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2014/11/02

Spostati Silvio !!!


Consueto appuntamento settimanale con la politica di casa nostra. Noto con dispiacere che da noi i politici sono "per sempre" mentre all'estero preferisconofarsi da parte per far posto alle nuove generazioni. Parliamo del sempreverde - a parole ma non nei fatti - Berlusconi, che intende ricandidarsi per affossare ancora un po' la destra. Allora il titolo appropriato a questo post potrebbe essere "Spostati Silvio". Vai via, lascia un pizzico di autodeterminazione a questo paese martoriato dai tuoi errori e di quelli che sono venuti prima e dopo. Lascia a noi la scelta di capire quale potrebbe essere la strada corretta, lo capiremo prima o poi, anche senza la balia. Troppo comodo adesso dichiarare che le scelte di Renzi (che non sceglie) erano le vostre, quando eri tu li come mai non hai attuato quelle riforme? Lo sport della dietrologia in Italia non muore mai, come la mamma degli imbecilli. 
Adieu Silvio!

Berlusconi ha annunciato per primavera il “rilancio” di Forza Italia mentre molti segni danno per possibile un riavvicinamento almeno elettorale dei diversi partiti del centro-destra, unico modo per opporsi allo strapotere di Matteo Renzi, che peraltro afferma concetti sempre più vicini al centro o addirittura al centro-destra che non alla sinistra. Credo però che per riproporre nel centro-destra una alleanza seria, organica, potenzialmente capace di tornare a vincere, si deve passare però attraverso 2 strettoie: il ritiro di Berlusconi dalla politica attiva e un sistema elettorale che torni a premiare la qualità degli eletti, come dovrebbe essere un obbligo programmatico per chi sta a destra e tendenzialmente crede nella qualità, nella selezione e nel valore del singolo.

Resti un Berlusconi “presidente onorario” e certo non sbeffeggiato, che continui a essere parlamentare “a vita” se gli servisse per essere tutelato dai colpi di coda dei giudici, ma che non sia più “dominus” di una situazione politica che con lui in campo – anzi, addirittura capitano della squadra – rende le cose molto più complicate.  Giusto o sbagliato che sia e piaccia oppure no, per la stragrande maggioranza degli italiani – anche a destra - Silvio Berlusconi non è più credibile, è diventato un formidabile tappo al rinnovamento, al rilancio, al far apparire all’orizzonte della anti-sinistra persone nuove che proprio del Cavaliere (ex) ne possano e sappiano continuare l’impegno.

Coraggio, Presidente! Abbia la forza di un passo indietro ben sapendo che è difficile, duro e forse anche ingiusto, ma questo suo ritiro è necessario. Lo legga come un suo sacrificio per l’Italia che dice di amare e poter così riproporre una parte politica che frantumata e divisa non va da nessuna parte ma che con lei ancora alla testa è purtroppo condannata a perdere, soprattutto perché dimostra di non sapersi rinnovare. Perché non si comincia a chiedere e a sostenere questo aspetto a tutti i livelli, perché si tace quando questo concetto è invece condiviso dalla stragrande maggioranza degli italiani? Sembra che nessuno abbia il coraggio di vedere che “Il re è nudo”, però quando quel bambino della fiaba cominciò a dirlo, tutti se ne accorsero e condivisero!

E qui scatta il secondo blocco: il sistema elettorale presente (e futuro, se non si cambia) che premierà solo gli yesman a destra come a sinistra e questo è profondamente sbagliato perché fermerebbe l’Italia con la sua definitiva condanna alla serie B. In questo senso l’accordo Renzi-Berlusconi è pericoloso per tutti, una stretta mortale al rinnovamento e che a oggi premierebbe tra l’altro solo e soltanto Matteo Renzi che ha capito da tempo le debolezze di Silvio e intelligentemente lo seduce salvo poi proporre disegni non graditi all'esimio quanto decaduto partner virtuale. Spostati Silvio, lascia libero il campo, lascia che siano le generazioni future a gestire il paese, quelle passate ormai hanno perso la grinta e lo smalto e incamerato fortune gigantesche in conti svizzeri e caraibici. Ordunque, lascia che altri riempiano i loro forzieri di idee non già quattrini, quelli ormai te li sei fregati tutti tu e la tua cricca dalle tasche degli italiani.


2014/10/27

Mamma, dona i miei occhi, il mio cuore...


La lettera alla madre di Reyhaneh Jabbari, la 26enne impiccata il 25 ottobre a Teheran perché si era difesa dall'uomo che voleva violentarla.

«Cara mamma,
oggi ho scoperto che è arrivato il mio momento di affrontare la Qisas (1) . Mi fa male pensare che tu non mi abbia informato che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di mio padre? 

Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella notte terribile sarei dovuta essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificarmi e solo in quel momento avresti capito che sono anche stata stuprata. 
Non avrebbero mai trovato l’assassino visto che non siamo ricchi come lui. Tu avresti vissuto soffrendo e vergognandoti e saresti morta per colpa di questo dolore.

Con quel "maledetto colpo" la mia vita è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da nessuna parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. Poi in quella di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti: tu sai bene che la morte non è la fine. Proprio tu mi hai insegnato che si vive per fare esperienze e imparare. Ogni persona che nasce ha sulle spalle una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare.

Mi ricordo quando mi hai detto che l’uomo che guidava la carrozza ha protestato contro l’uomo che mi stava fustigando, ma poi mi hai detto che lui l’ha colpito con la frusta in testa e in faccia, ed è morto. Mi hai insegnato che se uno crede in un valore ci deve credere fino alla morte.

Quando andavo a scuola mi hai insegnato che dovevo sempre comportarmi “come una signora” davanti alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto ci tenevi a questa cosa? Questo tuo insegnamento è sbagliato. Quando mi è successo questo incidente, il tuo insegnamento non mi è stato d’aiuto. Come mi sono presentata davanti alla corte mi ha fatto sembrareun’assassina fredda e premeditatrice. Come mi hai insegnato tu non ho pianto, non ho implorato perché credevo nella legge.

Ma sono stata anche accusata della mia indifferenza davanti a un crimine. Tu lo sai, io non ho mai ucciso neanche una zanzara, per liberarmi dagli scarafaggi li sollevavo prendendoli dalle loro antenne. E ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato dal giudice come un comportamento maschile, ma non si è nemmeno preoccupato di notare che nel momento dell’incidente avevo lo smalto.

Che ottimista colui che crede nella giustizia. Il giudice non hai mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, di un pugile. E questo Paese che amo grazie a te, non mi ha mai voluto. Nessuno mi ha sostenuto quando incalzata dagli inquirenti piangevo e gridavo per quei termini così volgari. Quando ho perso anche il mio ultimo segno di bellezza rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.

Cara mamma, non piangere per queste parole. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia un agente vecchia zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non è per quest’epoca. La bellezza di un corpo, dei pensieri, dei desideri, degli occhi, della bella scrittura e la bellezza di una voce. 
Cara mamma, i miei ideali sono cambiati e non è colpa tua. Le mie parole sono eterne e le affido a qualcuno così quando verrò impiccata da sola, senza di te, saranno date a te. Ti lascio queste parole scritte come eredità.

Comunque, prima della mia morte, vorrei qualcosa da te. Qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo Paese e anche da te. Lo so che hai bisogno di tempo per questa cosa, ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dalla prigione perché il capo non l’approverebbe mai, soffrirai ancora per me. È una cosa per cui potrai anche implorare, anche se ti ho sempre detto di non implorare per la mia salvezza.

Mia dolce madre, l’unica che mi è cara più della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque cosa possa essere trapiantata venga data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il mio destinatario conosca il mio nome, o che mi compri un mazzo di fiori o che preghi per me. Dal profondo del mio cuore ti dico che non voglio una tomba su cui tu puoi piangere. Non voglio che tu ti vesta di nero, fai il possibile per dimenticare questi giorni difficili. Dammi al vento che mi porti via.

Il mondo non ci ama, non ha voluto che si compisse il mio destino. Mi arrendo a esso e accetto la morte. Di fronte al tribunale di Dio accuserò gli ispettori, accuserò i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato e minacciato. Accuserò Dr. Farvandi, Qassem Shabani e tutti quelli che per colpa della loro ignoranza o delle loro bugie mi hanno messo in questa posizione e ucciso i miei diritti oscurando che a volte quello che sembra verità non lo è. Cara mamma dal cuore tenero, nell’altro mondo saremo io e te gli accusatori e gli altri gli accusati. Vedremo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. 


Ti amo, 
Reyhaneh»


(1) la legge del taglione in Iran, ndr

2014/10/25

Gli scialatori...


No, non mi sono sbagliato, scialatori, coloro che spendono e sprecano, in questo caso, denaro pubblico. In questo modi si dovrebbero chiamare i presidenti delle regioni a statuto speciale dove sembra, ma è solo un'impressione, che tutto vada bene invece va male come nel resto d'Italia. Parliamo oggi di politica, tanto per cambiare, di quella schietta e pungente e vediamo se a qualcuno viene in mente che gli italiani non sono sempre mucche da mungere ma hanno un cuore e un'anima anche quando si lamentano e dicono che non arrivano a fine mese.

Mentre Renzi sulla legge di stabilità fa un po’ il gradasso in Europa (e vedremo come finirà) tiene banco la polemica sui “tagli” agli enti locali e specialmente alle regioni.
Se si vuole risparmiare perché non si spiega chiaramente agli italiani i motivi per cui le regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Valle D’Aosta) possono spendere infinitamente di più rispetto a tutte le altre?

Lasciando perdere Molise e Valle d’Aosta che sono micro-regioni (e dove peraltro – secondo Confartigianato – circa il 75% dei dipendenti non sarebbe indispensabile) perché in Lombardia – e considerando nel conteggio sono esclusi i dipendenti della sanità – bastano 3 (tre!) dipendenti regionali ogni 10,000 abitanti che salgono a 6 in Veneto e a 7 in Piemonte mentre in Sicilia ce ne devono essere 38, ma anche 25 in Sardegna e – sempre ogni 10,000 abitanti -  ben 85 a Bolzano con il record di addirittura 90 a Trento, ovvero trenta volte di più per ogni abitante rispetto alla Lombardia?  

Certo che poi a Trento e Bolzano si sta bene, ma i servizi offerti ai siciliani sono forse dieci volte migliori di quelli lombardi o invece è l’esatto contrario? 
In realtà in Sicilia (come a Trento e Bolzano) si sciala e si è super-sprecato nel tempo e allora Mr. Renzi tolga a queste regioni una parte delle loro risorse e non pretenda di farlo allo stesso modo con quelle regioni che – pur tra tanti sprechi - almeno dimostrano di saper impiegare meglio i propri soldi.

Perché di sprechi ce n’è e se ne continuano a fare , anche in Piemonte. 
Questa settimana, per esempio, agli insegnanti piemontesi è giunta, stampata a spese del consiglio regionale, la “AGENDA SCUOLA 2014-2015” ovvero un semplice diario scolastico che, comunque è arrivato 40 giorni dopo l’inizio delle lezioni, non serve a nessuno. Quanto è costato, pur impreziosito con la ridondante presentazione del neo-presidente  Mauro Laus che nel presentare il diario arriva addirittura a citare Victor Hugo e “I Miserabili”? 

Certo nessun insegnante piemontese leggerà le corpose pagine allegate del “Contratto Collettivo nazionale del Comparto Scuola quadriennio giuridico 2006-2009 sottoscritto il 29.11.2007 con successive modificazioni” che, più economicamente, è gratuitamente disponibile (aggiornato) su internet!

Bisogna risparmiare, certo, ma anche avviarsi sulla strada di trasferire a ogni regione e ogni comune lo stesso importo per ciascun suo cittadino oppure trasferire di più ma solo in cambio di obiettivi strategici raggiunti. 
Circa poi l’essere regioni “a statuto speciale” poteva avere un significato 60 anni fa ma non più oggi e quindi questi benefit devono ridursi perché sono ingiustificati per le finanze pubbliche. Perché un paese montano in provincia di Trento deve ricevere così tanto di più rispetto a uno ossolano, valtellinese o a un confinante comune bellunese tutti comuni esattamente uguali per problematiche, distanze, disagi e geografia? 
Non è giusto!

Se si applicassero questi tagli non ci sarebbe alcuna ragione di aumentare le tasse agli italiani, soprattutto con alcune scelte assurde come gli aumenti spropositati delle trattenute sulle rendite vitalizie, le assicurazioni, la previdenza professionale che invece dovrebbe esser incentivata. Ricordiamoci che le pensioni pubbliche saranno sempre più povere e da anni si sostiene quindi l’utilità delle polizze integrative e dei fondi pensione che crescono con i versamenti degli associati e con i guadagni che vengono capitalizzati. 

Il governo Renzi ha deciso di tassare al 26% (ovvero quasi di un terzo) la loro “resa” e quindi di fatto ha impoverito tutti i risparmiatori che avevano investito sulla propria pensione. E i più danneggiati saranno proprio i giovani, quelli che solo su una pensione integrativa possono pensare ad un loro futuro, altro che parlare di incentivi!

Si tassino piuttosto le grandi rendite, le speculazioni che danno guadagni grazie all’elusione fiscale e soprattutto da un certo importo in poi, le troppe transazioni finanziarie immotivate e speculative, le società di comodo ma non i piccoli patrimoni della gente comune e il risparmio di tanti milioni di italiani che tra l’altro, reinvestito in Italia, è fonte di sviluppo economico per l’intera nazione.

Una piccola parentesi finale, mi vengono in mente certe analogie...
Non capisco: Berlusconi dice che Forza Italia “resterà all’opposizione di questo governo” e poi  concorda con il PD di Renzi sulla legge di stabilità, sul sistema elettorale, sulle coppie gay con “il sistema alla tedesca” (specifica espressione – peraltro imprecisa – di entrambi) e adesso perfino sullo “jus soli” per dare la cittadinanza ai figli dei clandestini. 

Dov’è allora, al netto della demagogia, l’“opposizione” di Berlusconi? Soprattutto – ammesso che invece sia giusto sostenere Renzi – dov’è il “rinnovamento” annunciato per Forza Italia se lo stesso Silvio Berlusconi, alla soglia degli 80 anni, conferma che si ripresenterà senz’altro come suo leader alle prossime elezioni? 

Elezioni che peraltro Matteo Renzi vincerà a mani basse soprattutto se passerà il sistema elettorale da lui emendato in questi giorni che nel concreto darà al primo partito, ovvero al PD (e non più alle coalizioni) l’intero premio di maggioranza della futura unica Camera, anche se resterà ben al di sotto del 50% dei voti, per giunta con candidati tutti scelti dallo stesso premier, ovvero da Renzi.

ADESSO VOI VERIFICATE LE SINGOLARI ANALOGIE CON IL SISTEMA DI VOTO ADOTTATO PER LE ELEZIONI POLITICHE DEL 1924 CHE PORTARONO ALL’INSTAURARSI DEL REGIME FASCISTA…

2014/10/18

Il giorno prima era estate


Il 13 agosto scorso ricadeva il settantesimo anniversario del disastro della diga di Molare. Dimenticato da molti, quasi tutti si ricordano del più noto Vajont che invero fu capace di mietere alcune migliaia di vittime, anche questo disastro, come molti in Italia, si origina da una disattenzione, enorme, che rappresenta anche, ai giorni nostri, la ragione delle alluvioni e allagamenti delle nostre città: l'idrologia e più in dettaglio l'analisi delle rocce e del sottosuolo è argomento trattato con insignificante attenzione nel nostro paese e, quando si verificano disastri, lo scaricamento delle responsabilità diventa uno sport nazionale.

Godiamoci questo racconto, sintesi di una storia vera, di un disastro perso nella nostra memoria che bisognerebbe ricordare come un frutto marcio della fretta.

Il giorno prima era estate. Quello dopo, ognuno lo vedeva a suo modo. C'era chi tirava il fiato per la gran paura. Chi alla paura guardava ancora negli occhi, perché era dietro a cercare qualcuno o qualcosa che l'acqua si era portata via. L'acqua. Sempre lei. E quel fiume a dettare a tutti il tempo.

Il giorno prima era estate anche per quei due di Bandita che si erano procurati una corba a testa di uva luglienga da portare a spalle da Marciazza sino all'Acquabianca. 
Roba da non credere, fatiche da non dire. Cose da record, ma nel libro dei primati ci stava per finire la gran acqua che in 4 ore, il 13 agosto del 35, andava nei libri di idrologia a far gara con altre piogge raccolte da fiumi lontani sino all'India. Specialisti nel settore, quelli si abituati a diluvi fuori dal nostro pensare.
Andava così. Che i due di Bandita trovavano rifugio alla casa di Poldo, in faccia alla Sella. E sotto un tetto, loro, destinati a portarsi in spalla tutto quel peso, dovevano star più contenti di quelli che per l'indomani avevano solo pensato a giorni di festa e si ritrovavano con quell'ansia che dà sempre l'acqua quando scroscia e non smette.

Scroscia e non smette.

Poldo era ragazzo. Diceva che dalla loro casa la sella era in faccia e la si vedeva coperta da 3 metri buoni d'acqua. Che saltava il bastione e picchiava sulla terra, sulla roccia, su quello che c'era. Che il giorno prima sembrava indistruttibile ed in quelle ore diventava burro agli occhi dei pochi testimoni.
Due moriranno.
Tra i lampi, qualcuno, dai bastioni di lato più saldi, si sbracciava a cercare di segnalare che per il lago non ci sarebbe stato più scampo. Chi si è salvato lo deve a quella storia che dicevo. Le cose ed i panorami che tutti i giorni si vedono vengono quasi a noia, ma anche se non ci se ne accorge entrano nella pelle ed in certi casi la salvano. Quel panorama abituale alla famiglia di Poldo, in quattro ore era diventato una vista intollerabile. Ci si leggeva la fine di tutto e loro scappavano sotto l'acqua in salita su dalla scarpata. Lasciando quelli dell'uva luglienga a scaldarsi una minestra. Loro non c'erano abituati a quella diga e pensavano che le cose fatte dagli uomini non potessero averla persa in mezza giornata. Sotto l'acqua Poldo scappava e la cosa che più ricordava di quegli attimi, anni ed anni dopo, erano le caviglie di sua madre piantate dentro gli zoccoli a schizzare fango davanti a lui. Quelli dell'uva, ora, erano quelli della minestra. Uno avrà avuto la testa bassa a guardare il fuoco e girare nella pentola col mestolo. Ma l'altro di sicuro l'occhio verso la diga l'ha tirato, all'ennesimo lampo, e credo che lo spostamento d'aria l'abbia sollevato, lui, la minestra ed il compagno, tanto in fretta da fargli solo pensare a quei diavoli che i frati delle Rocche avevano ancora il vezzo di descrivere dal pulpito per spaventare i bambini, nel coro dell'Oratorio tra l'ultimo sbuffo di incenso e l'attacco del Tantum Ergo, i giorni della novena dell'Assunta. 
Quando Poldo me lo raccontava mi faceva venire i brividi. Come tutti quelli che in vita han letto poco, ma han sudato abbastanza, usava frasi corte per esprimere paure lunghe delle giornate: "neanche i colombi sono usciti dai coppi". L'acqua che saltava la Sella Zerbino e poi la faceva crollare aveva generato un maglio, fatto solo d'aria, che colpiva la collina di fronte e quella prima casa, disfandola con quello che c'era rimasto: gli oggetti di una famiglia contadina, due corbe d'uva, due di passaggio, una minestra ormai calda e quei colombi che sotto i coppi erano abituati a rifugiarsi.

Poldo quel giorno diventava uomo. Non credo che a correre via avesse il comando, ma il giorno dopo, quando arrivarono i primi carabinieri e qualche giornalista per spiegarsi tutto il disastro che era successo a valle, servivano braccia forti e gente che conoscesse tutte le curve del fiume, vecchie e nuove di quel giorno. Poldo era lì e a differenza di altri sapeva cosa cercare. Lasciamo stare i colombi, ma quei due di Bandita erano cristiani e se non si fossero fermati a casa sua sarebbero spariti. Neanche buoni per le statistiche. Poldo fu arruolato "volontario" ad entrare nelle acque limacciose che ora scorrevano lente e formavano nuovi grandi laghi, pericolosi perché pieni di mulinelli e detriti. "Castellunzè" sembrava un'isola e la spalla dove era stata la sua casa, la vigna e sopra, la strada per Olbicella, avevano perso ogni dettaglio lasciato dal lavoro degli uomini. Dopo quel maglio fatto d'aria compressa, era arrivata una mazzata d'acqua tanto dura e forte da compattare qualsiasi profilo, qualsiasi segno. Dove c'erano state terrazze coltivate, ora c'era una parete liscia come un intonaco. In fondo alla scarpata Poldo trovava il primo morto ufficiale di quel disastro. Uno che lì non avrebbe dovuto essere. Partito con il sole e previsioni di gran fatica, si era fatto tentare da una minestra nel posto sbagliato. Aveva finito la sua strada terrena sbucciato come un limone a galleggiare in acque che due giorni prima non c'erano. Poldo l'aveva trovato incastrato tra gli arbusti, duro e pesante, e l'aveva trascinato, mi diceva lui, afferrandolo in mezzo alle gambe dove un po' di stoffa rimasta lo faceva scivolare di meno. Per quei giochi che fa il destino, quel viaggio a riva aveva la sua importanza. Furono dati, voglio sperare, aiuti alle famiglie colpite, ma credo che dimostrare d'aver avuto dei lutti fosse necessario. E aiuti credo proprio che servissero a chi per arrotondare portava per chilometri in spalla una corba d'uva. Dimostrare di esserci, anzi, di esserci stato, lì a prendersi tutta la sventura sino all'ultima goccia, era certo difficile per chi non poteva contare su una residenza conosciuta da quelle parti. Non mi risulta che il compagno di minestra abbia avuto altrettanta fortuna. Altri corpi a valle se ne trovavano, ma fu certo più semplice attribuirli a chi si sapeva per certo che da qualche parte doveva pur essere finito.

Quel giorno di agosto fu una specie di sposalizio tra il torrente ed il paese. Dissero chiaro e tondo a tutti gli invitati che si trattava di un'unione ufficiale e definitiva. Nel bene e nel male. Si erano sempre frequentati e la vita certo ne era derivata. Ma quel giorno l'acqua era scesa, sulle sue solite strade, con un vestito nuovo, ampio come un turbine. Travolgeva, faceva nuovi passi e si faceva annunciare da un rombo sordo che durò tutto il tempo di pranzo.

Al meglio, sarebbe occorso un maestro di cerimonia che la precedesse fino al paese per mettere in riga gli invitati - una carrozza che corresse sotto l'acqua a perdifiato per i tornanti dalla diga sino a San Sebastiano. Capitò invece come quelle volte che in piazza c'è animazione crescente per qualche macchina lustra e qualche buon vestito che vanno a fermarsi davanti al sagrato. E chi passa si immagina di lì a poco l'arrivo di quelli della sposa. E aspetta e chiede chi sono. E' un po' preparato alla sorpresa ed un po' no. Ma aspetta per vedere. Il preannuncio non fu quindi dato al telefono, né da qualche uomo che fosse riuscito a correre davanti a quella lingua d'acqua che riempiva le gole. Prima di un metro, poi di dieci, venti, sino a strozzarsi contro qualche barriera e poi riesplodere nella corsa. Niente campane. Un muggito sordo, basse frequenze che toccano qualcosa dentro e fan prima a spaventare gatti ed uccelli, ma tormentano anche i cristiani più sensibili.
Quelli agitati quel giorno o da quando eran nati.

Pagine fa avevamo un bel posto per seguire le storie e raccontarle. La riva 
che punta verso Battagliosi sulla riva destra del fiume. La miglior terrazza per guardare il paese. Ma sarà il caso che ci si tolga, che si vada via. A guardare si, ma da più lontano. E' quello che tanti per fortuna hanno pensato. Meno quelli che avevano le cose in basso e che avevano poco tempo per decidere e molti motivi per convincersi che l'impossibile non potesse succedere.

Di quell'ora ho parlato con tanti.

Ora so che c'era un gruppo numeroso in fondo al paese all'imbocco del ponte.
Una banda di ragazzi che si muoveva tra la Chiccolina e la scarpata sotto l'Oratorio.
Qualcuno della famiglia Bruno dentro la loro casa nuova.

Sarà il nostro testimone. I nostri occhi tutti questi anni dopo. A fermare un rumore. Trasformare un rimbombo che durava da un'ora e che adesso aveva la sua forma liquida a divorare il paesaggio.

Il nostro uomo al riparo della casa, scattava la foto alla sposa che arrivava in paese.

Eccola.

Disastro di Molare
Con il suo strascico avrebbe fatto una decina di vittime tra la "fontana" e la "ghiaia". Avrete capito che forse qualcosa nel conto saltò e che i nomi ed i corpi per farli coincidere ci volle molta buona volontà. Ma proseguendo su Ovada ebbe la sua gloria, incrementò il bottino e conobbe giorni dopo i Reali in visita. Noi ci fermiamo dove siamo. Altri hanno raccontato e bene quello che accadde passato il ponte di ferro. 
Sotto San Giorgio era roba da uomini. L'acqua lambiva le prime case del paese. C'era qualche carabiniere, braccia forti pronte a far qualcosa e di sicuro una macchina fotografica dalla quale nulla ci è pervenuto. L'hanno vista in più d'uno ed ho idea di chi l'avesse. Non so che possa aver visto e a noi non testimoniato. Doveva essere un diluvio. Assordante il rumore delle acque che sbattevano contro il ponte, sgretolandolo con i colpi d'ariete scagliati da tronchi, pietre e macerie trascinate dalla valle. Una foto, da lì, sarebbe certo stata difficile da fare ed avrebbe offerto poco da vedere: solo un gran tumulto di grigi impastati l'uno con l'altro dal tremore della mano. Ci mancherà quindi, e non potremo far altro che immaginarcelo, un gruppo di cappellacci grondanti d'acqua con volti sotto mezzi coperti e con in vista solo gli occhi sbarrati ed un braccio teso ad indicare a tutti qualcosa. Sul bordo del fotogramma due carabinieri, più composti degli altri, a fornire un minimo di règia dignità e sicurezza. In fondo in fondo, a salire, qualche puntino ad indicare ragazzi e qualche donna a spingerli in direzione di Cassinelle e Cremolino. Verso case di cugini che offrissero riparo e il tempo per pensare. Dalla casa dei Bruno invece si vedeva tutto con comodo ed il tetto era nuovo e l'orrore poteva riguardare solo quanto era di altri e non proprio. Che lì tutto era sicuro. Tante furono le foto. Una sola quella arrivata sin qui. Mostra un mare d'acqua che trova ostacolo nel ponte e vi rigurgita sopra, scavalcandolo, ma sentendone ancora la consistenza forma un profilo, come di un'onda, su tutto quel bastione che legava Molare ad Ovada. Persino il Rio Granozza ha trovato da riempirsi ed allagare tutta la sua gola. Quello che si prepara è l'ennesimo sfondamento che trasformerà l'acqua, che sta ribollendo contro la diga precaria rappresentata dal ponte materiale, nel fronte in grado di travolgere e far scomparire l'intero ponte ferroviario. Sono i ragazzotti che abitano nella parte alta del paese gli unici a vedere tutto con occhio diverso. Le loro famiglie sono già abituate da un pezzo a non seguirli perché non si ha tempo e perché si impara in fretta a badare a se stessi. Le loro case sono in cima alla rocca, che ora sembra un promontorio su un mare in burrasca. Non hanno niente di particolare da mettere al sicuro. Quello spettacolo in compenso merita di essere seguito in modo estremo ed allora il posto migliore è la scarpata sotto l'Oratorio. Anni dopo Nizzurin, parlandomi, non ricordava quasi più nulla, confondendo volti, tempi e luoghi perché la vita per fortuna è lunga e tante sono le cose che si ammucchiano. Ma come Poldo con i suoi colombi sotto il tetto, anche a lui un'immagine era rimasta impressa e per combinazione ancora di animali si parlava. Il ponte della Genova-Acqui, voluto dal Ministro Saracco 37 anni prima piroettava nel cielo ed i binari erano "bisce per aria" a sibilare come fruste dentro il rimbombo cupo e generale che da un'ora passava dal terreno allo stomaco della gente.
Quei ragazzotti i giorni prima erano polverosi come patate appena raccolte. Il 13 agosto del 1935, tempo d'arrivare all'una dopo pranzo, erano lavati dalla testa ai piedi. Anzi, quelli lasciamoli da parte, che gli zoccoli erano a casa. Dalla riva del Tanarone, dove si erano fermati quando era volato per aria il ponte, erano rimasti per un attimo, finalmente, tutti fermi e zitti. E schierate ad assistere a quello scempio si contavano le loro dita dei piedi, allineate e sporche di fango.
Angelo, che era tra loro, anni dopo fece un quadro per dare forma a quei momenti (che secondo lui foto non ce ne potevano essere). E non poté trattenersi dal dedicare qualche centimetro di tela in basso a destra ad un dettaglio che aveva bene a memoria: quella riga di dita che sembravano una tastiera di pianoforte. Il ricordo più chiaro di se stesso e della sua banda di amici. Era l'effetto finale di quella scena da incubo, vista come un imponente cinemascope che li aveva schiacciati e fatti star zitti e confinati ai bordi del mondo. 
Con solo le dita che spuntavano, quel giorno e per molti di loro per tutta la vita, dentro il trambusto delle cose che succedono.
Disastro di Molare
Non so se gli fosse chiaro, ad uno per l'altro, che lì si trattava di morte e di destini di intere famiglie che avrebbero cambiato strada. Certo c'era chi diceva che la diga aveva liberato solo parte dell'acqua (e Cristo, aveva ragione) e che sarebbe da lì a poco potuto arrivare ben di peggio. Toccava a loro, più agili di tutti, curiosi, protagonisti più di uomini, cercare un posto dove vedere. Volevano raggiungere la Priarona, ma non c'era ponte di ferro, spazzato via e a quest'ora impegnato ad arare i campi della Rebba. L'unica era risalire verso il Casello e trovare il passo per scavalcare il Crosio che si era gonfiato tanto da far sembrare la scarpata sotto la casa delle Suore l'ingresso di un fiordo. Fu così che a mettere il piede sui binari, prima dell'imbocco della galleria di Prasco, a qualcuno di loro venne in mente che il treno sarebbe sceso puntando su un ponte che non c'era. Questa storia gira in cento versioni. Certo che qualcuno fermò il treno che viaggiava senza notizie e a noi piace pensare che toccasse a questi ragazzi l'impresa. Fu una beffa cavare dai guai due carrozze ed una motrice, che, passata la guerra, li avrebbero portati per anni ed anni su e giù per Genova a lavorare in qualche fabbrica.
Arrivarono alla fine nel punto più alto. Saran state le 6 dopopranzo. Era spiovuto e si vedeva, ora, tutto. E tornava qualche colore. Furono raggiunti da un signore di Cremolino che aveva in mano una fotocamera coi fiocchi. Non vi erano ancora né giornalisti, né soccorsi.

Ancora una volta basta uno scatto e tanta fortuna a non averlo perso. E' come una foto della scentifica sulla scena del crimine. Niente è stato ancora toccato e c'è l'impronta del colpevole in quello sbuffo bianco che compare in alto a destra su dalla Valle dell'Orba.
(Da un racconto di Paolo Arbetelli)

2014/10/09

Cinque Passi

Questa volta non e' un mio racconto a essere qui pubblicato ma uno di uno scrittore indipendente che apprezzo. Una bella storia, breve e intensa che spero possa piacere anche a voi.  Dopo il racconto una breve biografia dell'autore. I suoi libri sono pubblicati online, su Amazon e le principali case di distribuzione ne dispongono, non esistate a acquistare e leggere i suoi scritti, lui e' uno che sa entrare nell'anima della gente.

- Cinque passi - 

Uniti. Nel bene e nel male. 

Aveva sceso le scale urlando lasciami stare. Ivan era rimasto sul divano con le mani 
tra i capelli. Erano passati giorni, ma lo ricordava ancora bene. Eccome.
Anni di convivenza buttati nel cesso. Così, con un lasciami stare. Avesse aggiunto brutto stronzo! No, nemmeno quello. Doveva finire perché era la sua decisione, ogni spiegazione l’aveva ritenuta superflua. 
Il ragazzo tirò su col naso e strizzò gli occhi umidi di dolore.
«La Padania ha una sua storia!» urlava la TV.
Non poteva ancora crederci. Come quando senti al TG di un infanticidio e pensi non è possibile. Come quando vedi scene di guerra e credi che non esistano. Come quando t’illudi che il destino possa riservare dolori solo agli altri. E poi ti svegli dal sogno, per comprendere che quegli altri possiamo diventare noi. E allora ti dici: sì, tutto è possibile.
«Non parteciperemo ai festeggiamenti dei 150 anni di Italia!». Guardò la TV con un senso di schifo. Gli faceva schifo tutto. I sacrifici, le gioie, i dolori. Aveva condiviso con Irene una vita, o almeno così la vedeva lui. Una vita di speranze e progetti. Molti sacrifici e diverse gioie. Ma era stato fatto tutto insieme. I meriti e le colpe erano di entrambi. 
Da quel giorno non più. Non più.

Ognuno riprendeva i propri meriti e le proprie colpe. Ma avevano ancora valore? 
Lo avevano ancora adesso che ognuno tornava per la propria strada? Aveva senso aver faticato e sofferto tanto per tutto quello che avevano costruito insieme e che ora non esisteva più? 

No, non lo aveva. Si alzò. Cinque passi. Solo cinque.

Tanto lo separava dal balcone. Guardò giù da quell’undicesimo piano. La città festeggiava. Festeggiava un’Italia unita contro la volontà di alcuni. Un’unità che non gli apparteneva più. Quei visi sorridenti, la parata musicale. 

Chiuse gli occhi e spiccò il volo.

Ma un uomo non ha le ali.

Non più dopo aver sofferto l’abbandono.

L’autore
Roberto Tartaglia, nato il 25 Luglio 1977, giornalista e, dal 2009, scrittore indipendente. Da sempre animo irrequieto e sensibile all’arte. Nel corso degli anni ha studiato solfeggio, canto, clarinetto, arti marziali, letteratura, filosofia, psicologia e tutto ciò che lo affascinava. La scrittura, però, è sempre stata la sua vera passione e fonte di grandi soddisfazioni. Il lavoro di giornalista gli ha permesso, sinora, di entrare in contatto e intervistare personaggi dello spettacolo, come l’attore/regista Clemente Pernarella, il grande Roberto Vecchioni, protagonisti della cronaca nazionale come l’ex comandante dei RIS di Parma, Luciano Garofano, e personaggi di fama mondiale come il professor Yuri Bandazhevsky, primo uomo a sfidare i poteri forti e a rendere noti al mondo i segreti del disastro di Chernobyl.
Il mestiere di scrittore, invece, gli ha dato modo di pubblicare, dal 2007 a oggi, numerosi racconti e un romanzo collettivo con l’editoria tradizionale, di essere finalista in diversi concorsi di scrittura e selezionato per partecipare alla stesura di opere in occasione di importanti ricorrenze, come i 150 anni d’Italia e la Giornata Mondiale UNESCO del Libro e del Diritto d’Autore. Ha avuto modo di scrivere insieme a grandi del calibro di Maria Luisa Spaziani, Leandro Castellani, Pedro Casals, Andrea Carlo Cappi, Paola Barbato, Andrea Pinketts, Ben Pastor e tanti altri. Davvero grandi soddisfazioni e ottime occasioni di crescita, non solo professionale.
Nel 2009, a seguito di una serie di delusioni ricevute dall’editoria tradizionale, però, ha deciso di pubblicare il suo primo romanzo, “Casus belli”, in self publishing. Risultato? 5 mila copie in circa sei mesi. Da allora ha deciso di diventare a tutti gli effetti uno scrittore indipendente. Senza casa editrice, senza direttive editoriali e limiti contrattuali. Libero di scrivere ciò che voleva, quando e come voleva.

Un’emozione unica!

Roberto al proposito scrive: "E allora mi sono chiesto: quanti altri autori, come me, vorrebbero percorrere questa strada ma non sanno come fare? Tantissimi! Per questo ho deciso di creare anche il progetto “Vivere di scrittura”: per aiutare questi amici di 
penna, guidandoli passo passo sulla via per diventare scrittori indipendenti." 

2014/09/29

Roma batte ISIS due a zero!


L’armata dell’ISIS scelse male l’ora per conquistare Roma. Alle 8,30 rimase imbottigliata sul Raccordo, altezza Settebagni. Non sapevano, i truci guerriglieri di Allah, che a quell’ora ‘a ggente vanno a lavorà. Tra fuori di testa che smadonnavano, stereo a dumìla, moto e motorini che sciamavano de qua e de là (uno col Kawasaki enduro gli passò sul tetto dell’autoblindo) e ambulanze bloccate sulla corsia d’emergenza dal Suv di qualche fìo de ‘na mignotta che ci aveva provato e mo’ stava a litigà coi portantini, i barbuti giustizieri dell’Islam non sapevano che pesci prendere e come imporre il Corano auto per auto, dato che tra una e l’altra non ci passava manco una sogliola in verticale.

Qualcuno di loro sparò in aria, un po’ per intimidire, un po’ per farsi strada. Gli rispose una salva di revolverate da un pullman di tifosi della Curva Sud che videro in loro dei compagni di strada e di lotta e sventolarono lo striscione “C’è un solo capitano”, immediatamente perforato dalle revolverate partite da due o tre macchine di laziali.

In verità i guerriglieri di Allah non sapevano nemmeno perché l’esercito italiano li avesse lasciati arrivare fin là senza opporre resistenza, anzi, facendogli strada. Dopo sei ore di coda sotto il sole, i mezzi dell’armata islamica, guidati da barbuti un po’ in deliquio e coi crampi agli avambracci, saltarono l’uscita e siccome quella dopo era chiusa perché stavano a potà ‘e siepi, si fecero altre tre ore di coda fino al cavalcavia e altre sei in senso inverso, gli ultimi due chilometri sulla corsia d’emergenza tra i vaffanculo di quelli in coda che non li facevano rientrare così ve imparate, li mortacci vostri, finché imboccarono l’uscita giusta e si avviarono alla conquista del simbolo della Cristianità.

Sei blindati sparirono subito in una voragine sull’asfalto della Prenestina (“Mortacci de Marino, ieri c’è sparito un purmino de suore e lui sta a cambià l’acqua ai pesci” commentò er sor Quinto da dentro all’edicola). Altri otto automezzi lasciarono i cingoli sulle doline carsiche che sulla Casilina sfasciavano le sospensioni a residenti e non, per gli scossoni un barbuto che guidava senza cintura ci rimise gli incisivi (“A’ Fidelcastro, fa’ causa ar Comune, po’ esse che ariva quarche sordo ai tu’ nipoti!” gli gridarono da un bar).

Un po’ scossi, i conquistatori venuti dal Levante decisero di fermare la colonna e fare il punto, onde elaborare una strategia di attacco.
Fermare una colonna. A Roma. Dove non c’è parcheggio nemmeno per un monopattino. Sciami di ausiliari del traffico con banda gialla sbucarono anche dai tombini, assetati di sangue e di multe.

La velocità felina con cui infilavano contestazioni sotto i tergicristallo delle autoblindo, sulle motocorazzate e perfino su tre carri armati con invito a presentarsi entro cinque giorni negli uffici della Municipale pena sequestro del mezzo, mandò fuori di testa i miliziani di Allah (“Poracci, nun ce so’ abbituati” diceva la gente intorno), che decisero di ammazzare tutti gli ausiliari, rinunciando subito dopo perché erano troppi, e pure se i passanti si offrivano de da’ ‘na mano, non potevano sprecare tutte quelle munizioni .

Lasciato un altro considerevole numero di mezzi e persone in una voragine a Portonaccio, usata dai romani per fare free-climbing, l’Armata dell’ISIS arrivò finalmente al Lungotevere.
Cioè, quasi, perché ce stava ‘a manifestazzione. Anzi, ‘e manifestazzioni. I Sindacati, I Gay e i Diritti degli Invisibili, che non si capiva se si parlava di Terzo Mondo o di Fantascienza, ma il risultato era lo stesso, per arrivare in centro dovevi passare per Ostia Lido.

Una folta barriera di transenne, pure sull’acqua del fiume, non sia mai qualche cittadino provasse a fregare i vigili col motoscafo, ribloccò la colonna islamica i cui componenti dovettero incazzarsi per fermare i rumeni che volevano lavargli i parabrezza e lucidargli gli obici, furono borseggiati dai Rom, ognuno con accanto l’assistente sociale per il reinserimento, si dovettero fare le foto insieme ai centurioni con l’orologio altrimenti gli tagliavano le gomme e furono costretti a regalare rose rosse al compagno di equipaggio sennò quel cazzo di indiano non se n’annava più.

Le gomme poi gliele fregarono mentre discutevano con quelli di Equitalia che intimavano il pagamento delle sanzioni per superamento di varco attivo da parte di tutta la colonna, ‘na botta. “È l’Inferno come lo descrive il Profeta! Anzi, peggio!” disse Al-Baghdadi ordinando la ritirata. Ma scelsero male l’ora per uscire da Roma. Non sapevano, i guerriglieri di Allah, che a quell’ora, sul Raccordo ce sta er rientro. Dopo undici ore senza fare un metro, assetati, affamati, qualcuno in fin di vita, capirono perché l’esercito italiano li aveva lasciati arrivare fin là.

2014/09/25

Secessione?


Il risultato del referendum scozzese è stato accolto con euforia dai vari governi europei, timorosi che regioni intere del rispettivo paese fossero spinte a seguire l’esempio di Edimburgo in caso di una vittoria dei “si”.

Forse in Scozia si era chiesto troppo e una parte dell’elettorato ha avuto paura ad avallare una secessione, certo l’Europa non ha futuro se non capirà che è solo dando maggiori autonomie alle singole regioni o aree storiche di ogni paese che ha senso lo stare insieme di un continente così diverso e variegato. 

Io sono contro le secessioni e mi sento profondamente “italiano” e non “padano”, ma credo fortemente nelle autonomie e se alcune funzioni di governo (difesa, politica estera, sicurezza) non ha senso siano decentrate non accetto più che i vari governi non abbiano però il coraggio di prendere con forza la strada di un decentramento responsabile che permetta sul serio un risparmio burocratico, una maggiore vicinanza con i cittadini, una gestione diretta di molti servizi.

Lasciamo perdere gli elmi celtici e le acque del Po che sono sciocchezze e stiamo sul concreto. Mai come ora aree intere del nostro paese fremono chiedendo un sistema amministrativo più efficiente, tempi rapidi di risposte, mani libere per poter lavorare in pace e tentare così di superare la crisi. 

Serve togliersi lacci, ritardi, burocrazia inutile e questo lo si può ottenere solo decentrando la gestione della cosa pubblica per creare una legislazione su misura alle diverse necessità e caratteristiche dei singoli territori...

Salvini - che ne ha le capacità – abbia il coraggio di andare avanti su questa strada, porti sempre di più la Lega su posizioni razionali perché la macroregione del Nord ha tutto l’interesse ad autogestire molte funzioni oggi in mano allo sconclusionato e assurdo mondo romanocentrico che assomma inefficienze a sprechi e mancanza di controlli.

Sui queste basi ci sarebbe uno grande spazio politico dove conquistare adesioni, ma soprattutto costruendo qualcosa di utile e positivo per tutti. Chissà se il centro-destra capirà l’opportunità di non perdere questa ennesima, grande occasione.

E' tutta una questione di lobbies.

Se lo volesse davvero il governo avrebbe dei mezzi immediati per rilanciare l’economia aiutando le imprese, per esempio cominciando con l’incidere sui costi dei trasporti e dell’energia che in Italia sono maggiori che non all’estero. La benzina italiana è la più cara del mondo, ma negli ultimi 2 mesi - pur con un Euro che per lungo tempo è stato supervalutato rispetto al dollaro - il prezzo al barile del petrolio grezzo è ribassato di oltre il 12%. 

Vi risulta che vi sia stata una riduzione del prezzo dei carburanti? Assolutamente no, mentre è evidente come nel disinteresse di ogni autorità le principali compagnie – accumulando profitti - facciano “cartello” per mantenere alti i prezzi e non farsi concorrenza a vicenda. 


2014/09/20

La pantofola


Una giornata come martedì 16 settembre, presa a caso. 
Si comincia alla mattina presto con le news televisive che dedicano l’80% del tempo alla querelle con l’Europa e Matteo Renzi nelle parti del prode difensore degli italici diritti. Segue “La Stampa” che titola a tutta pagina “Meno tasse per gli artigiani”. Bella notizia, strano che nessun altro quotidiano ne dia conto. Leggi e scopri in una pagina interna solo che “E’ allo studio un taglio delle tasse per gli artigiani”. Al concreto nulla, una “notizia-non notizia” che certo non meritava il taglio di apertura, ma giustifica la “marchetta” del solito titolone “pro Renzi” del quotidiano Fiat. 

In serata si accodano tutte le TV in un’orgia di presenze PD nei talk-show televisivi. Verso le 21.30 contemporaneamente si possono vedere Prodi, le ministro Tiraboschi e Serracchiani e Renzi stesso, con riprese pur vecchie di due giorni, riproposto da Bari. Non mi scoccia l’evidente violazione di “par condicio” (ma se qualche anno fa la destra avesse mai solo osato fare lo stesso, quante galline sarebbero insorte denunciando la morte del pluralismo informativo?!) mi irrita il tono melenso delle interviste tutte uguali, ammiccanti, senza mai una domanda “vera” o un poco imbarazzante. D'altronde l’inginocchiatoio è intasato, c’è la coda per baciare la pantofola alla corte di Renzi. Perfino il primo giorno di scuola è stato “vernissage” per capi, capetti e sotto-capetti di governo con le TV al seguito ad immortalare.

E l’opposizione? Scusate, ma quale opposizione? Messa purtroppo la mordacchia a Salvini e alla Meloni è un assordante silenzio che sottolinea incertezza, divisioni, soprattutto incapacità. Al dilagare di Renzi si può forse pensare di opporsi e di costruire una opposizione seria riproponendo ancora Berlusconi? Evidentemente no, anche perché i due ormai vanno a braccetto, ma con il principale della ditta (ovvero Renzi) che ha capito da tempo come tenersi buono lo spompato ex Cavaliere. Renzi spopola soprattutto perchè di oppositori veri e credibili non ce ne sono, nessuno che abbia un minimo di idee alternative, che esprima volontà di riscatto diventando speranza per il futuro e che, soprattutto, abbia lo spazio per poterlo esprimere. Accomodatevi, prego, il carro del vincitore forse ha ancora qualche posto, ma bisogna affrettarsi. 

Pur con queste premesse trovo comunque squallido e volgare attaccare Renzi per vicende personali legate a suo padre: quando la smetterete con la malapolitica dei pettegolezzi? Così come noto che - perlomeno - Renzi a parole chiede e propone cambiamenti giusti, direi spessi ovvii e trasversali, ma i freni tirati contro ogni rinnovamento sono espressi proprio nel suo stesso partito, quel PD che sta diventando una palla al piede per chiunque cerchi di cambiare l'Italia cui si accodano SEL (e è comprensibile) ma anche il M5S il che non solo è incomprensibile, ma una grande delusione. 

Qui sta infatti tutto il gioco e soprattutto il bluff di Matteo Renzi: proporsi con riforme di buon senso, con frasi “di destra” che colpiscono l’immaginario collettivo anche di chi non lo ha votato. Un quotidiano “effetto-annuncio” ampiamente riportato e amplificato dai media cui però (purtroppo) non fanno seguito azioni concrete. Non sempre è poi facile capire se le “colpe” sono sue o di chi gli impedisce di riformare oppure – nel rincorrersi di un grande gioco – se a Renzi non facciano perfino comodi i freni della Camusso, delle lobby e dello stesso PD perché così può scaricare su altri i suoi fallimenti al grido di “Io vorrei, ma vedete bene che non mi lasciano lavorare!”

Certo i risultati di Renzi sono per ora praticamente nulli mentre i mesi corrono e l’Italia sta precipitando, come tutti  possono prenderne atto. Le riforme saranno capaci di reallizzarle in 10000 giorni?


2014/09/13

Montezemolo uno, treno e quattrino (la spallata 2)

Tutti si saranno fatti un’idea, al di là delle prediche che da sempre impartisce a tutti, su quanto effettivamente “valga” (o meno) Luca Cordero di Montezemolo, ovvero un uomo che sicuramente si vende e si presenta bene, ma soprattutto “pro domo sua”. 
Non mi pare che l’azione di Montezemolo abbia mai portato a dei risultati eclatanti – né in politica né quando era presidente di Confindustria o in campo industriale  - ma sicuramente non chiude in perdita la sua corsa alla “Rossa” visto che la sua liquidazione è stata principesca trattandosi di 27 milioni di euro e dopo aver percepito alla Ferrari uno stipendio di circa 100.000 euro al mese. 

D'altronde Montezemolo - mentre presiedeva a Maranello - era comunque impegnatissimo e distratto da ben altro. 
Non è un caso che (sembra) andrà ora a fare il presidente della nuova Alitalia, anche perché è già vice-presidente di Unicredit (altro stipendio) banca a cui l’Alitalia deve un bel pacco di milioni di euro. Da questo punto di vista sembra proprio che i conflitti di interesse contino solo in politica.  

Intanto Montezemolo è impegnato anche con i suoi trenini di “Italo” e la “Montezemolo e Partners” che gestisce i fondi Charme, con indennizzi adeguati. 
“Uno, tri(e)no e quattrino” potrebbe essere il suo motto e tutti lo hanno capito anche perché, dopo tante promesse e false partenze, alla fine non è mai sceso in campo neppure in politica pur avendolo preannunciato molte volte: meglio pensare a rendite e patrimonio. 

In un aspetto però Montezemolo è bravo e non per nulla si occupa anche di treni: sa scendere alla svelta da quelli in corsa dopo essersi fatto pagare bene, così – se poi magari deragliano, come il partito di Monti – non è mai colpa sua.  

Se fossi il partner arabo di Alitalia, mi preoccuperei.

2014/09/12

Eutanasia, la dolce morte


"Sono relegata a letto, ho dolori fortissimi, le mie mani tremano. Non voglio aspettare di rimanere paralizzata del tutto. Questa non è vita". Sono le parole pronunciate da Damiana, 68 anni, malata di sclerosi multipla, nel video shock girato pochi giorni prima di morire, in una clinica in Svizzera, e diffuso per chiedere al Parlamento che riprenda il suo iter la proposta di legge sull'eutanasia.

Con l'aumento delle possibilità tecnologiche può accadere che si ecceda nell'uso di terapie in malati che non ne traggono giovamento. Vuoi perchè si tratta degli ultimi momenti della loro vita, vuoi perchè queste terapie possono portare ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa, se non addirittura ad una nuova patologia provocata da quella stessa terapia. Si parla, in tal caso, di "accanimento terapeutico". 

Ferma restando la liceità della sospensione di un intervento che si configura come accanimento terapeutico, è da sottolineare, però, come si faccia un uso strumentale di questo concetto al fine di favorire il diffondersi di una cultura eutanasica. Definita in modo suadente "dolce morte" l'eutanasia viene presentata come la via da perseguire per porre fine ad una sofferenza "insopportabile". Essa si traduce, di fatto, in un'anticipazione deliberata della morte. 

In nome della libertà individuale, si vuole annullare la fonte stessa della sua ragion d'essere, ovvero la vita, che è di per sè un bene indisponibile. Una riflessione sull' eutanasia richiede di analizzare anche le ragioni che possono motivare una richiesta in tal senso, decodificando la domanda. E' stato, infatti, messo in evidenza come la richiesta di eutanasia sia spesso motivata da ragioni psicologiche o psichiatriche transitorie o curabili e dalla inevitabile paura del dolore e della sofferenza. 

In questo senso, la ricostruzione dell'autostima e del senso di accettazione di sè o la cura di una sindrome depressiva portano frequentemente il malato a cambiare idea. Inoltre un'adeguata terapia antidolorifica e il sollecito accompagnamento del malato consentono di attenuare o rimuovere il dolore e di alleviare il senso di sofferenza, riducendo drasticamente la richiesta di eutanasia. Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte, invece, la medicina offre una sensazione di impotenza che prelude all'abbandono del malato e della sua famiglia alla solitudine.

La proposta dell'eutanasia, che non è assolutamente un atto medico, svela il suo vero volto: una scorciatoia per ridurre la spesa pubblica, un rifiuto dell'impegno umano e clinico a fianco del malato e una fuga di fronte alla paura della morte, del dolore e della sofferenza. Sta inoltre emergendo come, dietro la richiesta di eutanasia da parte di alcuni settori della società, vi sia anche una vera e propria "handifobia", ovvero la paura e il rifiuto della disabilità. Si impone così un modello culturale teso a rimuovere (negare) il dolore, la sofferenza, la morte, impedendo così di affrontarli in modo pienamente degno. Si sta sviluppando, per contro, un'idea di "qualità della vita" misurata su standard di efficienza, salute e forma fisica: una vita senza questo tipo di "qualità" non sarebbe degna di essere vissuta e può essere "oggetto" di libera scelta. 

Di conseguenza alcuni potrebbero avere più potere di altri sulla vita altrui, decidendo quando e come spegnerla. 

Il significato della vita e della morte 

La vita e la morte dell'uomo non si possono ridurre solamente al loro aspetto materiale. E questa la prima premessa di ogni discorso sull'eutanasia. Certo anche il corpo umano è soggetto al proprio ciclo biologico, come ogni altro essere vivente: viene alla luce, cresce, invecchia, muore. Tuttavia nell'uomo questi eventi non sono esclusivamente biologici, ma essenzialmente spirituali, nel senso che solo la persona umana (intelligente e libera) è in grado di assumere coscientemente e responsabilmente, senza subirle passivamente, sia la vita, sia la morte. Cosicché, propriamente parlando, solo dell'uomo si può dire che “vive” e che “muore”. Sta in ciò la sua grandezza. 

Ora, finché la morte era universalmente considerata un evento naturale, di cui erano fissate ineluttabilmente l'ora e le circostanze senza poterle mutare, “morire con dignità” voleva dire rassegnarsi a ciò che la natura aveva stabilito per ciascun mortale. In un simile contesto culturale, largamente condiviso, la condanna morale dell'eutanasia incontrava meno difficoltà: infatti, appariva chiaro che porre volutamente fine alla vita di un malato in fase terminale per non farlo soffrire, significava andare contro le leggi intangibili della natura, contro la dignità stessa dell'uomo. 

La questione di una possibile legittimazione dell'eutanasia cominciò invece a farsi strada, quando il progresso scientifico e tecnico giunse a fornire alla medicina strumenti in grado di contrastare il passo alla morte, riuscendo in taluni casi a ritardarla e in altri casi ad anticiparla in modo “dolce”, evitando le sofferenze e le umiliazioni dell'agonia. Nacquero così gli interrogativi nuovi che tuttora ci interpellano: fino a che punto si può e si deve resistere alla morte? È moralmente lecito “accanirsi” nel combatterla? Avendo la possibilità scientifica e tecnica di scegliere responsabilmente il momento più adatto e un modo “dolce” di morire, perché non farlo? Perché mai l'eutanasia dovrebbe essere un affronto alla natura? Infatti, l'uomo ha il compito morale di amministrare la natura e la sua stessa vita, perché egli non può disporne liberamente in modo che la morte avvenga in circostanze meno umilianti e più conformi alla “dignità” della persona? 

La ragione per la quale la Chiesa condanna con tanta forza l'eutanasia attiva è riposta nel significato stesso della vita, che dà senso anche alla morte. La persona umana è un assoluto, ha in sé valore di fine, la sua vita è quindi indisponibile in tutte le fasi del suo divenire, dalla concezione alla morte; la vita non può mai avere ragione di mezzo, non se ne può mai fare un uso strumentale. 

Questa concezione etica della esistenza umana non è esclusiva della visione cristiana, non è cioè di natura confessionale, ma appartiene a qualsiasi altra visione del mondo che consideri l'uomo il valore supremo e lo ponga al centro della vita sociale e del cosmo. La storia, del resto, dimostra che ogni qual volta la vita umana cessa di essere considerata il valore primo, l'uomo finisce col distruggere se stesso. La salute viene prima della vita? Allora si eliminano i malati fisici e mentali, gli handicappati, i neonati affetti da malformazioni. Il primo valore è la razza? Allora si giustificano i campi di sterminio e le pulizie etniche. Il primo valore non è la vita, ma il danaro? Allora si può uccidere per rubare o per impossessarsi di una eredità. 

Il diritto di “morire con dignità” 

Un'altra premessa al discorso sulla eutanasia è il diritto di “morire con dignità”. Che senso avrebbe – chiedono i sostenitori della “morte dolce” – accettare supinamente di terminare la propria vita in preda a sofferenze atroci e a umiliazioni indicibili? Non è forse la stessa grandezza dell'uomo a esigere che gli venga riconosciuto il diritto di morire con dignità? 

In questo ragionamento sono due gli aspetti da chiarire. Il primo è vedere in che senso esista un diritto di morire con dignità. Di per sé, non si può parlare di “diritto” di morire, in senso proprio, dato che la fine della vita è un evento ineluttabile, al quale – volenti o nolenti – nessuno si può sottrarre. Si deve invece parlare di un diritto di morire bene, serenamente, evitando cioè sofferenze inutili; esso coincide in pratica con il diritto di essere curato e assistito con tutti i mezzi ordinari disponibili, senza ricorrere a cure pericolose o troppo onerose e con l'esclusione di ogni “accanimento terapeutico”, che solo servirebbe a prolungare la vita in modo artificiale e penoso con danno del malato. 

L'altro aspetto da chiarire nel ragionamento di chi propugna il diritto alla eutanasia è collegato al primo: si tratta cioè di vedere in che misura il ricorso alla “morte dolce” sia effettivamente il modo di risolvere il problema della sofferenza umana. 

Il limite culturale di chi lo pensa è quello di considerare la sofferenza come una maledizione, una condizione umana priva di valore e inutile, quasi che “sofferenza” e “dignità” siano incompatibili, quasi che l'una escluda l'altra. È vero invece il contrario. La persona umana, finché vive, non perde mai la sua radicale dignità. Non la perde il delinquente, per quanto abbia compiuto i più orrendi delitti, e per questo rifiutiamo la pena di morte; non la perde l'infermo o il moribondo, per quanto sia degradato il suo stato di salute fisica o mentale, e per questo rifiutiamo l'eutanasia. 

Certo, la sofferenza è un male da combattere anche per chi ha la fede; tutti hanno il dovere di impegnarsi a guarire e a curare quanti sono afflitti da qualsiasi genere di infermità. Tuttavia, anche a prescindere dalla fede – nonostante sia più difficile comprenderlo –, il dolore ha un suo valore e, se non lo si può eliminare, lo si può però umanizzare. Quante volte la presenza in famiglia di un infermo o di un handicappato si trasforma in occasione di solidarietà e di amore, aiuta tutti a essere meno egoisti. Perciò, è assurdo pensare che il problema del dolore si risolva eliminando chi soffre. Sarebbe come se, per risolvere il problema della fame, si uccidessero gli affamati, anziché produrre di più e distribuire equamente i beni destinati a tutti. 

Analogamente, il problema della sofferenza non si risolve con l'eutanasia, ma eliminando le cause che inducono a chiederla. Occorre, da un lato, evitare l'accanimento terapeutico e, dall'altro, mettere in atto una “terapia del dolore” e “cure palliative” adeguate, favorendo nello stesso tempo forme di solidarietà e di accompagnamento, che aiutino gli infermi (soprattutto nella fase terminale) a superare il senso di disperazione che prende quando si vedono abbandonati e sono lasciati a soffrire in solitudine. 

Le implicazioni sociali dell'eutanasia 

Un terzo elemento, infine, del quale occorre tenere conto per fare un discorso serio sull'eutanasia, è dato dalle implicazioni sociali della “morte dolce”. Questa non va considerata come una questione meramente privata, che riguarda solo il singolo che vi fa ricorso, ma va valutata nella sua inevitabile ricaduta sociale. Infatti l'uomo non è mai una monade chiusa in se stessa. Il concetto stesso di persona dice essenzialmente relazione con l'altro. L'uomo è fatto per vivere in società. Nel momento che uno decide di non esistere più ferisce non solo se stesso, ma anche la società. 

In realtà, la logica effettiva dell'eutanasia è essenzialmente egoistica e individualistica e, in quanto tale, contraddice radicalmente la logica solidale e la fiducia reciproca su cui poggia ogni forma di convivenza. Appare quindi assurda la tesi sostenuta addirittura da un presidente onorario del Consiglio di Stato sulle pagine di un diffuso quotidiano nazionale: lo Stato – vi si legge – “non può proseguire nell'assumere come oggetto della tutela penale il mantenimento in vita di un soggetto distrutto dal dolore o completamente alterato nella sua personalità”; infatti, si spiega, in questo caso non solo il singolo ha perso l'interesse a conservare la sua vita, ma viene meno anche l'obbligo dello Stato a tutelare l'interesse della società a non essere privata di una vita, perché “si ha a che fare con una vita che non è più vita”. 

Si tratta di una tesi insostenibile. In base a quale criterio un soggetto può essere ritenuto “distrutto dal dolore”? Come può lo Stato determinare l'intensità della sofferenza che si richiede per legittimare l'eutanasia? Un esaurimento nervoso, un'umiliazione o lo scoraggiamento per un rovescio patito spesso sono in grado di “alterare completamente la personalità” non meno di un male incurabile in fase terminale; può bastare la completa alterazione prodotta dall'uno o dall'altro trauma doloroso per eliminare una persona “distrutta dal dolore”? E chi è autorizzato a decidere per il sì o per il no: il medico o anche un amico o un familiare? Chi garantisce che la “morte dolce” venga decisa effettivamente per porre fine a una sofferenza divenuta intollerabile e non per qualche altra ragione, magari per interessi inconfessabili? Soprattutto come dimostrare che sussiste il consenso esplicito e libero dell'interessato, quando non è più capace di esprimersi? Si tratta di interrogativi angosciosi, ai quali nessuno riuscirebbe mai a dare risposta, qualora l'eutanasia fosse legalizzata. In quest'ultima ipotesi, verrebbe minato alla base il rapporto di fiducia su cui poggiano i rapporti interpersonali, sia in famiglia sia nella società. 

Che fare allora?