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2022/12/22

E' arrivato Natale



Facendo gli auguri ai lettori del mio blog avrei voluto scrivere parole un po' diverse dal solito. Non tanto per buonismo pre-natalizio quanto perché forse bisogna ammettere che il mondo cambia poco chiunque governi, e che troppo spesso sembrano sempre vincere i “cattivi”.

Tanto per parlarne, per molti anni ho tenuto una rubrica settimanale su un giornalino di provincia per il quale scrivevo pezzi interessanti e seguiti e stavo rileggendo il mio pezzo del Natale 1992, scritto esattamente 30 anni fa. Se lo avessi riprodotto interamente qui oggi quasi nessuno avrebbe scoperto che era “datato” perché descriveva una situazione di disordine mondiale e di sostanziale ingiustizia planetaria esattamente allora come oggi.

Sembra proprio che nessuno voglia imparare dalle esperienze passate, che pochissimi vogliano seriamente mettersi d’impegno per costruire e non solo distruggere.
Ma forse non è vero: trent’anni sono tanti per ciascuno di noi, ma un nulla rispetto alla storia eppure – se non volete arrendervi alle banalità - vi consiglio di leggere il bel libro “Factfulness” di Hans Rosling (sottotitolo: “Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo e perché le cose vanno molto meglio di come pensiamo”) edito da Rizzoli. 


Scoprireste che, a dispetto di mille crisi, il mondo in questi 30 anni è andato decisamente avanti nonostante tutte le auto-distruzioni umane e i grandi numeri ci dicono che il livello di vita è generalmente migliorato anche nei paesi “poveri” nonostante epidemie e guerre.

Forse un bilancio vero non andrebbe però fatto solo su statistiche mondiali più o meno tranquillizzanti per quanto riguarda salute, istruzione, clima o vita media anche se, al di là dei catastrofismi, è per fortuna la verità. Quello che non entra nella statistica - e invece dovrebbe “pesare” soprattutto in questi giorni natalizi - è piuttosto il bilancio di ogni singola vita, quello dei rapporti umani che ciascuno di noi ha e vive con il prossimo.

Qui non c’entrano proprio le statistiche visto che ciascuno è arbitro di sé stesso e le conclusioni deve trarle da sé con bilanci che forse vengono più facili proprio a fine d’anno, ma che dovrebbero coinvolgerci anche (o soprattutto) per quell’“incidente” che siamo abituati a festeggiare – malamente, nel senso che troppe volte ne tradiamo il senso - una settimana prima di Capodanno, ovvero quello che chiamiamo Natale.

Non so come effettivamente siano andate le cose in quel di Betlemme ai tempi del fu Cesare Augusto, so che da lì è nato (o continuato) un grande discorso che coinvolge tutta l’umanità, anche se quasi sempre facciamo finta di non pensarci, occupati da tutt’altro.
Solo qualche volta, magari nei momenti tristi o in quelli – come a fine d’anno - in cui più facilmente si fanno bilanci, ecco che ci accorgiamo che il discorso dentro di noi è sempre incompiuto, ma che comunque da soli non ce la facciamo perché il “prossimo” - quello che sta appena là fuori - comunque ci interroga, ci impone di non pensare solo a noi stessi se siamo minimamente logici con principi non tanto religiosi quanto intimi, istintivi nella vita umana.

Per chi ci crede (io “ci spero”) la testimonianza che è nata in quella stalla è particolarmente aperta, spalancata verso “il prossimo tuo” tanto da costringerci a pensare non sono alle statistiche del mondo ma piuttosto a quel nostro bilancio intimo, unico, personale.
Possiamo non farlo, girarci intorno, far finta di dimenticarlo, ma prima o poi siamo comunque costretti a farlo perché in fondo - a quegli strani atomi che compongono la coscienza del nostro corpo e danno linfa al nostro spirito - questo bilancio diventa una specie di necessità e sale dal di dentro come un tappo di sughero che risale verso la superficie dell’acqua e che nessuno può fermare: prima o poi riemerge in piena luce.

Se ci fermiamo a pensare un po’ su questi nodi ecco che allora la luce delle luminarie di questi giorni conta davvero poco mentre vale ben di più quella luce che ciascuno di noi può accendere dentro di sé.

Alla fine per festeggiare il Natale “vero” – al di là dei “seasonal greetings”, formula ipocrita di auto-assoluzione per chi non ha più nemmeno il coraggio di dirsi cristiano - dovremmo soprattutto pensare seriamente a questi aspetti, senza nasconderci dietro a regali più o meno riciclati, obbligati o banali solo perché “si usa” scambiarseli.

Riflettendo scopriremo che ci serve assolutamente una luce, ma soprattutto la “nostra” luce, quella che riceviamo quando arriviamo in questo mondo ma che poi un giorno dovremo restituire. Ed è comunque bello, alla fine, distribuirla intorno a noi.
Potremo farlo in mille modi e in tutta libertà, magari cominciando a rifletterci un po’ e poi visitando chi è solo, perdonando un torto, aiutando un poco di più chi ha bisogno. 

Distribuire un po’ di quella luce è il regalo più bello che potremo fare ed è fantastico che possiamo costruirlo da noi prima di tutto proprio per noi stessi.
Anche questo è rinascere, ed è davvero Natale.

2022/12/03

Love over sixty between false myths and reality of the body and heart



Heart pounding and shortness of breath. The hands that tremble, the passion that flares up. Common sense that turns into irrationality. The burning feeling that obliges one to do and say unspeakable things and apparently not in keeping with one's age. Emotions that become feelings and thoughts that detach from reality.

A recurring thought, which is a candidate to become an obsessive thought. These and many others are the symptoms of falling in love. And they are ageless. Among the urban legends about love, one unfortunately reigns supreme: youthful love can be passionate and irrational, it can overflow the banks of conscience, while adult and grizzled love absolutely not, it must wear the shoes of prudent love .

A common voice correlates the passion and elitist feeling of love to the chronological age of the protagonist of that couple bond; therefore, the ability to love after the "antas" is considered a risky, imprudent choice, bordering on recklessness and indecency.

This is a great falsehood, because the verb to love does not know age, skin color or gender. The average age has considerably lengthened, many diseases are treatable today, and aging is no longer combined with a worsening of psycho-physical health conditions.

The quality of life has improved globally, therefore, today's fifties and sixties correspond to yesterday's forties; and love and sex life belongs to the concept of quality of life.

To love, to get excited, to donate psychic parts of oneself and to get involved again, is an unequivocal sign of the fertility of existence.

Prudent love versus love and that's it

The word love doesn't go well with the term prudent, rational, weighted. Terms that clumsily and forcibly are associated with grizzled bonds. But does love age? A love without tachycardia and a good dose of enthusiasm, based on common sense and reasoning; a love that does not transform and that does not transform itself, that does not shift the barometer from reason to loss of control, is a sort of bad copy of the original feeling.

True love is not age related, but depends on many other elements that are sometimes present, other times not, regardless of age. There are prudent loves among young people and all-round loves among the over forties, and vice versa.

The homeopathic doses of feeling and the fear of letting go of love do not depend on the age of the protagonists of the couple bond, but on the defense mechanisms of the psyche, on how the partners were nourished in their respective childhood lands, and if they have really been nourished, by how much and how they are willing to invest in the couple's journey, and by that indispensable dose of healthy madness that belongs to those who really love. Love seduces and scares, so often, at all ages, short-term love affairs are preferred, with high emotional intensity, but with a low level of effort.

Youthful loves follow one another and represent the trials and errors of becoming an adult. Often fleeting, sometimes intense and destructive, other times they are ferry loves : they wear the clothes of Charon and help to pass through the land of adults. Grizzled loves are more aware loves.

Loves that have overcome the obligation to aesthetic perfectionism, able to let themselves be overwhelmed by the waves of emotion, without bumps and without too much slow motion.

Love and caution: alibi or reality?

The theory of caution at a certain age is quite frequent and sadly in use. Many protagonists of shipwrecked loves imagine their sentimental and sexual life as if it were a sort of flat calm. Thoughtful. Perhaps crowded in terms of the quantity of meetings to the detriment of the emotional quality because it is risky.

A sort of love multitasking that facilitates a multi-level relationship life, but prevents its depth. There is nothing more wrong. The sacred fire of love doesn't deal with the registry office, with the first wrinkles and graying hair, instead it characterizes courageous loves.

The bold. Those who still have so much to say and give themselves, ready to invest again and again, with a heart without fence walls, with a good dose of boldness and vitality, without reservations and without the most acrobatic strategies to balance emotional balances .

In love there are no budgets, accounts with the abacus or emotional compromises. There are no costs and benefits, who gives more and who less should reign supreme the ability and desire to love and be loved, in any season of life.

The emotions experienced at a certain age take on a more intense meaning, because they force us to come to terms with ourselves. As adults you shouldn't lie to yourself, you should already know what you no longer want from life and, why not, what you still want. Loving at all ages is the most powerful of the elixirs of life , because pleasure always remains a sentinel of life.

Love over sixty between false myths and reality of the body and heart

Grizzled loves create conflicting emotions: some shun them, some praise them. There are those who challenge biology and want to become a parent. Who has been in the past, but he was too young to be aware of and fully enjoy the joys of parenthood and want to try again in hindsight.

They are not tired bonds, characterized by emotional and sexual asthenia; they are bonds nourished and warmed by the awareness and playful relationship with sexuality and sexual health. They are certainly not lukewarm and bored loves, they are instead highly emotional bonds, with butterflies in the stomach of a teenager and a grateful gaze towards the life of an adult.

Many sixty-year-olds today have already crashed against the rocks of previous shipwrecked marriages, but despite the wounds of the heart they hope to be able to love once again, with the secret hope that this time is the right time.

Experienced couples, bored couples?

Not at all. They are couples who have substituted fear for the fullness of life, lack of knowledge of themselves and their partner for a more in-depth reading of the dynamics that characterize the couple's relationship; all warmed up by an empathetic and authentic dialogue.

This emotional climate nourished by a good relationship with oneself, with one's body and with one's world of impulses, makes the over fifty excellent lovers, who experience sexuality in a playful and conscious way, without the anxiety of performance and possible conception.

Loving extends life

Love with its hormonal and emotional bath extends life. Many studies show that over 65s in love live longer and in better health than singles, divorced and widowed people.

Salt and pepper hair does not correlate with the early retirement of love life and with life under the sheets, but with the courage to start over. Many men and many women are no longer satisfied with the half measures of living love: they close exhausted relationships, cut the dry leaves, and start over.

With enthusiasm, with love, with the heartbeat of falling in love, sometimes with a wedding ring on your finger. The desire to love and to love well survives the wear and tear of time that dusts everything and becomes a true cornerstone of many existences.

A love advanced in years has the power to make peace with love, takes on a repairing meaning, and is the healthy bearer of a great transformative force capable of healing the previous wounds of the heart.

Age does not protect against the fear of loving and from love, but love, on the other hand, protects against advancing age.

2022/06/08

Optical illusion


What does this optical illusion teach us about our brain. The black spot that seems to actually get bigger - guess what? - is still, but deceives our eye pupils.

If looking at the image above you have the impression that the black spot in the center is enlarging to the point of sucking you in, do not worry: the image is actually fixed and the hole in its center is not increasing in size, even if ours brain would like us to believe otherwise. In addition to being a curiosity to share with friends, optical illusions like this offer research groups important insights to better understand how our brain works and how we see the world, or at least think we see it.

The expanding black spot, for example, was the subject of recent research recently published in the scientific journal Frontiers in Human Neuroscience . The illusion was shown to 50 men and women without sight problems, while the research group detected with a particular instrument the movements of the eyes and in particular of the pupil, the small hole that allows the passage of light inside the eyeball.

The analysis revealed that the people who see the effect of the apparently expanding black spot more than others are also those whose pupils expand the most when they look at the image. The study also found that about 14 percent of the people involved saw the illustration for what it was: a static image with a dark spot in the center that was always the same size.

Your pupils are constantly dilating and narrowing, yours are doing as you read this article, to adapt your vision to the amount of light around us. In low light conditions, the pupils dilate to try to let in as much light as possible, while they shrink when there is a lot of light, for example when we are outside on a sunny day.

In the case of the optical illusion, the spot in the center is not getting darker nor are other lighting conditions changing, but the perception that it is expanding is due to how our brain sees things and causes the pupils to respond in unexpected ways. , writes the research team in the study. As one of the authors explained to the New York Times : “There is no reason why the pupil should change in this situation, because nothing is changing. But something has clearly changed in our minds. "

The mechanisms that determine this reaction, as well as those to other optical illusions, are not completely clear, but the research nevertheless exposes some hypotheses. The vision of the image has that effect because the way it is made, with a gradient that becomes darker and darker, induces a sensation similar to the one you get when you go from a bright place to a darker one, like a gallery. without lighting. The impression is therefore that of a darkness that progressively envelops us, and hence the feeling that the black spot is widening.

Our brain works by processing signals and detecting differences, then referring to previous experiences with similar characteristics. Observing the image recalls the sensation you get when you enter a dimly lit room, and from this comes the effect of seeing the image enlarge as if you were moving into that new environment.

Human beings, like all other animals, do not have systems in their organisms for measuring external stimuli and what is happening around them with great precision. Our eyes, for example, do not measure light as a camera would do by returning a precise data: they collect much more vague information, which is then transmitted to the brain where it is processed on the basis of other data collected by the other senses and experiences. . The result in this case is what we call vision and which has many more subjective elements than we imagine.

It is this subjectivity that causes the different perception of the “expanding black spot” effect of the image, and causes some people to see no expansion or motion effect. This is also the reason why some people are more prone to the effect when it is played with a background other than white. For example, in their study, the research team reported that the effect is most frequently seen when the background has magenta as the color.

In a certain sense, the stimuli our brain almost always responds to by trying to guess, trying to get as close as possible to the best solution. This system works in most cases and allows us to have, for example, the right coordination to drive or even more simply to remain standing without losing balance, but in some circumstances some contradictory stimuli - such as those deriving from an optical illusion - they can break the mechanism or make it work less efficiently.

The research team working on the image of the expanding black spot also speculated that the brain tries to predict the future when it receives the information about the illustration. The visual stimulus takes a few fractions of a second before reaching the brain, which will then have to process it and figure out what to do with that information. At the end of this process, however, other things have already happened around, so there is a minimum delay between reality and what we can perceive.

The hypothesis is that our mind tries to compensate for this delay, trying to predict what may happen in the next moments, then finding confirmations or contradictions when the new data arrives. This ability can be essential when dangers arise, for example, which require you to respond very quickly to avoid the worst. And you never know what you might encounter in the dark in a tunnel.

2022/06/04

It's easy to say hole




A concept familiar to all becomes rather elusive when it needs to be defined: a straw, for example, how many holes does it have.

Asking a friend if the straw he's drinking from has a hole or two can be a great way to ruin his drink. Finding an answer that everyone agrees is not easy, and it can further complicate the debate. Does the glass that contains the Spritz technically have a hole? And how many holes do the taralli to accompany it have? And olives, do they have the same problem as straws? Ultimately, what is a hole really?

Our general knowledge of holes is rather incomplete and their definition has long kept philosophers, linguists and mathematicians busy. The word "hole" is used to mean quite different things, which usually have an opening of some kind in common: the keyhole, for example. In the philosophical field, on the other hand, there are some more complications, which derive from the difficulty in defining holes from the point of view of their existence.

Let's take one of the "taralli" from the aperitif: if we eat it entirely in one bite, have we also eaten its hole? The most logical answer seems to be yes, but what if we ate it gradually instead? In that case we would have broken the "tarallo", which would have lost its hole, and we would not have eaten it. This tells us that holes derive their existence and the very possibility of existing from their surroundings.

In a sense, and playing a little with words, holes can be called parasites: their existence depends entirely on the existence of something else. There cannot be a hole if there is not something enclosing it.

In everyday practice, things are simpler and everyone knows what a hole is when they hear about it. Engineers, who are quite practical types, distinguish between "blind hole" and "through hole": the former identifies an opening that only partially penetrates an object, while the latter a hole that passes completely through it. For these distinctions they usually prefer the term " hole ", basically a synonym for hole, but used above all to define something with regular margins and width: a hole in the wall made with a drill, for example.

Blind holes
A glass jar has a blind hole: it is the opening through which biscuits can be inserted and removed. Imagine being able to reshape it , as if it were made of plasticine, and change its shape - without removing material, adding or combining it - until it assumes that of a glass. We changed some of the characteristics of the object, but the blind hole remained: technically the glass has a hole, thanks to which we can fill it, empty it and drink.

Now let's imagine being able to shape the glass, widening it and reducing its height, to obtain a bowl. We are less inclined to think that a bowl has a hole, but if it was true for the glass, we can apply this definition also in this case. The bowl can then be molded into a deep plate, which would still have a blind hole as we understand it, and finally into a flat plate, which would have lost its opening instead. 

In this hypothetical experiment, in the transition from jar to glass to bowl to deep plate and finally to flat plate we never subtracted or added material, nor broke something or joined anything together (for example the edges of the opening). The material has always remained the same and has simply been remodeled: the blind holes can be removed without the need to close the opening that originates them, nor to weld the edges or to add other material.

Holes and topology Through
holes, on the other hand, are more complicated. The hole in a tarallo ready to be baked cannot be eliminated by reshaping it in the way we changed the shape of the glass jar, if not by crushing and welding together the dough that makes up the tarallo, or by adding more.

We can consider a tarallo as a close relative of the donut, which in turn is geometrically definable as a " toroidal " (empty inside). To obtain one, simply take a circumference and make it make a revolution around an axis external to it.

Defining a toroidal hole, and ultimately any through hole, requires some mental gymnastics, and among the most gymnastic in this area are mathematicians. Their training ground is the "topology", the part of geometry that deals with the study of the properties of mathematical objects, which do not change when they are deformed (as long as they do not create tears, overlaps and glues, as we have seen with the examples above ). This seamless modeling in topology is called “homeomorphism”.

In topology, a sphere and a cube are homeomorphic (i.e. equivalent) objects, because one can be deformed into the other and vice versa, without having to add material, glue or overlap it. On the other hand, a torus and a sphere are not homeomorphic, precisely because the torus has a hole that cannot be eliminated in any way with a simple deformation (no, closing the hole by bringing the parts together would not be a simple deformation).

These conditions explain the saying, to be honest, widespread almost exclusively among those who deal with these things, according to which "topologists do not distinguish a cup from a donut". The two objects are in fact homeomorphic: a donut can be obtained starting from a cup, simply by deforming the original object without gluing, creating tears or overlaps. The two objects are homeomorphic because they both have only one through hole (the blind hole of the cup, as we have seen before, can be eliminated).

For topologists, blind holes are not particularly interesting, since they can be eliminated, while through holes attract great interest, because they have unique characteristics that affect the way we can use geometric shapes.

How many holes
Returning to the aperitif, how many holes does a straw have? The question went viral on the Internet a few years ago, following a BuzzFeed article on the subject, which received a lot of attention in the United States. At the time, most people had replied that there were two holes, colloquially referring to the two openings in the straw.

In reality, a straw and a bull have only one hole. To realize this, just imagine modeling a bull by lengthening its shape, until you get that of a straw. The same holds true in reverse, imagining to reduce the height of the straw more and more, until you get a torus that will have a hole in its center.

In topological terms , a straw can be described as the product between a circumference S 1 and an interval I , which in turn can be defined as [0, L] (hence L defines the length of the straw). On the geometric plane, the circumference isolates a space that we can consider as a hole, because the only way to fill it would be by adding material or by welding / gluing some of its parts together. I , on the other hand, has no hole, and consequently the straw has only one hole.

Starting from these basic elements, which we have simplified a little while trying not to pierce the main concepts, not only can shapes and their transformations be mathematically described, but other important information on the properties of objects can also be derived. Homology, for example, allows the algebraic objects to be traced back to sequences of groups, which encode the quantity and type of holes present in each object. Taralli included.





2022/05/24

Ti voglio bene




Nella marea di pensieri, scarsamente o affatto utili, che affollano la mia mente c’è un dubbio che mi attanaglia a fasi alterne. E sebbene ci siano cose infinitamente più urgenti od importanti su cui riflettere, non riesco a non perdermi in queste facezie verbali. Già perché la questione sorge attorno ad un dilemma linguistico, uno scherzo lessicale, una deficienza glottologica, insomma, qualcosa con o senza la quale potrei dormire sonni tranquilli. Ed invece mi cruccio. Ma riflettendoci bene non si tratta solo di parole, qualcosa è sotteso, o almeno io penso che qualcosa sia sotteso. L’amletico dubbio è perché nelle altre lingue non esiste un’espressione corrispondente al nostro “ti voglio bene”?

Io ho un grosso, grossissimo feticismo per la lingua italiana: godo nel leggere ed ascoltare la nostra favella, tuttavia non faccio fatica a leggere libri o guardare film in lingua originale. Sì, comprendo che per molti è un anche un grande, grandissimo limite, non per me, ma noi italiani non siamo perfetti, siamo poveri mortali pieni di mancanze e per molti, fra le altre, è questa. Non sopporto chi, pur avendo avuto istruzione o mezzi per istruirsi, non sappia parlare o scrivere nella nostra bellissima lingua natia; tuttavia tollero chi farcisce i propri discorsi di inglesismi, non perché rendano meglio il significato ma perché ‘è più moderno così’; ma soffro chi stupra l’italiano con storpiature ed errori grammaticali: sono un talebano dell’italiano, sì, signori miei, e me ne vanto!

Sono tuttavia consapevole del fatto che come tutte le lingue anche la nostra ha l’evidente limite di non saper rendere alla perfezione termini di altre favelle, motivo per cui una traduzione in italiano non sarà mai completamente fedele all’originale, non tanto per una questione di significati letterali quanto per allusioni culturali. La lingua è frutto di una costante evoluzione che si regge su migliaia d’anni di parole, concetti, usi e costumi, motivo per cui anche la nostra bellissima e flessibile lingua non saprà mai rendere appieno il senso di vocaboli come ‘improvement’, per dirne una. 

Viceversa, le altre lingue hanno lo stesso limite nei confronti della nostra, con un’aggravante significativa, non sanno tradurre un’espressione essenziale alla vita come il “ti voglio bene”. Correggetemi se sbaglio, non sono un linguista, ma il nostro “ti voglio bene” viene tradotto in inglese da “I love you”, in francese da “je t’aime”, in tedesco da “ich liebe dich”, in spagnolo da “te amo”, in sloveno da “ljubim te”, e così via. 

Ma questa espressione nelle rispettive lingue sta anche a significare “ti amo”, cosa che per un italiano ha un significato decisamente diverso. In una ipotetica ‘gerarchia’ di sentimenti il “ti amo” sta leggermente sopra al “ti voglio bene”, ha una connotazione più forte ed appassionata, più radicale e profonda; il “ti amo” è usata dagli amanti mentre il “ti voglio bene” dalle persone che, appunto, si vogliono bene. Il designer Pey-Ying Lin definisce il “ti voglio bene” come «the attachment for family, friends and animals», non contemplandolo quindi come “amore”.



E noi italiani passionali (perdonatemi il cliché) conosciamo bene la differenza tra i due termini. La questione allora è: perché le altre lingue non riconoscono questa differenza? Perché non esiste un’espressione che indica il sentimento da noi riassunto nel “ti voglio bene”? Forse gli altri popoli non si vogliano bene senza amarsi? Forse sono così ottusi da non vedere la differenza lampante tra i due termini? 

Ma allora senza alcun dubbio noi italiani siamo non solo linguisticamente superiori, siamo addirittura emozionalmente migliori, sappiamo gerarchizzare qualcosa di così sottile ed evanescente come i sentimenti; sappiamo dare un nome ad ogni sensazione. Sappiamo dare nomi. Ecco. Per me qui sta il nocciolo della questione. Per me sappiamo mettere tanti nomi, ma non sappiamo riconoscere le cose. 

Non sappiamo capire che “ti voglio bene” significa “ti amo”; non sappiamo intuire che non c’è differenza tra i due concetti, che non esiste una gradazione di amore un po’ inferiore da dare a familiari, amici ed animali; non sappiamo comprendere che se diciamo “ti voglio bene” a qualcuno non lo stiamo mettendo in guardia sul fatto che proviamo qualcosa per lei  ma non così tanto da impegnarci troppo; non siamo in grado di percepire che dire ad una persona “ti voglio bene” significa donarle un pezzetto della nostra anima, allo stesso modo in cui lo diamo a chi amiamo e questa incomprensione genera l’abuso di questa espressione che sentiamo ogni giorno e lo spreco della nostra anima fatta a pezzetti da un’ignoranza lessicale.

Pensate bene quando dite a qualcuno “ti voglio bene” perché le state dicendo “ti amo”. Pensate se invece le direste “ti amo” e se la risposta fosse “no” allora non ditele “ti amo”, non ditele nulla. Non sprecate i vostri “ti amo” (o i vostri “ti voglio bene”, non c’è differenza). 

Conservateli per chi amate davvero.

2022/03/18

Prezzi e Speculazioni italiote!



Considero Mario Draghi come un premier autorevole, ma ho l’impressione che “Supermario” sia molto, troppo attento agli interessi delle grandi multinazionali prima ancora di considerare i loro effetti per i comuni cittadini italiani.
Prima gli interessi delle case farmaceutiche che si sono gonfiate con i profitti Covid senza lo straccio di un calmiere europeo, poi il tappeto rosso alle banche che hanno fregato milioni di risparmiatori, adesso i prezzi petroliferi sui quali si sta intervenendo con grandi ritardi e dopo aver permesso profitti scandalosi.

Ne avevo scritto la settimana scorsa, colpito dai silenzi ufficiali e proprio il giorno dopo si è svegliato il ministro Cingolani che ha parlato di speculazioni, truffe, extraprofitti, manco avesse letto il mio blog. Comunque Cingolani è un ministro davvero sconcertante dichiarando pubblicamente : “Non capisco come ciò sia possibile”.

Il signor ministro non capisce?! Si chiama speculazione, quella che arriva puntuale quando un governo interviene con lentezza, permettendo utili stratosferici alle multinazionali senza scrupoli ma anche alle aziende para-pubbliche che pur dovrebbero fare gli interessi dei cittadini.

Servono poco i viaggi di Di Maio in Algeria a implorare gas se la nostra diplomazia e quella europea non riescono a convincere i paesi del Golfo ad aumentare significativamente la produzione. Paesi arabi che ringraziano Putin per l’enorme regalo portato loro dalla guerra in Ucraina e non è un caso che gli Emirati Arabi si siano astenuti anche in sede di votazioni ONU a condannare la Russia.

L’altro aspetto emblematico (e speculativo) è che i prezzi sono schizzati non appena USA e Gran Bretagna hanno parlato di embargo alla Russia. Facile per questi due paesi parlarne perché hanno una quasi assoluta indipendenza estrattiva rispetto a Putin, ma lasciando nei guai tutti gli altri, ad iniziare dai paesi europei. Il problema è acuito anche dalla ipocrisia del nostro governo: il costo del petrolio incide per circa il 35% sul prezzo alla pompa, le altre componenti fiscali, IVA e accise superano invece il 50% e – soprattutto – viene oggi raffinato petrolio che non è stato acquistato agli attuali prezzi correnti, ma stoccato a prezzi molto inferiori, senza contare che tutte le imprese petrolifere si assicurano forniture a prezzi calmierati o sono contro-assicurate rispetto alle fluttuazioni del mercato.

Per avere un’idea dell’imponenza delle speculazioni che Cingolani “non capisce” basta guardare al 2013-2014 quando vi fu una fiammata mondiale dei prezzi petroliferi.
Il 16 giugno 2014 il prezzo di greggio al barile raggiungeva il prezzo-record di 112,83 dollari, prezzo che oggi – dopo una settimana di alternanti diminuzioni, ma non se ne è accorto quasi nessuno – è intorno ai 100 dollari, ma con un prezzo medio alla pompa (fonte ministeriale del 16 marzo) di 2,18 euro al litro, mentre nel 2014 la benzina toccò il prezzo-record medio di soli 1,72 euro al litro. Una differenza alla pompa di quasi mezzo euro frutto di pura e semplice speculazione che infatti – appena si è cominciato a parlarne – per incanto si è “raffreddata”.

Comunque, se rispetto a 3 mesi fa oggi il prezzo del greggio è aumentato del 30% significa che alla pompa il prezzo della benzina dovrebbe essere aumentato di non più del 10% (un terzo del 35% di incidenza del costo del greggio sul prezzo alla pompa) a parità di “guadagno” dello stato. I carburanti sono però aumentati molto di più e la differenza è tutto maggior profitto della “catena”, dove però per oltre il 50% la catena si chiama “Stato”.

Lo Stato sta quindi generando inflazione che erode i risparmi e gli stipendi “guadagnando” molto dai rincari, oltre agli strabilianti profitti di aziende para-pubbliche come ENEL ed ENI. Si parlava di tassare almeno questi extra-profitti, ma poi tutto è evaporato e non è certo una risposta rateizzare le bollette (che prima o poi vanno comunque pagate) o ridurre di un poco le accise, visti gli extra margini.

Lo stesso vale per gli aumenti dell’energia elettrica che per quasi il 40% è fornita da energia rinnovabile che non ha avuto aumenti di prezzo, eppure con la scusa dell'aumento del prezzo del gas tra IVA, accise e balzelli vari le bollette sono più che raddoppiate.

Se lo stesso governo ha imposto lo stato di emergenza, Mario Draghi deve ora dimostrare coraggio e coerenza imponendo prezzi equi e controllati per energia e carburanti.
D'altronde non c’è libera concorrenza se di fatto un cartello di produttori (e raffinatori) fissa i prezzi a proprio piacimento, in un reciproco interesse di pochi e nel disinteresse delle inutili Autority pubbliche. Draghi dimostri insomma la sua autorevolezza ed indipendenza da quei grandi gruppi economici che troppo spesso si delineando alle sue spalle e che sembrano dettare le regole del gioco con il compiacente placet di Bruxelles.

2022/03/11

Strategie italiche che ritornano!




Non credo che l’Italia compia una buona mossa strategica contribuendo ad armare l’Ucraina e – oltre ad accogliere i profughi e ad aiuti umanitari – credo sarebbe meglio inviare aiuti militari solo di carattere difensivo.

Non è dando forza militare a Kiev che si avvicina la pace, anzi, se illudiamo l’Ucraina di difenderla militarmente si sentirà più forte per combattere i russi e sarà sempre più difficile trovare un accordo.
Sia ben chiaro che è Putin l’aggressore ed il responsabile principale della crisi, ma ora serve una tregua, un armistizio, una reciproca serie di garanzie, non altre armi da impegnare sul terreno.
Aiutare l’Ucraina significa per esempio inviare cibo e materiale sanitario, ma anche “militare” di difesa passiva (giubbotti, tecnologia difensiva, tende, ospedali da campo, cucine, mezzi di trasporto) ma NON materiale bellico o munizioni e non tanto o non solo per ragioni costituzionali, ma perché in questo modo la guerra sul terreno rischia di allungarsi.
A questo proposito non mi piace l’equivoca posizione di Biden che fa il “furbo”. Vende armi e lancia proclami, ma per gli USA conta poco l’embargo energetico russo visto che vale meno del 10% dei loro consumi, per noi Europei è ben diverso con punte del 48% delle forniture di gas. Così come l’economia USA non commercia con la Russia mentre per l’Europa è un partner importante e interi settori italiani (dalla moda ai mobili, dalla alta gamma agli elettrodomestici) sono in crisi per l’embargo.

Per uscire dalla crisi ucraina servirebbe piuttosto un colpo di scena: per esempio offrire alla Russia la possibilità di nuovamente bussare in Europa.
Detto così può sembrare assurdo mentre i tank girano per Kiev, eppure sarebbe la logica conclusione di un conflitto atroce ed assurdo, ma che sta mettendo a nudo anche tutte le contraddizioni interne al regime di Putin dove la credibilità del leader penso stia crollando di pari passo all’impantanarsi della situazione.

Un’ Ucraina garantita nella sua neutralità dalla UE, una ampia autonomia alla parte russofila del paese con una striscia di sicurezza tra le parti, il libero accesso russo alla Crimea (com’è già) e - in cambio del ritiro delle forze russe in modo almeno progressivo – anche una immediata apertura europea proprio al “nemico” del Cremlino, ovviamente obbligandolo ad alcuni passi-chiave non solo sulla via della pace, ma anche dell’accettazione dei principi europei di democrazia e pluralismo.

Impossibile? E perché mai?

Entrambe le parti avrebbero solo da guadagnaci: l’Europa blinderebbe le sue necessità energetiche, la Russia ritornerebbe ad essere aperta al commercio internazionale con una garanzia dovuta di tranquillità ai propri confini tornando a guardare ad Ovest e non ad Est dove l’abbraccio della Cina è un rischio anche per loro.

La realtà di due settimane di guerra ha messo a nudo i limiti delle forze russe in termini logistici e di combattimento recitando un copione che è già più volte andato in scena. Quando una dittatura è fragile deve inventarsi un nemico esterno per tentare di cambiare le carte sul tappeto, ma significa che ha i giorni contati o almeno il fiato corto.
Nella storia è sempre stato così e forse anche Putin ha rischiato al tavolo da poker del conflitto convinto che l’Europa e la Nato non avrebbero rilanciato, ma – quando il piatto sale – è sempre più pericoloso stare al gioco e si rischia di perdere tutto. Forse lo Zar si è reso conto che alla fine il bluff rischiava di travolgerlo e soprattutto per questo ha cominciato (forse) a trattare.

Delineare almeno all’orizzonte una strategia di riapertura a Mosca sarebbe utile, anche perché l’Europa deve sinceramente ammettere di avere delle responsabilità nella crisi ucraina e non solo dopo il 2014 ma soprattutto prima. Di fatto si è tirato in lungo quando la Russia veniva incontro con il cappello in mano ad inizio degli anni 2000 ed è trascorso invano il “momento magico” in cui Mosca avrebbe forse accettato più miti condizioni e più serie riforme in cambio dell’accesso al “salotto buono” europeo. L’Europa ha aspettato troppo, ha minimizzato, ha forse pensato di vincere facile di fatto umiliando l’avversario ed è stato un disastro per tutti.

I russi li abbiamo sottovalutati e con il senno di poi è stato un errore gravissimo dimenticare la storia, la mentalità, il nazionalismo di un popolo orgoglioso ed abituato a stringere i denti nelle difficoltà e che della democrazia non ha ancora fiducia, anche perché troppe volte è più rapida la soluzione d’imperio, dentro e fuori le mura di casa.
Non commettiamo atti potenzialmente sbagliati: quanti sanno che la Russia fa parte del Consiglio d’Europa di Strasburgo? Ora è stata logicamente “sospesa”, ma forse c’è da chiedersi se non si stia chiudendo una delle poche possibilità di incontro e di confronto. In fondo anche la Russia ha diritto di esprimere il proprio punto di vista, non certo con i carri armati ma in sede diplomatica, anche perché la presenza di popolazioni russe in Ucraina è una realtà che non si può nascondere e per la quale va trovato un equo compromesso.

Già il Consiglio d’Europa ha negato l’accesso alla Bielorussia perché “antidemocratica” ma – anche qui – come si può discutere con una controparte se la si allontana e si chiudono i rapporti?
Non ripetiamo gli errori di qualche anno fa che in qualche modo hanno poi contribuito a creare il clima che ha portato alle bombe su Kiev. Non si tratta solo di ricordarci che abbiamo bisogno della Russia anche in chiave di rifornimenti energetici, è ovvio che prima dell’economia conta la libertà ed il rispetto delle persone. Per questo la critica e la censura a Putin per i suoi metodi deve essere chiara ed inequivocabile, ma poi bisogna avere la forza di almeno tentare un minimo di dialogo.

Se si apre una fiammella di pace alimentiamola e non soffiamoci sopra per spegnere tutto: una Russia più vicina è negli interessi di tutta l’Europa, oltre che per i popoli che ci stanno in mezzo e sono le vere, innocenti vittime accerchiate dalla violenza.

2022/01/21

Il re degli imbroglioni

Gregor MacGregor, il re degli imbroglioni


Gregor MacGregor, nato in Scozia nel 1786 e morto in Venezuela nel 1845, è stato un soldato dalla vita avventurosa e un poderoso truffatore. Che si inventò Poyais, un paese centroamericano che non esisteva, se ne dichiarò governante (per la precisione cacicco) e ne vendette obbligazioni, arricchendosi parecchio. E che nel 1822, da Londra, convinse perfino alcune centinaia di persone ad attraversare l’oceano per andarci, a Poyais, causando di fatto la morte di gran parte di loro. Ancora oggi Gregor MacGregor è considerato, come scrisse qualche anno fa l’Economist nell’articolo “Il re degli imbroglioni”, l’autore «del più grande raggiro di sempre».

Figlio di un capitano di marina della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, MacGregor crebbe parlando il gaelico scozzese e imparando solo dopo, a scuola, l’inglese. Come ha scritto The Hustle in un articolo sulla storia della sua truffa – definita «una delle più articolate e mortali della storia» – MacGregor «crebbe in una famiglia privilegiata ai margini dell’aristocrazia» ed ebbe modo di «assaporare quel tanto di ricchezza che gli bastò per sentire che ne voleva di più».

Raccontò in seguito di aver studiato qualche tempo all’università di Edimburgo, ma non ci sono prove e visto il personaggio riesce facile dubitarne. Si sa per certo che a 16 anni, poco prima che iniziassero le Guerre napoleoniche, si arruolò nell’esercito britannico. Si sposò con Maria Bowater, figlia di un ricco ammiraglio, e anche grazie ai soldi e alla fama della famiglia di lei fece una rapida carriera militare, evitando inoltre circostanze e destinazioni troppo pericolose. Per diventare in breve tempo capitano e da lì generale, ha scritto The Hustle, pagò il corrispettivo di circa 80mila euro di oggi.

Dopo alcuni anni passati a Gibilterra, nel 1810 uscì dall’esercito e tornò nel Regno Unito. Nel 1811 la morte della moglie cambiò però molto le sue prospettive di una vita agiata. Senza più i soldi e il supporto della famiglia di lei, nel 1812 partì per il Venezuela, dove era in corso una rivolta contro gli spagnoli. Lì sposò una cugina del rivoluzionario Simón Bolívar e, di nuovo, fece carriera militare, questa volta tra le file dell’esercito della Repubblica venezuelana. Ebbe alcuni successi e si fece notare come fondatore della Republic of the Floridas, che però durò giusto qualche mese. Ebbe però anche diversi insuccessi: per ben due volte abbandonò per esempio le sue truppe in battaglia e non fece nemmeno una bella figura nel cosiddetto “Amelia Island affair”, con cui si fa riferimento alla sua breve e inefficace gestione di un’isola al largo della Florida.

Con un dinamismo parecchio ottocentesco, in quel periodo MacGregor si spostò molto tra l’America del Sud e quella Centrale. Finì anche dalle parti dell’Honduras, dove sviluppò ottime relazioni con il re senza grandi poteri effettivi di un territorio della cosiddetta Costa dei Mosquito, il quale – non è ben chiaro per quali ragioni – gli vendette la proprietà di un territorio grande oltre 30mila chilometri quadrati sulla costa orientale dell’Honduras. Era un territorio grande più della Sardegna e lui ne era diventato semplice proprietario, non governante, e soprattutto era un territorio vuoto, inospitale e perlopiù disabitato, ritenuto inadatto all’agricoltura e all’allevamento.

Nell’estate 1821, una decina d’anni dopo la sua partenza, MacGregor tornò nel Regno Unito e nonostante alcuni resoconti sui suoi fallimenti – «il fatto che qualcuno possa essere indotto a seguirlo nei suoi progetti disperati sarebbe prova di un livello di follia di cui la natura umana è incapace», scrisse un autore il cui fratello aveva combattuto con lui – riuscì a presentarsi e raccontarsi come un valoroso soldato e avventuriero.

Soprattutto, riuscì a spacciarsi come cacicco di Poyais.

Mentre lui era stato in America, in Europa era finito il periodo napoleonico e nel Regno Unito c’era una generale fiducia dovuta a un’economia in crescita e a un costo della vita in diminuzione. C’era grande ottimismo ma, come ha scritto l’Economist, «investire in bond del proprio paese era considerato un noioso modo per parcheggiare fondi extra». C’erano insomma molti finanziatori interessati a nuove e più intriganti prospettive d’investimento, per esempio quelle relative a obbligazioni e titoli di stato dei paesi dell’America Latina che avevano appena ottenuto l’indipendenza o stavano per farlo, e che in sintesi avevano gran bisogno di soldi per far crescere le loro economie.

«Fu qualcosa di simile alla bolla delle dot-com» ha scritto The Hustle «con investitori che non sapevano nulla di quei paesi lontani e che furono pervasi dal bisogno compulsivo di investirci, gonfiando il valore delle obbligazioni». Nella sintesi dell’Economist, «in quei primi anni Venti dell’Ottocento c’era il clima finanziario ideale per un truffatore».

Inoltre, considerata la vivacità del contesto geopolitico latinoamericano era plausibile che fosse nato qualche nuovo stato di cui quasi nessuno aveva sentito parlare e che uno come MacGregor potesse esserne a capo.

MacGregor, raggiunto nel Regno Unito dalla moglie sudamericana, raccontò di essere tornato a Londra per presenziare, a nome di Poyais, all’incoronazione di re Giorgio IV, produsse documenti di vario tipo e promosse in vari modi il suo stato inventato. Creò una bandiera e uno stemma, fece interviste ai giornali, stampò dollari di Poyais, preparò materiali promozionali e scrisse perfino un libro su quel paese lontano, firmato con lo pseudonimo Thomas Strangeways. Anche grazie alla sua vera esperienza in quella parte di mondo, MacGregor fece tutto ciò che poteva essere utile a far percepire come vero – e meritevole di investimenti – uno stato che non lo era.
Poyais in un’illustrazione dal libro di “Strangeways”, Wikimedia

Raccontò, ha scritto l’Economist, «che i nativi non solo erano amichevoli, ma proprio amavano i britannici; che il suolo non era semplicemente fertile, ma addirittura capace di sostenere tre raccolti l’anno di cereali; che l’acqua non solo era tanta, potabile e abbondante, ma anche che nei corsi d’acqua di Poyais si poteva trovare l’oro».

Pare assurdo ma, forse per la paura di non perdere l’investimento giusto o anche solo abbindolati da certe promesse, molti comprarono da MacGregor le obbligazioni di Poyais, che secondo stime citate dall’Economist a un certo punto arrivarono a valere tutte insieme l’odierno corrispettivo di quattro miliardi di euro. Molti degli acquirenti erano scozzesi, intrigati dal fatto che MacGregor stesso fosse scozzese (e da un meccanismo noto come frode di affinità) e stuzzicati dall’idea che Poyais potesse diventare una sorta di colonia scozzese oltreoceano, in parte vendicando un piano di oltre un secolo prima con cui la Scozia aveva cercato di occupare Panama.

Visto che l’interesse cresceva MacGregor alzò i prezzi, si mise a vendere terre e finì perfino con l’organizzare viaggi verso Poyais. Riuscì a riempire due navi con un totale di quasi 250 aspiranti pionieri che partirono nel settembre 1822 e nel gennaio 1823.

Non è ben chiaro perché MacGregor, che aveva già raccolto molti soldi e che avrebbe potuto anche solo semplicemente scappare altrove, organizzò viaggi verso un paese che non esisteva. Sta di fatto che, dopo un viaggio di un paio di mesi, dove avevano sperato di trovare Poyais i migranti non trovarono nulla. Uno di loro, lo scozzese James Hastie, in viaggio con la moglie e i due figli, raccontò la sua esperienza in un breve libro.

«All’arrivo», ha scritto l’Economist, i colonizzatori «non trovarono nulla di quel che era stato promesso loro: niente porto, niente strade, nessuna città. Le popolazioni locali non erano aggressive ma nemmeno granché collaborative». Pensarono a un errore, provarono a capire dove poteva essere Poyais e intanto sopravvivere con quel che avevano. Ben presto nacquero però problemi, divergenze e ostilità di vario genere.

Molti morirono di fame o malaria ma qualcuno – grazie a contatti con popolazioni vicine e al supporto di imbarcazioni di passaggio – riuscì a lasciare quel posto inospitale. Qualcuno morì nel viaggio, qualcuno si fermò da qualche altra parte in America e una cinquantina di persone, tra cui Hastie e la moglie, riuscì a fare ritorno nel Regno Unito. «Era evidente che avessero patito sofferenze estreme e apparivano spettrali e cadaverici», scrisse un giornale scozzese.

Nel frattempo la notizia dell’inesistenza di Poyais li aveva anticipati, evitando la partenza di altre navi e incentivando invece quella di MacGregor, che scappò a Parigi, dove essenzialmente provò di nuovo a vendere l’idea di Poyais, però con meno successo. Finì in prigione, fu assolto in un successivo processo e tornò in Scozia, dove pare che provò di nuovo a intavolare alcune truffe riguardanti Poyais. Nel 1838 ripartì poi per Caracas, dove fu riaccolto come cittadino venezuelano, e lì morì nel 1845.

È probabile che MacGregor se ne andò dall’Europa per scappare dagli investitori truffati, anche se è stato scritto che diversi tra gli ex colonizzatori continuarono a credere in lui, sostenendo che erano state le navi a lasciarli nel posto sbagliato.

Intanto, nel Regno Unito, questioni economiche e geopolitiche avevano fatto scemare l’interesse per gli investimenti in titoli di stato di paesi sudamericani, che tra l’altro aveva portato al crollo del mercato azionario noto come “panico del 1825”, in conseguenza del quale fallirono oltre 50 banche britanniche.

Qualche anno fa, Tamar Frankel – professoressa dell’Università di Boston esperta di truffe finanziarie – disse all’Economist che c’erano ragioni per credere che, almeno in una certa misura, MacGregor «credeva alla sua stessa storia», o quantomeno sperava che sebbene Poyais non esistesse, sarebbe bastato portare certa gente a crederci, e portare qualcuno a viverci, per colonizzare il territorio in cui se l’era immaginata e renderla quindi reale.

La sua storia è stata ripresa e raccontata da articoli, video su YouTube, podcast e, con grande dettaglio, da David Sinclair, nel libro del 2013 The Land That Never Was.

(Fonte ilPost)

2022/01/20

SE VI SEMBRA GIUSTO…



Nei primi 2 anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15 mila dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà a causa della pandemia. 

In questo momento i 10 super-ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone. Ogni 4 secondi nel mondo 1 persona muore per fenomeni connotati da elevati livelli di disuguaglianza come mancanza di accesso alle cure, fame, crisi idrica. Decine di milioni di persone vivono con meno di un euro al giorno.

Dall’inizio dell’emergenza Covid, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad una élite composta da oltre 2.600 super-ricchi le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Sono i dati emersi nell’ultimo incontro dell’alta finanza a Davos, tenuto quest’anno – bontà loro – senza concentramento di superjet privati ma più sobriamente on line.

I dieci più ricchi del mondo risultano Elon Musk (patrimonio di 274,7 miliardi di dollari, Bernard Arnault (198,9 miliardi), Jeff Bezos (194,5 miliardi), Bill Gates (138,3 miliardi) e poi Larry Page (124,5), Mark Zuckerberg (123,1), Larry Ellison (120,8) Sergey Brin (120 miliardi), Warren Buffett (109,1) e Steve Baller (106.5). Giovanni Ferrero è l’italiano più ricco (33,3 miliardi) mentre Silvio Berlusconi e famiglia sono “solo” a quota 7,5. 

La confederazione no profit Oxfam ha calcolato nel suo ultimo rapporto che in questi due anni il numero uno di Amazon Jeff Bezos è quello che ha incrementato di più il proprio patrimonio per oltre 81,5 miliardi di dollari: il surplus nei primi 21 mesi della pandemia equivale per lui al costo completo della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale. 

Eppure non si riesce neppure a mettere in campo una tassa planetaria che in qualche moda colpisca ovunque e in modo progressivo i redditi che superino una soglia che personalmente considero di immoralità. 

Tranquilli, comunque, perché tutti – da Lazzaro al ricco Epulone – moriremo uguali.

Trasporto pubblico gratis?

Roma: trafffico e mezzi pubblici nel centro città


Potrebbe essere veramente la soluzione che risolve il principale problema del traffico in Italia.
Perché se è pur vero che il traffico veicolare in Italia intasa le principale città fino a diventare impossibile, è anche vero che tutto questo determina costi elevati della comunità per ripulire l'aria e per curare le patologie derivanti dall'inquinamento, senza tralasciare la manutenzione delle strade e delle istituzioni delegate a effettuare manutenzioni e controlli.
Risparmiamo su tutto, tram (e bu e treni) gratis per tutti e vediamo che succede.
L'articolo che segue (fonte laRepubblica) è indicativo della situazione attuale e immagina nuovi scenari che possano veramente convincere gli italiani (e non solo) a usare il mezzo pubblico invece dell'auto. Leggete e se volete commentare siete liberi di farlo.

Buona lettura.

Immaginate di vivere in una città e di poter uscire di casa per recarvi a fare acquisti, al ristorante, al cinema o al lavoro, potendo usare qualsiasi mezzo pubblico senza dover comprare un biglietto. Immaginate di avere a disposizione una rete di autobus, tram e metropolitane, così capillare ed efficiente da arrivare ovunque e sempre gratuita. Immaginate in poche parole di poter fare a meno della vostra auto con tutto quel che ne consegue, iniziando dal risparmiare migliaia di euro l'anno fra manutenzione e carburante.

Sembra una follia sulla carta, ma lo sembrano tutte le innovazioni finché qualcuno non le mette in pratica. Trattare il trasporto come un servizio pari alla sanità o all'istruzione potrebbe avere benefici immediati, tangibili: riduzione dell'inquinamento e del traffico; meno malattie delle vie respiratorie; meno incidenti, più equità sociale.

Lo pensano a Tallinn in Estonia, in Lussemburgo e di recente anche a Genova, la prima grande città italiana dove hanno avuto l'idea di rendere il trasporto pubblico gratuito, almeno in parte, per spingere quanti più cittadini possibile a rinunciare alla vettura privata. Perché se è vero che il trasporto è la fonte di inquinamento principale in Italia - secondo l'ultimo rapporto dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) precede la produzione di energia, i consumi residenziali e l'industria - per migliorare la situazione bisognerebbe in primo luogo garantire di poter andare dove si vuole e quando si vuole senza necessariamente usare una vettura privata.

"Il trasporto pubblico viene da una lunga stagione di declino, lo si sceglie se si è costretti più che per scelta", racconta Enrico Musso, professore di economia dei trasporti all'Università di Genova e consulente della giunta comunale. "Ora le cose stanno cambiando anche in virtù di una sensibilità ambientale molto più forte rispetto al passato. Inoltre è evidente che l'elettrificazione dei veicoli, una strada ancora piena di ostacoli, da sola non basta. Se si resta all'uso attuale dell'auto privata, poco importa se elettrica, non risolviamo il problema del traffico. Bisogna quindi cambiare attitudine, modo di pensare".

Nel dramma, la pandemia ha insegnato che molti degli spostamenti che segnavano le nostre giornate sono inutili. Una quota consistente di lavoratori italiani, otto milioni di persone, può svolgere i propri compiti anche da casa. Questo è un calcolo che facemmo alcuni mesi fa: se solo i tre milioni di dipendenti pubblici si recassero in ufficio a giorni alterni, in un anno si risparmierebbero due miliardi e 400 milioni di chilometri oltre a parecchi soldi che rimarrebbero nelle tasche degli impiegati. Fra pedaggi, manutenzione del veicolo, la spesa a testa è di 330 euro per un totale complessivo di un miliardo e 100 milioni di euro. Senza dimenticare le 330mila tonnellate di CO2 emesse. Un trasporto pubblico capillare e accessibile, assieme alla micro-mobilità fatta di biciclette, monopattini e auto in sharing, aiuterebbe a cogliere questa occasione ridimensionando il ruolo così ingombrante che l'automobile privata ha avuto dal dopoguerra ad oggi.

I benefici di un trasporto pubblico gratuito, tutti ancora da quantificare caso per caso, secondo alcuni studi compiuti fra gli altri anche dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sarebbero di uno a tre. In pratica per ogni euro speso se ne guadagnerebbero tre grazie al risparmio dei privati, che non dovrebbero più usare così tanto il proprio mezzo, alla minore congestione delle strade e ai tempi di percorrenza ridotti. Ci sarebbero inoltre un impatto ambientale e sulla salute più basso, meno incidenti sulle strade, valorizzazione della città e conseguente crescita del prezzo degli immobili. Sono questi alcuni dei motivi che hanno spinto a febbraio il piccolo Stato di Lussemburgo a passare al sistema "tariffa zero". Il primo Stato in assoluto ad adottare una simile politica. Da ottobre 2022 anche Malta farà la stessa cosa.

I primi risultati dell'esperimento di Genova

"Meglio chiarire subito una cosa: il prezzo del biglietto copre un terzo del costo del trasporto pubblico in Italia, il resto è già pagato dallo Stato e quindi dai contribuenti", ci spiega al telefono Marco Beltrami, presidente dell'Azienda Mobilità e Trasporti (Amt), compagnia pubblica fondata nel capoluogo ligure nel 1895. "Ora però a Genova è nata la volontà da parte dell'amministrazione di rendere la città più attrattiva e a misura d'uomo, offrendo un servizio diverso capace di aiutare non solo a ridurre il traffico ma anche a stimolare gli spostamenti in fasce orarie diverse rispetto a quelle di punta".

La sperimentazione è partita il primo dicembre e si concluderà il 31 marzo. Riguarda gli impianti verticali e la metropolitana, ma quest'ultima solo in certe fasce orarie. Dunque ascensori, funicolari e cremagliera sono gratuiti tutti i giorni della settimana senza limiti di orario, mentre la metropolitana lo è dalle 10 alle 16 e dalle 20 alle 22.

"L'obiettivo è capire se così facendo attireremo nuovi passeggeri persuadendo le persone a lasciare a casa l'auto o la moto e a muoversi evitando i picchi del mattino o del tardo pomeriggio - prosegue Beltrami - abbassando da un lato le emissioni di CO2, per ridurre dall'altro gli ingorghi, i tempi di percorrenza e cambiare gli orari della città stessa. Fermo restando il piano d Amt di passare completamente ai mezzi elettrici su tutta la rete entro il 2026, questa sperimentazione quindi è una scelta strategica da parte del Comune, che ha una logica ben precisa".

Nel primo mese di sperimentazione nella metropolitana genovese, specie nelle fasce orarie gratuite, i passeggeri sono aumentati di oltre il 15%. Lo stesso è accaduto anche su ascensori e funicolari. Bisognerà però aspettare gennaio e febbraio, senza l'effetto del Natale, per capire come stanno andando davvero le cose. Dai biglietti la Amt ottiene 66 milioni di euro e ne spende il 10% per la struttura di vendita e per i controlli a bordo. La sperimentazione di questi quattro mesi, che non comprende tutte le linee, costerà alla fine 600 mila euro circa di mancati incassi. Se divenisse un sistema valido su tutta la rete per tutto l'anno, bisognerebbe coprire quei 66 milioni in altro modo e la prima cosa che viene in mente è una tassa regionale, sperando che l'indotto e i benefici siano molto maggiori e soprattutto ben evidenti alla cittadinanza.

La città che potremmo avere con metà delle auto in circolazione

"La grande convinzione collettiva legata all'era dell'automobile è che non ci siano alternative e che l'occupazione delle strade da parte delle auto in sosta sia il paesaggio normale della nostra quotidianità", commenta Elena Granata, professoressa di urbanistica al Politecnico di Milano che ha recentemente pubblicato il saggio dal titolo Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo. "Da quasi un secolo ci siamo abituati ad una spazialità che non è per noi ma è dedicata alle auto. Questa centralità dello spazio occupato dalle automobili è identica sia con i modelli a benzina sia con quelli elettrici. Cambia la tecnologia e certamente cambia l'impatto sull'ambiente, ma non si modifica l'immaginario urbano. Cominciamo invece ad immaginare cosa accadrebbe se riducessimo della metà le automobili. Potremmo ad esempio recuperare spazi di qualità tra le case, liberati per la vita delle persone".

La mossa del Lussemburgo

In Lussemburgo il trasporto pubblico gratuito era nel programma di tutti i maggiori partiti alle elezioni del 2018 e dal primo marzo 2020 è diventato una realtà: consentito l'uso di tutti i mezzi nell'intero Paese senza alcuna restrizione o distinzione. Resta a pagamento solo l'accesso alla prima classe dei treni.

Il progetto è presentato come una misura sociale: più soldi nei portafogli dei cittadini che hanno reddito basso, relativamente parlando trattandosi dello Stato che in fatto di prodotto interno lordo (pil) pro-capite non è secondo a nessuno, e conseguente redistribuzione delle risorse dato che il sistema è finanziato in proporzione dai contribuenti con maggiore capacità di spesa.

Il tutto fa parte di una strategia più ampia, chiamata Modu 2.0 e messa a punto nel 2017, che per il 2025 vuole arrivare a ridurre la congestione nelle ore di punta, aumentare la sicurezza stradale, l'inclusione, la qualità dell'aria, la decarbonizzazione, migliorare la pianificazione territoriale. Il fatturato annuo delle vendite di biglietti in Lussemburgo era di 41 milioni euro l'anno, meno di Genova quindi. Si trattava di circa l'8% dei costi annuali del trasporti pari a 500 milioni di euro.

Quando Tallin decise di cambiare strada

Se il Lussemburgo è il primo Stato, e Malta sarà il secondo, fra le grandi città Tallinn in Estonia è dal 2013 che offre ai 420mila residenti la possibilità di spostarsi come vogliono e quando vogliono acquistando la "carta verde" da 2 euro. La tessera dà accesso a 70 linee di autobus, quattro di tram e cinque di filobus. Con un risultato apprezzabile che però non può certo passare per una rivoluzione: la riduzione del traffico è stata di 14 punti percentuali.

Bisogna però guardare allo stato delle cose prima del 2013. Secondo un'analisi realizzata del Royal Institute of Technology di Stoccolma alla vigilia dell'introduzione della "tariffa zero" a Tallin, la quota dei tragitti con i mezzi pubblici nella capitale estone era diminuita drasticamente nel corso dei vent'anni precedenti. Nel 2012 erano il 40%, seguiti dallo spostarsi a piedi (30%) e dall'auto privata (26%). In quello stesso lasso di tempo il tasso di motorizzazione era più che raddoppiato arrivando a 425 auto per mille residenti. La tendenza era chiara e l'amministrazione comunale decise di cambiare rotta prima che fosse troppo tardi. La scelta è stata sottoposta alla cittadinanza attraverso un referendum popolare passando con oltre il 75% di voti favorevoli a fronte però di una partecipazione di appena il 20% degli elettori.

Non è solo un problema di gratuità del biglietto

In precedenza, c'erano stati altri due casi rilevanti, il primo dei quali è il progetto pilota del 1978 nella contea di Mercer, New Jersey, negli Stati Uniti. Escludendo le ore di punta, vennero aboliti i biglietti per 13 linee. Ciò comportò un aumento medio del 20% del numero di passeggeri che nelle fasce non di punta superò il più 50%. Curioso che i due terzi di questa crescita arrivarono dopo che il progetto pilota si era concluso. Furono soprattutto le generazioni più giovani a scoprire di poter fare a meno dell'automobile e a mantenere questa abitudine anche a fine sperimentazione.

Ma il caso più noto, anche perché su scala ampia, è quello del 1996 di Hasselt, cittadina belga da 70mila abitanti. Il sistema di trasporto pubblico, relativamente piccolo, non solo divenne gratuito per tutti, anche ai non residenti, ma fu in primo luogo potenziato: le dimensioni della flotta aumentò di cinque volte. L'utenza crebbe così di ben dieci volte con il 37% dei viaggi compiuti da utenti che prima usavano i propri mezzi.

A guardare il caso belga vien da dire che pagare o meno il biglietto è solo un pezzo del puzzle. Il vero punto è la capillarità del trasporto pubblico e la sua efficienza. Si lascia a casa la propria vettura quando è più facile e veloce usare tram, bus o metro. Questo è vero per città come Tokyo, Londra o Parigi, che hanno tutte una rete della metropolitana particolarmente estesa, ma lo è anche per Gerusalemme, dove i tram hanno vissuto una nuova primavera quando sono state adottate alcune misure capaci di ridurre i tempi di percorrenza.

I tram di Gerusalemme tornati di moda grazie all'intelligenza artificiale

I convogli della linea rossa, poco meno di 14 chilometri e 23 stazioni, da capolinea a capolinea a partire da aprile del 2021 impiegano il 47% di tempo in meno rispetto al passato. Mezz'ora invece di un'ora. Assieme alla linea gialla e a quella verde, la Jerusalem Light Rail ha visto così crescere i passeggeri di quattro volte e ha potuto allo stesso tempo ridurre il numero di tram perché ne servono meno procedendo molto più spediti. Il miracolo è stato rivendicato dalla compagnia Axilion, che ha messo in collegamento il sistema di semafori con la visione e l'intelligenza artificiale (Ai) delle videocamere Azure Kinect di Microsoft montate su tram e semafori. E il risultato è notevole, considerando che non è stato necessario alcun intervento pesante sulle infrastrutture.

"Le videocamere sono fornite di gps, connesse alla rete dati e installate su tutti i mezzi della linea", spiegò a suo tempo Oran Dror, 50 anni, cofondatore di Axilion. "Le camere analizzano il flusso di macchine e di pedoni sincronizzando tutto il sistema di semafori così che i mezzi pubblici abbiano sempre il verde ma senza intasare le aree circostanti".

Per ogni linea servono circa cento apparecchi che costano 350 dollari l'uno, oltre a quelli montati sui 273 semafori della città per dare la priorità al traffico ferroviario leggero, più la spesa per la gestione e per il servizio cloud di Microsoft. L'esborso complessivo per una sola linea è di quattro milioni di dollari, con un risparmio di 600 milioni nei primi tre anni. Questo perché ci sarebbe una decrescita del 28% dell'energia necessaria per far funzionare i tram, essendoci meno frenate e ripartenze, 100mila tonnellate di CO2 non emesse in un anno e passeggeri quadruplicati.

Proiezioni tutte da confermare e non è affatto detto che accadrà. La Axilion, sbarcata in borsa a fine 2020, dopo una fiammata iniziale del 2.000% ha cominciato a perdere terreno arrivando ad un vero e proprio crollo quando si è saputo che i progetti di espansione ad Aspen negli Stati Uniti e a Rheims in Francia erano stati bloccati. Resta però un dato, al di là delle sorti della startup israeliana: il quadruplicare dei passeggeri quando il trasporto pubblico diventa efficiente e più veloce. Quando in pratica si arriva prima e si arriva ovunque, come insegna anche il boom di passeggeri ad Hasselt in Belgio una volta che la rete è stata potenziata oltre che resa gratuita.

"Non c'è un rapporto diretto fra il pagare il biglietto e l'efficienza di un servizio", aggiunge Marco Beltrami, presidente dell'Amt di Genova. "Se quel costo arriva in altro modo un trasporto pubblico affidabile è comunque possibile. E quando non lo è, il problema non sempre è riconducibile al prezzo più o meno basso del biglietto".

Lo spettro dell'inefficienza

In Italia le città nelle quali si usa di più in trasporto pubblico sono Milano, Genova, Torino, Napoli, Venezia e Roma. Prima della pandemia i cittadini che lo usavano arrivavano al massimo al 38%, è il caso di Milano, per scendere sotto il 5% a Catania, almeno secondo il rapporto MobilitAria 2018 redatto dal Kyoto Club e dal Cnr-Iia (Istituto sull'inquinamento atmosferico). Nell'edizione del 2020, fotografando la situazione dell'anno precedente, la mobilità in Italia era per il 62,6% su mezzi privati, per il 12,2% su mezzi pubblici e per il 25,1% attraverso modi e sistemi non motorizzati, dalla bicicletta all'andare a piedi.

Lo spazio per crescere il trasporto pubblico lo avrebbe, se non fosse che la pandemia ne ha ridotto molto l'utilizzo per paura dei contagi facendo tornare ingorghi e traffico per l'uso massiccio delle vetture e il richiamo in ufficio, del tutto insensato, dei dipendenti pubblici e di una parte di quelli del privato. Proprio quando avremmo invece potuto sfruttare il cambiamento delle abitudini imposte dalla pandemia per puntare ad un modo completamente diverso e molto più sostenibile di guardare alle città e al trasporto.

"La realtà è che non esiste un'unica soluzione", sottolinea Musso. "Bisogna per forza introdurne diverse e su tre fronti:
a) permettere alle persone di non muoversi quando non è necessario e quindi impostare la città in questo modo;
b) quando ci si muove fare in modo che i veicoli siano mezzi efficienti e sostenibili;
c) optare per mezzi che inquinino il meno possibile".

In tutto ciò, il trasporto pubblico può giocare un ruolo importante, anche in sinergia con la micro-mobilità, ma perché si riesca a cambiare le abitudini delle persone, agli incentivi come l'eliminazione del biglietto bisogna anche aggiungere tragitti più veloci, una rete ramificata e mezzi confortevoli.

L'impossibile possibile

"In fondo negli ultime due anni le nostre città sono già cambiate molto, in maniera che nessuno credeva possibile prima", conclude Elena Granata. "Con la pandemia bar e ristoranti hanno occupato marciapiedi e strade per ospitare tavolini e spazi di ristoro. Qualcuno si è lamentato che si è ridotto lo spazio per le auto? No. L'emergenza ha fatto prevalere un altro uso della strada e ha fatto riscoprire a tanti il piacere di mangiare all'aperto. In Inghilterra il programma Playing Out coinvolge più di 500 vie: consente alle famiglie di giocare in strada, prenotando la chiusura temporanea al traffico di piccole arterie.

A Pontevedra in Spagna l'amministrazione ha chiuso il centro urbano alle auto investendo in spazi pubblici, verdi e sicuri per il gioco dei bambini. Da noi lo spazio dedicato alle auto in sosta potrebbe consentire programmi di piantumazione mirati alla mitigazione del surriscaldamento urbano. Non è un tema solo di moda. L'aumento delle temperature sta spingendo molte amministrazioni a depavimentare (togliendo asfalto che crea calore) e riforestando ampie zone urbane. Così a Parigi, così a Bogotà. Perché non possiamo farlo anche noi?".

Insomma, c'è ancora molto da fare e il trasporto pubblico gratuito è solo una delle mosse possibili. Ma c'è una buona notizia: ci si può mettere all'opera su soluzioni del genere già da domani, senza aspettare di avere colonnine per la ricarica sotto tutte le case.