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2020/02/18

Greta chi? Nessuna prova scientifica del riscaldamento globale.



Il mio amico Franco Battaglia scrive:

Un caro amico ingegnere col quale di tanto in tanto scambiamo quattro chiacchiere al bar, m’ha così lucidamente espresso alcune sue riflessioni sulla questione del clima che, almeno all’osso, val la pena qui riportarle. La scienza, osserva Giuliano (il nome dell’amico ingegnere, un fuoriclasse dal Politecnico di Milano), è fatta di errori che sono ammessi, ma la scienza punisce chi mente.

La strada degli scienziati, anche dei più grandi, è lastricata di sbagli e cantonate. In effetti chi per mestiere fa lo scienziato sa bene quanto una clamorosa cantonata possa assomigliare a un’intuizione geniale. Ma il cuore del metodo galileiano è la verifica sperimentale, che dà agli scienziati la straordinaria libertà di concedersi a ipotesi quanto mai azzardate, ma con la consapevolezza di poterle sottoporre a controllo. Nel caso del riscaldamento globale, della sua origine antropica non esiste alcuna verifica sperimentale, né prova alcuna che possa avvalersi della qualifica “scientifico”. Anzi esistono prove fattuali incontestabili che la contraddicono.

La congettura che addebita all’uomo il riscaldamento globale appartiene così ad una realtà virtuale che è ben diversa dalla realtà reale, ben rappresenta dalle parole della nostra cara Greta seguite a quel famoso “ci avete rubato il futuro”, e cioè: «non avete fatto niente in 25 anni». Greta ha così sancito il de profundis della COP-25 di Madrid.

In sostanza, la realtà virtuale va da una parte, con tante, tantissime chiacchiere, proclami, annunci, promesse, una copertura mediatica molto ampia ed una propaganda ossessiva. Il tutto per produrre poco o nulla in termini concreti (da cui il lamento di Greta), mentre la realtà reale va da tutt’altra parte. Paesi come Stati Uniti, Canada, Brasile, India, Cina (che ora ha sicuramente altre priorità), Australia, hanno contribuito al fallimento del Trattato di Parigi e al flop della COP-25. Ma anche in Europa, che si dichiara la parte “virtuosa”, non si è fatto niente, come osserva la piccola innocente. Persino i Paesi che si dichiarano pronti a finanziare il Green New Deal, pongono severi limite agli investimenti cosiddetti verdi.

Alla fine della fiera, quel 97% degli scienziati che secondo quella certa statistica farlocca  che piace tanto ai gonzi – ha ricevuto da Madrid una bastonata nelle parti basse che ricorderanno a lungo, e che li ha trasformati in eunuchi impotenti.

Potremmo anche concludere che – come s’usava poco appropriatamente dire per la filosofia – la climatologia dei suddetti eunuchi è una disciplina – ma ora molto appropriatamente – con la quale o senza la quale il mondo rimane tale e quale.


Franco Battaglia, 15 febbraio 2020

2017/10/21

Ha già vinto lui!



Detta in parole povere e comprensibili, la deterrenza è quella cosa in base alla quale una nazione scoraggia un suo nemico dall’aggredirla minacciando di infliggere allo stesso danni e distruzioni assolutamente insopportabili e tali da rendere l’aggressione o la guerra non convenienti e non paganti. In questo contesto possiamo dire che la Corea del Nord, dotandosi di un discreto arsenale nucleare, sta perseguendo con notevole successo proprio la strada della deterrenza. Infatti, se noi guardiamo alla storia degli ultimi decenni, vedremo che gli Stati Unitihanno perseguito, con costanza e coerenza, una politica di eliminazione fisica di tutti i regimi che erano contrari ai propri interessi geostrategici. 

Nel 1961 gli Stati Uniti organizzano, con il beneplacito del presidente John F. Kennedy, la cosiddetta operazione della Baia dei Porci. Millecinquecento esuli cubani addestrati dalla Cia sbarcano a Cuba con lo scopo di rovesciare il governo rivoluzionario di Fidel Castro. L’operazione, male organizzata e ancor peggio diretta, abortisce ma il tentativo di rovesciamento resta e sarà seguito da innumerevole tentativi di uccidere Castro. Nel 1983, nell’isola caraibica di Grenada, un regime filo sovietico guidato da Bernard Coard, leader del Military Revolutionary Council, prende il potere. 

Gli Stati Uniti, con il pretesto di salvare la vita di seicento studenti americani presenti sull’isola, organizzano l’operazione Urgent Fury e, senza nessuna copertura giuridica da parte delle Nazioni Unite, invadono l’isola e ne rovesciano il governo installandone uno nuovo filo americano. Il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite condanna l’intervento con il solo voto contrario degli Usa. Nel 1999 gli Stati Uniti e la Nato intervengono in Kosovo bombardando pesantemente la Serbiacostrigendo la stessa ad evacuare il territorio kosovaro e aprendo la strada, in tal modo, alla indipendenza del Paese e alla caduta di Milosevic, leader della Serbia. 

Nel 2003, facendo seguito agli attacchi dell’undici settembre e con il pretesto di eliminare inesistenti armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti invadono l’Iraq rovesciando il regime di Saddam Hussein il quale, dopo la cattura, viene impiccato nel 2006. Nel 2011 gli Usa partecipano alla campagna contro la Libia e contribuiscono al rovesciamento di Gheddafi il quale viene ucciso il 20 ottobre 2011. E infine laSiria. Gli Stati Uniti cercano in ogni modo di rovesciare il leader siriano Bashar al Assad e non ci riescono solo grazie all’intervento sul campo della Russia che garantisce la sopravvivenza del regime.

Evidentemente la dirigenza della Nord Corea ha imparato la lezione della storia e ha capito che nessuna forza armata convenzionale, per quanto forte e addestrata, può resistere a una campagna militare condotta dagli Stati Uniti d’America e, pertanto, ha deciso di dotarsi dell’unica arma, quella nucleare, dotata di un potere deterrente tale da rendere difficile, se non impossibile, una invasione del suo territorio. E in questo la Corea del Nord è molto aiutata dalla sua posizione geografica. Infatti, Seoul la capitale della Corea del Sud, è a poche decine di chilometri trentottesimo parallelo e per colpirla non sarebbe nemmeno necessario utilizzare missile balistici ma sarebbero sufficienti dei missili da crociera, molto più semplici ed economici. 

Il Giappone poi, storico e odiato nemico della Corea, è abbastanza vicino da essere colpito con missile balistici a corta/media gittata. In caso di attacco, quindi, la Corea del Nord potrebbe mettere in atto una “retaliation” in grado di causare, in pochi minuti, milioni di morti, tenuto conto che le città colpite sono molto popolose. In queste condizioni la deterrenza è assicurata perché è assai dubbio che il Giappone e la Corea del Sud diano un loro avallo a un attacco Usa contro la Corea del Nord visto che sarebbero loro e non gli Stati Uniti a pagare un terribile tributo di sangue e devastazione. 

E infine alcune considerazione finali. Ove mai il regime della Corea del Nord cadesse repentinamente, milioni di Nordcoreani affamati si riverserebbero come un fiume umano nella Corea del Sud per godere del suo tenore di vita e delle sue libertà. Un poco quello che successe con l’unificazione tedesca ma in chiave molto ma molto più grande. Un simile evento metterebbe a rischio il benessere, l’economia, l’ordine pubblico e la coesione sociale della Corea del Sud. Inoltre, e qui concludo, la riunificazione della Corea porterebbe sullo Yalu il confine della nuova Corea unificata e, dato che il Paese è alleato degli Stati Uniti e che sul suo territorio vi sono ingentissime forze militari americane, ciò vuol dire che la Cina si ritroverebbe gli Stati Uniti al suo confine meridionale. 

Siamo sicuri che la Cina sia disposta di accettare un simile evento?

2017/07/10

Summit delle vanità



Passerelle, chiacchiere e tanta vanità: anche il G20 di Amburgo s’è concluso con un nulla di fatto. 

Gli Usa hanno confermato il loro no agli accordi di Parigi sul clima, anche se nel comunicato finale si parla di “irreversibilità” della lotta al riscaldamento globale. Niente accordo neanche per quello che riguarda le sanzioni contro i trafficanti di esseri umani. 

Compromesso minimo solo sul tema del commercio internazionale. Il premier italiano Gentiloni ha commentato affermando che dal «G20 di Amburgo era difficile aspettarsi rusltati scoppiettanti». Bene, allora perché c’è andato? Perché non ha inviato al suo posto la Boschi, che se non altro avrebbe attirato più fotografi sul rappresentante dell’Italia? 

In compenso (si fa per dire) il G20 di Amburgo è servito ai soliti spostati a volto coperto per creare due giorni di sconquasso nella città tedesca: 200 poliziotti feriti negli scontri di questi giorni sono un sacrificio decisamente troppo alto alla vanità dei potenti. 

A questo punto, sorge spontanea una domanda: perché non aboliscono il G20, il G7 e tutti gli inutili, costosissimi summit internazionali che servono solo a dirottare, per un paio di giorni, l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su eventi più mondani che politici? 

Sembrerebbe una domanda qualunquistica, ma non lo è: il fallimento del G20 e di altre occasioni simili non segna altro che l’insuccesso di una formula, quella della “governance” mondiale, con cui le élites culturali e politiche si trastullano da ormai 25 anni: dopo la fine della guerra fredda, il mondo avrebbe dovuto essere guidato dalla comunità cosmopolitica dei governi della Terra. 

Ma la realtà vera si è rivelata assai diversa: a governare la Terra non sono altro che gli accordi bilaterali tra gli Stati più forti e influenti. Tant’è che il “vero” G20 non è stato altro che quello, riservato, dei tête-à-tête dei maggiori protagonisti mondiali: quello fra Trump e Putin, Trump ed Erdogan e così via. 

Se è così, tanto vale abolire questo inutile baraccone periodico che serve solo a Paesi in declino come l‘Italia ad illudersi di fare parte ancora del club dei “grandi” della Terra. I G7 al tempo della guerra fredda erano ben altra cosa…

2017/04/06

Avanti i Populisti!


Il prossimo 23 aprile la Francia si recherà alla urne per le elezioni presidenziali. Tale scadenza viene caricata di significati contrapposti da parte di chi ritiene che ci sia lo spazio per la vittoria elettorale della Le Pen, il che significherebbe l’affondamento del disegno politico-bancario-finanziario di questa Unione Europea, e chi invece la considera l’occasione per battere ogni rivincita dei Popoli (i populismi) e riaffermare il primato della cultura positivistica-democratica su ogni ipotesi alternativa. Entrambi le suggestioni sono improbabili. 

E’ previsto un grande successo della Le Pen, che dovrebbe arrivare prima con il 25-30% dei voti al primo turno, salvo poi ad essere sconfitta con un 60/40 % al ballottaggio contro il candidato di centrosinistra moderato filo-Unione Europea, Macron. Un pò lo stesso scenario e la successiva interpretazione errata del risultato delle elezioni olandesi svoltesi lo scorso marzo, dove il candidato uscente, il Primo Ministro Rutte è stato dichiarato vincitore ed il candidato populista Geert Wilders è stato dichiarato sonoramente battuto. In realtà il candidato populista non aveva alcuna possibilità di vincere, perchè il proporzionale puro spinge sempre a risultati più o meno di centro-sinistra, ma il suo Partito per la libertà (PVV) è passato dal 13% ad oltre il 16% conquistando 5 nuovi seggi, arrivando a 20. 

Il Partito Liberal-democratico del Presidente Rutte ha perso invece un pò più del 5% e 8 seggi, scendendo da 41 a 33; il suo alleato del Partito Laburista ha perso il 19% conquistando un pò meno del 6%, scendendo da 38 a 9 seggi con un saldo netto negativo di ben 29 seggi. Complessivamente l’alleanza di Governo di centrosinistra ha perso ben 37 seggi e quasi il 25% dei voti (un elettore su quattro) scendendo dal 51,3% al 27%, cioè una catastrofe. Ma il presidente uscente Rutte è stato dichiarato, quasi una beffa, grande vincitore.

Dove finiscono i voti? Successo importante a sinistra dei Verdi, che passano da 4 a 14 seggi e dal 2,3% al quasi 9%, e aumento significativo di due Partiti minori di centro-centrosinistra moderato che complessivamente passano da 25 seggi a 38 seggi, cioè interpretano la fuga degli elettori dai due grandi Partiti di Governo liberal-democratici e laburisti, attraverso modeste varianti. Tutto il resto è poca cosa. Nessuno avrà la maggioranza per governare e molto probabilmente nascerà una coalizione frammentata, molto debole sui contenuti e a continuo rischio voto parlamentare, di cosiddetta unità nazionale contro i populisti. Cioè si creerà una situazione di instabilità e poi di transizione, come è già accaduto gli anni scorsi in Spagna, in Belgio e in Grecia. Cioè per quanto il Partito anti-Unione Europea non abbia sfondato, ha di fatto distrutto tutti gli equilibri precedenti.


E’ molto prevedibile che la stessa cosa accada in Francia, dove alla fine l’unità di tutti al secondo turno contro il Front National permetterà la sopravvivenza del sistema dell’Unione Europea, ma con tutti gli equilibri parlamentari fortemente compromessi. E poichè il rinnovo dell’Asssemblea legislativa avverrà l’anno successivo, a quel punto la Le Pen potrebbe conquistare la maggioranza dei seggi nel nuovo Parlamento. La marcia della riscossa dei popoli europei è lenta, anche perchè ha una concentrazione ostile di interessi economici, centrali ideologiche e culturali impressionanti, poteri forti finanziari, affaristiche e di lobby avversari smisurati, ma le ragioni dell’istinto di sopravvivenza degli europei, minacciate dall’onda musulmana e dal logoramento etico e morale interno, appare più forte. 

Mentre è facile mettere tutti insieme contro la Le Pen, è molto più difficile affondare nei singoli collegi le personalità antagoniste al disegno politico-culturale dei progressisti e democratici declinanti. Se c’è una cosa chiara che emerge, dall’Olanda alla Spagna agli Stati Uniti, è che la sinistra e il suo progetto politico è in crisi in tutto il mondo, perchè non sa dare risposte ai problemi contemporanei, nè quelli economici, nè quelli sociali, nè quelli esistenziali. Non siamo al tramonto dell’Occidente, ma quello della sinistra occidentale. Occorre perciò un Manifesto fondante degli uomini che vogliono rappresentare la riscossa dell’Occidente che non vuol scomparire, nè dal punto di vista demografico, nè delle idee, nè del futuro del mondo.

fonte: il secoloditalia.it

2017/02/15

TRUMP FOREVER



La presidenza di Donald Trump è destinata a durare, nonostante la “guerra mediatica” scatenata contro il presidente Usa da “élite benpensanti” e pezzi degli apparati di sicurezza, culminata al momento nelle dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn. Parola di Edward Luttwak, profondo conoscitore degli ambienti politici di Washington, che minimizza lo scontro in atto tra la Casa Bianca e la comunità dell’intelligence. Uno scontro “enormemente esagerato”, dice il politologo, raggiunto telefonicamente dall’Adnkronos. A rinfocolare le polemiche ci ci pensa lo stesso Trump, con i tweet nei quali senza giri di parole accusa Fbi e 007 di passare alla stampa informazioni riservate al solo scopo di screditare la sua amministrazione, tesi peraltro verosimile e quasi riscontrabile. Luttwak non nega che ci sia “tensione” tra la Casa Bianca e gli apparati di intelligence. Due i principali motivi a suo giudizio. Il primo è dovuto alla “annunciata riduzione” che questa amministrazione vuole attuare rispetto alla “crescita eccessiva” degli apparti di intelligence avvenuta dopo l’11 settembre 2001. “Sono troppo grandi, con troppi soldi e troppa gente non qualificata”, dice Luttwak. Il secondo motivo sarebbe invece legato alla politica estera della nuova amministrazione che punta a un nuovo asse con Mosca. Trump, spiega Luttwak, “vuole un accordo con la Russia per respingere la Cina” e le sue mire espansionistiche. Ci sono molti “ex funzionari dell’intelligence”, quelli che parlano con la stampa, afferma il politologo, che sono “contro l’idea di Trump”.

Per Luttvak è in corso una guerra alle élite

Ma soprattutto, è in corso secondo Luttwak “una guerra mediatica dei benpensanti contro Trump”. Per il politologo “è giusto che sia così”, perché il discorso inaugurale del nuovo presidente è stato una vera e propria “dichiarazione di guerra alle élite” di Washington. “Quando sfidi un’intera élite di benpensanti, questi reagiscono perché non vogliono rimanere fuori gioco per otto anni”, chiosa Luttwak. Eppure, aggiunge, “non vedo il rischio paralisi” per la Casa Bianca. Il successo di questa amministrazione a suo giudizio si misurerà sull’economia, sulla realizzazione del progetto Rebuild America. Il piano da 1,3 trilioni di dollari al quale sta lavorando “la squadra principale” di Trump per costruire e ammodernare le infrastrutture Usa. Il piano è “il cuore di questa Amministrazione”, dice il politologo. 

E la rielezione di Trump a suo giudizio, più che sui metodi poco ortodossi importati alla Casa Bianca o sugli scivoloni personali – “tutte cose triviali” – si giocherà sulla creazione di posti di lavoro: “E molti di questi posti andranno a persone che non lo hanno votato”. Ma se anche le “élite benpensanti” dovessero avere la meglio e costringere Trump alle dimissioni prima della scadenza del suo mandato, “questa vittoria sarebbe in realtà la loro più grande sconfitta”. Perché “l’ironia” di tutta questa storia, spiega Luttwak, è che al posto di Trump subentrerebbe il vice presidente Mike Pence. Un uomo che “ha le stesse idee di Trump, ma è più rigoroso, è religioso e non ha vulnerabilità personali”. Pence, insomma, sarebbe inattaccabile.

2016/06/24

BREXIT grandi manovre in Europa


Il referendum inglese non sarà forse la morte dell’Europa ma per me è un momento di sconforto e di profonda tristezza, anche perché la “colpa” di questa situazione non è tanto degli inglesi che se ne vogliono uscire, ma di “questa” Europa così diversa da quella che avevamo sognato. Un’Europa dove tutto è diventato prima di tutto solo economia e (grande) finanza, speculazioni di borsa, burocrazia e “Germanocentrismo” dove la crisi colpisce la pancia della gente e le sue paure, con la facile scorciatoia di dare sempre la colpa agli altri. Chiudersi e separarsi dà allora (falsa) sicurezza, ma soprattutto – distrutte radici e idealità - non c’è motivo di sacrificarsi. 

E’ cresciuta un’Europa che fa di tutto per scontentare gli europei, che non ha una politica per l’immigrazione, una linea per la politica estera, la difesa, una strategia verso la Russia, una indipendenza di pensiero riguardo agli USA, la tutela dei legittimi sentimenti di appartenenza che devono essere i diversi colori di una strategia comune e invece sono diventati solo segni di spaccatura sempre più evidente. E’ vero che Europa, Euro e Unione Europea sono tre cose differenti ma alla fine si identificano in un malcontento giustificato e diffuso che ha fatto velocemente crollato lo spirito europeo in anni dove i più giovani non hanno conosciuto e quindi neppure immaginano la realtà di un continente in guerra e che ancora pochi anni fa era diviso da troppi confini.

Amarcord? Certo, ma come spiegare a mio nipote che ricordo bene la prima volta che a Berlino passai all’Est: scendevi dalla metropolitana e i viaggiatori erano avviati in un lungo camerone sotterraneo e puzzolente dove consegnavi il passaporto e aspettavi finchè l’altoparlante non urlava – ovviamente in tedesco – “Italien…” e via con il tuo numero. Ti consegnavano il visto e un sacchettino (obbligatorio) di carta moneta e di monetine che sembravano di plastica. Per passare dovevi infatti cambiare un minimo di marchi “buoni” (ovvero quelli dell’ovest), con quelli “democratici” che erano ufficialmente quotati alla pari, venti volte il loro valore reale.

Erano già passati più di trent’anni dalla fine delle guerra, ma mentre a Berlino Ovest era un fiorire di grattaceli all’Est c’erano ancora le rovine per strada, il filo spinato per stare lontani dal “muro” che alla Porta di Brandeburgo separava in due la città, poche auto in giro e solo il museo di Priamo e dell’antica Assiria rendeva doverosa una visita “di là”.

Ricordo anche un Praga grigia e fredda, sporca, così diversa dalla città di oggi piena di turisti allegri e scamiciati, ma d'altronde bastava superare Gorizia – divisa in due - per vedere come il tempo si fosse fermato con i prezzi della benzina che per noi erano una pacchia, in una Jugoslavia orgogliosa del suo non allineamento, ma decisamente meno libera e più povera di noi. 

Tutti ce la prendiamo oggi con l’euro, ma ci siamo dimenticati di quando la lira perdeva valore giorno per giorno e sembrò già un successo quando si cominciò a parlare di ECU e cambi fissi, di Mercato Comune e di progetto Erasmus. 

Pochi allora andavano all’estero e ancor meno per frequentare una università. 

In Europa c’erano centinaia di migliaia di italiani, ma tanti vivevano ancora in baracche, braccia utili solo a scavare carbone e comunque emarginati, senza diritti, considerati zoticoni e ignoranti (come molto spesso – purtroppo – lo erano) perché senza istruzione, semianalfabeti strappati dal bisogno alle campagne del sud.

Chi oggi è senza memoria non può ricordare l’odore dei vagoni ferroviari che partivano lenti dalla Sicilia o dalla Calabria, risalivano la penisola e poi ancora più su attraverso la Svizzera, la Germania, verso il Belgio o le miniere della Ruhr.

Anni per emanciparsi, per convivere, per difendere un po’ di dignità in un ambiente ostile e senza rondini, dove tutto sembrava nemico dopo due guerre mondiali che avevano visto alla fine la sconfitta di tutti perché era stata l’Europa intera a perdere e a ritrovarsi distrutta e in macerie, forte solo di volontà di risalire. 

L’Europa Unita era nata così, con l’Italia che prestava braccia e riceveva carbone, con Francia e Germania che decisero finalmente - alla fine - come il Reno potesse essere solo un fiume e non perenne mattatoio di ragazzi e una serie di bunker e trincee. 

Con diffidenza, speranza, incredulità: lentamente ci si cominciò a parlare, a capire, a crescere. Crollò il “muro” e fu tutto subito diverso, incredibile, possibile.

La realtà sembrava fin troppo facile, naturale e scontata: crollavano i confini e si ingrandiva l’Europa in un processo che sembrava inarrestabile e felice. Poi vennero l’Euro, la recessione, la crisi, il terrorismo, le ondate migratorie e l’Europa si arenò senza ritrovare radici vere, tra indici di borsa, Brexit, nuovi muri e tante insofferenze. Vennero politici di poco spessore, nuove povertà, ma soprattutto tutto è diventato un pasticcio monetario senza più nessuna idealità, senz’anima, con la maxifinanza tedesca a dettar legge..

E’ iniziata così una reazione a catena incontrollabile, dove diventa legittimo chiedersi perché alla Gran Bretagna si erano comunque offerti molti privilegi purché restasse in Europa e l’Italia non goda invece di considerazione, anche per leader nostrani evidentemente incapaci di farsi rispettare.

I numeri inglesi sono impietosi, è un brusco risveglio dal sogno, anche se certi sogni speri sempre che non finiscano mai.

2016/02/08

Le verità nascoste di Schengen



Le immagine drammatiche che accompagnano i vari TG non possono lasciarci indifferenti e troppo semplicistica è l’opzione di sbarrare (ma regolarmente solo a parole) le frontiere europee. Abbiamo a che fare con esseri umani come noi e il dovere dell’accoglienza è sacro. L’Europa deve saper accogliere, ma proprio per poterlo fare deve darsi organizzazione, fondi e imponendo delle regole, facendole poi applicare e i governanti – a cominciare da quelli italiani – devono togliersi dalla testa l’idea di fare i furbi. Viviamo in una realtà simile a quando si scatena il panico in una sala chiusa: se scappano tutti insieme verso le uscite la gente si schiaccia da sola, se il deflusso è ordinato tutti si salvano.

Bloccare Schengen allo stato attuale significherebbe – al di là della retorica sui sentimenti europei - che l’Italia continuerà ad accogliere un illimitato numero di migranti dal “fronte sud” (e tra poco probabilmente anche dall’Adriatico), migranti che troveranno sbarrate le vie del nord e quindi – respinti – rimarranno in Italia. La prima cosa da fare è quindi decidere o almeno cercare di concordare una linea comune, ma poi soprattutto applicarla.

Se stabiliamo che in Europa devono arrivare solo profughi “politici” bisogna informare tutti gli altri che non saranno più ammessi, ma allora poi gli altri - purtroppo - bisogna veramente respingerli, e non lasciarli quindi partire. Gli oppositori a regimi totalitari (i “politici”) se invece saranno ammessi vanno “verificati” fuori dall’Europa ed incanalati in modo organizzati. Giusto quindi aiutare la Siria e creare l’ “avamposto” in Turchia e/o i centri di identificazione, ma chi non dà le sue generalità controllabili e complete deve sapere prima che non verrà accolto.

A monte il problema è comunque ridurre il numero dei profughi e per fare questo deve risorgere una Europa “politica” ovvero capace di trattare e discutere nel proprio interesse con i vari governi “esterni” a cominciare dalla Siria. E’ criminale sollecitare le guerre civili interne (Libia, Siria) e poi lamentarsi delle conseguenze. Intanto prendiamo atto una volta per tutte che la democrazia e il metodo parlamentare non sono sempre è merce esportabile, che l’ISIS se ne frega di queste cose e quindi imporre i nostri canoni di pensiero agli estremisti religiosi e fanatici è semplicemente impossibile.

In questo quadro l’Italia ha per anni fatto la furbetta sperando che i migranti – incontrollati – sparissero poi al più presto verso Nord e passando così ad altri il problema. Gli altri paesi non sono stupidi e non ci stanno più, ci chiedono di identificare chi arriva (il che tuttora non sempre si fa) e farlo concretamente, non a chiacchiere. A oggi non stiamo riuscendo ma neppure vogliamo riuscirci anche perché è nato e cresciuto il “business del profugo”, la malavita siciliana ci sta sguazzando da un pezzo sui transiti e sulla pelle dei poveracci e non è stato mai lanciato chiaramente l’avviso “Non si entra”, facendolo applicare.

Deve valere questo per i migranti “economici”, termine spaventoso per indicare quelli che comprensibilmente cercano un futuro migliore, ma senza alcun altro titolo per farlo. Certo sono essere umani con i loro diritti ma se si stabilisce che non sono ammessi se non in numero prefissato devono capire che per emigrare bisogna rispettare quote e caratteristiche, basta con l’anarchia.

2015/06/20

Russia nemica?


Per Obama il leader russo Putin è il nemico numero 1 e in Europa sta crescendo la tensione a livello militare tra NATO e Russia. Certo Putin non è un santo, ci mancherebbe altro, ma siamo così sicuri che la posizione USA sia corretta? 

Dopo l’11 settembre mi sembra che gli americani in politica estera le abbiano sbagliate quasi tutte: abbattendo Saddam hanno destabilizzato tutta la regione, volendo distruggere Assad in Siria hanno rinforzato l’ISIS, scegliendo una linea pro-Iran rischiano di creare altri guai, tolto di mezzo Gheddafi (con l’aiuto francese) si sono creati i presupposti degli sbarchi attuali di centinaia di migliaia di disperati mentre in Afghanistan, Iraq, Medio Oriente, Africa centrale la situazione è tragica. La mania americana di mostrare i muscoli porta regolarmente a situazioni senza uscita.

In compenso gli USA coccolano nazioni – come l’Arabia Saudita – assolutiste e cieche che, magari temendoli, di fatto aiutano e finanziano i fondamentalisti islamici in un generale tripudio del commercio delle armi.
L’Europa balbetta, incapace di avere una propria gestione delle crisi e un esempio lo è ora la questione dell’Ucraina dove Putin qualche ragione ce l’ha visto che in fondo l’est ucraino è russo per lingua, tradizioni, storia, religione. 
Non capisco perché l’Italia non debba fare anche i propri conti proprio nei rapporti con la Russia e sarei più cauto a sposare le tesi americane in politica estera (il rispetto dei diritti umani violati da Putin è un’altra cosa) perché alla fine da una crisi sarà proprio l’Europa a rimetterci, non gli USA, e tutti abbiamo da perderci se all’est scoppiasse l’ennesimo conflitto europeo...

Se poi a tutto questo aggiungiamo il discorso della NATO ecco che tutto prende un colore diverso, allora possiamo anche valutare positivamente lo staccarci dall'Europa economica (l'UE) e unirci ai BRICS e vivere decisamente meglio.


La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai Paesi del Golfo controllati da loro. Tutti i Paesi europei sono danneggiati da questa politica e la Russia viene spinta a integrarsi con la Cina.
È venuto il momento di domandarci perché dobbiamo continuare a fare parte di una organizzazione che ci reca solo danno. La Russia per noi non è un nemico, ma un amico, appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l'integralismo islamico che invece gli americani hanno favorito con la loro politica in Afghanistan, in Irak e in Siria. È stata la Nato ad abbattere Gheddafi dando la Libia in mano agli islamisti e inondando l'Italia di immigrati. E non dimentichiamo che il presidente Obama voleva bombardare l'esercito di Assad aiutando le forze che hanno poi creato il califfato.
Oggi la Nato dovrebbe essere riorganizzata con nuovi scopi e con nuovi membri. E per prima cosa dovrebbe farne parte la Russia, per costituire un fronte comune contro l'integralismo islamico e la immensa potenza militare che fra poco sprigionerà la Cina. Oggi la Nato, che guarda a nemici del passato, dovrebbe pensare al futuro. Magari facendo anche qualcosa per il presente: per esempio mettere fine alle emigrazioni nel Mediterraneo da essa stessa provocate.

Pensierino della sera....

Ecco un discorso che Solzenicyn – il dissidente sovietico a lungo incarcerato sotto il regime comunista - tenne come prolusione ad incontro accademico tanti anni fa: credo sia utile una sua lettura per qualche riflessione: 

....Il declino del coraggio é la caratteristica più sorprendente che un osservatore può oggi riscontrare in Occidente. Il mondo occidentale ha perso il suo coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente, in ogni paese, in ogni governo, in ogni partito politico e, naturalmente, nell'ambito delle Nazioni Unite. Il declino del coraggio é particolarmente evidente tra le élites intellettuali, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell'intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. 

Funzionari politici e classi intellettuali presentano questa caratteristica, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni, e ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sulla debolezza e sulla vigliaccheria. E questo declino del coraggio, a volte raggiunge quella che potrebbe essere definita come una mancanza di carattere, sottolineata quasi con ironia da occasionali scoppi di audacia e di rigidità da parte degli stessi funzionari politici quando trattano con governi deboli, con paesi privi di sostegno o con correnti perdenti che chiaramente non saranno in grado di offrire alcuna resistenza. 

Si hanno invece silenzio e paralisi quando si tratta di affrontare governi potenti e forze minacciose, con aggressori e terroristi internazionali. E’ necessario sottolineare che fin dai tempi antichi il declino del coraggio è stato considerato il primo sintomo della fine..."

2015/04/25

Disperati


Mi sento in profonda difficoltà a parlare delle ennesime catastrofi umanitarie nel Mediterraneo perché mi sembra di vivere una grande contraddizione. 

Tutti ci indigniamo ma poi non facciamo niente, spesso neppure neanche una piccola offerta per un aiuto, tutti straparliamo di morti in fondo al mare mentre si beve l’aperitivo al bar o al ristorante si cazzeggia davanti a una buona specialità gastronomica. 

Siamo un mondo alienato, assurdo, senza memoria. 

Una mia amica mi faceva notare di aver visto in una vetrina una borsa a 3,500 euro con due palline di pelo di coniglio sintetico (speriamo!) legate alla borsetta, in vendita (le sole palline!) a 345 euro, pur con un loro valore intrinseco massimo di una ventina di centesimi. 

Quei 350 euro sono ben di più del reddito di una famiglia del Burundi per un intero anno di lavoro: può funzionare un mondo così?

Poi non mi va la polemica politica su queste cose, ma era forse cambiato qualcosa dopo i 386 morti annegati dell’ottobre 2013 a Lampedusa? Nulla. E’ cambiato qualcosa dopo che si è scoperto delle preoccupanti infiltrazioni mafiose al centro accoglienza di Mileto, il più grande d’Europa? No. Qualcuno si preoccupa se da questo centro come da tutti gli altri scappano a migliaia? No, anzi, in più spariscono e meglio è.

Si può sostenere che tra i migranti non ci siano terroristi mischiati insieme all’ondata di disperati? No, visto che su 170.000 persone arrivate in Sicilia l’anno scorso larga parte non sono state neppure identificate. Ma di cosa si parla se non con superficiale demagogia, in cui rischio di cadere anch’io?

Da quanti mesi i lettori di questo blog leggono il mio appello di bloccare il traffico di carne umana eliminando con i droni i barconi vuoti ormeggiati in Libia? Mesi fa era “demagogia”, ora questa necessità l’ha scoperta pure Renzi, ma sta facendo qualcosa? In concreto nulla, con l’ Europa di fatto assente e lontana – al di là delle chiacchiere - che al massimo passa una elemosina.

Si è fatto qualcosa quando il ministro Gentiloni 3 mesi fa (e non solo lui) ha annunciato la presenza di un milione di persone in attesa di transito? Nulla.

Ma ci si può fidare di organizzazioni umanitarie che spendono il 79% (settantanove per cento) dei fondi introitati in spese generali? Leggete i loro bilanci, ma di queste cose non si parla mai !!!!

Per tutti questi motivi mi sento impotente, inascoltato, non accetto la demagogia di fatto becera e razzista, le “chiusure” e l’arroganza, ma neppure quella di chi sta al governo e dice “L’Italia sta facendo” quando sostanzialmente non è vero, salvo il lavoro di tanti volontari, ma anche con un gigantesco scaricabarile e chiudendo gli occhi, come quando a Caserta nascondevano i rifiuti sottoterra, salvo poi ritrovarsi tutto inquinato. 

Nel 1978 andai la prima volta in Africa a lavorare in un cantiere del nord della Nigeria che si chiama Bakolori. Tornando scrissi “Arriveranno a milioni” Sbagliavo, sono arrivati in decine di milioni e dieci volte di più arriveranno. 

Bisognava e bisogna aiutarli nel loro paese, ma poi concretamente non lo fa nessuno. Così, tutti, “tiriamo a campare”, anche sulla pelle di chi finisce in fondo al mare.

2015/03/06

Noi e la Libia

Bisogna essere molto cauti nell’intraprendere qualsiasi azione armata ma non è neppure possibile far finta di niente, subire, non reagire, come stanno facendo in queste settimane l’Italia e l’Europa davanti al caos libico mentre l’ONU sostanzialmente decide di non fare nulla e aspettare gli eventi

D'altronde i fatti di Libia sono anche conseguenze di una politica scellerata nei confronti di Gheddafi qualche anno fa. Francia e USA ne portano per primi la responsabilità, ma come molto spesso succede “non pagano dazio”.

Ma alcune cose si possono fare, subito, davanti all’offensiva dell’ISIS cominciando per esempio a distruggere sistematicamente – vuote! – tutte le imbarcazioni e i gommoni che trasportano i disperati. Lo si è fatto a suo tempo in Albania e si può farlo anche in Libia, perché si sa benissimo da dove partano i viaggi dei novelli schiavisti e questo deve avvenire preventivamente sulla costa oppure un minuto dopo l’avvenuto trasbordo dei clandestini 

Se non lo si fa è perché non si ha il coraggio o la possibilità di farlo e la brutta figura della nostra motovedetta disarmata che deve restituire il gommone a tre tagliagole offende il buonsenso prima ancora della dignità nazionale. 

Se i migranti non sono più una questione umanitaria ma innanzitutto un ricatto politico non lasciamoci ricattare: se si sparge la voce in tutto il Nordafrica che il mare non lo si può più attraversare diminuiranno i passaggi ma se – come oggi – si strombazza in TV che tutti vengono raccolti è ovvio che il traffico si moltiplica.

L’Italia – minacciata direttamente - alzi inoltre finalmente la voce a livello internazionale CON ATTI CONCRETI perché è la Sicilia a due passi dalla Libia, non a Berlino o Parigi.

Per esempio l’Italia rimpatri (o minacci di rimpatriare) SUBITO tutte le nostre presenze militari all’estero, dall’Afghanistan al Libano al Kossovo. Sospendiamo il pattugliamento internazionale in Oceano Indiano (tanto vediamo cosa succede, per ringraziamento, ai nostri due Marò…) e per protesta si lascino tutte le missioni “di pace” (spesso quasi inutili o diventate marginali) e vedrete che qualcuno si sveglierà.

Cominci intanto a dimettersi contro l’ignavia europea anche la “ministro nulla” ovvero la signora Federica Mogherini che sta solo “nella vigna a far da palo” e conta meno di zero a livello europeo, e lo si è visto per la Libia così come per l’Ucraina. 

Un po’ di nerbo, santiddio, non la solita poltiglia italiana che ci fa ridere dietro a livello internazionale!

2015/02/04

ISIS, per mano di Obama...


La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Irak, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Irak e Siria (questo il nome completo, in inglese Irak Siria Islamic State le sui iniziali determinano la sigla ISIS) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Irak post-Saddam. Per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis è necessario fare una breve analisi sulla strategia americana nel mondo arabo negli ultimi 30 anni.

L’islamismo è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio oriente. Esso fin dagli anni ’80 costituisce il pretesto che permette agli Stati Uniti di intervenire nei paesi arabi, a seconda dei casi per aiutare gli islamici “buoni” in lotta per la libertà o per sconfiggere quelli “cattivi” che minacciano la sicurezza mondiale. Negli anni ’80 durante la Guerra Fredda l’Islam conservatore era l’alleato degli Usa nel contenere la diffusione del comunismo e dell’influenza dell’Urss nei mondo arabo. Sotto la presidenza di Reagan gli Stati Uniti armarono e addestrarono i talebani in Afghanistan per rovesciare la Repubblica Popolare e contrastare il successivo intervento sovietico. 

Al-Qaeda nasce qui, con i soldi e il supporto americano, tanto che lo stesso Bin Laden (ricordiamolo proveniente da una famiglia di affaristi sauditi in stretti rapporti con gli Usa) combatteva in Afghanistan e veniva intervistato da quotidiani occidentali come “The Indipendent” i quali lo definivano “freedom fighter”. I Talebani vennero addirittura glorificati in film come “Rambo 3″ mentre vari leader islamisti afghani furono ricevuti alla casa bianca da Reagan che li definì “leader con gli stessi valori dei Padri Fondatori”. La stessa strategia proseguì negli anni novanta con Clinton, che poté intervenire in Jugoslavia al fianco dei narcotrafficanti dell’UCK in Kosovo spacciati come difensori del proprio popolo da non meglio precisati genocidi. 

Con Bush la strategia cambia: complice l’11 Settembre, gli amici di ieri diventano i nemici di oggi. Parte una campagna propagandistica mondiale secondo cui l’Islam ha dichiarato guerra alla civiltà occidentale e ci sono arabi dietro ogni angolo pronti a farsi esplodere. Con questa scusa parte la cosiddetta guerra al terrore grazie alla quale vengono eliminati gli ex-alleati talebani ora sfuggiti al controllo e si invade l’Irak, una guerra totalmente priva di senso anche per la logica di Bush considerato che il governo di Saddam Hussein apparteneva alla corrente del baathismo laico e di tutto poteva essere tacciato tranne che di islamismo.

Con Obama la strategia cambia ancora. Adesso non esiste più la minaccia islamica: gli Stati Uniti devono intervenire per difendere i giovani della Primavera Araba in lotta contro i “dittatori” (termine indicante tutti i capi di stato non graditi all’America). Bin Laden, tenuto in vita come spauracchio durante l’epoca Bush, viene fatto fuori in un lampo, ovviamente prima che possa parlare dei suoi passati legami con gli Usa. Gli islamisti adesso sono alleati e tutti i peggiori integralisti, dal Fronte Al-Nusra siriano ai Fratelli Musulmani, vengono trasformati dai media in giovani non violenti in lotta contro la dittatura. 

Con questa scusa Obama arma delle milizie islamiste in Libia e interviene in loro supporto per eliminare Gheddafi. Ora la Libia è un inferno a cielo aperto in preda a gang islamiche mentre gli americani ne saccheggiano il petrolio. Lo stesso avviene in Siria, dove gli Usa appoggiano animali assetati di sangue come Al-Nusra e il famigerato Isis, presentati sempre come studenti che manifestano per i diritti umani. Ora invece assistiamo a un ritorno della propaganda sulla minaccia islamista da parte dell’amministrazione Obama per giustificare l’inizio di operazioni militari in Irak. 

La situazione fa quasi sorridere considerando che l’Isis sostanzialmente sono i ribelli siriani presentati come sinceri democratici e a fianco dei quali meno di un anno fa lo stesso Obama voleva intervenire militarmente. Le stesse persone al variare degli interessi in gioco passano da combattenti per la libertà a sanguinari terroristi a seconda che si trovino a ovest o a est del confine tra Siria e Irak.


L’Isis è un gruppo integralista sunnita che si propone l’obiettivo di creare uno stato islamico, il Califfato, che comprenda i territori di Siria e Iran per portare avanti la jihad contro lo sciitismo. Il terreno fertile per la sua espansione è stato creato dall’intervento militare americano in Irak del 2003. Il rovesciamento di Saddam ha causato la caduta di uno dei pochi stati laici della regione e fatto saltare il delicato equilibrio interno tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Nel caos e nell’anarchia seguenti, l’islamismo politico è potuto tornare a operare alla luce del sole con spazi di manovra di cui era precedentemente privo. 

I gruppi islamisti sono riusciti in breve tempo a raccogliere un ampio consenso all’interno delle minoranze etniche sunnite. L’Irak è infatti a maggioranza sciita, il che ha portato dalla caduta di Saddam in poi all’affermazione di governi guidati da forze politiche sciite quale quello del presidente Al-Maliki. Questo contesto a partire dal 2011 va a incrociarsi con lo scenario della Guerra Civile Siriana. Gli Stati Uniti, desiderosi di rovesciare lo sgradito presidente siriano Assad, iniziano con l'armare le milizie islamiche locali antigovernative, presentati dai media in ossequio alla linea propagandistica dell’amministrazione Obama come giovani non violenti in lotta per democrazia e diritti umani. 

In realtà come dimostrato dai fatti si tratta delle frange più sanguinarie dello jihaidismo siriano e non solo (in nome della guerra santa contro il laico Assad giungono in Siria migliaia di integralisti dal resto del medio oriente e dalle comunità islamiche in occidente). Tra queste milizie vi è anche il famigerato Isis, che cresce e si sviluppa grazie al supporto economico, diplomatico e militare di Washington. L’Isis si espande a macchia d’olio assumendo il controllo della frontiera con l’Irak, fino a iniziare a operare all’interno dello stato confinante, dove si guadagna un consistente supporto tra la popolazione sunnita e inizia una guerriglia contro il governo del presidente Al-Maliki.

L’Isis è funzionale agli interessi americani anche in Irak. Dopo la caduta del sunnita Saddam il paese, essendo a maggioranza sciita, si è avvicinato politicamente ai correligionari e all’Iran, e di conseguenza anche alla Siria alleato storico di Teheran, creando negli Usa il timore di perdere la propria influenza sul paese. Basta osservare una cartina geografica per capire che si verrebbe a creare in questo modo un asse sciita filoiraniano che si estenderebbe con continuità territoriale nel cuore del medio oriente da Teheran fino agli Hezbollah libanesi alle porte di Israele. Questo scenario è ovviamente inaccettabile per la Casa Bianca. 

L’Isis avendo come obiettivo della sua guerra santa l’Iran e gli sciiti fa dunque il gioco degli Usa. L’obiettivo di medio termine di Washington è quello di rendere controllabile il paese balcanizzandolo in tre aree, sunnita, sciita e curda. Questa intenzione non viene nemmeno particolarmente celata, tanto che per bocca del vicepresidente Biden il governo Usa ha invitato l’Irak a procedere a una riforma in senso federalista. Per questo l’Isis è stato lasciato agire fino a mettere alle strette il governo di Al-Maliki.

Con la scusa dell’avanzata del califfato gli americani hanno potuto rientrare militarmente in Irak riportando a una situazione di sostanziale equilibrio tra governo e Stato Islamico. Un intervento volutamente tardivo che se ne ha fermato l’avanzata ha permesso al Califfato di consolidare le posizioni già conquistate. Approfittando del drammatico genocidio delle minoranze da parte del califfato gli Usa hanno cominciato a rifornire di armi i curdi Peshmerga, alleati degli americani durante l’invasione del 2003 e animati da intenti secessionisti. 

La scelta di bypassare il governo iracheno e fornire armi direttamente ai curdi non è casuale, ma ha lo scopo di creare nella regione una forza armata filoamericana e separatista nei confronti di Baghdad, indebolendo ancora di più la posizione del governo centrale iracheno. Il risultato di tutto ciò è un Irak sostanzialmente diviso in tre parti: una sciita debole e alla mercé degli aiuti militari americani, una curda che vada a costituire una sorta di gendarme americano locale, e il Califfato islamico, formalmente avversato da Washington ma in realtà tollerato che continua la sua guerra regionale contro due stati sgraditi agli Usa, Siria e Iran, facendo il lavoro sporco al posto degli americani.

E’ notizia recentissima l’annuncio da parte del Pentagono della volontà di compiere raid armati nel territorio siriano per distruggere le basi degli islamisti. Qui emerge di nuovo la natura dell’islam come pretesto per le ingerenze Usa. Meno di un anno fa gli Stati Uniti volevano entrare in Siria per aiutare proprio i “democratici” dell’Isis contro Assad. Vistasi sbarrata la porta dall’opposizione russo-cinese, dopo un anno rientrano in Siria dalla finestra, questa volta con la scusa di combattere i terroristi. Chissà che, una volta entrati nel territorio di Damasco, gli uomini a stelle e strisce non estendano le operazioni anche contro il governo di Assad, magari con la scusa di qualche incidente dalla dinamica poco chiara fra i propri militari e quelli di Damasco. 

Per chiudere il cerchio, un ultimo dato. Per bocca del proprio leader, il califfo Al-Baghdadi, l’Isis ha indicato la Cina come stato nemico dell’Islam promettendo in un prossimo futuro di fornire aiuto ai gruppi islamisti Uighuri dello Xinjiang. Casualmente il principale avversario geopolitico degli Usa rientra tra gli obiettivi degli islamisti (che per esempio durante tutto il periodo dei bombardamenti a Gaza non hanno detto una sola parola contro Israele). 

E’ l’imperialismo americano la mano che arma lo jihaidismo nel mondo arabo. Il responsabile del dramma iracheno è da cercare tra le poltrone di Washington. Viste le loro frequentazioni, forse il presidente Obama dovrebbe cambiare nome in Osama.