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2016/10/28

Lettera alla UE con affetto dall'Italia!


Facciamo che quest’anno all’Ue non gli diamo un centesimo. 

Niente di niente. 
Né quest’anno né per i prossimi cinque. 

Dopodichè quei 14 miliardi e mezzo che versiamo, in media, ogni anno all’Unione europea li destiniamo, tutti quanti, al risanamento del territorio. Per sventare, ove e quando possibile, il drammatico rischio idrogeologico e per attrezzare le aree più pericolose con il meglio della tecnologia esistente al mondo nella prevenzione dei terremoti. Facciamo, cioè, per una volta davvero qualcosa per noi tutti. Per noi e per la nostra bellissima e sventurata Italia. Facciamo in modo che quel che si può prevenire lo si prevenga e non solo a parole.

E quel che si può rinforzare, sostenere, strutturare lo si faccia col meglio dei materiali e delle professionalità reperibili. A pensarlo sembra semplice. E pure fattibile. In realtà ci vuole una ferrea volontà politica. La capacità di una visione. Di un futuro. Che poi è ciò che qualificherebbe un leader e una forza politica. Tempo da perdere non ce n’è. E il disastro lo vedono pure i burocrati Ue. Interi borghi spazzati via, intere comunità in ginocchio e l’assoluta certezza che l’evento più imprevedibile ed implacabile si ripeterà: non si può continuare così. 


Non si può più nell’era digitale, nel millennio dell’intelligenza artificiale continuare a vedere certi disastri. Non ce la si fa più a soppportare dapprima il terremoto, poi i servizi e le analisi sul terrore e sulle lacrime e quindi l’immancabile impegno sui fondi per la ricostruzione. Perchè neppure hai finito la raccolta e organizzato il lavoro che subentra un altro sito, un’altra devastazione. 

Perciò, all’Ue dei burocrati mandiamogliela noi una bella letterina. Una garbata missiva nella quale spieghiamo che quei soldi destinati al funzionamento Ue, insieme ad almeno altrettanti che lo Stato italiano dovrebbe anch’esso mettere in campo, serviranno, da adesso in poi, per porre l’Italia in sicurezza. Tutta l’Italia. Un piano particolareggiato che ci affranchi dalla peggiore delle paure: morire seppelliti dalle nostre stesse case. 

Facciamolo per davvero, non solo parole ma fatti.

Scriviamolo al signor Juncker e pure alla signora Merkel. L’emergenza è qui. È adesso. È l’Italia. E non ci può essere alcun problema di burocrazia, di conti da rispettare o di tetto al deficit che non si possa sforare. Il tetto a tanti nostri concittadini gli è già cascato addosso.

2016/10/24

Un pezzetto di storia....


Per un bambino, nell’Emilia dei primi anni Cinquanta, la politica era una cosa semplificata, netta, c’erano i comunisti e gli anticomunisti e se crescevi in una famiglia come la mia, i primi volevano la rivoluzione, toglierti la casa, distruggere la chiesa e avevano ucciso i nostri soldati in Russia, mentre gli altri – i nostri – ci difendevano da tutto ciò e gli americani erano quelli che ci avevano salvato dal disastro dell’entrata in Guerra. 

“Eravamo una grande Nazione rispettata, il disastro è stata la Guerra”, diceva mio padre nelle riunioni di amici che, allora, molto spesso ricordavano le storie personali vissute sui vari fronti. Quando Trieste tornò all’Italia i miei genitori partirono con la 1400 imbandierata dal Tricolore ed andarono là a festeggiare e ne ho un ricordo molto vivo (e qualche spezzone di film 8 millimetri) perché la commozione e l’entusiasmo con cui partirono, mi fece sentire che doveva essere una cosa molto importante e bella. 

Il Borghese di Longanesi, il Candido di Guareschi erano letture abituali in casa e anche lì non vi era una differenza avvertibile tra quelli che erano gli anticomunisti, per uno che aveva sei, sette anni. Poi cominciai a distinguere e il quadro a essere molto meno nitido. Con estremo stupore scoprii che mia madre monarchica sentimentale aveva votato repubblica. Perché? le chiesi, perché De Gasperi aveva detto che altrimenti ci sarebbe stata la rivoluzione, fu la risposta e non solo lei, ma anche mio padre che, per restare fedele al giuramento al Re, era stato comandante delle Fiamme Verdi nei lunghi inverni della guerra civile. Il che voleva poi dire rischiare di essere ammazzato da due parti.

E scoprii anche che l’America, nostra amica e benefattrice, era stata in guerra contro di noi ed alleata della Russia e che dunque non avevamo fatto guerra solo all’Inghilterra. Quando c’era casino (molto spesso in quegli anni) a casa nostra la sera venivano i dirigenti della società termale che mio padre presiedeva, il tenente dei carabinieri, il prete, mentre proprio dall’altra parte della strada, alla camera del lavoro, le luci erano pure accese, con il sindaco e i dirigenti comunisti e sindacali, il nemico insomma. 

Era un po’ Peppone e Don Camillo (ma serio purtroppo) e d’altro canto mio padre mi accompagnò a Brescello a vedere le riprese di un episodio della serie e ad incontrare Guareschi di cui era amico. Eppure ogni tanto tornava a Reggio Emilia e non solo ad incontrare i vecchi amici della Dc di cui era stato segretario negli anni durissimi attorno al ’48, ma anche per partecipare a qualche raduno partigiano, dove c’erano pure i comunisti, nonostante l’avversione che nutriva per loro, riaccesa dai fatti d’Ungheria. 

Cominciai a capire che le cose non erano semplici, come quando chiesi a mio padre che cosa avesse provato nel ’43 alla caduta di Mussolini, “ho pianto” mi rispose , “eri fascista ?“, “No, non lo ero più, ma voleva dire che avevamo perduto la Guerra”. Dunque l’Italia, restava l’Italia a prescindere dalle cose politiche. Cominciai proprio allora a scoprire che c’era anche l’MSI, che non era una semplice parte dello schieramento anticomunista, come credevo, ma si rifaceva al fascismo storico, che per me era solo un’epoca molto lontana e un po’ mitologica. Anche alcuni episodi familiari me lo fecero individuare, un autista delle terme, missino sfegatato, che mi raccontava come nel golfo di Napoli nella rivista navale del ’38, ad un cenno del duce cento sommergibili fossero emersi contemporaneamente (a me sembrò esagerato, ma controllai, era vero) e sopratutto il maestro Pizzati, consigliere comunale, che nella nostra scuola elementare, all’ora di ginnastica, faceva talvolta marciare inquadrati i suoi scolari al suono dell’inno della Marina suonato da un grammofono. 

Io, che ero di un’altra sezione, in quegli anni allietati da molti bambini, li invidiavo molto. Intanto crescevo e i discorsi che in casa si aggiornavano alla situazione, cominciavo ad apprezzarli meglio. Insomma perché non possiamo restare al centro, diceva mia madre, perché non abbiamo più i voti e allora è meglio aprire a destra si sentiva rispondere. Erano gli anni di Segni e poi venne Tambroni. Mio padre capì che era un tornante decisivo e, anche se da troppo tempo fuori dalla politica attiva, fece tutto ciò che poteva per evitare la caduta del governo, non servì, la sinistra democristiana si unì ai laici contro Tambroni, il congresso dell’MSI non si tenne e la democrazia parlamentare fu sconfitta dalla piazza.

Cominciai allora a comprare qualche volta il Secolo – Pizzati vigilava che almeno alla cartolibreria Bonatti ci fosse sempre- sentendomi molto coraggioso per questo ed anche assaporando un po’ il fascino del proibito. Avevo tredici anni e non immaginavo che poi ci avrei anche scritto. Nel ’61 ci trasferimmo a Roma e intanto la DC, a Napoli, apriva a sinistra. Mio padre andò fuori dalla grazia di Dio ed io reagii andando al Partito Liberale dove, aumentandomi di un anno l’età, potei iscrivermi alla gioventù liberale. Divoravo libri sul Risorgimento, sulla Rivoluzione francese, sulle due guerre e, ormai, sapevo bene cos’erano i missini e li stimavo. Ero un liberale convinto (lo sono tuttora) ma non potevo non essere attratto dalla Giovane Italia per il coraggio, perché avevano tutto contro, il numero, la grande stampa e anche l’opinione pubblica internazionale, eppure non badavano al loro personale interesse e neanche al pericolo. Era anche una destra occidentale, atlantica, liberista, Arturo Michelini, Gastone Nencioni, Pino Romualdi, avrebbero benissimo potuto entrare nel novero delle destre presentabili, ma, come dicevano, non volevano restaurare, ma neanche rinnegare.

Erano sempre in molti, nel centro, a mantenere rapporti con la destra politica (anche perché era un centro inesistente, composto in realtà per tre quarti da gente di destra e da un quarto di sinistra) come si poté vedere per l’elezione di Segni e Leone, ma lo facevano di nascosto, negando sempre, io no. Io propugnavo apertamente la Grande Destra dentro il PLI, (ed eravamo molto pochi) e soprattutto l’applicavo nel mio ambito, come quando al liceo si formò l’alleanza liberali, monarchici, missini, da me guidata , con Guido Paglia e Antonio Galano, che non mi fece molto amare, ma che vinse le elezioni nella scuola, il Castelnuovo, più rossa di Roma. La mia giovinezza fu poi simile a quella di tanti giovani affascinati dalla politica, comizietti, manifesti da attaccare (anche nella Fontana delle Najadi, reato spero prescritto) interminabili discussioni politiche, lotte interne e anche qualche rischio fisico (sì, i giovani liberali erano molto meno bersaglio, ma anche molto più soli) c’erano però anche ardite missioni nel campo avverso che mi portarono ad avere le prime morose tutte di sinistra. Comunque i liberali non erano perseguitati, anche quando erano politicamente scorretti, anche quando parlavano, come me e Savarese a Radio alternativa di Teodoro Bontempo, dove incontrai un giovanissimo Fini, una quindicina d’anni prima dell’avventura di AN. Non eravamo discriminati o almeno non sempre e dappertutto, potevamo confrontarci con i nostri coetanei di sinistra senza essere oggetto di aggressioni praticamente scontate.

Feci anche in tempo a farmi eleggere all’organismo rappresentativo universitario, l’ORUR, e ad impedire, in accordo con la Caravella, che nascesse una giunta tra comunisti, socialisti, cattocomunisti e liberali di sinistra. Poi il ’68 spazzò via goliardia ed elezioni. Militai con altri amici nella confedereazione studentesca e poi in quella nazionale, ma oramai i partiti di centro cominciavano a perdere la bussola. Da Moro fino a Zanone, erano la solidarietà nazionale e l’arco costituzionale che si imponevano ed io non c’entravo proprio nulla con tutto ciò e, d’altro canto, pure la destra stava cambiando, il riflesso condizionato di appoggiare sempre e comunque i moderati in funzione anticomunista era sparito e anzi i DC e i laici erano visti quasi peggio dei compagni. Inoltre la facoltà di fisica non era uno scherzo ed era assai poco compatibile col tempo perso con la politica e decisi di laurearmi buttandomici a corpo morto, anche se non immaginavo che quella parentesi che pensavo breve, sarebbe durata un ventennio per effetto dei soggiorni all’estero. Sì, andai a sentire memorabili comizi di Almirante, telefonai da Ginevra a tutti i politici che conoscevo, perché non appoggiassimo acriticamente l’Inghilterra contro l’Argentina, feci campagna tra gli anglosassoni per Reagan, sostenni anche la Dc per evitare il sorpasso, criticai aspramente Bon Valsassina quando mi avvertì della scissione di Democrazia Nazionale, ma insomma non ero in politica e non pensavo di rientrarci, perché non mi piaceva più.

Fino a quando Segni non se ne uscì col collegio uninominale, vecchio simbolo dell’Italietta risorgimentale ed io mi riattivizzai, fino a scrivere un pezzo per l’Italia Settimanale in cui dicevo che se avessimo vinto il referendum, la destra sarebbe uscita dal ghetto per forza di cose, fino agli incontri con Fini, Urso, Tatarella, Bocchino, Gasparri e alla campagna per il sindaco di Roma, fino ad AN. Ma questa è un’altra vicenda, una vicenda comune, della quale Gianfranco fu un grande protagonista. No, non sono mai stato iscritto al MSI, ma non è estraneo alla mia storia, come non è estraneo alla storia degli Italiani.

scritto da  per il Secolo d'Italia.

2016/09/23

TORNA LA DITTATURA IN ITALIA



CORTE COSTITUZIONALE: RINVIO VERGOGNOSO

I sostenitori del NO al referendum sono stati tacciati di esagerati quando affermano che una vittoria del SI, combinata con l’attuale legge elettorale, potrebbe tecnicamente portare ad una sorta di dittatura.

La realtà è peggio della fantasia visto che la CORTE COSTITUZIONALE ha deciso di rinviare nell’ affrontare i ricorsi di incostituzionalità contro l’ “Italicum” presentati da diversi tribunali italiani dicendo di non voler interferire con le vicende politiche del momento.

Prontamente Renzi che si è congratulato per la scelta.

CI RENDIAMO CONTO DELLA GRAVITA’ DI QUESTO FATTO? Il massimo consesso GARANTE DELLA COSTITUZIONE che “decide di non decidere” per non andare contro il governo!! Tutti sanno che – seguendo la logica giuridica dell’attenersi a sentenze precedenti – QUESTA LEGGE ELETTORALE, come la precedente, SAREBBE STATA PROBABILMENTE DICHIARATA INCOSTITUZIONALE CON GRAVE SMACCO DEL GOVERNO ma questi giudici rinviano e non prendono posizione.

MA SE QUESTI SONO I GARANTI DI TUTTI, CHI GARANTISCE PIU’ GLI ITALIANI?

E’ una cosa gravissima ed inaudita, prontamente sepolta come notizia da giornali e TV, tutti proni ad incensare il potere, a cominciare da Mattarella che regolarmente fa il pesce in barile senza il coraggio di intervenire se non con le solite frasi ovvie e retoriche.

ITALIANI ATTENZIONE perché la libertà si perde poco a poco, inavvertitamente, e Renzi sta spudoratamente facendo solo il gioco dei propri interessi.

2016/09/17

E' finita l'Estate



Riprende il discorso dopo la sosta di agosto con un terremoto in più alle spalle, un paese bloccato e che non cresce nonostante petrolio e tassi di interesse a basso prezzo, tante promesse e roboanti previsioni che si sbriciolano (purtroppo) davanti alla realtà.

In mezzo, una nuova crisi comunale a Roma dove il sindaco RAGGI è oggetto di evidente boicottaggio (sì, difendo il sindaco del M5S perché bisogna anche darle il tempo di lavorare) ma dove – soprattutto – il PD e certi evidenti “poteri del mattone” stanno dando una quotidiana dimostrazione di come si cerchi di abbattere un avversario politico sgradito con l’uso sistematico della disinformazione e della polemica. 

La vicenda più grave di questa lunga estate è la crisi europea dove la Gran Bretagna se ne va (e sembra proprio stare meglio da sola, son riusciti anche a ridurre le tasse ai cittadini e imprese), ma nulla cambia in un rapporto pan-tedesco dove la Merkel predomina e gli altri stanno a guardare o si inventano scorciatoie populiste.

In quest’ottica provate a ricordare e a sommare i titoli “europei” dei giornali e dei servizi TV pro-Renzi di questi anni e misurateli con la realtà: basta vedere e giudicare ognuno con la propria testa per verificare che dietro il bluff di un bullo fiorentino non c’è assolutamente nulla, se non l’eredità di un’orda di poveracci che a ritmi di migliaia al giorno hanno invaso il nostro paese e non riescono più a uscirne perché a nord hanno chiuso il confine. Un po’ tardi (e in contrasto all’atteggiamento tenuto fino a ieri) Renzi ha “rotto” a Bratislava con i suoi partner, forse perché da Roma ha capito che arrivano venti di crisi personale e politica.

D'altronde l’Italia ha appena votato che l’Europa assegni sei miliardi di euro alla Turchia perché faccia da cuscinetto verso i profughi siriani (dimenticando le repressioni sanguinose del regime turco del presidente Erdogan, di cui non parla più nessuno) e solo briciole all’Italia pur con centinaia di migliaia di profughi arrivati ed in arrivo.

Questo è – purtroppo - il vero “peso” dell’Italia in Europa. 

Si potrebbe continuare con gli indici di crescita economica che dovevano schizzare al rialzo e sono invece malinconicamente fermi, come i tagli fiscali e le riforme che non decollano perché per questo governo le “riforme” sono solo quelle tipo le coppie di fatto. 

Allegri comunque, c’è chi sta peggio di noi.

2016/08/12

Italiani sempre più poveri



L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.

L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell'ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump. Per effetto dell'impoverimento e dello shock generazionale, una quota crescente di cittadini non credono più ai benefici dell'economia di mercato, della globalizzazione, del libero scambio.

Lo studio di McKinsey ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. 

Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81%. Seguono Inghilterra e Francia. 

Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le diseguaglianze o compensino la crisi del reddito familiare.

L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguarda i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.

Lo studio non si limita a tracciare un quadro desolante, vi aggiunge delle distinzioni cruciali per capire come uscirne. Il caso della Svezia viene additato come un'eccezione positiva per le politiche economiche dei governi e gli interventi sul mercato del lavoro che hanno contrastato con successo il trend generale. "Lo Stato in Svezia si è mosso per mantenere i posti di lavoro, e così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti per quasi tutti". 

Perfino l'iper-liberista America, però, ha fatto qualcosa per contrastare le tendenze di mercato. Riducendo la pressione fiscale sulle famiglie e aumentando i sussidi di welfare, gli Stati Uniti hanno agito per compensare l'impoverimento con qualche successo. In Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato finale è ancora peggiore: si passa dal 97% al 100%, quindi la totalità delle famiglie sta peggio in termini di reddito disponibile.

Se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.

2016/08/10

Marcinelle, 60 anni

Quando gli immigrati eravamo noi
L’8 agosto ricorrevano i 60 anni dalla tragedia di Marcinelle, una delle più pesanti catastrofi per l’emigrazione italiana con 136 nostri connazionali periti tra i 263 minatori bruciati o soffocati a quasi mille metri di profondità in una a miniera di carbone belga  vicino a Charleroi.

L’Italia distratta di oggi non ricorda questa pagina tremenda della nostra emigrazione né gli accordi che ci stavano dietro, ovvero il vero e proprio contratto con cui i governi italiani del dopoguerra avevano venduto le braccia di migliaia di operai – quasi tutti del sud – in cambio di quel carbone che doveva far ripartire le nostre industrie per la povertà italiana di materie prime.

Una "deportazione" vera e propria, che obbligava quelli che decidevano di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo per almeno 5 anni, pena la detenzione. L'accordo prevedeva l'invio di 2000 operai a settimana, cifra destinata ad aumentare perché dall'Italia arrivarono fin da subito anche le famiglie dei minatori, con mogli, figli, genitori. 

In cambio Bruxelles si impegnava a fornire al nostro Paese carbone a basso costo. 

Nelle città e nei paesi iniziarono a comparire i manifesti rosa di "reclutamento", che promettevano lavoro e salario, magnifiche sorti e progressive ricchezze in un'Italia disperatamente povera. 

Non erano richieste particolari attitudini, solo di avere meno di 35 anni ed essere in buona salute. Chi ha avuto modo di vedere di recente il bel film “Marina” (la celeberrima canzone degli anni ’60 fu composta dal figlio di un nostro minatore in Belgio) avrà notato le condizioni di vita di quegli emigranti e i loro alloggi: baracche di legno e lamiera in ex campi di prigionia. 

Erano quelle, almeno in una prima fase, le abitazioni dei minatori italiani, gli alloggi "convenienti" citati nel protocollo italo-belga. Le cantine trasformate in dormitori comuni con letti a castello, mentre le famiglie vivono nelle baracche. I bagni e le fontane per l'acqua erano esterni e in comune, in un paese dalle temperature non certo accoglienti. Già alla fine del 1948 nelle miniere belghe lavorano quasi 77mila italiani, ma l’emigrazione continuerà senza soste. . 

Alle 8.10 dell'8 agosto del 1956 scoppia un incendio a -975 metri nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi. In quel momento nelle viscere della terra lavorano 275 uomini. Di questi solo 13 riusciranno a salvarsi. La macchina dei soccorsi si muove in ritardo, e per due settimane si continua ad alimentare la speranza, fino a quando, il 23 agosto, vengono dichiarati "tutti morti". I processi-farsa che seguiranno assolveranno tutti i responsabili della miniera, priva di qualsivoglia sistema di sicurezza, parlando di “fatalità”. 

Fu Mirko Tremaglia – come ministro per gli italiani nel mondo – a proporre ed ottenere che l’8 agosto diventasse un giorno di ricordo nazionale dell’ l’emigrazione italiana, ma ora che non ci sono più nè il ministero e neppure un sottosegretario specifico per gli italiani all’estero di questi ricordi se ne perdono le tracce. 

Qualche ex minatore è ancora in vita come – è stato ricordato - Mario, a cui la miniera ha "regalato" la silicosi. Lui ed altri ex minatori italiani cercano di tener viva la memoria di una tragedia che molte giovani generazioni non conoscono neppure. Mario ha scritto al presidente Mattarella per avere una copia della medaglia che l'Italia diede a suo padre, anche lui minatore. Ma, dall'inverno scorso, non ha ancora ricevuto risposta. Come è stato scritto, quei minatori e le loro famiglie "sono rimasti orfani non solo dei padri, ma anche della patria".

ITALIA, di tutto un po'....



Per quasi tutta la stampa italiana DONALD TRUMP è un cretino. Come sempre avvenuto, quando arriva un candidato diverso dalla sinistra-radical-scic non si va a valutare seriamente come la pensi, ma lo si fa diventare un pagliaccio. La ricetta è semplice: si prende una frase, la si estrapola dal contesto, la si commenta in modo demagogico, la si fa diventare titolone e così lo si censura. DOnald Trump per chi non lo sapesse è un miliardario americano che ha fatto fortuna attraverso le costruzioni d'immobili, giornali e reti TV, esattamente come Berlusconi.

Un esempio? Se leggo “Trump: la Clinton ha fondato l’ISIS!” (titolo Corsera) è una idiozia, ma se lo ascolto e comprendo che ha detto “L’ex segretaria di stato Hillary Clinton con la sua politica di destabilizzazione americana in Medio Oriente ha portato alla nascita dell’ISIS” Trump ha perfettamente ragione. Purtroppo in Italia la politica estera è spot, sensazioni, superficialità e - nello specifico - è in atto una “santificazione” della Clinton considerando i sostenitori di Trump dei buzzurri cretini. 

Si aggregano al cicaleggio i cinquettii della Boldrini, della Mogherini, della Boschi tutte corse alla convention democratica (con i soldi dei contribuenti) a sbavare per un “selfie” insieme alla candidata.

Ricordo la stessa politica di demonizzazione verso il MSI-DN della mia gioventù o anche recentemente contro la Lega Nord (e oggi contro il M5S) , con tanti servizi TV dove i leghisti apparivano sempre come degli zoticoni con le corna di mucca in testa, ma raramente c’era spazio per capire od approfondire gli avvenimenti. I commenti alle elezioni americane sono sconcertanti davanti a due candidati entrambi discutibili, ma dove da una parte c’è per lo meno un forte senso di discontinuità, dall’altro una liturgica approvazione dello “status quo” e non mi pare che gli USA in questi anni abbiano fatto sfolgoranti progressi, soprattutto facendo pagare ad altri (come agli europei) le loro speculazioni finanziarie. Certo che se vince Trump per l’Europa sarà dura, ma per prima cosa credo si dovrebbe cercare di capirne meglio il fenomeno. 

Lo stesso vale per LA CRISI DELLE BANCHE dove leggendo dozzine di articoli sfugge un concetto: chi, come e perché ha permesso gli indebitamenti colossali di tanti creditori insolventi, quelli che – per esempio – hanno affossato Monte dei Paschi di Siena, banca “politica” (di sinistra) per eccellenza? 

Ho visto come sia stato sempre difficile ottenere correttamente crediti, finanziamenti, aiuti per le piccole imprese e SEMPRE - anche per poche migliaia di euro di crediti - servono firme, fidejussioni, avvalli ecc.

Ma come è mai possibile arrivare a sofferenze di MILIARDI DI EURO? Non ci sono direttori generali, consigli di amministrazione, responsabili dei fidi cui oggi andrebbe chiesto conto? Nessuno paga se non gli azionisti (quelli piccoli, gli altri sono stati prioritariamente sistemati) che in campo bancario hanno visto perdere anche il 99% del proprio investimento. Ma possibile che BANCA D’ITALIA e CONSOB non si sono accorte di niente anche negli ultimi anni? Ed è corretto che ora le banche dietro al FONDO ATLANTE posano acquisire banche per mezzo piatto di lenticchie? Questi sono misteri tutti italiani che NESSUNO sembra voler approfondire. 

Un ulteriore esempio di disinformazione è per la TURCHIA E LO PSEUDO GOLPE DI ERDOGAN dove ho letto ben poco fuori dal coro. Ma chi sono stati i golpisti, come hanno portato avanti questo maldestro tentativo di colpo di stato che è abortito in pochi minuti? Oppure – come temo – è stata una plateale “patacca” auto-organizzata o almeno ben a conoscenza di Erdogan che ne ha approfittato per far fuori ogni opposizione? Non si arrestano 2.350 giudici in poche ore senza avere dietro un piano preciso, così come poter impunemente epurare e imprigionare giornalisti, TV, partiti, professori, militari a decine di migliaia. 

Diciamoci la verità, ovvero che oggi la Turchia serve all’Europa e agli USA per molti “lavori sporchi”, ricatta l’UE per i profughi, ha in Europa milioni di suoi cittadini. Erdogan è furbo, tratta e commercia come tutti i turchi e ha scoperto un “cliente” europeo da tenere per le palle  Ecco dunque che in Europa spariscono i guaiti sui diritti umani, non si vedono più le immagini delle torture, non ci sono sanzioni, nessuna delegazione “va a vedere” sul serio cosa succeda nelle carceri turche. Poche le eccezioni, come quella coraggiosa di Lucia Goracci che ha intervistato Erdogan senza ipocrisie, anche se lui ha risposto ovviamente come voleva. 

Sul piano interno lo spettacolo più indecoroso: la “dispar condicio sul referendum” dove non c’è un minimo di equità nell’illustrare anche le ragioni del NO ed è un continuo inno al SI senza vero contradditorio o spazio per spiegare le critiche. Così il SI serve - dice la fatina Boschi - addirittura contro il terrorismo, per dar soldi ai poveri, per superare la crisi economica e via a spararle più grosse. 

Vale per le grandi testate ma soprattutto per la RAI TV, piegata come sempre sul leader a violare qualsiasi regola di “par condicio” con il maghetto di Firenze che appare ovunque con le sue cicalanti vestali. A seguire il documento di un gruppo di parlamentari del PD (che ovviamente adesso rischiano il posto) che coraggiosamente spiegano il loro NO e un articolo apparso sul Corriere della Sera del prof. Stefano Passigli che – sfuggito alla censura? – con molta pacatezza fa dei ragionamenti chiarissimi e che i fautori del SI dovrebbero forse mediare. 

Ma a fronte di queste indecenze l’unica cosa che conta è sempre la demagogia ed è di ieri la notizia del licenziamento in tronco del direttore di QS (quotidiano sportivo del gruppo Monti) perché in un articolo (tra l'altro in chiave di simpatia) erano state due giorni fa definite "cicciottelle" le tre atlete che hanno perso le possibili medaglie alle olimpiadi nel tiro con l'arco.

Ma vi sembra un termine così offensivo?! Ogni giorno la verità è mistificata, nascosta, ignorata su problemi ben più gravi e ben altri sarebbero da licenziare! Ma è quel “cicciottelle” a contare… Può funzionare un paese così intriso di ipocrisia? No, ma a furia di buonismi e di "political correct" viene francamente da vomitare e questa è la sublimazione delle imbecillità. 

NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM
I firmatari di questo documento sono parlamentari del PD che voteranno no al prossimo referendum costituzionale. Con la consapevolezza che la propria è posizione in dissenso da quella deliberata dal PD, ma nella convinzione che essa possa essere da noi assunta grazie al carattere liberale dello statuto del partito, il quale mette in conto che non si dia un vincolo disciplinare quando sono in gioco principi e impianto costituzionale. Una posizione, la nostra, che confidiamo possa essere doppiamente utile. Da un lato, contribuendo a centrare il confronto sul merito della riforma, anziché su pregiudiziali posizioni di schieramento, come un po' tutti, a cominciare dal PD, dichiarano di auspicare. Dall'altro, ritenendo che non siano pochi, tra elettori e militanti democratici, coloro che coltivano una opinione diversa da quella "ufficiale" del partito, pensiamo sia bene che essi abbiano voce. Circostanza che conferisce autorevolezza e forza al PD come grande partito pluralistico, inclusivo e appunto liberale. Sinteticamente, le motivazioni del nostro no sono le seguenti: 1) le priorità in agenda. È nostra convinzione che le riforme costituzionali, pur necessarie, non rappresentino la priorità in agenda. Di più: che da gran tempo è invalsa l'abitudine - una sorta di alibi per la classe politica - di imputare alla Costituzione la responsabilità di insufficienze che semmai vanno intestate alla politica e all'amministrazione; nonché di spostare tutta l'attenzione dall'esigenza di dare attuazione a principi e diritti scolpiti nella Carta alla ingegneria costituzionale in una sorta di frenesia riformatrice; 2) legittimazione o, meglio, autorevolezza di questo parlamento. Conosciamo la sentenza n. 1 del 2014 che autorizza l'operatività del parlamento ancorché eletto con il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma una cosa è la sua operatività ordinaria, altra cosa è la riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione, un ridisegno della sua seconda parte (per altro già rinnovata in taluni suoi articoli), per il quale si richiederebbero ben altra autorevolezza e forse un più esplicito mandato da parte degli elettori. Abbiamo la memoria corta: dopo l'esito delle elezioni politiche del 2013, dalle quali non è sortita una maggioranza, era opinione unanime che si dovesse dare vita a un governo istituzionale che portasse entro un anno a nuove elezioni, non a governi o a una legislatura costituenti; 3) metodo. È profilo cruciale. Le revisioni costituzionali sono materia parlamentare per eccellenza. Nel nostro caso, l'intero processo è stato ideato, gestito, votato dal governo, per altro facendo appello a motivazioni giuste ma francamente incongrue rispetto alla portata della riforma quali la riduzione dei costi. Un protagonismo esorbitante e improprio del governo, non privo di gravi conseguenze. Tra le quali quella di non giovare al fine di raccogliere una maggioranza larga, quale si conviene alla riscrittura della Legge fondamentale della Repubblica; quella inoltre di smentire il solenne impegno a non ripetere l'errore del passato di riforme varate da una stretta maggioranza di governo; quella infine di porre l'ennesimo, insidioso precedente foriero di altri futuri strappi da parte di maggioranze politiche contingenti, in un tempo che ci suggerisce di non escludere, per il futuro, governi dal segno illiberale. E ancora: quella di porre le premesse per un referendum costituzionale il cui oggetto slitta dal quesito di merito formale al quesito implicito sul sì o no al governo, dunque un plebiscito. Anche a motivo della non omogeneità dell'oggetto, come prescrive la giurisprudenza costituzionale e, prima ancora, l'art. 138 la cui "ratio" chiaramente sottintende revisioni mirate e puntuali;
4) il merito. In estrema sintesi, la nostra opinione è che la riforma non riesca a perseguire gli obiettivi dichiarati: di semplificazione e di conferimento di efficienza e di efficacia al sistema istituzionale. Più specificamente, essa disegna un bicameralismo confuso - va da sé che siamo favorevoli al superamento del bicameralismo paritario - nel quale il Senato, privo per altro di adeguata autorevolezza e rappresentatività, rischia semmai di costituire un ulteriore ostacolo al processo decisionale (davvero si pensa che il problema sia quello di fare più celermente nuove leggi, anziché quello di farne meno e di scriverle meglio?); un procedimento legislativo farraginoso e foriero di conflitti; un Senato la cui estrazione locale mal si concilia con le rilevanti competenze europee e internazionali affidategli; una esorbitante ricentralizzazione nel rapporto Stato-regioni che revoca il principio/valore delle autonomie ex art. 5 della Carta (paradossalmente ignorando l'esigenza di ripensare le regioni ad autonomia speciale); una complessiva alterazione degli equilibri, delle garanzie e dei bilanciamenti di cui si nutre il costituzionalismo tutto a vantaggio del governo, un vantaggio ulteriormente avvalorato dall'Italicum; il conferimento ai futuri consiglieri regionali e sindaci senatori dell'istituto dell'immunità sino a oggi riservato ai soli rappresentanti della nazione in senso proprio;
5) elettività dei senatori. Nell'ultimo e decisivo passaggio della riforma al Senato la questione più dibattuta fu quella della sua elettività, motivata in ragione delle competenze ad esso assegnate - dalle leggi di revisione costituzionale alla materia comunitaria sino alla ratifica dei trattati internazionali - che palesemente presuppongono senatori eletti direttamente dai cittadini in quanto fonte della sovranità nazionale. Ne è sortita una elaborata mediazione sul testo che di fatto rinvia la questione a una legge elettorale (del Senato) ordinaria di attuazione. Sul punto, vi fu l'intesa di fare precedere il referendum costituzionale da un impegnativo atto politico se non dalla messa a punto di una bozza di tale legge attuativa, della quale non si ha più notizia. Rilasciando così nell'incertezza la cruciale questione della elettività dei senatori;
6) infine una ragione politica, che riguarda il PD e, più complessivamente, l'evoluzione del sistema politico. Non è un mistero che, anche a motivo della impropria drammatizzazione politica della questione, si attende il referendum come uno spartiacque. Al punto che vi è chi rappresenta il fronte del sì come il laboratorio di uno schieramento o addirittura di un partito che muova dal PD, ma che vada oltre il PD. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che si concepisce come alternativo alla destra e alla sinistra. Una prospettiva, per noi, tre volte sbagliata: perché snatura il confronto referendario; perché allontana il sistema politico dalla fisiologia di una competizione tra centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle; perché altera il profilo costitutivo del PD quale partito di centrosinistra, ancorché non presuntuosamente autosufficiente, nel solco dell'Ulivo. Quel profilo e quell'assetto che, alle recenti amministrative, nel quadro di una bruciante sconfitta, ha consentito al PD di vincere la partita a Milano.
La nostra posizione per il no può riuscire utile sotto un altro, decisivo profilo. Quello delle gestione delle conseguenze a valle di una eventuale bocciatura della riforma. Il nostro è un no di merito alla riforma. La circostanza che anche elettori e militanti del PD possano avere contribuito al no non autorizzerebbe a stabilire un improprio automatismo: no alla riforma=crisi di governo. Qualcuno di sicuro lo sosterrà, anche perché, non certo noi, ma il premier, sbagliando, ha contribuito ad avvalorare tale tesi.

Un automatismo che noi contestiamo, con il nostro no, rigorosamente distinto dal no al
governo, che, lo ripetiamo, esula completamente dalle nostre intenzioni.

Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti,
Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco


2016/07/16

I muri del commercio mondiale



La Brexit, l'ascesa di Trump, le tentazioni protezioniste di Hillary Clinton, l'arenarsi del TPP e del TTIP, i due grandi trattati commerciali promossi da Obama con i paesi del Pacifico e dell'Atlantico, lo svanire del WTO, il rifiuto europeo di concedere alla Cina lo status di economia di mercato che ne avrebbe agevolato le esportazioni. La lista dei campanelli d'allarme sulla salute della globalizzazione è lunga, ma decretarne il tramonto è prematuro. E' cambiata certamente la narrativa della globalizzazione. 

Da fenomeno che vede tutti vincitori - i capitalisti che hanno più occasioni di investire, i consumatori dei paesi ricchi che spendono meno per i loro consumi, i lavoratori dei paesi emergenti che vedono crescere i loro redditi - ad una situazione in cui i perdenti ci sono: le classi medie dei paesi ricchi che hanno visto frenare drammaticamente la crescita dei loro redditi reali. Ma i grandi motori dell'integrazione globale continuano a girare: dalla crescita esponenziale dei flussi di dati via Internet alle "catene di valore", cioè le produzioni integrate sparse su vari paesi che ormai occupano i tre quarti delle esportazioni mondiali.

O invece no? Quando Jeff Immelt, il boss di General Electric, una delle più grandi multinazionali mondiali suggerisce che la strada futura è la localizzazione delle produzioni sembra indicare che le grandi aziende hanno fiutato una svolta che alle grandi istituzioni economiche mondiali è sfuggita. In un saggio apparso su Voxeu, due studiosi, Simon Evenett e Johannes Fritz la sintetizzano così: il commercio mondiale non sta rallentando. Si è puramente e semplicemente fermato. E questa frenata coincide con una recrudescenza di misure protezionistiche.

Per il 2015, World Bank, FMI, WTO stimano tutti una crescita del commercio mondiale fra il 2,8 e il 3,1 per cento. Ma i dati (a consuntivo) dell'olandese World Trade Monitor indicano invece che non è aumentato affatto. Anzi, è un po' diminuito. Evenett e Fritz sostengono che il volume del commercio mondiale non si schioda dal livello raggiunto nel gennaio 2015, e questo vale per export, import, paesi avanzati e paesi emergenti. Un ristagno lungo 15 mesi - osservano - tranne che nelle vere e proprie recessioni non si era mai visto dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Ma questo vale anche per il valore del commercio mondiale? 

In altre parole, non è che il crollo dei prezzi delle materie prime (petrolio in testa) e la contemporanea rivalutazione del dollaro (la valuta in cui vengono quotate) basta a spiegare la frenata complessiva del commercio? No, rispondono Evenett e Fritz. I prezzi delle materie prime, a fine 2015, erano in ripresa, quelli dei semilavorati sono caduti tutto l'anno. Per beni d'investimento e di consumo i prezzi sono scesi per la prima parte del 2015 e lì sono rimasti. Insomma, petrolio e dollaro sono solo un pezzo della spiegazione.

Qual è l'altro pezzo? Secondo lo studio, i prodotti che hanno subito la maggiore caduta sono quelli che si sono scontrati con crescenti barriere protezionistiche. Il censimento fatto da Evenett e Fritz dice che il numero delle misure protezioniste nel mondo è cresciuto del 50 per cento fra il 2014 e il 2015. Che per ogni liberalizzazione ci sono state tre nuove misure antistranieri e che il 2016 si presenta peggio del 2015. Colpa dei paesi piccoli e deboli? 

Niente affatto, oltre l'80 per cento delle iniziative protezionistiche del 2015 sono opera dei paesi del G20. Lo studio dice anche che la natura di queste iniziative sta cambiando. Prima erano soprattutto dazi, sussidi e finanziamenti alle aziende nazionali. Adesso, si diffonde la pratica di imporre agli investitori di rifornirsi sul mercato nazionale. "Buy local", insomma, come sembra aver capito Immelt. 

Per la Gran Bretagna, che si trova fuori dall'ombrello europeo, la Brexit non poteva arrivare nel momento peggiore. Ma si preparano tempi duri per tutti i grandi esportatori, come Germania e Italia.

globalizzazione, eurobarometro, commercio mondiale

Da un articolo pubblicato su Repubblica.it del 16/07/2016

2016/07/15

Come finirà con l'Islam?


Intervista a Giovanni Sartori, fiorentino, 91 anni (quasi 92), considerato fra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, da anni è attento osservatore dei temi-chiave di oggi: immigrazione, Islam, Europa. Da Il Giornale, 15/7/2016.

Professore su queste parole si gioca il nostro futuro.

«Su queste parole si dicono molte sciocchezze».

Su queste parole, in Francia, intellettuali di sinistra ora cominciano a parlare come la destra. Dicono che il multiculturalismo è fallito, che i flussi migratori dai Paesi musulmani sono insostenibili, che l'Islam non può integrarsi con l'Europa democratica...

«Sono cose che dico da decenni».

Anche lei parla come la destra?

«Non mi importa nulla di destra e sinistra, a me importa il buonsenso. Io parlo per esperienza delle cose, perché studio questi argomenti da tanti anni, perché provo a capire i meccanismi politici, etici e economici che regolano i rapporti tra Islam e Europa, per proporre soluzioni al disastro in cui ci siamo cacciati».

Quale disastro?

«Illudersi che si possa integrare pacificamente un'ampia comunità musulmana, fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso, con la società occidentale democratica. Su questo equivoco si è scatenata la guerra in cui siamo».

Perché?

«Perché l'Islam che negli ultimi venti-trent'anni si è risvegliato in forma acuta - infiammato, pronto a farsi esplodere e assistito da nuove tecnologie sempre più pericolose - è un Islam incapace di evolversi. È un monoteismo teocratico fermo al nostro Medioevo. Ed è un Islam incompatibile con il monoteismo occidentale. Per molto tempo, dalla battaglia di Vienna in poi, queste due realtà si sono ignorate. Ora si scontrano di nuovo».

Perché non possono convivere?

«Perché le società libere, come l'Occidente, sono fondate sulla democrazia, cioè sulla sovranità popolare. L'Islam invece si fonda sulla sovranità di Allah. E se i musulmani pretendono di applicare tale principio nei Paesi occidentali il conflitto è inevitabile».

Sta dicendo che l'integrazione per l'islamico è impossibile?

«Sto dicendo che dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l'integrazione di islamici all'interno di società non-islamiche sia riuscita.
Pensi all'India o all'Indonesia».

Quindi se nei loro Paesi i musulmani vivono sotto la sovranità di Allah va tutto bene, se invece...

«...se invece l'immigrato arriva da noi e continua ad accettare tale principio e a rifiutare i nostri valori etico-politici significa che non potrà mai integrarsi. Infatti in Inghilterra e Francia ci ritroviamo una terza generazione di giovani islamici più fanatici e incattiviti che mai».

Ma il multiculturalismo...

«Cos'è il multiculturalismo? Cosa significa? Il multiculturalismo non esiste. La sinistra che brandisce la parola multiculturalismo non sa cosa sia l'Islam, fa discorsi da ignoranti. Ci pensi. I cinesi continuano a essere cinesi anche dopo duemila anni, e convivono tranquillamente con le loro tradizioni e usanze nelle nostre città. Così gli ebrei. Ma i musulmani no. Nel privato possono e devono continuare a professare la propria religione, ma politicamente devono accettare la nostra regola della sovranità popolare, altrimenti devono andarsene».

Se la sente un benpensante di sinistra le dà dello xenofobo.

«La sinistra è vergognosa. Non ha il coraggio di affrontare il problema. Ha perso la sua ideologia e per fare la sua bella figura progressista si aggrappa alla causa deleteria delle porte aperte a tutti. La solidarietà va bene. Ma non basta».

Cosa serve?

«Regole. L'immigrazione verso l'Europa ha numeri insostenibili. Chi entra, chiunque sia, deve avere un visto, documenti regolari, un'identità certa. I clandestini, come persone che vivono in un Paese illegalmente, devono essere espulsi. E chi rimane non può avere diritto di voto, altrimenti i musulmani fondano un partito politico e con i loro tassi di natalità micidiali fra 30 anni hanno la maggioranza assoluta. E noi ci troviamo a vivere sotto la legge di Allah. Ho vissuto trent'anni negli Usa. Avevo tutti i diritti, non quello di voto. E stavo benissimo».

E gli sbarchi massicci di immigrati sulle nostre coste?

«Ogni emergenza ha diversi stadi di crisi. Ora siamo all'ultimo, lo stadio della guerra - noi siamo gli aggrediti, sia chiaro - e in guerra ci si difende con tutte le armi a disposizione, dai droni ai siluramenti».

Cosa sta dicendo?

«Sto dicendo che nello stadio di guerra non si rispettano le acque territoriali. Si mandano gli aerei verso le coste libiche e si affondano i barconi prima che partano. Ovviamente senza la gente sopra. È l'unico deterrente all'assalto all'Europa. Due-tre affondamenti e rinunceranno. Così se vogliono entrare in Europa saranno costretti a cercare altre vie ordinarie, più controllabili».

Se la sente uno di quegli intellettuali per i quali la colpa è sempre dell'Occidente...

«Intellettuali stupidi e autolesionisti. Lo so anch'io che l'Inquisizione è stata un orrore. Ma quella fase di fanatismo l'Occidente l'ha superata da secoli. L'Islam no. L'Islam non ha capacità di evoluzione. È, e sarà sempre, ciò che era dieci secoli fa. È un mondo immobile, che non è mai entrato nella società industriale. Neppure i Paesi più ricchi, come l'Arabia Saudita. Hanno il petrolio e tantissimi soldi, ma non fabbricano nulla, acquistano da fuori qualsiasi prodotto finito. Il simbolo della loro civiltà, infatti, non è l'industria, ma il mercato, il suq».

Si dice che il contatto tra civiltà diverse sia un arricchimento per entrambe.

«Se c'è rispetto reciproco e la volontà di convivere sì. Altrimenti non è un arricchimento, è una guerra. Guerra dove l'arma più potente è quella demografica, tutta a loro favore».

E l'Europa cosa fa?

«L'Europa non esiste. Non si è mai visto un edificio politico più stupido di questa Europa. È un mostro. Non è neppure in grado di fermare l'immigrazione di persone che lavorano al 10 per cento del costo della manodopera europea, devastando l'economia continentale. Non è questa la mia Europa».

Qual è la sua Europa?

«Un'Europa confederale, composta solo dai primi sei/sette stati membri, il cui presidente dev'essere anche capo della Banca europea così da avere sia il potere politico sia quello economico-finanziario, e una sola Suprema corte come negli Usa. L'Europa di Bruxelles con 28 Paesi e 28 lingue diverse è un'entità morta. Un'Europa che vuole estendersi fino all'Ucraina... Ridicolo. Non sa neanche difenderci dal fanatismo islamico».

Come finirà con l'Islam?

«Quando si arriva all'uomo-bomba, al martire per la fede che si fa esplodere in mezzo ai civili, significa che lo scontro è arrivato all'entità massima».



2016/06/24

BREXIT grandi manovre in Europa


Il referendum inglese non sarà forse la morte dell’Europa ma per me è un momento di sconforto e di profonda tristezza, anche perché la “colpa” di questa situazione non è tanto degli inglesi che se ne vogliono uscire, ma di “questa” Europa così diversa da quella che avevamo sognato. Un’Europa dove tutto è diventato prima di tutto solo economia e (grande) finanza, speculazioni di borsa, burocrazia e “Germanocentrismo” dove la crisi colpisce la pancia della gente e le sue paure, con la facile scorciatoia di dare sempre la colpa agli altri. Chiudersi e separarsi dà allora (falsa) sicurezza, ma soprattutto – distrutte radici e idealità - non c’è motivo di sacrificarsi. 

E’ cresciuta un’Europa che fa di tutto per scontentare gli europei, che non ha una politica per l’immigrazione, una linea per la politica estera, la difesa, una strategia verso la Russia, una indipendenza di pensiero riguardo agli USA, la tutela dei legittimi sentimenti di appartenenza che devono essere i diversi colori di una strategia comune e invece sono diventati solo segni di spaccatura sempre più evidente. E’ vero che Europa, Euro e Unione Europea sono tre cose differenti ma alla fine si identificano in un malcontento giustificato e diffuso che ha fatto velocemente crollato lo spirito europeo in anni dove i più giovani non hanno conosciuto e quindi neppure immaginano la realtà di un continente in guerra e che ancora pochi anni fa era diviso da troppi confini.

Amarcord? Certo, ma come spiegare a mio nipote che ricordo bene la prima volta che a Berlino passai all’Est: scendevi dalla metropolitana e i viaggiatori erano avviati in un lungo camerone sotterraneo e puzzolente dove consegnavi il passaporto e aspettavi finchè l’altoparlante non urlava – ovviamente in tedesco – “Italien…” e via con il tuo numero. Ti consegnavano il visto e un sacchettino (obbligatorio) di carta moneta e di monetine che sembravano di plastica. Per passare dovevi infatti cambiare un minimo di marchi “buoni” (ovvero quelli dell’ovest), con quelli “democratici” che erano ufficialmente quotati alla pari, venti volte il loro valore reale.

Erano già passati più di trent’anni dalla fine delle guerra, ma mentre a Berlino Ovest era un fiorire di grattaceli all’Est c’erano ancora le rovine per strada, il filo spinato per stare lontani dal “muro” che alla Porta di Brandeburgo separava in due la città, poche auto in giro e solo il museo di Priamo e dell’antica Assiria rendeva doverosa una visita “di là”.

Ricordo anche un Praga grigia e fredda, sporca, così diversa dalla città di oggi piena di turisti allegri e scamiciati, ma d'altronde bastava superare Gorizia – divisa in due - per vedere come il tempo si fosse fermato con i prezzi della benzina che per noi erano una pacchia, in una Jugoslavia orgogliosa del suo non allineamento, ma decisamente meno libera e più povera di noi. 

Tutti ce la prendiamo oggi con l’euro, ma ci siamo dimenticati di quando la lira perdeva valore giorno per giorno e sembrò già un successo quando si cominciò a parlare di ECU e cambi fissi, di Mercato Comune e di progetto Erasmus. 

Pochi allora andavano all’estero e ancor meno per frequentare una università. 

In Europa c’erano centinaia di migliaia di italiani, ma tanti vivevano ancora in baracche, braccia utili solo a scavare carbone e comunque emarginati, senza diritti, considerati zoticoni e ignoranti (come molto spesso – purtroppo – lo erano) perché senza istruzione, semianalfabeti strappati dal bisogno alle campagne del sud.

Chi oggi è senza memoria non può ricordare l’odore dei vagoni ferroviari che partivano lenti dalla Sicilia o dalla Calabria, risalivano la penisola e poi ancora più su attraverso la Svizzera, la Germania, verso il Belgio o le miniere della Ruhr.

Anni per emanciparsi, per convivere, per difendere un po’ di dignità in un ambiente ostile e senza rondini, dove tutto sembrava nemico dopo due guerre mondiali che avevano visto alla fine la sconfitta di tutti perché era stata l’Europa intera a perdere e a ritrovarsi distrutta e in macerie, forte solo di volontà di risalire. 

L’Europa Unita era nata così, con l’Italia che prestava braccia e riceveva carbone, con Francia e Germania che decisero finalmente - alla fine - come il Reno potesse essere solo un fiume e non perenne mattatoio di ragazzi e una serie di bunker e trincee. 

Con diffidenza, speranza, incredulità: lentamente ci si cominciò a parlare, a capire, a crescere. Crollò il “muro” e fu tutto subito diverso, incredibile, possibile.

La realtà sembrava fin troppo facile, naturale e scontata: crollavano i confini e si ingrandiva l’Europa in un processo che sembrava inarrestabile e felice. Poi vennero l’Euro, la recessione, la crisi, il terrorismo, le ondate migratorie e l’Europa si arenò senza ritrovare radici vere, tra indici di borsa, Brexit, nuovi muri e tante insofferenze. Vennero politici di poco spessore, nuove povertà, ma soprattutto tutto è diventato un pasticcio monetario senza più nessuna idealità, senz’anima, con la maxifinanza tedesca a dettar legge..

E’ iniziata così una reazione a catena incontrollabile, dove diventa legittimo chiedersi perché alla Gran Bretagna si erano comunque offerti molti privilegi purché restasse in Europa e l’Italia non goda invece di considerazione, anche per leader nostrani evidentemente incapaci di farsi rispettare.

I numeri inglesi sono impietosi, è un brusco risveglio dal sogno, anche se certi sogni speri sempre che non finiscano mai.