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2016/06/24

BREXIT grandi manovre in Europa


Il referendum inglese non sarà forse la morte dell’Europa ma per me è un momento di sconforto e di profonda tristezza, anche perché la “colpa” di questa situazione non è tanto degli inglesi che se ne vogliono uscire, ma di “questa” Europa così diversa da quella che avevamo sognato. Un’Europa dove tutto è diventato prima di tutto solo economia e (grande) finanza, speculazioni di borsa, burocrazia e “Germanocentrismo” dove la crisi colpisce la pancia della gente e le sue paure, con la facile scorciatoia di dare sempre la colpa agli altri. Chiudersi e separarsi dà allora (falsa) sicurezza, ma soprattutto – distrutte radici e idealità - non c’è motivo di sacrificarsi. 

E’ cresciuta un’Europa che fa di tutto per scontentare gli europei, che non ha una politica per l’immigrazione, una linea per la politica estera, la difesa, una strategia verso la Russia, una indipendenza di pensiero riguardo agli USA, la tutela dei legittimi sentimenti di appartenenza che devono essere i diversi colori di una strategia comune e invece sono diventati solo segni di spaccatura sempre più evidente. E’ vero che Europa, Euro e Unione Europea sono tre cose differenti ma alla fine si identificano in un malcontento giustificato e diffuso che ha fatto velocemente crollato lo spirito europeo in anni dove i più giovani non hanno conosciuto e quindi neppure immaginano la realtà di un continente in guerra e che ancora pochi anni fa era diviso da troppi confini.

Amarcord? Certo, ma come spiegare a mio nipote che ricordo bene la prima volta che a Berlino passai all’Est: scendevi dalla metropolitana e i viaggiatori erano avviati in un lungo camerone sotterraneo e puzzolente dove consegnavi il passaporto e aspettavi finchè l’altoparlante non urlava – ovviamente in tedesco – “Italien…” e via con il tuo numero. Ti consegnavano il visto e un sacchettino (obbligatorio) di carta moneta e di monetine che sembravano di plastica. Per passare dovevi infatti cambiare un minimo di marchi “buoni” (ovvero quelli dell’ovest), con quelli “democratici” che erano ufficialmente quotati alla pari, venti volte il loro valore reale.

Erano già passati più di trent’anni dalla fine delle guerra, ma mentre a Berlino Ovest era un fiorire di grattaceli all’Est c’erano ancora le rovine per strada, il filo spinato per stare lontani dal “muro” che alla Porta di Brandeburgo separava in due la città, poche auto in giro e solo il museo di Priamo e dell’antica Assiria rendeva doverosa una visita “di là”.

Ricordo anche un Praga grigia e fredda, sporca, così diversa dalla città di oggi piena di turisti allegri e scamiciati, ma d'altronde bastava superare Gorizia – divisa in due - per vedere come il tempo si fosse fermato con i prezzi della benzina che per noi erano una pacchia, in una Jugoslavia orgogliosa del suo non allineamento, ma decisamente meno libera e più povera di noi. 

Tutti ce la prendiamo oggi con l’euro, ma ci siamo dimenticati di quando la lira perdeva valore giorno per giorno e sembrò già un successo quando si cominciò a parlare di ECU e cambi fissi, di Mercato Comune e di progetto Erasmus. 

Pochi allora andavano all’estero e ancor meno per frequentare una università. 

In Europa c’erano centinaia di migliaia di italiani, ma tanti vivevano ancora in baracche, braccia utili solo a scavare carbone e comunque emarginati, senza diritti, considerati zoticoni e ignoranti (come molto spesso – purtroppo – lo erano) perché senza istruzione, semianalfabeti strappati dal bisogno alle campagne del sud.

Chi oggi è senza memoria non può ricordare l’odore dei vagoni ferroviari che partivano lenti dalla Sicilia o dalla Calabria, risalivano la penisola e poi ancora più su attraverso la Svizzera, la Germania, verso il Belgio o le miniere della Ruhr.

Anni per emanciparsi, per convivere, per difendere un po’ di dignità in un ambiente ostile e senza rondini, dove tutto sembrava nemico dopo due guerre mondiali che avevano visto alla fine la sconfitta di tutti perché era stata l’Europa intera a perdere e a ritrovarsi distrutta e in macerie, forte solo di volontà di risalire. 

L’Europa Unita era nata così, con l’Italia che prestava braccia e riceveva carbone, con Francia e Germania che decisero finalmente - alla fine - come il Reno potesse essere solo un fiume e non perenne mattatoio di ragazzi e una serie di bunker e trincee. 

Con diffidenza, speranza, incredulità: lentamente ci si cominciò a parlare, a capire, a crescere. Crollò il “muro” e fu tutto subito diverso, incredibile, possibile.

La realtà sembrava fin troppo facile, naturale e scontata: crollavano i confini e si ingrandiva l’Europa in un processo che sembrava inarrestabile e felice. Poi vennero l’Euro, la recessione, la crisi, il terrorismo, le ondate migratorie e l’Europa si arenò senza ritrovare radici vere, tra indici di borsa, Brexit, nuovi muri e tante insofferenze. Vennero politici di poco spessore, nuove povertà, ma soprattutto tutto è diventato un pasticcio monetario senza più nessuna idealità, senz’anima, con la maxifinanza tedesca a dettar legge..

E’ iniziata così una reazione a catena incontrollabile, dove diventa legittimo chiedersi perché alla Gran Bretagna si erano comunque offerti molti privilegi purché restasse in Europa e l’Italia non goda invece di considerazione, anche per leader nostrani evidentemente incapaci di farsi rispettare.

I numeri inglesi sono impietosi, è un brusco risveglio dal sogno, anche se certi sogni speri sempre che non finiscano mai.

2016/06/12

Maschi che uccidono femmine...


Sui maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla "inservibile" ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo - e lo dico da maschio - che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica.

Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto.

Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. "Il privato è politico", si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico. 

Era una forzatura ideologica che l'esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno "responsabili del mondo" almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr'otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l'abbandono, la gelosia.

Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo. 

Per esempio l'idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa ("io sono mia"), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c'è mai stata, al mondo, un'idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l'eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun "principio" assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.

Eppure, volendo ridurre all'osso la questione del femminicidio, è proprio l'ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il "via libera" all'aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione "ideologica" interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.

Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l'eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell'epoca. 

È nell'Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile "io sono mia" prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell'Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l'obbrobrio giuridico del "delitto d'onore", che verrà finalmente cancellato vent'anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei "salotti", è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune.

Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall'esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell'altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.

Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, "chi picchia una donna è uno stronzo". Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?

femmine, omicidio, maschi, maschilismo, macho, uomo, donna, moglie, fidanzata, possesso, mia, uccidere

2016/06/10

Arrivederci Gianluca.



Su richiesta di un amico, pubblico questo articolo in ricordo di Gianluca Buonanno.
Buonanno mi viene descritto come un politico attento ai bisogni della gente, non uno di quei mezzibusti appiccicato con l'attaccatutto al fondo della poltrona ma sempre in prima linea contro i sopprusi. Non lo conoscevo personalmente ma quello che di lui ho letto l'ho apprezzato. Ciao Gianluca.

Uno schianto e domenica scorsa GIANLUCA BUONANNO, europarlamentare della Lega Nord e sindaco di Borgosesia, è morto improvvisamente in un pauroso incidente stradale e con una dinamica ancora oscura (Ndr: Adesso la dinamica è chiara, Gianluca si piegò per recuperare un oggetto non accorgendosi dello sbandamento dell'auto e della Mercedes ferma in corsia di emergenza, l'urto con la quale gli fu fatale). Permettetemi di ricordarlo in amicizia perché Gianluca non era solo quello delle sparate demagogiche - come è stato superficialmente presentato - ma un (ex) ragazzo che a differenza di quasi tutti non si limitava a “dire” ma soprattutto si dedicava a “fare” .

Ci conoscemmo negli anni ’90. “Il suo consigliere si è barricato da due giorni in consiglio comunale” mi sussurrò una voce al telefono. Era il segretario comunale di Serravalle Sesia (VC) che mi comunicava come l’allora consigliere comunale del MSI-DN Gianluca Buonanno avesse litigato con il sindaco minacciando di non uscire più dall’aula finchè non gli avessero dato ragione e il povero segretario – che non sapeva più pesci pigliare – mi telefonò disperato. 

Ero allora consigliere regionale, uno dei pochi esponenti del partito conosciuti nella zona e arrivai di volata a Serravalle dove la piazzetta del comune sembrava un set cinematografico: Gianluca stava in aula e calava un cestino dalla finestra che la gente riempiva di cibarie, con le TV che inquadravano e lui che - ovviamente - finì forse per la prima volta su tutti i giornali. 

Cominciammo a frequentarci e lui “soffriva” i dirigenti di AN di Vercelli che obiettivamente erano tre dita meno in gamba di lui. Litigi continui, polemiche. Volevano espellerlo, lo salvai, lo feci chiamare a Roma da Fini che gli fece una ramanzina (sorridendo, però) pregandolo di calmarsi e parlando di disciplina e spirito di gruppo: sembrava convinto. Gianluca mi chiamò alla sera “Grazie, Marco, ho già fatto un comunicato stampa dove ho scritto che Fini mi ha dato ragione su tutto…” Ovviamente in AN non era più aria e lui era incerto se aderire all’ allora UDC di Casini o alla Lega. Eravamo buoni amici e quindi mi chiese consiglio. Ci trovammo a parlarne e gli consigliai la Lega perché avrebbe avuto ben altri spazi di crescita e visibilità per quella che fu evidentemente una buona scelta.

Gianluca è stato consigliere comunale, provinciale e regionale, sindaco e parlamentare italiano e europeo, riusciva contemporaneamente a fare tutto perché ci credeva e non solo per una questione di immagine.

Pochi mesi dopo il suo debutto “pubblico” con la famosa occupazione del consiglio cambiò la legge elettorale, lui si candidò a sindaco e fu subito sindaco di Serravalle, poi a Varallo e ora a Borgosesia, ma indubbiamente a Serravalle - in pochi mesi – grazie alla sua nomina era già davvero cambiato tutto, a cominciare dalle sagome di cartone a dimensione naturale con lui raffigurato in divisa da vigile urbano sistemate nei punti strategici per indurre a rallentare le auto di passaggio.

Arrivammo una volta per una manifestazione a Serravalle Sesia con Maurizio Gasparri (allora sottosegretario all’Interno) e a un certo punto Gianluca sparì. “Ero andato a chiudere i cancelli dei cimiteri” - spiegò poi - e era proprio così, perché lui era onnipresente e nell’interesse del comune faceva di tutto. 

A Varallo, entrando in paese, colpiva per esempio un gigantesco cartellone che – oltre a vietare alcuni costumi islamici – invitava a telefonare al sindaco in caso di necessità con il suo numero, ovviamente, che chiamai una volta alle 4 del mattino mentre andavo a pescare a Rimasco e lui, pronto, rispose subito. Perché questo era il “vero” Gianluca Buonanno, uno che certo si metteva fin troppo in mostra, ma soprattutto lavorava ogni giorno e stava concretamente dalla parte della “sua” gente che lo amava e da vent’anni - ogni volta - puntualmente lo copriva di voti. 

Certo che a volte esagerava e si era creato un personaggio, ma i suoi atteggiamenti avevano sempre un fondo di buon senso e di ragione. Ridemmo insieme quando fu espulso dall’aula a Montecitorio per la famosa spigola sventolata dal suo banco e lo presi in giro tacciandolo di plagio perché mi aveva copiato, visto che era stato uno dei pochi a ricordarsi che una volta ero stato proprio io a spedire per posta (in piena estate) dei pesci a Rosy Bindi, allora ministro della sanità, che per problemi burocratici non voleva riaprire la pesca sul Lago Maggiore. 

Con nostalgia penso fatalmente all’ultima volta che l’ ho saluto a Borgosesia nel suo ufficio da sindaco, un sabato pomeriggio invernale in orari non certo “d’ufficio” anche perché per lui non c’erano orari, come sanno peraltro tutti i sindaci autentici.

Parlavamo del futuro e gli dissi che – visto anche il deserto generale nel centro destra piemontese - l’avrei visto bene proporsi come presidente della Regione Piemonte la prossima volta (in fondo era una carica che ancora gli mancava). Lui sorrise e ovviamente commentò con un “si vedrà…” 

Il destino non ha voluto, ma in qualche modo la sua unicità, amicizia e simpatia resterà sempre con noi. Arrivederci, Gianluca. 

Ps. Il presidente del Consiglio Comunale di Verbania (del PD) martedì sera non ha concesso di commemorare Buonanno e neppure di osservare il consueto minuto di silenzio a inizio seduta, come richiesto dai consiglieri della Lega Nord. Parte dei consiglieri e del pubblico si sono comunque alzati in piedi lo stesso pur mentre proseguivano i lavori. 


Meglio evitare di commentare certe miserie.