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2018/02/12

Immigrazione e razzismo



Prendete ogni possibile aggettivo negativo per condannare l’episodio di Macerata, aggiungeteci ogni termine di disprezzo per l’autore con l’augurio che venga condannato al massimo della pena. Basta? No, raddoppiate il tutto… Ma poi fermatevi a ragionare non tanto sull’episodio criminale in sé, ma su quello che ci si è costruito sopra. A una settimana dai fatti siamo all’autoflagellazione nazionale, ci sono state migliaia di dichiarazioni, il buonismo trionfa, la sinistra (more solito) si è già spaccata anche solo nel decidere se fare o meno manifestazioni varie di antifascismo, ma senza che si abbia il coraggio di dire che queste (brutte) cose succedono perché per anni si è fatto finta di nulla e soprattutto senza tener conto che – a parte i pazzi – la gente è esasperata sul serio.

Il ritornello è “minimizzare” non l’aggressione – utile in fondo perché fa tanto “Salvini e Meloni istigatori fascisti” e quindi è merce buona per la campagna elettorale - ma minimizzare il malcontento e depotenziare i rischi del fenomeno immigrazione nella sua globalità. D'altronde non è vero che in Italia ci siano solo 500.000 persone senza documenti in regola perché purtroppo sono molte di più, ma non bisogna dirlo.

Quanti di voi hanno visto o letto dell’incendio che due settimane fa ha bruciato un intero campo profughi in Calabria con almeno 1500 immigrati allo sbando senza più nulla (né controlli), ora finiti chissà dove? Forse che in quella baraccopoli – così come in tante altre - erano presenti la legge o lo Stato?

Non è vero soprattutto - come sostiene Minniti - “Li abbiamo fermati”: solo la scorsa settimana a decine sono morti in mare ed erano tutti pakistani, ovvero “immigrati economici” a nessuno dei quali - in teoria – si sarebbe dovuto concedere asilo.  Leggi assurde che non affrontano i problemi personali: diventa fuorilegge gente che da anni lavora seriamente per integrarsi, ma viene formalmente espulsa (entrando così in clandestinità) mentre migliaia di altri disperati arrivano, si piazzano, delinquono spesso perché non hanno nulla altro da fare per vivere, perché non possono lavorare legalmente e quindi sono oggetto di abusi. Ma alla fine per la legge sono tutti uguali, senza verificare i buoni e i potenziali pericolosi. 

Intanto nessuno ammette - per esempio - il progressivo radicamento della mafia nigeriana che dopo la prostituzione sta impadronendosi del mercato degli stupefacenti e della droga, peggio della camorra nostrana. Mille articoli su Macerata, pensateci, ma quasi nessuno è andato ad approfondire perché la povera Pamela si drogasse proprio lì, e da dove venivano quegli stupefacenti. Un fenomeno che dilaga, ma non si può più proseguire senza affrontare i casi personali e le storie umane che ci stanno dietro.

Il primo passo è che bisognerebbe intanto fermare, filtrare e controllare gli arrivi perché è ridicolo, assurdo, profondamente ingiusto dare spazio a chi arriva senza regole né guerre alle spalle e fermare chi invece vuole arrivare in Italia con i documenti a posto, mentre questure e prefetture sono sommerse dalle pratiche. 
I “decreti flussi” – mezzo legale per arrivare in Italia e che andrebbero incentivati - non funzionano e sono una totale presa in giro.

Renzi – che ha avuto la faccia di tolla di sostenere che la colpa è di Berlusconi - se ne lava le mani, ma basta vedere i grafici dei flussi per vedere il moltiplicarsi degli sbarchi in questo suo ultimo quinquennio

Se il 95% degli immigrati irregolari sono d'altronde immigrati “economici” (termine arido e terribile) allora servono altre regole per gestire flussi che non siano un caos di falsa accoglienza “politica” (e relativo business) mentre la gente si esaspera perché vede, percepisce, comprende di essere esposta ogni giorno a una deformazione della realtà.
Un problema europeo che non sappiamo gestire e alla fine il cerino continua a bruciarci in mano anche perché non si sa dove sia finito il minacciato “pugno duro” su Bruxelles. 

Un tema “politico” sul quale è palpabile, evidente, conclamato il fallimento della sinistra. abbiano almeno il coraggio di ammetterlo.

2016/08/10

Marcinelle, 60 anni

Quando gli immigrati eravamo noi
L’8 agosto ricorrevano i 60 anni dalla tragedia di Marcinelle, una delle più pesanti catastrofi per l’emigrazione italiana con 136 nostri connazionali periti tra i 263 minatori bruciati o soffocati a quasi mille metri di profondità in una a miniera di carbone belga  vicino a Charleroi.

L’Italia distratta di oggi non ricorda questa pagina tremenda della nostra emigrazione né gli accordi che ci stavano dietro, ovvero il vero e proprio contratto con cui i governi italiani del dopoguerra avevano venduto le braccia di migliaia di operai – quasi tutti del sud – in cambio di quel carbone che doveva far ripartire le nostre industrie per la povertà italiana di materie prime.

Una "deportazione" vera e propria, che obbligava quelli che decidevano di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo per almeno 5 anni, pena la detenzione. L'accordo prevedeva l'invio di 2000 operai a settimana, cifra destinata ad aumentare perché dall'Italia arrivarono fin da subito anche le famiglie dei minatori, con mogli, figli, genitori. 

In cambio Bruxelles si impegnava a fornire al nostro Paese carbone a basso costo. 

Nelle città e nei paesi iniziarono a comparire i manifesti rosa di "reclutamento", che promettevano lavoro e salario, magnifiche sorti e progressive ricchezze in un'Italia disperatamente povera. 

Non erano richieste particolari attitudini, solo di avere meno di 35 anni ed essere in buona salute. Chi ha avuto modo di vedere di recente il bel film “Marina” (la celeberrima canzone degli anni ’60 fu composta dal figlio di un nostro minatore in Belgio) avrà notato le condizioni di vita di quegli emigranti e i loro alloggi: baracche di legno e lamiera in ex campi di prigionia. 

Erano quelle, almeno in una prima fase, le abitazioni dei minatori italiani, gli alloggi "convenienti" citati nel protocollo italo-belga. Le cantine trasformate in dormitori comuni con letti a castello, mentre le famiglie vivono nelle baracche. I bagni e le fontane per l'acqua erano esterni e in comune, in un paese dalle temperature non certo accoglienti. Già alla fine del 1948 nelle miniere belghe lavorano quasi 77mila italiani, ma l’emigrazione continuerà senza soste. . 

Alle 8.10 dell'8 agosto del 1956 scoppia un incendio a -975 metri nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi. In quel momento nelle viscere della terra lavorano 275 uomini. Di questi solo 13 riusciranno a salvarsi. La macchina dei soccorsi si muove in ritardo, e per due settimane si continua ad alimentare la speranza, fino a quando, il 23 agosto, vengono dichiarati "tutti morti". I processi-farsa che seguiranno assolveranno tutti i responsabili della miniera, priva di qualsivoglia sistema di sicurezza, parlando di “fatalità”. 

Fu Mirko Tremaglia – come ministro per gli italiani nel mondo – a proporre ed ottenere che l’8 agosto diventasse un giorno di ricordo nazionale dell’ l’emigrazione italiana, ma ora che non ci sono più nè il ministero e neppure un sottosegretario specifico per gli italiani all’estero di questi ricordi se ne perdono le tracce. 

Qualche ex minatore è ancora in vita come – è stato ricordato - Mario, a cui la miniera ha "regalato" la silicosi. Lui ed altri ex minatori italiani cercano di tener viva la memoria di una tragedia che molte giovani generazioni non conoscono neppure. Mario ha scritto al presidente Mattarella per avere una copia della medaglia che l'Italia diede a suo padre, anche lui minatore. Ma, dall'inverno scorso, non ha ancora ricevuto risposta. Come è stato scritto, quei minatori e le loro famiglie "sono rimasti orfani non solo dei padri, ma anche della patria".

2015/05/15

EB-5 un modo per cambiare in meglio la vostra vita


Quanti di voi hanno mai pensato che andarsene dall'Italia fosse la migliore soluzione? Ebbene, per chi non ha già raggiunto il fondo del barile ecco che si presenta una soluzione alternativa alla fuga, una soluzione onorevole e facilmente percorribile se si possiedono quelle caratteristiche imprenditoriali che possano portare alla creazione di un'impresa che produce e dia lavoro a almeno dieci cittadini statunitensi.
Chi non l'ha mai pensato?
Vediamo insieme come si fa.

Il visto EB-5 è un modo per ottenere la carta verde, e la residenza permanente, attraverso l'investimento. Il programma di visti EB-5 da investitore consente agli stranieri che fanno un investimento commerciale degli Stati Uniti di ottenere una carta verde (Green Card) e diventare residenti permanenti legali, e in seguito eventuali cittadini, degli Stati Uniti. L'investimento può portare a una Green Card per l'investitore per vivere in modo permanente e lavorare negli Stati Uniti con il coniuge e i figli non coniugati di età inferiore a 21 anni.

EB-5 Visto Immigrati Investitori

Descrizione del Visto

La USCIS amministra il Programma Investimento Immigrazione, noto anche come "EB-5", creato dal Congresso nel 1990 per stimolare l'economia degli Stati Uniti attraverso la creazione di posti di lavoro e gli investimenti di capitale da parte di investitori stranieri. Nell'ambito di un programma di immigrazione pilota per primo emanato nel 1992 e regolarmente riautorizzato, alcuni visti EB-5 vengono dedicati per l'investimento in centri regionali designati dal USCIS sulla base di proposte per promuovere la crescita economica.

L'EB-5 Adjudications Policy Memorandum è il documento guida per la somministrazione USCIS del programma EB-5. Esso si basa su una guida politica preventiva per giudicare EB-5 ed è applicabile a, e vincolante a tutti i dipendenti USCIS.

Tutti EB-5 gli investitori devono investire in una nuova impresa commerciale, che è un'impresa commerciale:

Nata dopo 29 NOVEMBRE 1990, o

Fondata o prima 29 novembre 1990, vale a dire:

1. Acquistato e il business esistente è ristrutturato o riorganizzato in modo tale che una nuova risultati dell'impresa commerciale, o

2. Estesa attraverso l'investimento in modo che si verifica un aumento del 40 per cento a patrimonio netto o l'aumento del numero di dipendenti 

Impresa commerciale: qualsiasi attività a scopo di lucro costituita per lo svolgimento di attività ancora lecita tra cui, ma non solo:

Una ditta individuale
Partnership (sia a responsabilità limitata o generale)
holding
joint venture
società
Fiduciaria o altro soggetto, che può essere pubblica o privata

Questa definizione include una impresa commerciale costituito da una holding e le sue consociate, a condizione che ogni filiale è impegnata in attività a scopo di lucro costituita per lo svolgimento costante di un business legale.

Nota: Questa definizione non comprende le attività non commerciali come possedere e gestire una residenza personale.

Requisiti creazione di occupazione

Creare o mantenere almeno 10 posti di lavoro a tempo pieno per la qualificazione dei lavoratori degli Stati Uniti entro due anni (o, in determinate circostanze, entro un tempo ragionevole dopo il periodo di due anni) per l'ammissione dell'investitore immigrato negli Stati Uniti come un condizione per ottenere la residenza permanente.

Creare o mantenere posti di lavoro diretti o indiretti:

Posti di lavoro diretti sono lavori identificabili e reali per i dipendenti qualificati situati all'interno dell'impresa commerciale in cui l'investitore EB-5 ha direttamente investito il suo capitale.

Posti di lavoro indiretti sono queli appurati essere stati creati collateralmente o come risultato di capitale investito in una impresa commerciale affiliata con un centro regionale per un investitore EB-5. Un investitore straniero può utilizzare solo il calcolo di posti di lavoro indiretti in caso di iscrizione a un centro regionale.

Nota: gli investitori possono essere accreditati solo con il mantenimento di posti di lavoro in un business in difficoltà.

Un business in difficoltà è un'impresa che è in vigore da almeno due anni e che ha subito una perdita netta nel periodo di 12 o 24 mesi prima della data prioritaria relativa all'immigrazione dell'investitore indicata sul modulo I-526. La perdita in questo periodo deve essere di almeno il 20 per cento degli affari sul patrimonio netto prima della perdita. Ai fini della determinare se l'azienda in difficoltà è in vigore da due anni, gli aventi interesse per l'attività saranno considerati solo se sono stati attivi per lo stesso periodo di tempo del business.

Un dipendente qualificato è un cittadino americano, un residente permanente o altri immigrati autorizzati a lavorare negli Stati Uniti. L'individuo può essere un residente condizionale, un richiedente asilo, un rifugiato o una persona che risiede negli Stati Uniti, in sospensione dell'espulsione. Questa definizione non comprende l'investitore immigrato; il suo coniuge, i figli o figlie; o qualsiasi cittadino straniero in qualsiasi stato non immigrante (titolare di visto H-1B) o che non è autorizzato a lavorare negli Stati Uniti.

Lavoro a tempo pieno è l'impiego di un dipendente qualificato per la nuova impresa commerciale in una posizione che richiede un minimo di 35 ore di lavoro settimanali. Nel caso dell'investitore che aderisce a un Programma di Immigrazione pilota, per "lavoro a tempo pieno" si intende anche l'occupazione di un dipendente qualificato in una posizione che è stata creata indirettamente dagli investimenti connessi con il programma pilota.

Un accordo di lavoro condiviso con il quale due o più dipendenti qualificati condividono una posizione a tempo pieno conterà come un lavoro a tempo pieno a condizione che il requisito orario settimanale sia soddisfatto. Questa definizione non include combinazioni di posizioni part-time o equivalenti a tempo pieno anche se, combinati, le posizioni soddisfano il requisito orario settimanale. La posizione deve essere permanente, a tempo pieno e costante. I due dipendenti qualificati che condividono un lavoro devono essere permanenti e condividere i benefici associati normalmente legati a qualsiasi posizione permanente e a tempo pieno, tra cui il pagamento di compensazione e di premi di disoccupazione per la posizione da parte del datore di lavoro.

Requisiti di capitale d'investimento

Capitale significa contanti, attrezzature, scorte, altro bene materiale, equivalenti di cassa e l'indebitamento garantito da beni di proprietà dell'imprenditore straniero, a condizione che l'imprenditore straniero è personalmente responsabile in primo luogo e che le attività della nuova impresa commerciale su cui si basa la petizione non vengono utilizzate per garantire qualsiasi indebitamento. Tutto il capitale è valutato al valore equo di mercato in dollari statunitensi. I beni acquisiti, direttamente o indirettamente, con mezzi illeciti (come ad esempio le attività criminali) non sono considerati capitale ai sensi della sezione 203 (b) (5) della Legge.

Nota: il capitale di investimento non può essere preso in prestito.

Investimenti minimi richiesti sono:

Generale: L'investimento minimo di qualificazione negli Stati Uniti è di $1 milione.

Area di collocamento mirato (alta disoccupazione o Area Urbana). L'investimento minimo di qualificazione deve essere all'interno di una zona con un alto tasso di disoccupazione o una zona rurale negli Stati Uniti, in questo caso l'investimento minimo di qualificazione è di $ 500.000.

Una zona di collocamento mirato è un settore che, al momento dell'investimento, è in una zona rurale o una zona con disoccupazione di almeno il 150 per cento del tasso medio nazionale.

Una zona rurale è una qualsiasi area al di fuori di una zona statistica metropolitana (come designata dall'Ufficio di Gestione e Bilancio), o al di fuori del confine di qualsiasi città o paese con una popolazione di 20,000 o più abitanti secondo il censimento decennale.

Per informazioni aggiuntive e per richiedere di aderire al programma consultate questo link: USCIS

2015/04/25

Disperati


Mi sento in profonda difficoltà a parlare delle ennesime catastrofi umanitarie nel Mediterraneo perché mi sembra di vivere una grande contraddizione. 

Tutti ci indigniamo ma poi non facciamo niente, spesso neppure neanche una piccola offerta per un aiuto, tutti straparliamo di morti in fondo al mare mentre si beve l’aperitivo al bar o al ristorante si cazzeggia davanti a una buona specialità gastronomica. 

Siamo un mondo alienato, assurdo, senza memoria. 

Una mia amica mi faceva notare di aver visto in una vetrina una borsa a 3,500 euro con due palline di pelo di coniglio sintetico (speriamo!) legate alla borsetta, in vendita (le sole palline!) a 345 euro, pur con un loro valore intrinseco massimo di una ventina di centesimi. 

Quei 350 euro sono ben di più del reddito di una famiglia del Burundi per un intero anno di lavoro: può funzionare un mondo così?

Poi non mi va la polemica politica su queste cose, ma era forse cambiato qualcosa dopo i 386 morti annegati dell’ottobre 2013 a Lampedusa? Nulla. E’ cambiato qualcosa dopo che si è scoperto delle preoccupanti infiltrazioni mafiose al centro accoglienza di Mileto, il più grande d’Europa? No. Qualcuno si preoccupa se da questo centro come da tutti gli altri scappano a migliaia? No, anzi, in più spariscono e meglio è.

Si può sostenere che tra i migranti non ci siano terroristi mischiati insieme all’ondata di disperati? No, visto che su 170.000 persone arrivate in Sicilia l’anno scorso larga parte non sono state neppure identificate. Ma di cosa si parla se non con superficiale demagogia, in cui rischio di cadere anch’io?

Da quanti mesi i lettori di questo blog leggono il mio appello di bloccare il traffico di carne umana eliminando con i droni i barconi vuoti ormeggiati in Libia? Mesi fa era “demagogia”, ora questa necessità l’ha scoperta pure Renzi, ma sta facendo qualcosa? In concreto nulla, con l’ Europa di fatto assente e lontana – al di là delle chiacchiere - che al massimo passa una elemosina.

Si è fatto qualcosa quando il ministro Gentiloni 3 mesi fa (e non solo lui) ha annunciato la presenza di un milione di persone in attesa di transito? Nulla.

Ma ci si può fidare di organizzazioni umanitarie che spendono il 79% (settantanove per cento) dei fondi introitati in spese generali? Leggete i loro bilanci, ma di queste cose non si parla mai !!!!

Per tutti questi motivi mi sento impotente, inascoltato, non accetto la demagogia di fatto becera e razzista, le “chiusure” e l’arroganza, ma neppure quella di chi sta al governo e dice “L’Italia sta facendo” quando sostanzialmente non è vero, salvo il lavoro di tanti volontari, ma anche con un gigantesco scaricabarile e chiudendo gli occhi, come quando a Caserta nascondevano i rifiuti sottoterra, salvo poi ritrovarsi tutto inquinato. 

Nel 1978 andai la prima volta in Africa a lavorare in un cantiere del nord della Nigeria che si chiama Bakolori. Tornando scrissi “Arriveranno a milioni” Sbagliavo, sono arrivati in decine di milioni e dieci volte di più arriveranno. 

Bisognava e bisogna aiutarli nel loro paese, ma poi concretamente non lo fa nessuno. Così, tutti, “tiriamo a campare”, anche sulla pelle di chi finisce in fondo al mare.

2013/12/08

Morte a Prato



Quei sette operai cinesi (dei quali 6 sconosciuti) che sono morti carbonizzati a Prato in un capannone sprangato, che anzichè essere un magazzino era diventato un dormitorio abusivo, sono già usciti dagli onori della cronaca. 
Danno fastidio alle nostre coscienze, ma soprattutto sono la dimostrazione della mancanza di assunzione di responsabilità personali in questo balordo sistema politico-amministrativo dove i “vertici” sono lautamente pagati per farlo, ma se la filano quando non fanno il proprio dovere.
Si annebbiano così le responsabilità di chi a Prato doveva intervenire per i controlli. Mentre se ne esasperano altri a colpire solo i pesci piccoli. 

Un esempio? Due mesi fa i NAS del Piemonte hanno attentamente visitato decine di aziende della zona del lago Maggiore e in una struttura alberghiera di Verbania, dopo attento sopralluogo durato ore, hanno riscontrato due reati gravissimi: 
1) A uno dei frigoriferi e congelatori dell’albergo (oltre una decina) mancava la firma dell’addetto attestante le temperature verificate nel giorno precedente il controllo. Forse non tutti sanno infatti che esternamente a ogni frigorifero due volte al giorno bisogna segnare la temperatura, quasi che  non ci si accorgesse immediatamente di eventuali guasti. 
2) Non è stato fornito il certificato attestante che l’apparecchiatura (seminuova) che deve provvedere alla sterilizzazione dei coltelli da cucina fosse a norma. Pochi lo sanno, ma i coltelli da cucina non possono (o non dovrebbero) essere lavati con gli altri quasi che anche qui non ci siano lavastoviglie moderne ad alta temperatura.  Che lo sterilizza-coltelli fosse a norma era evidente visto il tipo e la marca, ma l’attestazione non si è trovata e quindi per questi due gravissimi reati l’ammenda è stata di 6.000 (seimila) euro liquidabili in 2.000 euro “pronta cassa” con la netta sensazione che “comunque” si dovesse trovare qualcosa non a posto e soprattutto – appunto - per “far cassa”.

Vorrei allora sapere chi a Prato concede o abbia concesso le licenze edilizie e chi le verifica, quando l’Ufficio del Lavoro sia stato in quell’azienda a fare una verifica, come fosse possibile non solo avere personale “in nero” ma neppure identificabile e che cosa sia stato fatto (almeno dopo il disastro) per far chiudere aziende similari che platealmente lavorano fuori dalle regole, non fatturano, invadono il mercato di falsi, distruggono le nostre imprese con una concorrenza ovviamente spietata e soprattutto schiavizzano impuniti i propri dipendenti. 

Mi sarà sfuggito, ma non ho letto dell’arresto del responsabile di quell’azienda, ammesso che ci sia.

Non mi può bastare che alla locale Procura della Repubblica dicano “Il caos l’ abbiamo segnalato più volte, ma siamo impotenti” perché questa presunta impotenza non è accettabile quando si è pagati (bene) per controllare e a Prato ci saranno cento, mille aziende “sospette” non decine di migliaia e quindi se le attività non sono in regola per cose gravi si fanno chiudere e si espellono o si imprigionano i reesponsabili. 
Non se ne può più da una parte di vedere sfrontato sfruttamento e abusivismo e poi per contro di assistere ad una ricerca esasperata di “peli nell’uovo” pur di romper l’anima e taglieggiare gli imprenditori che più o meno cercano di seguire normative cervellotiche, assurde, costose e alla fine spesso del tutto inutili. Si vive nel terrore di sbagliare, di non conoscere qualche nuova “grida” edita dallo Stato, dalla Regione, dagli uffici provinciali o comunali, dall’ASL, dall’INPS e dall’INAIL, dall’Ispettorato del Lavoro, dai Vigili del Fuoco, dalle norme antinfortunistiche, dai Carabinieri del NAS.  

Oppure – a livello fiscale – dai vari Uffici che a volte si contraddicono tra loro.
Di solito gli imprenditori non sono mafiosi, ma purtroppo i veri mafiosi veri la fanno franca e oggi la mafia cinese è più infiltrata e pericolosa di quella di Corleone. Su queste cose è giusto che il Governo, lo Stato, la Magistratura  e le Forze dell’Ordine diano concretamente delle risposte perché non ci può essere ripresa economica davanti a queste evidenti, ingiuste, mafiose ed omertose diversità di comportamento ! 

Finale: a Prato, per quei poveri morti, adesso chi paga?
(fonte ilpunto)

2013/10/15

Reato di clandestinità?


Ancora morti nel mare di Lampedusa e l’annuncio della ministro Cecile Kyengie che – sotto l’ondata della commozione e della solita perdurante demagogia - verrebbe presto soppresso  il “famigerato” reato di immigrazione clandestina. Sarebbe questa una vera sciocchezza, come quell’ammalato che aveva la febbre e frantumò il termometro per non farsela provare. La legge Bossi-Fini è in buona parte superata perché sono cambiati i termini del problema, ma soprattutto perché non è mai stata concretamente applicata in mancanza di mezzi, volontà, organizzazione, certezza degli atti impugnati da mille TAR. Credo che dare in futuro  il “liberi tutti” sarà un disastro per il nostro paese (e una gioia per gli scafisti) moltiplicando gli sbarchi con la speranza che l’Italia sia solo una tappa di transito verso l’Europa da parte dei disperati che giungono dall’Africa, peccato che poi non riescano nemmeno a passare le Alpi, a differenza di Annibale non dispongono nemmeno di elefanti. 

Credo sarebbe invece molto più logico applicare meglio e più velocemente il diritto di asilo, dare nuove dimensioni ai flussi di ingresso, snellire la trafila per la carta di soggiorno. presidiare i porti di partenza e non chiedere tanto i soldi all’Europa (che in parte ce  li dà già) ma applicare un identica normativa in tutta la UE. Da ultimo faccio notare che in Italia arrivano in massa dall’Africa soprattutto somali ed eritrei, ovvero da nostre ex colonie. Ma se ogni paese europeo “adottasse” in qualche modo i propri ex territori coloniali - o per lo meno avesse maggior senso di responsabilità e impegno verso quei governi-dittatura ristabilendo laggiù un minimo di pace e giustizia  - parte dei problemi non sarebbero gestiti meglio e risolti alla fonte, soprattutto per aiutare quei cittadini che scappano dal caos e dalla guerra?

Ps: lettori, vi siete ricordati di dare una mano concreta alla Caritas? 

2013/10/05

Morte a Lampedusa


Evito le solite frasi di più o meno sincero cordoglio e a volte di vera ipocrisia e se chi legge ha veramente a cuore il problema offra intanto alla Caritas della sua città l’equivalente di almeno un’ora di lavoro al mese. Un piccolo segno concreto di solidarietà, perché se a Lampedusa c’è emergenza la stessa emergenza si vive da mesi in tutta Italia per migliaia di situazioni disperate di italiani e di immigrati che non ce la fanno più. 

L’aiuto della Caritas (e indico questa specifica organizzazione perché la conosco bene, è attiva in tutta Italia) è prezioso in un quadro di onestà e serietà. Meglio ancora che questo aiuto sia continuativo e se chi legge ha un po’ di tempo lo dedichi ad una collaborazione diretta con questa o qualche altra associazione simile: ne uscirà arricchito prima di tutto a livello intimo e personale.
Mai come in questo caso: "Non fiori ma opere di bene"
Fatto questo o qualcosa di analogo (perché chi non lo fa non ha il diritto di disquisire) affronto ancora una volta il problema della immigrazione clandestina senza ipocrisie e ricordando che i vivi e i morti che cercano di raggiungere il nostro paese dal Canale di Sicilia sono solo una minima parte dei disperati che ogni giorno si indirizzano verso l’Europa e l’Italia. In buona sostanza -dato per scontato l’aiuto immediato e di emergenza verso tutti che è comunque assolutamente doveroso- come Italia e come Europa dobbiamo prendere una decisione senza ipocrisie: accettiamo o contrastiamo l’immigrazione clandestina? 

Se la accettiamo senza regole la strada è fatalmente verso un “liberi tutti” e allora ci si muova nella strategia dell’accoglienza con investimenti opportuni ed indispensabili (e qui l’Europa ha molte responsabilità), se invece non si vuole accettare questo fenomeno allora si deve contrastarlo sul serio. 

Nel primo caso si deve investire in centri di accoglienza ed identificazione ma bisogna anche avere consapevolezza che se oggi si accolgono 1000 persone domani saranno 2000 e poi 10.000 perché in Africa, in Medio Oriente, in Asia ci sono decine di milioni di persone in condizioni disperate e buona parte di loro vorrebbero venire in Europa perché sperano di stare meglio, è profondamente umana questa speranza e questa necessità. Siamo pronti, li accettiamo, li aiutiamo? Se passa il tam-tam “se arriviamo lì siamo a posto” il traffico aumenterà, rendiamocene conto.

Per 155 naufraghi che ora saranno accolti a Roma il sindaco Marino va sui giornali e si guadagna l’applauso, ma quanti migliaia di senzatetto ha già la capitale e chi accoglierà quelli che arriveranno domani? Oltretutto già oggi non si riesce a respingere l’immigrato clandestino al proprio paese perché neppure lo si conosce e quindi questa gente diventa immigrata clandestina cronica con detenzione in “centri” che spesso  sono autentici lager da cui pian piano però si “filtra” di fatto fuori, di solito per uscire dall’Italia verso il nord Europa. 

Numeri, non opinioni: l’anno scorso sono stati effettivamente accompagnati alla frontiera (e magari sono rientrati due ore dopo) 4.014 stranieri, meno dell’1% di quelli stimati (per difetto) essere oggi in Italia: solo in questo dato è contenuto il fallimento della “Bossi-Fini” ma anche di tutte le norme che l’hanno preceduta.

Una volta di più c’è una ipocrisia spaventosa a cavillare per chi vuole entrare in regola (e allora la burocrazia è infinita) e chi lo fa clandestinamente e verso il quale di fatto poi “si chiude un occhio” ma che se non va a nord entra in un circuito di clandestinità dove altri sfruttatori lo sfrutteranno...

Allora accogliamo tutti ? E’ una alta e nobile concezione etica e morale soprattutto per chi sfugge da teatri di guerra, ma allora accettiamone le conseguenze con milioni di arrivi potenziali. 

Forse – in entrambi i cosi – l’Italia e l’Europa dovrebbero intanto essere più presenti non solo e non tanto a Lampedusa ma sulle opposte coste del Mediterraneo. Gli scafisti albanesi – ricordiamocelo – hanno sospeso il “lavoro” quando i gommoni sono stati distrutti a terra e mitragliati (vuoti!) dai nostri militari e il traffico non “rendeva” più perchè era diventato troppo pericoloso. Questo NON avviene in Mediterraneo là dove le autorità libiche (ma anche tunisine ed egiziane) di fatto non esistono più o sono nelle mani della mafia che è attenta regista del traffico. Gheddafi mi stava antipatico, ma l’intesa con l’Italia che ci ha permesso (come in Albania) di creare pattugliamenti misti nelle stesse acque territoriali libiche ha fermato alla partenza per mesi migliaia di immigrati. 

Se l’Europa volesse veramente bloccare almeno questo flusso migratorio con i droni (gli aerei-spia senza pilota) è possibile controllare e impedire ogni partenza intercettandola appena prende il mare, non al capolinea. Se lo si vuole fare si può, ma bisogna volerlo e fornire ovviamente assistenza alla partenza per convincere i migranti a non partire, magari ampliando gli spazi di una immigrazione controllata.  La cosa più assurda è comunque di dare l’impressione di essere leoni (a parole) ma gattini nella pratica, come sta facendo l’Italia ovvero minacciare espulsioni formali e poi non applicarle quasi mai. 

Servirebbe anche un chiarimento europeo: cosa vuol fare l’Europa per tutelare le sue frontiere? Non è vero che non stia contribuendo, ma come vengono spesi questi fondi – comunque insufficienti - è un mezzo mistero visto che servono per molti “fronti” dalle Canarie a Gibilterra alla Sicilia. Mai come ora servirebbe comunque una legislazione comune europea che purtroppo non esiste.

Un aspetto infine sugli scafisti, che regolarmente “spariscono” e la fanno franca dopo aver taglieggiato la miseria. Possibile che non sia possibile varare intanto una legge di inasprimento ossessivo delle pene affinchè i nuovi mercanti di schiavi - se finalmente presi (ma bisogna volerlo fare) restino a marcire a vita in una cella? E non solo i marinai dei barconi ma soprattutto le menti, la “cupola”, chi ci guadagna. Solo una volta ho sentito che era stato arrestato un boss del traffico: come mai? Oppure si abbia il coraggio di distruggere i barconi (vuoti) alla fonda sulle coste libiche: senza barche non si traversa e solo così meno persone – persone come me e come te, con gli stessi diritti e dignità – finiranno in fondo al mare. Il caso Albania dovrebbe pur aver insegnare qualcosa…










2012/10/23

Italiani in fuga ... a volte ritornano!


Fuga di cervelli!



Gli italiani che vogliono, vorrebbero o stanno per andare o sono tornati dall'estero si dividono in 8 categorie.

1. Quelli che sognano di partire
2. Quelli che potrebbero partire ma non vogliono
3. Quelli che vorrebbero partire ma non possono
4. Quelli che si stanno organizzando per partire
5. Quelli che sono partiti
6. Quelli che sono tornati per scelta
7. Quelli che sono tornati per necessità
8. Quelli che sono tornati e basta

1. Quelli che sognano di partire, i sognatori di mestiere, sono i più pericolosi. Sognano da sempre e nulla più. Sono quelli che si immaginano vivere in paesi tropicali, sono ricchi o sono poveri poca importanza, sole, mare, noci di cocco, pelle abbronzata... sognare non costa nulla! Sono pericolosi perché insinuano nella mente dei potenziali emigranti il tarlo della difficoltà, sognano ma non partono, invogliano ma non convincono. In questa categoria rientrano anche gli eterni indecisi che si contendono un posto anche con "quelli che vorrei ma non posso". Alla fine chi li ascolta ha solo due scelte: sognare con loro e non decidersi mai oppure mandarli al diavolo e continuare per la propria strada. Io suggerisco la seconda.
Incantatori!

2. Quelli che potrebbero partire ma non vogliono. È forse la categoria più realistica. Di questi fanno parte il 99% degli italiani che lavorano, partecipano più o meno attivamente alla vita della propria nazione, magari hanno anche considerato una volta nella vita la possibilità di partire, andarsene ai caraibi a godersi la vita, palme, sole, noci di cocco, spiagge dalla sabbia cristallina e acque limpidissime. Poi si svegliano e considerano che tutto sommato hanno tutto quello che a loro serve, i caraibi (o altro luogo, poco importa quale) sono magnifici per spendere solo qualche settimana di vacanza.
Realisti!

3. Quelli che vorrebbero partire ma non possono. Sono i più motivati, ma anche sfortunati. Conoscono tutto del luogo prescelto, dalle ore di marea alla tassa di soggiorno, conoscono anche il prezzo del kWh e del gas al mc per cucinare. Hanno già stilato budgets, cash flow, piani di rientro e business plan... hanno tutto meno una dose di risparmi sufficiente a vivere senza risorse almeno 3 mesi oppure hanno una moglie che proprio non ci sta a lasciare il proprio mondo, -mammà che farà senza di me?- Si adattano, sperano, convincono, spendono fiumi di parole e chiacchiere con amici e forum. Sono patetici e pervicaci nella loro convinzione. La gente passa e loro son sempre li e alla fine gli altri si stancano anche di ascoltarli.
Sfortunati!

4. Quelli che si stanno organizzando per partire. È questa una nuova categoria di persone, vogliono far colpo sugli amici oppure illudere gli eterni indecisi, sui forum compaiono 3 mesi prima dell'ipotetica partenza. Sono molto attivi, incoraggiano gli altri a fare il grande passo, forniscono indirizzi di chi ce l'ha fatta, di amministrazioni estere, di uffici del lavoro. Convincono tutti che partire e la migliore soluzione per cambiare radicalmente il corso della propria vita, e riescono anche a convincere qualcuno. Ad un certo punto scrivono che la data è fissata, incassano i complimenti di tutti e spariscono. Spariscono dai forums, dai virtuali amici, spariscono da un sogno e quando ricompaiono non si chiameranno più Pinco ma Pallino e il gioco ricomincerà come se niente fosse cambiato.
Patetici!

5. Quelli che sono partiti per davvero. Sono quelli che ce l'hanno fatta, non necessariamente vincenti ma almeno hanno compiuto il grande passo, si sono staccati dalla madre patria ed a prezzo di sacrifici piccoli o grandi hanno iniziato un'esistenza più adatta ai loro desideri. A questo punto della storia a noi non interessa sapere se hanno trovato il successo che cercavano, per molti il solo partire è già una vittoria, il primo passo per ricostruire si spera in meglio la propria esistenza. Molti questo passo l'hanno compiuto già da tanto tempo, sono riusciti a ricominciare da zero, sono professionisti, imprenditori affermati o semplici impiegati capaci di essere indipendenti e non pensare più al ritorno. Spesso questi individui sono quelli più disponibili a dispensare consigli e dritte per invogliare altri a seguirli all'estero e, fortunatamente, spesso ci riescono.
Meritevoli!

6. Quelli che sono tornati per scelta. Che scelta possa mai essere quella di tornare? Tornare è ammettere di aver sovrastimato le proprie capacità di vivere in un contesto diverso da quello abituale. Tornare è ammettere che lavorare in un ambiente estraneo è alienante, tornare è dimostrare d'aver capito di non avere considerato bene tutti gli aspetti di una vita lontano da casa. Tornare è ammettere, senza dirlo, di aver sbagliato. Sono pochi quelli che arrivano a questo passo, la maggior parte si rende conto quasi subito che non è stata una scelta felice e un po' per orgoglio o vergogna decide di restare, di stringere i denti ed andare avanti, consapevole di stare peggio di quando pensava di essere arrivato alla frutta. Se questi individui tornano è perche sono stati costretti o perchè il livello di sopportazione è arrivato al limite. Sono forse i migliori, ammettono tutto e cercano di informare chi si accinge a partire affinche altri non commettano gli stessi errori.
Ammirevoli!    

7. Quelli che sono tornati per necessità. Che necessità ci possa essere da spingere un individuo a lasciare tutto quello per cui si era battuto e tornare al paese natio? Di solito è una scusa... la mamma vecchia e malata, i figli che non hanno amici, le proprietà che vanno in malora senza un occhio attento, ecc ecc. Le scuse sono tante, tutte accampate per non dire, per non ammettere di aver fallito. Che poi intendiamoci bene, tornare non è una tragedia, se si ammette di aver sbagliato, un errore di valutazione è sempre possibile. Non siete esecreabili per questo. Ma obiettivamente se si decide di partire significa aver organizzato per bene il proprio distacco da tutti gli affetti e affari. Se si parte vuol dire essere certi di non avere più situazioni aperte, che si trascinano, aver provveduto per tempo e con capacità a risolvere tutto e non nulla alle spalle. Ma tornare è un fallimento e allora ecco la scusa, la necessità affinchè qualcuno possa credere. Nessuno vi metterà al rogo, purtroppo quelli che accampano giustificazione varie e pittoresche non sopportano sentirselo dire e preferiscono nascondersi dietro il classico filo d'erba consci di non avere abbastanza argomenti.
Bugiardi!

8. Quelli che tornano e basta. Delusi, distrutti, sfiancati, addolorati, forse falliti per davvero. Tornano per rifarsi ancora una vita, sono giovani quelli che tornano senza scuse, tornano e basta. Il proprio Paese è ancora li, poco importa se si stia bene o male, è li pronto ad accogliervi come il figliol prodigo e tornare serve a ritemprarsi lo spirito. Potrebbe esserci una seconda partenza e poi una terza e via in un gioco di partenze e ritorni senza fine alla ricerca della felicità eterna scoprendo di volta in volta che essa non esiste se non nel proprio ego e che forse era meglio restare per costruire meglio la propria esistenza, magari al servizio degli altri.
Demotivati.

E voi? A che categoria pensate di appartenere?



2012/10/01

L'espatriato come scelta o necessità?


Emigranti italiani a Ellis Island, New York
Leggo su facebook una discussione nella quale mi ritrovo inconsapevolmente sul banco degli accusati a causa di un mio articolo sull’opportunità di cambiar vita riciclandosi in Vietnam. La discussione parte dal Vietnam e vira con disinvoltura verso opinioni diverse riguardo il lavorare o meno all’estero come espatriato, brutta parola molto usata in Italia per indicare colui che va all’estero a lavorare per brevi o medio lunghi periodi ma che prima o poi rientrerà a vivere nel bel paese. È solo uno spunto per iniziare il discorso che spazierà sopra e sotto l’argomento analizzando paure e motivazioni di chi sceglie o viene scelto per una vita lontano da casa fino a quando il resto del mondo diventa la sua casa o si ritorna in Italia.

Partiamo dalla storia, noi italiani siamo famosi per l’alto numero di emigranti negli ultimi due secoli. In effetti l’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei caratteri più singolari e caratteristici della storia contemporanea del nostro paese. L’interesse per il tema rimane tuttora forte, a causa dei recenti, diffusi fenomeni di xenofobia verificatisi in una nazione a lungo protagonista di flussi verso l’estero, e per l’ampio dibattito riguardante il voto degli italiani all’estero. Appare utile quindi riandare con la memoria a quando l’Italia divenne protagonista del fenomeno.
‘Nce simmo a la partenza... io mme ne vaco... addio... Napule bello mio, non te vedraggio cchiù. Quanto ’nc’è de cchiù caro dinto de te se ’nzerra... addio... addio. ’A chiagnere mme vène, Napule bella, addio... addio... addio... lo paraviso mio, sempe pé me tu sí...
Loro, gli emigranti in partenza, i loro fratelli, le loro madri, i loro figli che restavano in patria, non dicevano mai addio, dicevano:
“Guagliù, Carmè, oj mà, nun dico: - Addio! - pecché ve porto dint’ ’o core mio!”2.Partivano, ma in cima ai loro pensieri restava sempre e solo Napule, perché... ogne napulitano vo’ a Napule campà...e llà vo’ murì…. Là, ’nterra ’a banchina, si dicevano: “tuorn’ampressa”, “turnarraggio”; “scriveme”, “te scrivarraggio”.
Anche la giovane donna di cui parla Viviani in Chistu è ’o vapore, pur disperata per la prematura separazione, così mescolava commozione e speranza mentre lui partiva per la “terra promessa”: “...me restarrà fora ’a banchina, malata ’pucundria... sola comm’ ’a Maria; partarrà pe’ fa’ fortuna... pe’ ce puté spusà”.
Non tutti partivano da soli. Con il cuore in lacrime, ma colmo di speranze, c’era chi portava con sé tutto ciò che aveva, la famiglia: “E lasso ’a patria mia, l’Italia bella, pe’ ghi luntano assaie, ’nterra straniera. E sott’a n’atu cielo e n’ata stella, trasporto li guagliune e la mugliera”.
La maggior parte di loro non parti' per l'America col progetto di restarci, anzi erano considerati uccelli di passaggio e in quanto tali ritenuti inaffidabili. Un motivo in più per guardarli con sospetto. Furono migliaia i nostri concittadini che specialmente tra la fine dell'800 e i primi anni del 900 sbarcarono nei porti di Baltimora, Boston, New Orleans, New York e Philadelphia. Il il 75% degli immigrati erano agricoltori in Italia ma non aspiravano ad esserlo negli Stati Uniti (in quanto questo implicava una permanenza che non era nei loro piani). Al contrario, si diressero verso le città dove c’era richiesta di lavoratori e dove le paghe erano relativamente alte. Molti uomini lasciarono a casa mogli e bambini, perché convinti di ritornare (e molti, moltissimi lo fecero), ma i napoletani non ripudiarono mai la loro città, anzi continuarono a vivere secondo il loro stile di vita tutto partenopeo. È anche certo che vari cognomi furono trascritti erroneamente a causa della scarsa diligenza e conoscenza dell’italiano da parte del personale di bordo addetto e – sembrerà incredibile ma molti emigranti non erano in grado di indicare correttamente il proprio cognome , ma mai si scordarono il paese di provenienza , la provincia e la loro terra natia.
Lo skyline di New York negli anni '40

Trattandosi di un argomento prolungato e complesso, è auspicabile l’individuazione delle varie fasi, diverse tra loro per caratteristiche demografiche e sociali; cronologicamente, la classificazione più diffusa ne propone cinque:
-la prima, dal 1861 al 1900;
-la seconda, dal 1900 alla prima guerra mondiale;
-la terza, tra le due guerre;
-la quarta, dal dopoguerra agli anni ‘60/’70;
-la quinta, dal 2007 ad oggi a causa della perdurante crisi finanziaria.
(la prima rilevazione ufficilale risale al 1876 e della fase precedente esistono solo stime, che aiutano comunque a comprendere l’evoluzione di un fenomeno non riconducibile alla sola età contemporanea).
Tra il 1861 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord Africa.
Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1861 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da sole il 47% dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia.
Già nel tardo medioevo si evidenziano alcune tipologie ricorrenti: il ruolo di polo attrattivo delle ricche città del settentrione d’Italia, i flussi dal contado alla città, i movimenti dei mercanti italiani verso l’Europa e le colonie veneziane; la persistente mobilità di alcuni gruppi (militari, studenti, religiosi): tutti esempi uniti dalla temporaneità dell’emigrazione, che non intaccava il forte legame con la terra d’origine.
In età moderna si verifica il declino del ruolo delle città (comunque importanti fattori d’attrazione), la nascita di Stati regionali autori di politiche demografiche strutturate. Nel complesso, il paese appare diviso in tre aree: il nord, area sottopopolata che utilizzava l’emigrazione come risorsa economica; il centro, caratterizzato dalla mezzadria e da spostamenti brevi ma spesso definitivi; il sud, latifondista, con flussi bracciantili stagionali dovuti allo sfalsamento dei ritmi agricoli. In aggiunta, le isole rimanevano un’area difficilmente inquadrabile: la Corsica restava terra di partenza soprattutto per i suoi militari, dalla fama diffusa; la Sardegna, priva di flussi e la Sicilia, da sempre terra d’immigrazione. Rimangono forti, nel periodo, gli spostamenti “religioni causa” e quelli dei mercanti, che giungono a creare alcune comunità nazionali nei vari paesi.
Agli inizi del 1800 quindi si registrano soprattutto movimenti politici, specie verso la Francia, e controlli più accurati degli Stati sui flussi, indirizzati verso le aree sottopopolate o da bonificare: come si vede, al momento della “grande emigrazione” la società italiana è abituata all’idea della migrazione come via d’uscita da una condizione di disagio. Questa “eredità immateriale” necessita solo di alcune concause per svilupparsi.
Le cause avanzate per spiegare l’imponente crescita dei flussi sono varie, e si concentrano per lo più sul mondo delle campagne, il “serbatoio” inesauribile di emigranti. La società agraria appare attraversata da una crisi profonda, strutturale, non riconducibile esclusivamente alla pur grave crisi agraria dovuta all’invasione dei grani americani che, sfruttando i progressi della navigazione a vapore e beneficiando della meccanizzazione del settore che consentiva costi di produzione infinitamente minori, annientarono, semplicemente, ogni agricoltura aperta al mercato. Innanzitutto, va sottolineata la crescente pressione fiscale dello Stato unitario, ben più rigida, al Sud, delle precedenti. Inoltre, la vendita dei beni della Chiesa, l’abolizione degli usi civici e la liquidazione dei demani avevano favorito l’ascesa dei nuovi ceti borghesi, privando il mondo contadino di antichi diritti comunitari che, spesso, costituivano importanti voci nei bilanci familiari.
Secondo recenti statistiche, gli italiani all’estero sarebbero 4 500 000. Gli oriundi, secondo il Ministero degli Esteri, sono 58 500 000; un’altra Italia.
La Tour Eiffel a Parigi, Francia
Perchè espatriare?

La vita da espatriato è tra le più facili: personalmente il tagliare i ponti con il proprio ambiente non è costato molto, sono chiuso di carattere, riservato e gli amici... gli amici sono rimasti sempre gli stessi. Prima ci si sentiva al telefono, in seguito un’email era il mezzo più semplice oggi c’è facebook che non te ne fa perdere di vista neppure uno. Gli amici non ti mancano quando decidi di tagliare i ponti con un tuo recente passato per crearti un nuovo futuro, speri che sia migliore del tempo appena trascorso e ci metti tutto l’entusiasmo per riuscire ma non sempre dipende da te. La sfida più grande è inserirsi senza danno in altre culture a volte diversissime, esporsi a personalità, situazioni, pericoli estremi; lanciarsi verso l'ignoto senza un paracadute a attutirne l’atterraggio spesso morbido ma non necessariamente, ricreare relazioni di lavoro e sociali, e tornare a tagliare i ponti, ricominciare da capo, con altre sfide, altri rischi, altre culture.
È un percorso che in genere inizi da solo, probabilmente non ti sei neppure sposato, non convivi, se avevi una fidanzata probabilmente ti ha lasciato o vi siete lasciati quando le hai comunicato l’intenzione di voler partire. Non va sempre così intendiamoci, non è la regola ma fa parte della casistica, viene considerata dalla maggior parte degli analisti, studiata. Ci sono due tipologie di italiani inclini a partire per cercare nuove esperienze fuori dai confini: chi già possiede un bagaglio di esperienze familiari e chi decide di tentare la carta dell’estero come alternativa a quello che ha in Italia.
Nel primo caso la strada risulta spianata almeno a livello emozionale, in genere si cerca di ripercorrere la strada compiuta dai genitori, non necessariamente andando alla ricerca delle passate emozioni.
Condividere tutto ciò con una persona amata diviene più complicato. Le priorità, le scelte, le sofferenze sono affrontate in due, ma il rispetto delle esigenze di due persone spesso non combacia con i tempi e l'assenza di normalità di un mercato del lavoro sregolato come quello dell'espatrio.
Le parole chiave divengono mediazione, adattamento, flessibilità. E gioia di scelte comuni.
È luogo comune che la vita di chiunque cambia radicalmente con l'arrivo di figli.
Nel caso di un espatriato, si amplifica all'estremo la sensibilità ed il senso di responsabilità e protezione per i propri figli, esposti, non per scelta, ad una vita che “normale” non é. Ma la “carriera” da espatriato diventa la quadratura del cerchio, tra esigenze e tempi di lavoro che non combaciano coi tempi della vita di famiglia, la scuola dei figli, proposte che non si possono rifiutare in tempi e luoghi impossibili per una vita di famiglia.
Cape Town, South Africa sullo sfondo della Table Mountain

L'espatrio con famiglia condivide con le altre forme di espatrio tutte le difficoltà, ma le amplifica: gli assignments sono più lunghi, a causa dei costi che le società sono costrette a supportare: doppi biglietti aerei, a volte tre, quattro o undici persone come, un caso limite, capitò in Cina dove il Capo Cantiere aveva moglie, otto figli e la nonna che non poteva essere lasciata sola a casa, e comunque le condizioni di vita e di esposizione ai esasperano quelle che sono le costanti dell'espatrio.
Spesso si lavora sono in luoghi remoti in paesi in cima alla lista di quelli più poveri del mondo, a volte in città senz'acqua potabile nè luce, e sono una selezione formidabile per chi vuole continuare in quest'ambito. Spesso l'equilibrio psicologico viene messo sotto pressione dalle atrocità viste e vissute, dalla familarità con la morte e la miseria, e le contraddizioni del mondo del consumo globale esplodono come un re nudo nella parola che meglio definisce la relazione tra paesi ricchi e poveri: inequità. E tutto questo si ripercuote nell’ambito familiare creando inutili tensioni e alla fine ci si domanda se ne vale veramente la pena.
Molti mi hanno chiesto se è possibile fare una vita normale, con una famiglia, e continuare a sentirsi un espatriato o voler vivere da espatriato a questo punto non si nemmeno più se per scelta o necessità. Quasi sempre prendo un bel pò d'aria nei polmoni prima di rispondere, e penso alle spiagge con la sabbia bianca e finissima, a un mare color zaffiro, a una vegetazione fitta, a mia moglie e mio figlio abbronzati e felici. E, dopo aver squadrato con occhio clinico l'interlocutrice o interlocutore, rispondo (quasi sempre) di sì.
Certo, non è facile, e il tasso di separazioni e divorzi in espatrio è più alto che quello medio nei nostri paesi d'origine; certo, lavorando all’estero è ancora più difficile perché l'incertezza sul futuro è altissima, e le ferite psicologiche accumulate lasciano profonde cicatrici.
Se ti guardi allo specchio e ti chiedi chi sei e che ci fai qui, se tua moglie si innamora di un altro, se tuo marito s'innamora di un'altra, non hai la tua rete di protezione, le tue amiche e i tuoi amici più fidati sono distanti qualche migliaia di chilometri, e molto spesso non hai la possibilità di prenderti tempo o spazio per te stesso, spesso perché sei sotto i riflettori, hai una posizione da difendere, un lavoro importante, la responsabilità di un certo numero di persone che dipendono da te, dalle tue capacità di gestire gli imprevisti, di uscire dalle situazioni pericolose, dal progredire sempre e comunque secondo i programmi non fermandosi – apparentemente – di fronte a nulla. Da qualche anno benedetti siano l'e-mail, le chat ed i telefoni voip, skype e messenger, i telefoni cellulari, l’iphone e molti altri smart phones che accorciano le distanze (ma perché gli italiani non leggono mai le loro e-mail?).

Espatriare per scelta o necessità?

Impossibile da definire, dopo la prima volta quasi sempre per necessità, diventa per scelta, la trepida attesa di una telefonata, un’email, la prossima proposta sul prossimo paese diventa di colpo l’obittivo da raggiungere, il target dei desideri, ci si proietta con i sogni nella nuova destinazione: africa, asia, america. Non importa dove sia, vi vedete già li. Ci sarà la scuola inglese? È un paese sicuro? La città ha una vita culturale? Le donne possono vivere normalmente? Le relazioni sociali sono aperte, tollerate? Riusciremo a comunicare con una delle 4 lingue che conosciamo? Se ne parla con la famiglia, con moglie e figli quando questi sono in grado di emozionarsi, di condizionare le nostre scelte. Loro i figli non decidono mai almeno fino ai dieci anni, poi diventano la vostra ancora, il peso che vi tiene fermi, che non vorrebbero mai partire. Il cane, parliamo anche di animali, mai sottovalutare la loro presenza,
che ho adesso tutte le volte che si deve partire gioca a nascondino, lei vorrebbe restare a casa, non importa quale casa, l’ultima dove ha vissuto momenti felici, apprezzato l’ambiente e le persone. Si nasconde, si nega, recalcitante a farsi infilare in una stretta e buia gabbia per viaggiare lontano. Noi no, alla prima email via a cercare informazioni su internet, sottoponendo a stressanti conversazioni gli amici, quelli che ci sono già stati, quelli che ne hanno sempre parlato bene. Lunghe chiacchierate, e quando abbiamo quasi deciso hop, arriva un'altra mail. Altro continente, altre condizioni, altro paese, altra cultura, altra lingua - e le stesse domande. E quando pensi di aver preso la decisione, ti dicono che ora quella posizione è “già coperta”. E via, si ricomincia.
La Grande Muraglia, Cina

Un rischio della vita dell'espatriato è di vivere come una specie di parentesi, più o meno avventurosa o gratificante, della tua vita. Nulla di più rischioso. La tua vita è oggi, radicata nel tuo ieri e proiettata nel domani; e sebbene il tuo oggi da espatriato sia radicalmente diverso dal tuo ieri, ed il tuo domani stia nelle mani dell'oracolo di Delfi, è il tuo oggi, qui, che definisce e scandisce il tuo essere vivo. Oggi, nel mondo della comunicazione totale e delle sue contraddizioni, la figura dell'espatriato è una figura di precursore della mobilità estrema e dei mercati globali. Sempre più contratti a tempo, sempre più pressione sul lavoro, sempre più incertezza e flessibilità, sempre più necessità della capacità di analizzare la complessità, e prendere veloci decisioni (sul lavoro, nella vita) sulla base di una lettura rapida dei segni della situazione. Dicono che le cose che più generano stress nella vita di una persona sono, nell'ordine, un lutto, il divorzio ed un trasloco. Nei 34 anni passati ho cambiato casa 16 volte, in 14 paesi differenti, ed ogni volta è stato un rinascere, una reincarnazione. Amo cambiare, adoro scoprire un paese nuovo, conoscere gente nuova, imparare con umiltà i mille segni della cultura di un popolo nuovo e delle sue idiosincrasie, ricominciare a relazionarmi e prendere le misure in un ambiente sconosciuto.
Casa, dolce casa. 

Dov'è, per voi “casa”? È il luogo di ritrovo della famiglia fra un viaggio e l’altro oppure l’ultimo tetto dove avete vissuto più o meno intensamente, è l’avventurosa vita ai confini del mondo, magari in una capanna di legno e paglia o quella bella villa che una vita di lavoro da espatriato ha permesso di acquistare? Le risposte sono tra le più svariate, anche se sembra esserci una regola di base che separa le coppie di una stessa nazionalità da quelle miste. Tra queste ultime, sono parecchie le coppie che visitano un paese d'origine un anno, e l'altro l'anno seguente; ma quelle con figli in età di studi universitari sparsi in diversi paesi le cose si complicano. È per questo che per molti espatriati l'idea del “ritorno a casa” assume un valore assai relativo; diventa un ritorno a una normalità che ci si era dimenticati, di una vita piatta dalla quale si era fuggiti, anche se lo avete pianificato, anche se lo sapevate fin dall’inizio che prima o poi fosse previsto un “ritorno a casa” di colpo diventa come la fine di una fase della vostra vita, spesso tornare a casa viene vissuto in modo assai traumatico, fino a non riuscire a reinserirsi in una vita normale. Chissà, forse perché non esistono ritorni al punto di partenza, perchè “home” cambia in conseguenza del vostro status, della collocazione dei vostri interessi, della vita che vi siete costruiti e anche delle scuole dei figli da cui non vorreste staccarvi mai, cercando di mantenere un cordone ombellicale virtuale con loro dimenticando che la vita è anche quello.
All'altro lato del ventaglio stanno gli espatriati che non tornano mai, nemmeno in vacanza, al paese d'origine, e che negano parte del passato, novelli emigranti nomadi e raminghi nel mondo, apolidi privilegiati. Infine, esiste una categoria particolare di espatriati che ricostruiscono, altrove, le stesse dinamiche che avevano in precedenza, con puntigliosa dedizione.

Espatriati per scelta, espatriati per forza.

Questi ultimi si chiamano figli, che non scelgono, bontà loro, di esserlo - ci si trovano, semplicemente, come condizione di vita. E quante domande, quanti dubbi - gli stessi di tutti i genitori, solo ampliati in alcuni aspetti non trascurabili. Come sarà l'equilibrio psicologico, la capacità di relazionamento sociale, di questi figli di nomadi per lavoro, scelta o necessità, figli che cambiano ambienti e amici con una regolarità maniacale da orologio svizzero? Figli che si ritrovano proiettati dalle foreste dell’Amazzonia alle caotiche vie di New York, o dalle calde spiagge delle Fiji al freddo pungente della Danimarca? Come sarà la loro relazione con concetti diversi ogni volta e pletore di valori, che i loro coetanei apprendono ancora  sempre nello stesso ambiente stabile e invariabile? Che cultura penseranno propria? Saranno girovaghi incapaci di adattarsi ad un posto solo, o al contrario vorranno radicarsi perché non l'han mai fatto da piccoli? Quanto influirà sulla loro personalità l'aver interrotto le relazioni d'amicizia, aver avuto migliori amici spezzettati e a singhiozzo? Quanto sarà utile l'essere passati attraverso una serie di traumi ed adattamenti? Che visione potranno avere del mondo, dopo averlo vissuto come un ambiente unico e dinamico, se un giorno metteranno radici in qualche sua parte? Sarebbe meraviglioso vedere i figli crescere saggi, aperti, permeabili, con una capacità di adattamento e di lettura dell'esistente ad un livello ben differente dai loro coetanei, forse nella realtà sarà così? Pagheranno lo scotto di non riconoscere i mille riferimenti non detti di una cultura, ma spazieranno con agilità e libertà d'opinione su varie culture, con un'apertura di spirito ed una disponibilità al conoscere invidiabile alla quale nessuno dei coetanei vissuti sempre nello stesso nido sarà mai capace di accedere.

Equilibrium (Vietnam 2012) 
L'espatrio è un momento di solitudine e un'esperienza in generale incompresa.

Quando ti trasferisci in un nuovo paese ti devi inserire, con tutte le difficoltà a ciò legate, quando torni nessuno capisce il tuo senso di estraneamento. Soprattutto in questa fase è molto importante essere supportato da qualcuno che ha già vissuto la stessa esperienza, altrimenti diventa tutto più difficile e doloroso. Il rientro è infatti uno dei momenti in assoluto più duri.

Ma tu sei espatriato per scelta o necessità?