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2013/03/24

Muscoli e Palle: i Marò




In questi giorni che lo sdegno sale per la decisione del governo italiano di ‘restituire’ Latorre e Girone fucilieri del battaglione San Marco agli indiani ho letto di tutto e di più riguardo questa triste vicenda dai colori e odori forti.
Odori perchè, e non accusatemi di razzismo perchè io non sono razzista, tutta questa storia puzza tremendamente, sia da parte indiana che italiana. Colori per via delle solite figure di m... che notoriamente sappiamo sia marrone e delle facce sbiancate di sorpresa, arrossate di rabbia, annerite dall’odio e verdi causa un riversamento di bile dalla vergogna che stanno provando tutti gli italiani che ascoltano le notizie o le leggono direttamente sui giornali al proposito. 

Il titolo sembra offensivo, non lo è, infatti non si riferisce ai nostri soldati ingiustamente detenuti dagli indiani ma a questa Italia che ci delude. I muscoli sono quelli che la settima potenza del mondo, almeno stando al G7, avrebbe dovuto mostrare e le palle sono quelle dei governanti che evidentemente mancano. Se i due soldati sono in questa situazione lo devono anche a una devastante serie di errori compiuta da chi ne doveva sapere abbastanza per risolvere positivamente la questione, e invece...

Ho avuto modo, solo per un paio di giorni, di entrare a leggere la pagina delle ‘Famiglie dei Marò’ nata spontaneamente su Facebook. Solo per un paio di giorni poiché non appena ho spiegato che i due fucilieri non stavano li per difendere la patria mi hanno bannato.
Sorrido naturalmente, tutto il mondo è paese, mi si dirà e gli italiani non sfuggono alla regola. È pure vero che l’informazione puntuale non fa parte delle nostre abitudini, si usa internet per giocarci, per ricevere le email, per leggerle o scriverle molto raramente, per leggere i siti di gossip, per guardarci le immagini porno e magari anche i film in streaming da scaricare rigorosamente illegalmente, per scrivere sulle chat, sui forum o nei blog, per rispondere agli articoli dei giornalisti, per scrivere qualsiasi cosa passi per la mente purché sia senza senso e potrei continuare un’altra mezzora a riportare tutte le ragioni per cui un italiano usa internet meno che: documentarsi! 

E sì, perché l’italico abitante non si documenta, spara quello che gli passa per la testa, lo copia e incolla sulla prima pagina di internet che gli viene a tiro, meglio se su ‘feisbuk’ se l’ha a tiro per farsi bello con gli amici o solo per sentirsi importante. 

E invece?  

E invece le chiacchiere stanno a zero e la storia molto diversa da quella che una parte dei cittadini italici vorrebbero credere, sperano che sia così mentre invece non lo è affatto.
Innanzitutto analizziamo l’argomento partendo dalle origini, lontane origini.
La nave su cui erano imbarcati i fucilieri della Brigata San Marco, comunemente Marò, fanno parte di unità specializzate denominate Nuclei Militari di Protezione (NMP) che possono utilizzare militari provenienti anche da altre armi, non solo la Marina dunque. I NMP sono stati istituiti atteverso l’applicazione dell’articolo 5 del d.l. n. 107 del 12 luglio 2011, e successiviamente convertito in legge il 2 agosto 2011 n. 130. Dal 1º marzo 2013 sono passati a far parte del 2º Reggimento "San Marco" della Brigata San Marco pur appartenendo a forze armate italiane differenti. È previsto l'imbarco su navi mercantili e passeggeri italiane negli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria, va detto comunque che le navi commerciali e passeggeri possono avvalersi anche di personale non militare, anzi potrebbero se la legge desse loro questa opzione, purtroppo prevista la variante ma mai inserita nel testo della legge e, questo, ci pone in una condizione paradossale che spiegherò in seguito.
Al comandante di ciascun NMP ed al personale da esso dipendente sono attribuite, rispettivamente, le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria e di agente di polizia giudiziaria riguardo ai reati sulla pirateria previsti dagli articoli 1135 e 1136 del Codice della navigazione. Gli NPM vengono imbarcati secondo un rigido protocollo su alcune delle navi mercantili italiane che incrociano le acque dell’Oceano Indiano, con il preciso compito di proteggere beni e persone dall’assalto dei pirati dei mari. Non rispondono né all’armatore né al comandante della nave che li imbarca, tanto vero che per farli salire a bordo l’armatore deve firmare un contratto che li manleva da qualsiasi responsabilità assicurativa. Sono sotto il comando del CINCNAV (Comando in Capo della Squadra Navale della Marina Militare Italiana) e agiscono in forza di precise regole d’ingaggio e sono perseguibili solo ai sensi del codice militare penale in tempo di guerra.

A questo punto gli armatori provvedono a pagare i corrispondenti oneri, allo Stato Italiano.
E siccome si tratta di un servizio a pagamento il servizio offerto non rientra più nella cosiddetta “difesa della patria”. I due fucilieri sono si servitori dello Stato Italiano ma assoldati a pagamento dall’armatore della petroliera Enrica Lexie (in questo caso) e pertanto considerati, sotto un sottile punto di vista che provocherà polemiche a non finire, mercenari o contractors come vengono chiamati oggi per addolcire la pillola.




Prima di analizzare la risposta, anzi le risposte delle due nazioni coinvolte, vorrei inserire una breve descrizione dell’episodio con alcune considerazioni.  Mi si conceda altresì un certa liceità del termine breve, non posso certo limitarmi a due righe, la questione rappresenta uno degli episodi più bui nella storia del nostro Paese, bui per via dell’impreparazione a risolvere le crisi e pertanto pericolosi per l’eventuale ritorno che queste potrebbero avere nei confronti del popolo ‘sovrano’ italiano (della serie ‘ma in che mani siamo capitati’?).

La notte del 15 Febbraio 2012 il nucleo antipirateria, comandato dal capo di prima classe Latorre, ha appena respinto, in acque internazionali, un presunto attacco dei pirati alla petroliera Enrica Lexie sparando colpi di avvertimento in acqua, secondo il rapporto scritto a caldo. A terra la Guardia costiera indiana viene informata che due pescatori sono stati uccisi. Il proprietario del peschereccio sostiene che gli spari sono arrivati da una nave mercantile. Il comandante della Guardia costiera dell’India occidentale, Basra si inventa “una tattica ingegnosa”, come lui stesso ammetterà qualche giorno dopo. Ovvero lancia un’esca sperando che qualcuno finisca in trappola. “Eravamo nel buio più completo riguardo a chi avesse potuto sparare ai pescatori. Grazie ai sistemi radar abbiamo localizzato quattro navi che si trovavano in un raggio fra 40 e 60 miglia nautiche dal luogo dell’incidente” ha spiegato l’alto ufficiale. Gli indiani chiedono via radio se qualcuno “avesse respinto per caso un attacco dei pirati. Solo gli italiani rispondono positivamente”. 

(Grosso errore, negare, negare e sempre negare, come fanno gli americani che poi ammettono, sempre, ma solo quando sono al sicuro e irraggiungibili). 

Quello che Basra non dice è l’inganno comunicato via radio: “Tornate in porto per riconoscere i pirati” che sembrava fossero stati catturati o individuati.

James, il primo ufficiale di coperta indiano della petroliera, conferma: “Eravamo in acque internazionali, ma quando uno Stato costiero chiede assistenza per un’indagine è nostro dovere obbedire. Non solo: ci avevano promesso che non avremmo subito ritardi”. Da terra gli indiani mentono spudoratamente chiudendo la trappola. Il comandante, Umberto Vitelli, deve, per qualsiasi inversione di rotta, segnalarla all’armatore e al charter che affitta la nave. La petroliera è dei Fratelli D’Amato di Napoli, la stessa società che per 11 mesi si è vista sequestrare la nave Savina Caylin, con cinque ufficiali italiani a bordo, dai pirati somali. Secondo più fonti che si sono occupate a lungo del Savina, dalla società armatrice arriva il via libera per tornare a Kochi.

I marò informano il proprio comando e la Marina contatta la Farnesina. Il ministero degli Esteri chiama l’armatore per chiedere cosa stia accadendo. Dall’altra parte del telefono viene garantito che è solo un controllo di routine. La Marina, però, monitorizza la situazione e nota che i media indiani già lanciano notizie di una nave italiana individuata per la morte dei pescatori. La Difesa vuole che la nave tiri dritto, ma è già troppo tardi. La petroliera è entrata nelle acque territoriali indiane. Il sistema si mette in allarme dalle 17:45 ora italiana, ma un elicottero e due motovedette indiani hanno intercettato la petroliera per scortarla in porto. La nave è già alla fonda quando si annusa il pericolo, anche se non risulta ancora chiaro l’inganno.

In serata nella rada di Kochi, il capitano chiede agli indiani: “Facciamo presto che domani dobbiamo ripartire”. A quel punto le autorità locali scoprono le carte e gli ordinano di non muoversi. La trappola si chiude e per i marò il destino del carcere è segnato. La Farnesina sostiene di non aver mai chiesto, né autorizzato il comandante della nave a attraccare a Kochi, né a entrare nelle acque territoriali indiane. L’ex sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, vuol chiedere una commissione d’inchiesta sul caso, quando i marò rientreranno a casa.

Un altro aspetto sono i particolari rapporti di Luigi D’Amato, l’armatore della petroliera, con l’India. La società riceve commesse legate al trasporto del greggio e le sue navi fanno spesso scalo in India. Se la Lexie avesse tirato dritto, le altre unità della compagnia sarebbero state vessate in tutti i modi dai controlli nei porti indiani. Non solo: a bordo della Lexie c'erano 18 marittimi di nazionalità indiana, come erano indiani i 17 membri dell’equipaggio del Savina finito nelle mani dei pirati. Una delle sei sedi della «V. Ships India management», che recluta i marittimi indiani per l’armatore di Napoli, guarda caso è proprio a Kochi, dove ha avuto inizio la disavventura dei marò.

Sono quindi andato a leggermi (in inglese) le dichiarazioni del comandante del peschereccio indiano che ha affermato di essere rimasto sottoposto al fuoco delle armi per oltre due minuti. Qui mi concedo un dato tecnico: se un’arma da sola spara con una celerità di tiro di circa 600 colpi al minuto, è un miracolo che siano morti solo due pescatori su undici. I fucilieri italiani disponevano infatti di diverse armi, quelle utilizzate erano i mitragliatori Beretta AR 70/90, vedete sotto l’immagine, le caratteristiche tecniche di tale fucile (vecchio e di imminente sostituzione con l’ARX 160 sempre Beretta) dicono che sia in grado di sparare 670 colpi/min ma con un caricatore da 30 colpi rimane un mistero come avrebbero potuto sparare per due minuti di fila ben 1340 colpi ciascuno, leggo anche che il tiro utile sia entro 150 e 350 m e il calibro 5,54 NATO, poco più di quello di una scacciacani. 




La Marina Militare sostenne, e non ha modificato il proprio atteggiamento, di aver applicato correttamente le regole d’ingaggio, per cui mi pongo tre domande fondamentali prima di poter parlare di corretta applicazione delle regole d’ingaggio:

La prima è sulla formazione dei militari impiegati in materia di pirateria marittima e tecniche di contro pirateria. Il non aver distinto un dhow da pesca (la tipica imbarcazione da pesca nell’Oceano Indiano) da uno skiff (la minuscola imbarcazione veloce usata dai pirati somali per attaccare le navi mercantili) è stato un errore piuttosto grossolano. Che si siano poi difesi sostenendo di aver usato le armi da fuoco perché sull’imbarcazione da pesca erano presenti delle armi, non è un esimente. È noto a tutti che i pescatori nell’oceano indiano portano con sé armi proprio per difendersi dai pirati, perché se vengono rapiti vengono trattati come schiavi per condurre e manutenere le navi madri con cui solcano l’oceano.

La seconda riguarda la conoscenza da parte dei militari delle tecniche d’assalto usate dai pirati e delle conseguenti misure di difesa da intraprendere in funzione della reale minaccia. Le Best Management Practise (BMP) cioè le regole scritte dall’IMO l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sicurezza in mare, per esempio, consigliano al comandante di manovrare la nave iniziando una sorta di zig-zag che rende difficile l’avvicinamento ai bordi. Se ciò fosse stato fatto prima di usare la forza letale si sarebbe potuto comprendere la vera natura dell’imbarcazione che si aveva di fronte.

La terza domanda si rivolge all’accesso delle informazioni che devono essere costantemente a disposizione dei militari o del personale di sicurezza imbarcato. Ogni giorno il mondo dei professionisti della sicurezza marittima legge elabora e produce decine di intelligence report con il preciso compito di tenere aggiornati armatori e imprese di sicurezza sull’andamento della situazione nelle acque ad alto rischio e nelle zone di guerra, sulla posizione delle cosiddette navi madre e sui principali eventi accaduti in modo da effettuare delle previsioni statistiche basate su calcoli probabilistici tali da permettere di minimizzare i rischi e gli errori.

Le regole d’ingaggio sono probabilmente state applicate in maniera corretta ma il contesto era quello sbagliato.
Per ciò che è avvenuto pertanto non mi sento di assolvere, nell’ordine, né il legislatore, né il Comando della Marina Militare né i militari del NPM imbarcati. Il legislatore è colpevole di aver cercato e trovato una via di comodo alle giuste pressioni dell’armamento italiano che a mezzo di Confitarma reclamavano una norma che consentisse loro di proteggere gli interessi economici della categoria (e anche i nostri come consumatori) in una regione del pianeta da tempo instabile. Economici, non patriottici, ricordatevelo bene. La scelta d’imbarcare personale militare è discutibile sia dal punto di vista tattico che strategico. 

Tattico perché chi è imbarcato è addestrato a fare la guerra (e costa alla collettività oltre un milione di euro all’anno per la sua formazione in tal senso) ma non è preparato e istruito per compiti di prevenzione di un fenomeno criminale come la pirateria marittima.

Strategico perché, se da un lato abbiamo ora un problema diplomatico in più con l’India, dall’altro non possiamo rischiare di radicalizzare la lotta alla pirateria marittima trasformandola da una questione tra privati in una lotta tra lo Stato italiano e poco meno di 2.000 criminali somali.

Lo Stato Maggiore della Difesa e in particolare la Marina Militare sono colpevoli di aver spinto e appoggiato da subito la soluzione militare ostacolando in tutte le maniere quella privata. Anche, si sospetta per trarne giovamento in termini finanziari. Una cosa è avere unità navali sul teatro d’interesse e un’altra è avere soldati a bordo di un mercantile. 

L’NPM è infine colpevole perché ha tirato il grilletto e ha drammaticamente sbagliato. Non nella mira, s’intende, ma nella decisione da prendere, nel comprendere la situazione, nel valutare che di fronte a sé non aveva una minaccia ma semplicemente una imbarcazione da pesca e questo anche se ancora non è stato appurato il motivo per cui il dhow fosse li, a quell’ora di notte, in prossimità di una nave commerciale e per di più con una rotta di collisione apparente con essa. 

Da parte dei pescatori indiani la colpa è di non aver visto una nave grande come l’Enrica Lexie. Perdonabile? Non credo proprio. La professionalità infatti non sta nel saper centrare un bersaglio a mille metri, ma nel saper decidere quando è il momento di sparare. 

La vicenda dei Marò è uno spettacolo che dimostra l’incapacità politica del governo nel gestire una situazione di crisi. Gestita senza alcuna preparazione, prima si è verificato un errore a monte, quando è stata consentita la presenza dei fucilieri nelle navi occorreva cambiare le regole di ingaggio. In una situazione di crisi il controllo doveva passare ai militari e non rimanere sugli armatori. 

Dopo questo si sono commessi altri errori e la diplomazia italiana ha completamente travisato la pericolosità dell’evento. Non solo, anche il governo indiano ha violato diverse norme e accordi internazionali e da quel momento bisognava cercare l’appoggio dell’Onu e dell’Unione europea, ma si sono saltati tutti i passaggi. Come sappiamo l’episodio è accaduto in acque internazionali, lo ha riconosciuto anche l’Alta corte indiana, era quindi competenza della magistratura italiana stabilire se si trattasse di un incidente o di un reato. Non della magistratura indiana e comunque i reati militari non sono gestibili dalla magistratura ordinaria, nemmeno se compiuti in uno Stato estero, ricordatevi dell’incidente occorso alla funivia del Cermis. In quel caso pur rinconoscendo l’errore del pilota, gli Stati Uniti si sono ben guardati da consegnare i due piloti sull’A10 rivendicando, con ragione, il diritto di processare e condannare in patria i responsabili. Come doveva essere anche per il caso dei fucilieri mentre sappiamo non è andata così. 

Anche l’episodio di limitazione della libertà di espatrio nei confronti dell’Ambasciatore Mancini è frutto di incapacità anche nostra, maggiore da parte dell’India, completamente illegittimo. L’India ha commesso una serie di atti non in linea  con i patti internazionali ai quali anche l’Italia non ha risposto adeguatamente, anzi, ha confuso ulteriormente le acque. 

Parlo della decisione di non rispettare un accordo sottoscritto dal proprio Ambasciatore e pertanto, proprio perchè l’Ambasciatore rappresenta lo Stato Italiano, era lo Stato Italiano che non rispettava i patti e andrebbe potuto essere perfino sanzionato se l’India, incapace anch’essa di gestire la crisi con raziocinio, avesse denunciato l’episodio e la violazione alle competenti autorità all’ONU. 

Vorrei ricordare che esiste anche un accordo bilaterale tra l’India e l’Italia il quale stabilisce che le condanne devono essere scontate nei Paesi dei condannati, quindi, nel caso dei Marò l’Italia. Non si capisce la ratio di tutto questo. La vicenda è stata gestita in solitudine quasi di nascosto, sembrava ci si vergognasse di aver subito tale affronto e non essere capaci di risolverlo secondo le regole diplomatiche e gli accordi, tutto questo ha portato la diplomazia italiana al totale imbarazzo.

Mentre il caso dei marò va avanti e i leader decidono quale politica adottare, fonti all’interno della Marina militare italiana confermano che molti ufficiali hanno deciso di prendere malattie, permessi e ferie pur di non salire sulle navi attive in operazioni anti-pirateria. La garanzia di “scampare la condanna a morte” non rappresenta certo un sollievo.

Come corollario di questo articolo vorrei ricordare che l'Italia non è sempre stata gracilina e malata. C'è stato un tempo in cui mostravamo di avere i muscoli, le palle e anche il cervello che adesso, pare, manchi a chi ci rappresenta in Parlamento.

L'episodio viene ricordato come "Il volo su Vienna" fu compiuto il 9 agosto del 1918 da 9 Ansaldo S.V.A. dell'87ª Squadriglia Aeroplani, detta la Serenissima. Il Maggiore Gabriele d'Annunzio, era il comandante della Squadra Aerea San Marco che compì l'impresa.

Il volo era stato progettato dallo stesso D'Annunzio, più di un anno prima.

Una bella dimostrazione di "muscoli" e di "palle" da cui i nostri politici, qualche volta, dovrebbero trarre una lezione.


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