non voglio aspettare di rimanere paralizzata del tutto. Questa non è vita". Sono le parole pronunciate da Damiana, 68 anni, malata di sclerosi multipla, nel video shock girato pochi giorni prima di morire, in una clinica in Svizzera, e diffuso per chiedere al Parlamento che riprenda il suo iter la proposta di legge sull'eutanasia.

Con l'aumento delle possibilità tecnologiche può accadere che si ecceda nell'uso di terapie in malati che non ne traggono giovamento. Vuoi perchè si tratta degli ultimi momenti della loro vita, vuoi perchè queste terapie possono portare ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa, se non addirittura ad una nuova patologia provocata da quella stessa terapia. Si parla, in tal caso, di "accanimento terapeutico". 

Ferma restando la liceità della sospensione di un intervento che si configura come accanimento terapeutico, è da sottolineare, però, come si faccia un uso strumentale di questo concetto al fine di favorire il diffondersi di una cultura eutanasica. Definita in modo suadente "dolce morte" l'eutanasia viene presentata come la via da perseguire per porre fine ad una sofferenza "insopportabile". Essa si traduce, di fatto, in un'anticipazione deliberata della morte. 

In nome della libertà individuale, si vuole annullare la fonte stessa della sua ragion d'essere, ovvero la vita, che è di per sè un bene indisponibile. Una riflessione sull' eutanasia richiede di analizzare anche le ragioni che possono motivare una richiesta in tal senso, decodificando la domanda. E' stato, infatti, messo in evidenza come la richiesta di eutanasia sia spesso motivata da ragioni psicologiche o psichiatriche transitorie o curabili e dalla inevitabile paura del dolore e della sofferenza. 

In questo senso, la ricostruzione dell'autostima e del senso di accettazione di sè o la cura di una sindrome depressiva portano frequentemente il malato a cambiare idea. Inoltre un'adeguata terapia antidolorifica e il sollecito accompagnamento del malato consentono di attenuare o rimuovere il dolore e di alleviare il senso di sofferenza, riducendo drasticamente la richiesta di eutanasia. Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte, invece, la medicina offre una sensazione di impotenza che prelude all'abbandono del malato e della sua famiglia alla solitudine.

La proposta dell'eutanasia, che non è assolutamente un atto medico, svela il suo vero volto: una scorciatoia per ridurre la spesa pubblica, un rifiuto dell'impegno umano e clinico a fianco del malato e una fuga di fronte alla paura della morte, del dolore e della sofferenza. Sta inoltre emergendo come, dietro la richiesta di eutanasia da parte di alcuni settori della società, vi sia anche una vera e propria "handifobia", ovvero la paura e il rifiuto della disabilità. Si impone così un modello culturale teso a rimuovere (negare) il dolore, la sofferenza, la morte, impedendo così di affrontarli in modo pienamente degno. Si sta sviluppando, per contro, un'idea di "qualità della vita" misurata su standard di efficienza, salute e forma fisica: una vita senza questo tipo di "qualità" non sarebbe degna di essere vissuta e può essere "oggetto" di libera scelta. 

Di conseguenza alcuni potrebbero avere più potere di altri sulla vita altrui, decidendo quando e come spegnerla. 

Il significato della vita e della morte 

La vita e la morte dell'uomo non si possono ridurre solamente al loro aspetto materiale. E questa la prima premessa di ogni discorso sull'eutanasia. Certo anche il corpo umano è soggetto al proprio ciclo biologico, come ogni altro essere vivente: viene alla luce, cresce, invecchia, muore. Tuttavia nell'uomo questi eventi non sono esclusivamente biologici, ma essenzialmente spirituali, nel senso che solo la persona umana (intelligente e libera) è in grado di assumere coscientemente e responsabilmente, senza subirle passivamente, sia la vita, sia la morte. Cosicché, propriamente parlando, solo dell'uomo si può dire che “vive” e che “muore”. Sta in ciò la sua grandezza. 

Ora, finché la morte era universalmente considerata un evento naturale, di cui erano fissate ineluttabilmente l'ora e le circostanze senza poterle mutare, “morire con dignità” voleva dire rassegnarsi a ciò che la natura aveva stabilito per ciascun mortale. In un simile contesto culturale, largamente condiviso, la condanna morale dell'eutanasia incontrava meno difficoltà: infatti, appariva chiaro che porre volutamente fine alla vita di un malato in fase terminale per non farlo soffrire, significava andare contro le leggi intangibili della natura, contro la dignità stessa dell'uomo. 

La questione di una possibile legittimazione dell'eutanasia cominciò invece a farsi strada, quando il progresso scientifico e tecnico giunse a fornire alla medicina strumenti in grado di contrastare il passo alla morte, riuscendo in taluni casi a ritardarla e in altri casi ad anticiparla in modo “dolce”, evitando le sofferenze e le umiliazioni dell'agonia. Nacquero così gli interrogativi nuovi che tuttora ci interpellano: fino a che punto si può e si deve resistere alla morte? È moralmente lecito “accanirsi” nel combatterla? Avendo la possibilità scientifica e tecnica di scegliere responsabilmente il momento più adatto e un modo “dolce” di morire, perché non farlo? Perché mai l'eutanasia dovrebbe essere un affronto alla natura? Infatti, l'uomo ha il compito morale di amministrare la natura e la sua stessa vita, perché egli non può disporne liberamente in modo che la morte avvenga in circostanze meno umilianti e più conformi alla “dignità” della persona? 

La ragione per la quale la Chiesa condanna con tanta forza l'eutanasia attiva è riposta nel significato stesso della vita, che dà senso anche alla morte. La persona umana è un assoluto, ha in sé valore di fine, la sua vita è quindi indisponibile in tutte le fasi del suo divenire, dalla concezione alla morte; la vita non può mai avere ragione di mezzo, non se ne può mai fare un uso strumentale. 

Questa concezione etica della esistenza umana non è esclusiva della visione cristiana, non è cioè di natura confessionale, ma appartiene a qualsiasi altra visione del mondo che consideri l'uomo il valore supremo e lo ponga al centro della vita sociale e del cosmo. La storia, del resto, dimostra che ogni qual volta la vita umana cessa di essere considerata il valore primo, l'uomo finisce col distruggere se stesso. La salute viene prima della vita? Allora si eliminano i malati fisici e mentali, gli handicappati, i neonati affetti da malformazioni. Il primo valore è la razza? Allora si giustificano i campi di sterminio e le pulizie etniche. Il primo valore non è la vita, ma il danaro? Allora si può uccidere per rubare o per impossessarsi di una eredità. 

Il diritto di “morire con dignità” 

Un'altra premessa al discorso sulla eutanasia è il diritto di “morire con dignità”. Che senso avrebbe – chiedono i sostenitori della “morte dolce” – accettare supinamente di terminare la propria vita in preda a sofferenze atroci e a umiliazioni indicibili? Non è forse la stessa grandezza dell'uomo a esigere che gli venga riconosciuto il diritto di morire con dignità? 

In questo ragionamento sono due gli aspetti da chiarire. Il primo è vedere in che senso esista un diritto di morire con dignità. Di per sé, non si può parlare di “diritto” di morire, in senso proprio, dato che la fine della vita è un evento ineluttabile, al quale – volenti o nolenti – nessuno si può sottrarre. Si deve invece parlare di un diritto di morire bene, serenamente, evitando cioè sofferenze inutili; esso coincide in pratica con il diritto di essere curato e assistito con tutti i mezzi ordinari disponibili, senza ricorrere a cure pericolose o troppo onerose e con l'esclusione di ogni “accanimento terapeutico”, che solo servirebbe a prolungare la vita in modo artificiale e penoso con danno del malato. 

L'altro aspetto da chiarire nel ragionamento di chi propugna il diritto alla eutanasia è collegato al primo: si tratta cioè di vedere in che misura il ricorso alla “morte dolce” sia effettivamente il modo di risolvere il problema della sofferenza umana. 

Il limite culturale di chi lo pensa è quello di considerare la sofferenza come una maledizione, una condizione umana priva di valore e inutile, quasi che “sofferenza” e “dignità” siano incompatibili, quasi che l'una escluda l'altra. È vero invece il contrario. La persona umana, finché vive, non perde mai la sua radicale dignità. Non la perde il delinquente, per quanto abbia compiuto i più orrendi delitti, e per questo rifiutiamo la pena di morte; non la perde l'infermo o il moribondo, per quanto sia degradato il suo stato di salute fisica o mentale, e per questo rifiutiamo l'eutanasia. 

Certo, la sofferenza è un male da combattere anche per chi ha la fede; tutti hanno il dovere di impegnarsi a guarire e a curare quanti sono afflitti da qualsiasi genere di infermità. Tuttavia, anche a prescindere dalla fede – nonostante sia più difficile comprenderlo –, il dolore ha un suo valore e, se non lo si può eliminare, lo si può però umanizzare. Quante volte la presenza in famiglia di un infermo o di un handicappato si trasforma in occasione di solidarietà e di amore, aiuta tutti a essere meno egoisti. Perciò, è assurdo pensare che il problema del dolore si risolva eliminando chi soffre. Sarebbe come se, per risolvere il problema della fame, si uccidessero gli affamati, anziché produrre di più e distribuire equamente i beni destinati a tutti. 

Analogamente, il problema della sofferenza non si risolve con l'eutanasia, ma eliminando le cause che inducono a chiederla. Occorre, da un lato, evitare l'accanimento terapeutico e, dall'altro, mettere in atto una “terapia del dolore” e “cure palliative” adeguate, favorendo nello stesso tempo forme di solidarietà e di accompagnamento, che aiutino gli infermi (soprattutto nella fase terminale) a superare il senso di disperazione che prende quando si vedono abbandonati e sono lasciati a soffrire in solitudine. 

Le implicazioni sociali dell'eutanasia 

Un terzo elemento, infine, del quale occorre tenere conto per fare un discorso serio sull'eutanasia, è dato dalle implicazioni sociali della “morte dolce”. Questa non va considerata come una questione meramente privata, che riguarda solo il singolo che vi fa ricorso, ma va valutata nella sua inevitabile ricaduta sociale. Infatti l'uomo non è mai una monade chiusa in se stessa. Il concetto stesso di persona dice essenzialmente relazione con l'altro. L'uomo è fatto per vivere in società. Nel momento che uno decide di non esistere più ferisce non solo se stesso, ma anche la società. 

In realtà, la logica effettiva dell'eutanasia è essenzialmente egoistica e individualistica e, in quanto tale, contraddice radicalmente la logica solidale e la fiducia reciproca su cui poggia ogni forma di convivenza. Appare quindi assurda la tesi sostenuta addirittura da un presidente onorario del Consiglio di Stato sulle pagine di un diffuso quotidiano nazionale: lo Stato – vi si legge – “non può proseguire nell'assumere come oggetto della tutela penale il mantenimento in vita di un soggetto distrutto dal dolore o completamente alterato nella sua personalità”; infatti, si spiega, in questo caso non solo il singolo ha perso l'interesse a conservare la sua vita, ma viene meno anche l'obbligo dello Stato a tutelare l'interesse della società a non essere privata di una vita, perché “si ha a che fare con una vita che non è più vita”. 

Si tratta di una tesi insostenibile. In base a quale criterio un soggetto può essere ritenuto “distrutto dal dolore”? Come può lo Stato determinare l'intensità della sofferenza che si richiede per legittimare l'eutanasia? Un esaurimento nervoso, un'umiliazione o lo scoraggiamento per un rovescio patito spesso sono in grado di “alterare completamente la personalità” non meno di un male incurabile in fase terminale; può bastare la completa alterazione prodotta dall'uno o dall'altro trauma doloroso per eliminare una persona “distrutta dal dolore”? E chi è autorizzato a decidere per il sì o per il no: il medico o anche un amico o un familiare? Chi garantisce che la “morte dolce” venga decisa effettivamente per porre fine a una sofferenza divenuta intollerabile e non per qualche altra ragione, magari per interessi inconfessabili? Soprattutto come dimostrare che sussiste il consenso esplicito e libero dell'interessato, quando non è più capace di esprimersi? Si tratta di interrogativi angosciosi, ai quali nessuno riuscirebbe mai a dare risposta, qualora l'eutanasia fosse legalizzata. In quest'ultima ipotesi, verrebbe minato alla base il rapporto di fiducia su cui poggiano i rapporti interpersonali, sia in famiglia sia nella società. 

Che fare allora?  

2014/01/04

La vivisezione, una pratica barbarica!


Il caso sollevato recentemente da una ragazza venticinquenne di Bologna che soffre di quattro malattie genetiche considerate rare, e vive anche grazie alla ricerca e sperimentazioe sugli animali, ha provocato un vero polverone mediatico attirandosi le ire degli animalisti estremisti che sono arrivati a minacciarla di morte. 
Lei, Caterina Simonsen, secondo quanto riportato dai media laureanda in veterinaria, costretta dalle patologie di cui soffre a vivere perennemente in strutture ospedaliere, ha raccolto una marea di critiche e insulti dal popolo del web ma ha scelto un periodo giudicato sospetto per esternare le proprie preferenze in termini di ricerca biomedica condotta a suo dire per salvarle la vita. Sospetto perché nello stesso periodo debuttava Telethon, la maratona televisiva a favore della ricerca biomedica per l’identificazione e la cura delle malattie considerate rare e di difficile cura. 

Anche se questo articolo non vuole affrontare una tematica riguardante Telethon, mi sembra doveroso dire cos'è Telethon. Secondo quanto riportato sul loro sito web la Fondazione Telethon è una delle principali charity italiane. Operano ininterrottamente dal 1990, con l'obiettivo di identificare le cure adeguate per le malattie genetiche rare, ovviamente attraverso il finanziamento di ricerca biomedica eccellente. Oltre ai ricercatori si avvalgono di volontari, aziende partner e donatori che aiutano la ricerca a progredire verso la cura. Naturalmente Telethon nel corso delle proprie ricerche utilizza la sperimentazione animale altrimenti detta vivisezione come prassi per ottenere quei risultati di cui vanta successi eclatanti ma anche insuccessi è bene ribadirlo.

Curiosando sul web leggo che Telethon ha come missione il finanziamento della ricerca scientifica che possa portare alla cura delle malattie genetiche. Contemporaneamente è contro ogni maltrattamento degli animali. Grazie ai progressi della ricerca scientifica che mettono a disposizione dei ricercatori molteplici sistemi su cui testare l’efficacia delle terapie sperimentali (per esempio cellule e tessuti), sullo stesso sito web si afferma che solo una parte dei progetti finanziati richiede la sperimentazione su modelli animali.
In quei casi, Telethon richiede ai ricercatori di utilizzare il minor numero possibile di animali e di applicare un rigido codice di comportamento che minimizzi la loro sofferenza seguendo alla lettera i dettami della legislazione vigente in materia (Decreto legislativo 116 del 27 gennaio 1992, in attuazione della direttiva del Consiglio Europeo 86/609/CEE) affinché i ricercatori ottengano l’autorizzazione dei comitati etici dei loro istituti. 

Si afferma inoltre che la sperimentazione sugli animali viene eseguita secondo le leggi e le normative in vigore, quindi tutt’altra cosa rispetto alla vivisezione, contro la quale anche Telethon sembra si pronunci in maniera forte. Sembra!
Bella risposta. Peccato che il termine "vivisezione" sia stato sostituito nel tempo da "sperimentazione animale" o "modelli animali", cambiano i termini ma la sostanza resta invariata, italica abitudine quella di cambiar nome alle tasse, alle spese, alle sperimentazioni per colpire a ammansire l'opinione pubblica, poi nei fatti tutto resta come era prima. Noi sappiamo, senza aver ricevuto il lavaggio del cervello che la vivisezione è paritetica della sperimentazione animale e si intende qualsiasi esperimento eseguito su animali.

Torniamo dunque all'argomento di questo articolo: per quale motivo dunque viene richiesta la sperimentazione sugli animali? La ricerca di una terapia per una malattia genetica è un percorso lungo e complesso che normalmente passa da una fase cosiddetta “di base” dove i ricercatori si concentrano su sistemi cellulari o addirittura molecolari per identificare i meccanismi che portano alla malattia e i modi per bloccarne l’insorgenza. Ora sappiamo con certezza, non sono io che lo affermo ma autorevoli luminari medici, che i fenotipi umani sono differenti da quelli animali, non tutti ma una percentuale abbastanza alta da vanificare gli sforzi compiuti nella ricerca, vale a dire quello che potrebbe andar bene sull'animale non è detto che funzioni allo stesso modo sull'uomo,  quindi quali sono i requisiti, o le esigenze mediche o biomediche per le quali la sperimentazione sugli animali diventa una prassi consolidata?

Ecco che si afferma, senza cognizione di causa, magari parando a destra e manca, che una volta che si sono isolati dei sistemi (farmaci, geni, cellule) in grado di bloccare il percorso della malattia nei sistemi di base, è spesso necessario, prima di somministrarli ai malati, controllarne l’efficacia e l’assenza di tossicità in un organismo complesso il più possibile simile all’uomo. Questo diminuisce considerevolmente il rischio di commettere errori di formulazione e di somministrazione. Ah, capito, quindi si utilizzano i modelli animali nelle fasi terminali di sperimentazione del farmaco, affinchè poi non vi siano effetti indesiderati sull'uomo? Forse è per questo motivo che ogni anno, solo in Italia, più di 974 mila animali (fonte: Ministero della Sanità), ovvero più di 3.000 al giorno, tutti i giorni, vengono utilizzati per prove di laboratorio? E quali sarebbero questi nuovi farmaci che sono stati testati e identificati dalla ricerca per curare le malattie rare, non ho affatto trovato tracce di questa pletora di prodotti innovativi, di queste cure miracolose che salvano la vita ai bambini italiani, ricordo che il 70% delle malattie rare genetiche è rivolto al settore pediatrico

Aggiungo, non si era detto che la sperimentazione animale riguardava solo la fase finale della ricerca volta a confermare la efficacia del farmaco? Io comprendo benissimo che informarsi seriamente su argomenti tanto complessi come la ricerca di base o sperimentazione animale detta anche vivisezione richieda tempo, pazienza e competenza; ma affermare che Telethon e in genere la ricerca biomedica contro le malattie rare si attenga alla legge per ribadire la propria posizione, solo a parole naturalmente, contro detta sperimentazione animale mentre la attività principale sembrerebbe l'esatto contrario non è serio e sa un po’ di presa in giro.

Mi pongo il quesito perché non tutti i firmatari di petizioni contro la sperimentazione animale agiscono su basi di pura emotività o parlano a caso, fra loro infatti figurano medici, biologi, etologi, giuristi, filosofi eccetera, mi corre quindi l’obbligo di sottoporre alcune considerazioni sulla validità e sull’eticità della pratica relativa alla sperimentazione animale. E' ridicolo affermare che controlli quotidiani secondo un rigido protocollo vengono effettuati per mantenere i parametri in linea con quanto richiesto dalla vigente legislazione, si può vigilare quanto si vuole, ma la legislazione vigente in materia a cui molti fanno riferimento è pressoché quotidianamente e ovunque disattesa, come provano le innumerevoli azioni intraprese (e relative denunce promosse) dalle associazioni cosiddette animaliste. Quanto alla “autorizzazione dei comitati etici dei loro istituti”, è un po’ come se i carnefici della Santa Inquisizione avessero chiesto il permesso al Papa. Siamo seri, le motivazioni sono decisamente altre.

Queste prove, molto ripetitive, sono spesso richieste da leggi antiquate, forniscono risultati inapplicabili all'uomo in oltre il 92% dei casi e, di conseguenza, oltre a essere inutili, hanno di frequente fermato, per anni, l'impiego di sostanze a noi preziose, così come hanno causato infiniti danni farmacologici, dai meno gravi e diffusi ai peggiori. Le stesse prove vengono ripetute successivamente, con altre forme e tempi, sul destinatario ultimo del prodotto l'uomo con oltre il 50% di insuccessi. A causa della presunta "tutela" fornita dalla vivisezione, questo avviene troppo spesso senza la dovuta cautela oltre che frequentemente senza un effettivo consenso informato ed il diretto beneficio delle persone che subiscono la sperimentazione.

Il partito del si alla sperimentazione animale afferma inoltre che moltissimi presunti o reali, passi avanti compiuti dalla medicina negli ultimi decenni, passi avanti che hanno guarito o alleviato le sofferenze di milioni di malati al mondo, non sarebbero stati possibili senza una motivata, attenta e accurata sperimentazione sugli animali. E’ scandaloso che Telethon possa raccogliere annualmente svariati milioni di euro, tanti quanti il bilancio di funzionamento di tutto l’Istituto francese di ricerca. A chi pensa di donare soldi per la cura, bisogna che conosca anche l’altro parere, ovvero che la terapia genica non è efficace. Se i donatori sapessero che il loro denaro serve prima di tutto per finanziare le pubblicazioni scientifiche, ma anche i brevetti di poche imprese, o per eliminare gli embrioni dai geni deficienti, o per pagare gli stipendi dei ricercatori, degli assistenti, persino delle segretarie, del sito web, delle montagne di carta, della pubblicita' sui media, sono sicuro che cambierebbero parere. Solo una minima parte delle donazioni raccolte finisce effettivamente alla ricerca, il resto si perde in mille rivoli non tutti efficaciemente tracciabili. Non sarebbe comunque una novita', l'Italia ha esperienza, in particolare per quanto riguarda le cooperazioni, le ong ecc. di cui spesso si sono occupati gli organi giudiziari competenti. Vecchia storia. 

E che dire, poi, di altre incongruenze? Jerry Lewis con TELETHON raccolse più di un miliardo di dollari per la distrofia muscolare eppure adesso i malati di distrofia muscolare sono più numerosi di prima. Un fallimento che era prevedibile nel momento in cui la ricerca finanziata da Telethon si basa, per oltre il 50%, sull’utilizzo di animali o cellule di animali. 

“I test sugli animali, per la scarsa affidabilità, sono cattiva scienza” e si auspica un radicale cambiamento nella ricerca. A riferirlo è uno dei più noti tossicologi al mondo, il professor Thomas Hartung gia' direttore scientifico responsabile per la ricerca della Commissione Europea ECVAM, il Centro europeo per la convalida dei metodi alternativi e ora dirige il CAAT, Centro per le alternative ai test con gli animali della Johns Hopkins University.

La bibliografia scientifica è ormai piena di pubblicazioni che criticano e invalidano la vivisezione ma nessun testo scientifico riporta testimonianze sui benefici della stessa. Le denunce sono, invece, sempre più frequenti e su organi ufficiali. Il movimento di scienziati che si oppongono alla vivisezione sulla base di teorie unicamente scientifiche sta crescendo continuamente e sono sempre più frequenti gli articoli che, su riviste scientifiche prestigiose, muovono pesante critiche a questo metodo di ricerca.

La sperimentazione animale o il termine più crudo vivisezione, è inutile e dannosa perché non solo martirizza gli animali ma minaccia la salute umana e impedisce l’uso di metodi scientifici e avanzati.
  
Le manipolazione genetiche che consentono oggi di costruire in laboratorio nuovi organismi vegetali o animali, mescolando l'informazione genetica di specie diverse, anche appartenenti a regni diversi (per esempio piante con animali, animali con batteri) sono la nuova frontiera della battaglia antivivisezionista con qualche limite come evidenziato in precedenza. Le modifiche nei vegetali e negli animali d'allevamento sono solo un pretesto delle industrie per controllare, grazie ai brevetti ottenuti su di essi, il mercato dell'alimentazione e senza voler addirittura etichettare chiaramente i prodotti. 

I rischi per la salute, per l'ambiente e per i rapporti socio-economici dei vari continenti stanno provocando un deciso rifiuto del cibo transgenico nel mondo intero. L'ingegneria genetica è portatrice di una visione dittatoriale della vita che finisce per operare un controllo sociale attraverso la selezione dei caratteri, la clonazione e la procreazione selettiva.

Nessuno ci ha ancora mai saputo dire: quanti geni umani è lecito introdurre in un animale per accrescere la sua "somiglianza" con l'uomo: dieci, mille un milione? A cosa serve parlare di xenotrapianti (trapianti con organi d'animale) quando si sa che con uno solo di questi trapianti il passaggio di virus dall'animale all'uomo potrebbe scatenare un'epidemia incontrollabile come l'AIDS; quando si sa che le cellule dell'organo trapiantato, migrando in tutto l'organismo umano, trasformano il paziente in una "chimera umana"?

Cui prodest?