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2022/12/22

E' arrivato Natale



Facendo gli auguri ai lettori del mio blog avrei voluto scrivere parole un po' diverse dal solito. Non tanto per buonismo pre-natalizio quanto perché forse bisogna ammettere che il mondo cambia poco chiunque governi, e che troppo spesso sembrano sempre vincere i “cattivi”.

Tanto per parlarne, per molti anni ho tenuto una rubrica settimanale su un giornalino di provincia per il quale scrivevo pezzi interessanti e seguiti e stavo rileggendo il mio pezzo del Natale 1992, scritto esattamente 30 anni fa. Se lo avessi riprodotto interamente qui oggi quasi nessuno avrebbe scoperto che era “datato” perché descriveva una situazione di disordine mondiale e di sostanziale ingiustizia planetaria esattamente allora come oggi.

Sembra proprio che nessuno voglia imparare dalle esperienze passate, che pochissimi vogliano seriamente mettersi d’impegno per costruire e non solo distruggere.
Ma forse non è vero: trent’anni sono tanti per ciascuno di noi, ma un nulla rispetto alla storia eppure – se non volete arrendervi alle banalità - vi consiglio di leggere il bel libro “Factfulness” di Hans Rosling (sottotitolo: “Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo e perché le cose vanno molto meglio di come pensiamo”) edito da Rizzoli. 


Scoprireste che, a dispetto di mille crisi, il mondo in questi 30 anni è andato decisamente avanti nonostante tutte le auto-distruzioni umane e i grandi numeri ci dicono che il livello di vita è generalmente migliorato anche nei paesi “poveri” nonostante epidemie e guerre.

Forse un bilancio vero non andrebbe però fatto solo su statistiche mondiali più o meno tranquillizzanti per quanto riguarda salute, istruzione, clima o vita media anche se, al di là dei catastrofismi, è per fortuna la verità. Quello che non entra nella statistica - e invece dovrebbe “pesare” soprattutto in questi giorni natalizi - è piuttosto il bilancio di ogni singola vita, quello dei rapporti umani che ciascuno di noi ha e vive con il prossimo.

Qui non c’entrano proprio le statistiche visto che ciascuno è arbitro di sé stesso e le conclusioni deve trarle da sé con bilanci che forse vengono più facili proprio a fine d’anno, ma che dovrebbero coinvolgerci anche (o soprattutto) per quell’“incidente” che siamo abituati a festeggiare – malamente, nel senso che troppe volte ne tradiamo il senso - una settimana prima di Capodanno, ovvero quello che chiamiamo Natale.

Non so come effettivamente siano andate le cose in quel di Betlemme ai tempi del fu Cesare Augusto, so che da lì è nato (o continuato) un grande discorso che coinvolge tutta l’umanità, anche se quasi sempre facciamo finta di non pensarci, occupati da tutt’altro.
Solo qualche volta, magari nei momenti tristi o in quelli – come a fine d’anno - in cui più facilmente si fanno bilanci, ecco che ci accorgiamo che il discorso dentro di noi è sempre incompiuto, ma che comunque da soli non ce la facciamo perché il “prossimo” - quello che sta appena là fuori - comunque ci interroga, ci impone di non pensare solo a noi stessi se siamo minimamente logici con principi non tanto religiosi quanto intimi, istintivi nella vita umana.

Per chi ci crede (io “ci spero”) la testimonianza che è nata in quella stalla è particolarmente aperta, spalancata verso “il prossimo tuo” tanto da costringerci a pensare non sono alle statistiche del mondo ma piuttosto a quel nostro bilancio intimo, unico, personale.
Possiamo non farlo, girarci intorno, far finta di dimenticarlo, ma prima o poi siamo comunque costretti a farlo perché in fondo - a quegli strani atomi che compongono la coscienza del nostro corpo e danno linfa al nostro spirito - questo bilancio diventa una specie di necessità e sale dal di dentro come un tappo di sughero che risale verso la superficie dell’acqua e che nessuno può fermare: prima o poi riemerge in piena luce.

Se ci fermiamo a pensare un po’ su questi nodi ecco che allora la luce delle luminarie di questi giorni conta davvero poco mentre vale ben di più quella luce che ciascuno di noi può accendere dentro di sé.

Alla fine per festeggiare il Natale “vero” – al di là dei “seasonal greetings”, formula ipocrita di auto-assoluzione per chi non ha più nemmeno il coraggio di dirsi cristiano - dovremmo soprattutto pensare seriamente a questi aspetti, senza nasconderci dietro a regali più o meno riciclati, obbligati o banali solo perché “si usa” scambiarseli.

Riflettendo scopriremo che ci serve assolutamente una luce, ma soprattutto la “nostra” luce, quella che riceviamo quando arriviamo in questo mondo ma che poi un giorno dovremo restituire. Ed è comunque bello, alla fine, distribuirla intorno a noi.
Potremo farlo in mille modi e in tutta libertà, magari cominciando a rifletterci un po’ e poi visitando chi è solo, perdonando un torto, aiutando un poco di più chi ha bisogno. 

Distribuire un po’ di quella luce è il regalo più bello che potremo fare ed è fantastico che possiamo costruirlo da noi prima di tutto proprio per noi stessi.
Anche questo è rinascere, ed è davvero Natale.

2021/12/25

Perché il Natale si festeggia il 25 dicembre?



Il Natale è la festa che nella tradizione cristiana celebra la nascita di Gesù, che però non nacque davvero il 25 dicembre. Le fonti storiche sulla vita di Gesù, cioè i Vangeli, non indicano una data precisa, e non sappiamo con certezza quando i cristiani abbiano cominciato a festeggiare il Natale: sicuramente almeno dal 336 d.C., come è indicato nel Cronografo del 354, una specie di calendario che è il primo documento a contenere un riferimento al Natale.

Quella del 25 dicembre alla fine fu scelta come data simbolica per ricordare la nascita di Gesù e cristianizzare le feste pagane che si celebravano nell’Impero Romano, i Saturnali e la festa del cosiddetto “Sole Invitto”.

Cos’erano i Saturnali, cioè il Natale prima del Natale
I Saturnali, Saturnalia in latino, si celebravano dal 17 al 23 dicembre in onore del dio Saturno, il corrispettivo del greco Crono. Come nelle antiche feste che nel tempo si sono trasformate nel Carnevale, durante i Saturnali le comuni regole sociali venivano invertite: tra le altre cose, capitava che i padroni servissero a tavola i loro schiavi. Come molte persone oggi pensano che il Natale sia il giorno più bello dell’anno, così credeva il poeta Catullo del 17 dicembre.

Molte tradizioni dei Saturnali si sono trasmesse al Natale cristiano: tra queste lo scambio dei regali, che quindi è più antico delle tradizioni cristiane. Avveniva il 19 dicembre, cioè il Sigillaria. Si donavano e si ricevevano cose semplici, simboliche, dato che scambiare oggetti di valore sarebbe stato contrario allo spirito della festa. Ai bambini venivano regalate statuette di pasta dolce – i sigilla – a forma di bambole e animali.

Alla fine del Terzo secolo il calendario civile romano indicava come solstizio d’inverno il 25 dicembre. In tutte le antiche culture dell’emisfero boreale il solstizio d'inverno viene festeggiato perché è il giorno dopo il quale le giornate ricominciano ad allungarsi, e per questo è legato alle divinità solari.

Sempre nel Terzo secolo, il 25 dicembre nell’Impero Romano si festeggiava anche il dio del Sole Invitto, che riuniva in sé vari dei solari di diverse religioni: il greco Helios, il siriano El-Gabal e il persiano Mitra.

Negli ultimi secoli dell’Impero Romano, prima che il cristianesimo diventasse la religione ufficiale, non erano rari questi culti che sovrapponevano varie divinità creando nuove religioni molto aperte. In particolare la religione del Sole Invitto era una di quelle che già prima dell’affermarsi del cristianesimo si avvicinava al monoteismo.

Il 25 dicembre fu scelto come giorno della nascita di Gesù – dopo aver preso in considerazione altre date come il 18 novembre, il 28 marzo e il 20 maggio – per “coprire” la festa del Sole Invitto e avere un’ulteriore argomentazione per convincere i pagani a convertirsi: non avrebbero perso la loro festa una volta diventati cristiani. La figura di Gesù era proposta a questi pagani come quella del “vero” Sole.

Le altre tradizioni natalizie


Nel corso del tempo e con la diffusione del cristianesimo, il Natale si è arricchito di molte altre tradizioni a loro volta provenienti da altre celebrazioni del solstizio d’inverno.

L’albero di Natale, per esempio, arriva dalla tradizione germanica della festa del solstizio d’inverno, chiamata Yule; nelle lingue scandinave il periodo del Natale si indica tuttora con espressioni che derivano chiaramente da questo termine, “jul” in svedese, danese e norvegese, “Jól” in islandese. Altri elementi tradizionali pagani sono passati alla festa di Capodanno, invece che al Natale: tra questi i fuochi e i falò che venivano accesi per il solstizio.

La storia dietro Babbo Natale invece è più complessa. L’Enciclopedia Britannica spiega che questa figura è nata a partire da quella di San Nicola di Bari – anche noto come San Nicola di Myra, città nell’attuale Turchia in cui era vescovo; il suo corpo fu portato a Bari dopo la morte – che si celebra il 6 dicembre. Il culto di questo santo è sempre stato legato all’idea dei doni recapitati ai bambini, e nel tempo la sua figura si è evoluta in quella di Babbo Natale, passando per il Sinterklaas olandese, portato nella colonia americana di New Amsterdam, poi diventata New York, e lì trasformatosi in Santa Claus.

Con il diffondersi della cultura americana nel mondo, dopo la Seconda guerra mondiale, Babbo Natale è diventato popolare anche in Italia, dove nella maggior parte delle regioni ha preso il posto di Gesù Bambino, Santa Lucia o San Nicola nel portare i doni ai bambini.

2020/01/01

La Cina è vicina... al crollo finanziario




Più che i "cigni neri", eventi rari e imprevedibili, il Partito comunista teme i "rinoceronti grigi", pericoli noti ed evidenti, come i grandi mammiferi cornuti, ma che rischiano di essere ignorati fin quando non è troppo tardi. La montagna di debito complessivo della Cina, che ha superato il 300% del Pil, è uno di questi bestioni, e nonostante le autorità comuniste stiano già da anni cercando di contenerla il pericolo è tutt'altro che scongiurato. Anzi, nelle ultime settimane i segnali di allarme si moltiplicano: banche locali che fanno crack, l'indebitamento delle famiglie a livelli record, quasi il 100% del reddito disponibile, un aumento dei default delle imprese, perfino quelle di Stato un tempo considerate al sicuro da ogni tempesta.

Per il momento non si tratta ancora di un'emergenza. Un'asta di titoli di Stato per 6 miliardi di dollari conclusa con successo dalla Banca centrale lo conferma. Eppure lo stress finanziario rende molto più stretta la strada del governo, nel momento in cui l'economia cinese sta rallentando in maniera brusca. Un tempo a frenate di questo tipo la leadership rispondeva varando mega stimoli, ora né la Banca del popolo né il governo sembrano intenzionati a rovesciare soldi dall'elicottero: sciogliere le briglie della politica monetaria o di quella fiscale rischierebbe di far crescere ancora l'indebitamento, incentiverebbe bolle speculative e spingerebbe aziende e famiglie a spendere oltre le loro possibilità. 

I rischi finanziari in questo momento non si concentrano tanto a livello centrale, di debito pubblico, quanto alla periferia dell'Impero. Secondo un recente rapporto della Banca del popolo, dei 4.400 prestatori attivi in Cina, 586 sono classificati ad "alto rischio". Si tratta soprattutto di piccoli operatori locali, distributori di contanti che alimentano i sogni di espansione delle aziende e le ambizioni di carriera dei funzionari provinciali. Negli ultimi mesi il governo è dovuto intervenire per nazionalizzare Baoshang bank, semi sconosciuto istituto della Mongolia Interna, poi ha coordinato un salvataggio di altri due operatori, Jinzhou e Hengfeng. A inizio novembre i correntisti di due banche, una dello Henan e una del Liaoning, si sono precipitati agli sportelli per prelevare i loro risparmi, dopo aver sentito di indagini che riguardavano i manager. Solo l'intervento delle autorità ha impedito il collasso, ma in un Paese privo di trasparenza e revisori indipendenti i dubbi sulle reali condizioni delle banchette di provincia restano enormi.

La autorità hanno annunciato che costringeranno gli istituti in difficoltà a puntellarsi, ricapitalizzando, fondendosi e tagliando i crediti deteriorati. È un intervento coerente con l'imperativo della stabilità, in questo caso finanziaria, messo in primo piano da Xi Jinping. Solo che la stretta sul credito voluta dal presidente cinese è anche uno dei fattori, se non il principale, alla base del rallentamento dell'economia. Molte aziende, soprattutto quelle private, senza sponde politiche, faticano a finanziarsi o rifinanziarsi (il loro debito complessivo è al 165% del Pil), proprio mentre i profitti si riducono. Il numero dei default cresce: a inizio dicembre hanno raggiunto i 17 miliardi di dollari, superando il totale del 2018. E tra le imprese che non riescono più a onorare i debiti alcune sono di Stato: mercoledì scorso il gruppo Tewoo, specializzato nel trading delle commodities, ha annunciato che non potrà ripagare un bond da 300 milioni di dollari, proponendo ai sottoscrittori una conversione in perdita, quello che in termini tecnici si chiama "haircut".

È una clamorosa prima volta per un'azienda di Stato, status che fino a oggi offriva la garanzia, implicita ma non per questo meno reale, di un salvagente anti crisi. Ora il messaggio del governo sembra essere diverso: non tutti potranno essere sostenuti. In teoria è un segno di maturità del sistema, in pratica rischia di trasformarsi in un terremoto, considerato che nell'economia cinese il rischio creditizio non è mai stato davvero prezzato dal mercato.

Per Xi e i suoi consiglieri economici dunque i prossimi mesi si annunciano un complicato gioco di equilibrismo tra contenimento del debito e stimolo alla crescita. Da condurre con aggiustamenti quotidiani e cercando di evitare contraddizioni, per quanto possibile. Nei giorni scorsi il governo ha ordinato alle province di procedere all'emissione di bond per finanziare le infrastrutture, anticipando le quote previste per i primi mesi del prossimo anno. Nuovo debito per evitare una frenata troppo brusca, ma nuovo debito che sarà sempre più difficile onorare in un'economia dalla produttività stagnante. Con il rinoceronte grigio prima o poi Pechino dovrà fare i conti.

2017/10/12

UNESCO il fallimento di un'idea





Gli Stati Uniti hanno notificato all’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), la loro uscita dall’organizzazione a partire dal 31 dicembre prossimo. Lo ha riferito il direttore generale dell’agenzia culturale dell’Onu, la bulgara socialista Irina Bokova. 

Gli Usa accusano l’Unesco di essere “anti Israele”, perché nel 2011 accettarono l’ingresso della Palestina nell’organizzazione, nonostante la contrarietà di molti Paesi. In quell’occasione, ovviamente, l’Italia scelse di non schierarsi e si astenne. Contestualmente Washington ha ritirato il sostegno di 60 milioni di dollari all’Unesco, creando non pochi problemi all’Onu. Gli States sono infatti il più grande finanziatore dell’Unesco, con una quota pari al 22 per cento dei finanziamenti totali. 

L’Unesco, per chi non lo sapesse. è uno dei tanti carrozzoni delle agenzie dell’Onu, istituito nel 1945, all’indomani della fine della guerra, conosciuto qui in Italia solo per la faccenda dei “siti patrimonio dell’Unesco”. In realtà il bubbone sarebbe dovuto esplodere, prima o poi. Sono anni che le Nazioni Unite, anziché svolgere il loro compito istituzionale, si dedicano alla politica, favorendo ora questo ora quell’attore internazionale secondo gli specifici interessi del Palazzo di Vetro, che raramente coincidono con quelli della popolazione mondiale. 

Troppo spesso l’Onu si è apertamente schierata con una delle parti in lotta, rinunciando al suo nobile ruolo di super partes e compisizione dei contrasti. Individuando di volta in volta, arbitrariamente, il “cattivo” di turno, l’Onu ha schierato i suoi caschi blu e il suo peso diplomatico per proteggere gli interessi di ben determinate nazioni. 

Qualche esempio? 

Congo (dove i caschi blu furono diretti responsabili della strage dei nostri soldati a Kindu), Biafra, Vietnam, Iraq e, più recentemente, guerra dei Balcani, dove i caschi blu si sono smaccatamente schierati con i musulmani di Bosnia e del Kosovo con l’obiettivo – raggiunto – di destabilizzare l’Europa creando nel proprio cuore due Stati islamici, con le conseguenze che vediano oggi. Ma oltre a schierarsi, le Nazioni Unite evitano di proteggere le popolazioni in guerra: nei Balcani, in Libano, e oggi in Siria, dove si tengono bene alla larga dalle zone particolarmente calde. 

Quindi, non è questione di Unesco, o Fao o altro, mastodonti che sprecano soldi per la loro manutenzione piuttosto che per gli scopi sociali: sono le Nazioni Unite a essere ormai un’organizzazione tutta da ripensare e da riformare. Il socialista Guterres, attuale segretario generale, ha già dato prova di essere di parte, e bene fa Donald Trump a denunciare le storture di un Palazzo di Vetro obsoleto nato all’ombra di una tremenda guerra che certo non ha favorito la serenità delle scelte sovranazionali. 

E questo peccato originale accompagna ancora oggi le dissennate strategie dell’Onu.

2017/04/05

Vergogna!



E così per San Pietroburgo le luci sono rimaste spente. Le luci del Colosseo. Le luci della Porta di Brandeburgo. Le luci della Torre Eiffel. E tutte quelle luci che sempre illuminano e hanno illuminato i simboli delle Capitali d’Europa per i motivi più diversi: tutte spente. 

Niente luci per San Pietroburgo. Come se non ci importasse. Come se non ci riguardasse. Come se non fosse Europa. Come se quel sangue nella metropolitana non fosse anche il nostro sangue. 

Sangue del tutto uguale a quello di Londra, di Parigi, di Bruxelles, di Madrid, di Nizza, di Berlino. Nessuna solidarietà è scattata per i poveri morti di San Pietroburgo. Nessuno li ha pianti. 

Pochi secondi di televisione, ma nessun approfondimento. Nessun talk-show, nessun dibattito. Quasi un senso di fastidio per quell’attentato, per le immagini di quella carrozza della metropolitana squarciata, per quei corpi distesi sul marciapiede della stazione, per quei volti di cittadini sanguinanti e terrorizzati. 

Nessuna luce per San Pietroburgo. E, in compenso, tante ombre. Tante ipotesi. Una delle più gettonate ha addirittura adombrato una diretta, possibile responsabilità di Vladimir Putin. Ombre gettate lì. Ipotesi costruite a tavolino. E ancora ombre. Il blogger in galera. Le manifestazioni contro il presidente russo. 

La repressione della polizia. 
Il vulnus alla democrazia. 

E silenzio sul consenso ben oltre il 75 per cento di cui Putin gode in Patria. Che vergogna quelle luci spente. Si può solidarizzare con tutto e per tutto; lo si può persino fare per la mitica e intoccabile comunità LGTB (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) che ha avuto l’onore delle luci del mondo, ma non lo si può fare per i morti di San Pietroburgo. 

Come se quel sangue fosse un fastidio da rimuovere, quasi non fosse mai esistito. È così questa Europa infingarda, guidata da vigliacchi e ubriaconi, s’è girata dall’altra parte. Ipocrita come non mai. Costretta a registrare l’attentato, l’ha subito archiviato. 

Perciò, nessuna solidarietà per i morti di San Pietroburgo. 

E luci spente.

2016/08/10

ITALIA, di tutto un po'....



Per quasi tutta la stampa italiana DONALD TRUMP è un cretino. Come sempre avvenuto, quando arriva un candidato diverso dalla sinistra-radical-scic non si va a valutare seriamente come la pensi, ma lo si fa diventare un pagliaccio. La ricetta è semplice: si prende una frase, la si estrapola dal contesto, la si commenta in modo demagogico, la si fa diventare titolone e così lo si censura. DOnald Trump per chi non lo sapesse è un miliardario americano che ha fatto fortuna attraverso le costruzioni d'immobili, giornali e reti TV, esattamente come Berlusconi.

Un esempio? Se leggo “Trump: la Clinton ha fondato l’ISIS!” (titolo Corsera) è una idiozia, ma se lo ascolto e comprendo che ha detto “L’ex segretaria di stato Hillary Clinton con la sua politica di destabilizzazione americana in Medio Oriente ha portato alla nascita dell’ISIS” Trump ha perfettamente ragione. Purtroppo in Italia la politica estera è spot, sensazioni, superficialità e - nello specifico - è in atto una “santificazione” della Clinton considerando i sostenitori di Trump dei buzzurri cretini. 

Si aggregano al cicaleggio i cinquettii della Boldrini, della Mogherini, della Boschi tutte corse alla convention democratica (con i soldi dei contribuenti) a sbavare per un “selfie” insieme alla candidata.

Ricordo la stessa politica di demonizzazione verso il MSI-DN della mia gioventù o anche recentemente contro la Lega Nord (e oggi contro il M5S) , con tanti servizi TV dove i leghisti apparivano sempre come degli zoticoni con le corna di mucca in testa, ma raramente c’era spazio per capire od approfondire gli avvenimenti. I commenti alle elezioni americane sono sconcertanti davanti a due candidati entrambi discutibili, ma dove da una parte c’è per lo meno un forte senso di discontinuità, dall’altro una liturgica approvazione dello “status quo” e non mi pare che gli USA in questi anni abbiano fatto sfolgoranti progressi, soprattutto facendo pagare ad altri (come agli europei) le loro speculazioni finanziarie. Certo che se vince Trump per l’Europa sarà dura, ma per prima cosa credo si dovrebbe cercare di capirne meglio il fenomeno. 

Lo stesso vale per LA CRISI DELLE BANCHE dove leggendo dozzine di articoli sfugge un concetto: chi, come e perché ha permesso gli indebitamenti colossali di tanti creditori insolventi, quelli che – per esempio – hanno affossato Monte dei Paschi di Siena, banca “politica” (di sinistra) per eccellenza? 

Ho visto come sia stato sempre difficile ottenere correttamente crediti, finanziamenti, aiuti per le piccole imprese e SEMPRE - anche per poche migliaia di euro di crediti - servono firme, fidejussioni, avvalli ecc.

Ma come è mai possibile arrivare a sofferenze di MILIARDI DI EURO? Non ci sono direttori generali, consigli di amministrazione, responsabili dei fidi cui oggi andrebbe chiesto conto? Nessuno paga se non gli azionisti (quelli piccoli, gli altri sono stati prioritariamente sistemati) che in campo bancario hanno visto perdere anche il 99% del proprio investimento. Ma possibile che BANCA D’ITALIA e CONSOB non si sono accorte di niente anche negli ultimi anni? Ed è corretto che ora le banche dietro al FONDO ATLANTE posano acquisire banche per mezzo piatto di lenticchie? Questi sono misteri tutti italiani che NESSUNO sembra voler approfondire. 

Un ulteriore esempio di disinformazione è per la TURCHIA E LO PSEUDO GOLPE DI ERDOGAN dove ho letto ben poco fuori dal coro. Ma chi sono stati i golpisti, come hanno portato avanti questo maldestro tentativo di colpo di stato che è abortito in pochi minuti? Oppure – come temo – è stata una plateale “patacca” auto-organizzata o almeno ben a conoscenza di Erdogan che ne ha approfittato per far fuori ogni opposizione? Non si arrestano 2.350 giudici in poche ore senza avere dietro un piano preciso, così come poter impunemente epurare e imprigionare giornalisti, TV, partiti, professori, militari a decine di migliaia. 

Diciamoci la verità, ovvero che oggi la Turchia serve all’Europa e agli USA per molti “lavori sporchi”, ricatta l’UE per i profughi, ha in Europa milioni di suoi cittadini. Erdogan è furbo, tratta e commercia come tutti i turchi e ha scoperto un “cliente” europeo da tenere per le palle  Ecco dunque che in Europa spariscono i guaiti sui diritti umani, non si vedono più le immagini delle torture, non ci sono sanzioni, nessuna delegazione “va a vedere” sul serio cosa succeda nelle carceri turche. Poche le eccezioni, come quella coraggiosa di Lucia Goracci che ha intervistato Erdogan senza ipocrisie, anche se lui ha risposto ovviamente come voleva. 

Sul piano interno lo spettacolo più indecoroso: la “dispar condicio sul referendum” dove non c’è un minimo di equità nell’illustrare anche le ragioni del NO ed è un continuo inno al SI senza vero contradditorio o spazio per spiegare le critiche. Così il SI serve - dice la fatina Boschi - addirittura contro il terrorismo, per dar soldi ai poveri, per superare la crisi economica e via a spararle più grosse. 

Vale per le grandi testate ma soprattutto per la RAI TV, piegata come sempre sul leader a violare qualsiasi regola di “par condicio” con il maghetto di Firenze che appare ovunque con le sue cicalanti vestali. A seguire il documento di un gruppo di parlamentari del PD (che ovviamente adesso rischiano il posto) che coraggiosamente spiegano il loro NO e un articolo apparso sul Corriere della Sera del prof. Stefano Passigli che – sfuggito alla censura? – con molta pacatezza fa dei ragionamenti chiarissimi e che i fautori del SI dovrebbero forse mediare. 

Ma a fronte di queste indecenze l’unica cosa che conta è sempre la demagogia ed è di ieri la notizia del licenziamento in tronco del direttore di QS (quotidiano sportivo del gruppo Monti) perché in un articolo (tra l'altro in chiave di simpatia) erano state due giorni fa definite "cicciottelle" le tre atlete che hanno perso le possibili medaglie alle olimpiadi nel tiro con l'arco.

Ma vi sembra un termine così offensivo?! Ogni giorno la verità è mistificata, nascosta, ignorata su problemi ben più gravi e ben altri sarebbero da licenziare! Ma è quel “cicciottelle” a contare… Può funzionare un paese così intriso di ipocrisia? No, ma a furia di buonismi e di "political correct" viene francamente da vomitare e questa è la sublimazione delle imbecillità. 

NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM
I firmatari di questo documento sono parlamentari del PD che voteranno no al prossimo referendum costituzionale. Con la consapevolezza che la propria è posizione in dissenso da quella deliberata dal PD, ma nella convinzione che essa possa essere da noi assunta grazie al carattere liberale dello statuto del partito, il quale mette in conto che non si dia un vincolo disciplinare quando sono in gioco principi e impianto costituzionale. Una posizione, la nostra, che confidiamo possa essere doppiamente utile. Da un lato, contribuendo a centrare il confronto sul merito della riforma, anziché su pregiudiziali posizioni di schieramento, come un po' tutti, a cominciare dal PD, dichiarano di auspicare. Dall'altro, ritenendo che non siano pochi, tra elettori e militanti democratici, coloro che coltivano una opinione diversa da quella "ufficiale" del partito, pensiamo sia bene che essi abbiano voce. Circostanza che conferisce autorevolezza e forza al PD come grande partito pluralistico, inclusivo e appunto liberale. Sinteticamente, le motivazioni del nostro no sono le seguenti: 1) le priorità in agenda. È nostra convinzione che le riforme costituzionali, pur necessarie, non rappresentino la priorità in agenda. Di più: che da gran tempo è invalsa l'abitudine - una sorta di alibi per la classe politica - di imputare alla Costituzione la responsabilità di insufficienze che semmai vanno intestate alla politica e all'amministrazione; nonché di spostare tutta l'attenzione dall'esigenza di dare attuazione a principi e diritti scolpiti nella Carta alla ingegneria costituzionale in una sorta di frenesia riformatrice; 2) legittimazione o, meglio, autorevolezza di questo parlamento. Conosciamo la sentenza n. 1 del 2014 che autorizza l'operatività del parlamento ancorché eletto con il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma una cosa è la sua operatività ordinaria, altra cosa è la riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione, un ridisegno della sua seconda parte (per altro già rinnovata in taluni suoi articoli), per il quale si richiederebbero ben altra autorevolezza e forse un più esplicito mandato da parte degli elettori. Abbiamo la memoria corta: dopo l'esito delle elezioni politiche del 2013, dalle quali non è sortita una maggioranza, era opinione unanime che si dovesse dare vita a un governo istituzionale che portasse entro un anno a nuove elezioni, non a governi o a una legislatura costituenti; 3) metodo. È profilo cruciale. Le revisioni costituzionali sono materia parlamentare per eccellenza. Nel nostro caso, l'intero processo è stato ideato, gestito, votato dal governo, per altro facendo appello a motivazioni giuste ma francamente incongrue rispetto alla portata della riforma quali la riduzione dei costi. Un protagonismo esorbitante e improprio del governo, non privo di gravi conseguenze. Tra le quali quella di non giovare al fine di raccogliere una maggioranza larga, quale si conviene alla riscrittura della Legge fondamentale della Repubblica; quella inoltre di smentire il solenne impegno a non ripetere l'errore del passato di riforme varate da una stretta maggioranza di governo; quella infine di porre l'ennesimo, insidioso precedente foriero di altri futuri strappi da parte di maggioranze politiche contingenti, in un tempo che ci suggerisce di non escludere, per il futuro, governi dal segno illiberale. E ancora: quella di porre le premesse per un referendum costituzionale il cui oggetto slitta dal quesito di merito formale al quesito implicito sul sì o no al governo, dunque un plebiscito. Anche a motivo della non omogeneità dell'oggetto, come prescrive la giurisprudenza costituzionale e, prima ancora, l'art. 138 la cui "ratio" chiaramente sottintende revisioni mirate e puntuali;
4) il merito. In estrema sintesi, la nostra opinione è che la riforma non riesca a perseguire gli obiettivi dichiarati: di semplificazione e di conferimento di efficienza e di efficacia al sistema istituzionale. Più specificamente, essa disegna un bicameralismo confuso - va da sé che siamo favorevoli al superamento del bicameralismo paritario - nel quale il Senato, privo per altro di adeguata autorevolezza e rappresentatività, rischia semmai di costituire un ulteriore ostacolo al processo decisionale (davvero si pensa che il problema sia quello di fare più celermente nuove leggi, anziché quello di farne meno e di scriverle meglio?); un procedimento legislativo farraginoso e foriero di conflitti; un Senato la cui estrazione locale mal si concilia con le rilevanti competenze europee e internazionali affidategli; una esorbitante ricentralizzazione nel rapporto Stato-regioni che revoca il principio/valore delle autonomie ex art. 5 della Carta (paradossalmente ignorando l'esigenza di ripensare le regioni ad autonomia speciale); una complessiva alterazione degli equilibri, delle garanzie e dei bilanciamenti di cui si nutre il costituzionalismo tutto a vantaggio del governo, un vantaggio ulteriormente avvalorato dall'Italicum; il conferimento ai futuri consiglieri regionali e sindaci senatori dell'istituto dell'immunità sino a oggi riservato ai soli rappresentanti della nazione in senso proprio;
5) elettività dei senatori. Nell'ultimo e decisivo passaggio della riforma al Senato la questione più dibattuta fu quella della sua elettività, motivata in ragione delle competenze ad esso assegnate - dalle leggi di revisione costituzionale alla materia comunitaria sino alla ratifica dei trattati internazionali - che palesemente presuppongono senatori eletti direttamente dai cittadini in quanto fonte della sovranità nazionale. Ne è sortita una elaborata mediazione sul testo che di fatto rinvia la questione a una legge elettorale (del Senato) ordinaria di attuazione. Sul punto, vi fu l'intesa di fare precedere il referendum costituzionale da un impegnativo atto politico se non dalla messa a punto di una bozza di tale legge attuativa, della quale non si ha più notizia. Rilasciando così nell'incertezza la cruciale questione della elettività dei senatori;
6) infine una ragione politica, che riguarda il PD e, più complessivamente, l'evoluzione del sistema politico. Non è un mistero che, anche a motivo della impropria drammatizzazione politica della questione, si attende il referendum come uno spartiacque. Al punto che vi è chi rappresenta il fronte del sì come il laboratorio di uno schieramento o addirittura di un partito che muova dal PD, ma che vada oltre il PD. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che si concepisce come alternativo alla destra e alla sinistra. Una prospettiva, per noi, tre volte sbagliata: perché snatura il confronto referendario; perché allontana il sistema politico dalla fisiologia di una competizione tra centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle; perché altera il profilo costitutivo del PD quale partito di centrosinistra, ancorché non presuntuosamente autosufficiente, nel solco dell'Ulivo. Quel profilo e quell'assetto che, alle recenti amministrative, nel quadro di una bruciante sconfitta, ha consentito al PD di vincere la partita a Milano.
La nostra posizione per il no può riuscire utile sotto un altro, decisivo profilo. Quello delle gestione delle conseguenze a valle di una eventuale bocciatura della riforma. Il nostro è un no di merito alla riforma. La circostanza che anche elettori e militanti del PD possano avere contribuito al no non autorizzerebbe a stabilire un improprio automatismo: no alla riforma=crisi di governo. Qualcuno di sicuro lo sosterrà, anche perché, non certo noi, ma il premier, sbagliando, ha contribuito ad avvalorare tale tesi.

Un automatismo che noi contestiamo, con il nostro no, rigorosamente distinto dal no al
governo, che, lo ripetiamo, esula completamente dalle nostre intenzioni.

Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti,
Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco


2016/07/16

I muri del commercio mondiale



La Brexit, l'ascesa di Trump, le tentazioni protezioniste di Hillary Clinton, l'arenarsi del TPP e del TTIP, i due grandi trattati commerciali promossi da Obama con i paesi del Pacifico e dell'Atlantico, lo svanire del WTO, il rifiuto europeo di concedere alla Cina lo status di economia di mercato che ne avrebbe agevolato le esportazioni. La lista dei campanelli d'allarme sulla salute della globalizzazione è lunga, ma decretarne il tramonto è prematuro. E' cambiata certamente la narrativa della globalizzazione. 

Da fenomeno che vede tutti vincitori - i capitalisti che hanno più occasioni di investire, i consumatori dei paesi ricchi che spendono meno per i loro consumi, i lavoratori dei paesi emergenti che vedono crescere i loro redditi - ad una situazione in cui i perdenti ci sono: le classi medie dei paesi ricchi che hanno visto frenare drammaticamente la crescita dei loro redditi reali. Ma i grandi motori dell'integrazione globale continuano a girare: dalla crescita esponenziale dei flussi di dati via Internet alle "catene di valore", cioè le produzioni integrate sparse su vari paesi che ormai occupano i tre quarti delle esportazioni mondiali.

O invece no? Quando Jeff Immelt, il boss di General Electric, una delle più grandi multinazionali mondiali suggerisce che la strada futura è la localizzazione delle produzioni sembra indicare che le grandi aziende hanno fiutato una svolta che alle grandi istituzioni economiche mondiali è sfuggita. In un saggio apparso su Voxeu, due studiosi, Simon Evenett e Johannes Fritz la sintetizzano così: il commercio mondiale non sta rallentando. Si è puramente e semplicemente fermato. E questa frenata coincide con una recrudescenza di misure protezionistiche.

Per il 2015, World Bank, FMI, WTO stimano tutti una crescita del commercio mondiale fra il 2,8 e il 3,1 per cento. Ma i dati (a consuntivo) dell'olandese World Trade Monitor indicano invece che non è aumentato affatto. Anzi, è un po' diminuito. Evenett e Fritz sostengono che il volume del commercio mondiale non si schioda dal livello raggiunto nel gennaio 2015, e questo vale per export, import, paesi avanzati e paesi emergenti. Un ristagno lungo 15 mesi - osservano - tranne che nelle vere e proprie recessioni non si era mai visto dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Ma questo vale anche per il valore del commercio mondiale? 

In altre parole, non è che il crollo dei prezzi delle materie prime (petrolio in testa) e la contemporanea rivalutazione del dollaro (la valuta in cui vengono quotate) basta a spiegare la frenata complessiva del commercio? No, rispondono Evenett e Fritz. I prezzi delle materie prime, a fine 2015, erano in ripresa, quelli dei semilavorati sono caduti tutto l'anno. Per beni d'investimento e di consumo i prezzi sono scesi per la prima parte del 2015 e lì sono rimasti. Insomma, petrolio e dollaro sono solo un pezzo della spiegazione.

Qual è l'altro pezzo? Secondo lo studio, i prodotti che hanno subito la maggiore caduta sono quelli che si sono scontrati con crescenti barriere protezionistiche. Il censimento fatto da Evenett e Fritz dice che il numero delle misure protezioniste nel mondo è cresciuto del 50 per cento fra il 2014 e il 2015. Che per ogni liberalizzazione ci sono state tre nuove misure antistranieri e che il 2016 si presenta peggio del 2015. Colpa dei paesi piccoli e deboli? 

Niente affatto, oltre l'80 per cento delle iniziative protezionistiche del 2015 sono opera dei paesi del G20. Lo studio dice anche che la natura di queste iniziative sta cambiando. Prima erano soprattutto dazi, sussidi e finanziamenti alle aziende nazionali. Adesso, si diffonde la pratica di imporre agli investitori di rifornirsi sul mercato nazionale. "Buy local", insomma, come sembra aver capito Immelt. 

Per la Gran Bretagna, che si trova fuori dall'ombrello europeo, la Brexit non poteva arrivare nel momento peggiore. Ma si preparano tempi duri per tutti i grandi esportatori, come Germania e Italia.

globalizzazione, eurobarometro, commercio mondiale

Da un articolo pubblicato su Repubblica.it del 16/07/2016

2016/04/08

CHI FINANZIA IL TERRORISMO?


Pasqua di sangue per i cristiani morti a Lahore, in Pakistan, vittime già dimenticate – insieme a molti musulmani – di una violenza cieca ed assurda. Il moltiplicarsi degli attentati nel mondo e la presenza dell’ISIS in molti paesi pone però anche il problema a livello internazionale su chi e come si finanzia il terrorismo. 

In questo senso se l’Italia è stata per ora immune da attentati di grande visibilità vi sono però indizi dell’esistenza di focolai terroristici in Italia, in particolare a Milano, che dovrebbero far riflettere non solo gli specialisti di finanza nei servizi segreti italiani. 

Come sottolinea da tempo Giuseppe Pennisi in una serie di interventi su “Avvenire”, “Formiche” e “Sussidiario” si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate del terrorismo in Europa (e in Italia in particolare, a ragione dell’ entità del sommerso nel Pil). Quando il terrorismo era di matrice Al-Qaeda, si parlò a lungo di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso si annida in una rete articolata e molto diffusa dietro il paravento di fondazioni e associazioni islamiche ufficialmente a scopo caritatevole. 

Ciò non vuol dire che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume del terrorismo, ma che spesso attorno alle moschee più radicali si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste, ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. Le fonti principali erano e sono però ancora i Paesi arabi, “amici” (anche se formalmente alleati con l’Occidente) che supportano queste fondazioni (a volte in quanto integralisti, a volte perché sotto ricatto). In questo senso – sottoliea ancora Pennisi - la riunione annuale della World Islamic Banking Conference (l’ultima si è svolta lo scorso dicembre a Manama, capitale del Bahrain), è una sede importante di raccordo in cui tra una preghiera e l’altra e tra un tè e l’altro, si parla d’affari. 

L’associazione conta ben 32 istituzioni bancarie islamiche e da anni è sede dei più importanti organismi internazionali per lo sviluppo della finanza islamica nel mondo: l’Aaoifi, che promuove standard unici per i principi contabili e di governance per le banche che seguono la sharia; il Lmc che sviluppa un mercato interbancario islamico; l’Iifm dedicato alla integrazione di un mercato di capitali del mondo islamico. Alla riunioni non mancano banchieri e consulenti finanziari occidentali, esclusi però dalle sessioni a porte chiuse dedicate agli “impegni” per le fondazioni “culturali” (e non solo) di proselitismo e di difesa dei valori della sharia.

Già dieci anni fa un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica avrebbe documentato che una buona parte dei 3 miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein già depositati in banche estere soprattutto in Siria, Libano e Giordania sono finiti non si sa dove e che queste risorse finanziarie erano state accantonate sia per il supporto alla guerriglia in Iraq sia per finanziare il terrorismo. 

Molte cose nel frattempo sono cambiate: il Califfato dispone oggi di riserve petrolifere e di greggio destinato al mercato nero in Occidente e in Estremo Oriente. Quindi è abbastanza autosufficiente per le proprie esigenze “statuali” (chiamiamole così) e per le forze armate. Inoltre, le “cellule” sparse in Europa operano con “terrorismo lowcost”. Si stima che la strumentazione terroristica per gli attentanti a Parigi abbia avuto un costo di 20.000 euro e quella per gli attentati a Bruxelles di 15.000 euro; li si finanzia con la questua nelle moschee (un crowfunding terroristico), con lo spaccio di droga e con il “pizzo” in certi quartieri (come potete immaginare anche a Bruxelles...). 

Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamikaze reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele) dove giovani musulmani esaltati, cresciuti negli Usa o in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto), ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà, la democrazia e il mercato rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. 

Ciò spiega la scelta di terroristi istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccidio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione. Dobbiamo renderci conto che il contenimento del terrorismo è un “dovere pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale.

Dopo le risoluzioni Onu anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. Ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano ma questo significa anche una necessaria e ben maggiore vigilanza bancaria. 

Si sente spesso questa frase in tempi di lotta al terrorismo:

Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani.

Sappiate che si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed che all’epoca dell'intervista di Oriana Fallaci era direttore della televisione Al Arabiya e futratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”.

2016/02/21

Maro', 4 Anni!


Il 19 febbraio sono trascorsi esattamente QUATTRO ANNI da quando i nostri due marò sono bloccati dalla “giustizia” indiana. Quattro anni di privazione preventiva della libertà senza neppure che a oggi siano state formulate contro di loro delle accuse chiare e circostanziate, un capo d’accusa e tantomeno si sia svolto un processo.

E’ inaudito che l’Italia si stia facendo prendere in giro in questa maniera non solo dopo aver svenduto ogni credibilità internazionale, ma soprattutto dopo essere stata fatta fessa per quattro anni da governanti indiani evidentemente molto più astuti dei nostri responsabili politici.  

Basta, per favore,  con i belati di certe fanciulle che – come la Mogherini – due anni fa ci raccontarono “Li riporteremo a casa”: questa è una vergogna mondiale che a causa di politici incompetenti sta coprendo di ridicolo il nostro paese. 

Immaginatevi se gli indiani avessero sequestrato due militari statunitensi, russi od israeliani! Ma noi ci siamo abituati a tutto, non abbiamo un minimo di spina dorsale, di decisione… per questo già sappiamo già che finirà debitamente insabbiata e nel nulla anche l’inchiesta sul nostro connazionale ucciso recentemente al Cairo. 

2015/10/11

Ipocrisia



La London University ha deciso: non avrà più alcun legame accademico con i colleghi israeliani per protestare contro l’occupazione dei territori palestinesi. Anche il comune di Reykjavik – capitale dell’Islanda – boicotterà Israele e i suoi prodotti agricoli e industriali per lo stesso motivo. 

Siamo veramente alla follia: si potrà criticare tutto di Israele tranne che sia l’unica democrazia vera del Medio Oriente eppure questi saccenti soloni “democratici” non sollevano il problema degli assassini del Califfato e dell’ISIS, le norme barbare della Jihad islamica, gli attentati di Al Quaeda, le distruzioni di Palmira o in Iraq, le decapitazioni in Arabia Saudita e le impiccagioni in serie in Iran, le condizioni della donna dal Pakistan alla Nigeria, oppure i vari regimi stile Corea del Nord in giro per il mondo…no, i “cattivi” di questo mondo sembrano solo gli israeliani. 

Chissà se in Islanda sanno che il loro boicottaggio includerà quindi anche i parlamentari arabi liberamente eletti alla Knesset, o le imprese ebraiche o palestinesi che operano in Israele con le loro decine di migliaia di lavoratori che proprio solo lavorando in Israele trovano il modo di sfamare le proprie famiglie. Immaginate invece, al contrario, i commenti se a boicottare Israele fosse stata una università o una città tedesca… ci rendiamo conto dell’incredibile cumulo di ipocrisie e di tabù che ci accompagnano ogni giorno?


2015/08/10

Crisi imminente?


Ci sarà un crollo finanziario negli Stati Uniti entro la fine del 2015? Sempre più stimati esperti finanziari stanno avvertendo che siamo proprio sull’orlo di un’altra grande crisi economica. Naturalmente questo non significa che accadrà. Gli esperti hanno sbagliato in passato ma alcuni indizi sembrano suggerire che una nuova crisi finanziaria potrebbe essere alle porte.

I seguenti sono otto esperti finanziari che stanno avvertendo che una grande crisi finanziaria è imminente …

1 Durante un’intervista recente, Doug Casey ha affermato che stiamo andando verso “una catastrofe di proporzioni storiche” …

“Con questi governi stupidi che stampano trilioni e trilioni di nuove unità di valuta”, afferma Casey, ” andiamo verso a una catastrofe di proporzioni storiche “

Doug Casey è un investitore di grande successo a capo della Casey Research

“Non terrei capitale significativo nelle banche”, ha detto. “La maggior parte delle banche del mondo sono in bancarotta.”

2 Bill Fleckenstein avverte che i mercati degli Stati Uniti potrebbe affrontare delle ‘calamità’ nei prossimi mesi …

Bill Fleckenstein ha correttamente previsto la crisi finanziaria nel 2007,

3 Richard Russell ritiene che la crisi che sta arrivando “farà a pezzi il sistema economico attuale” …

Dal mio punto di vista, questo è il periodo più strano che ho vissuto dal 1940.

4 Larry Edelson è “sicuro al 100%” che avremo una crisi finanziaria globale “entro i prossimi mesi” …

” Il 7 ottobre 2015, il prima superciclo economico dal 1929 innescherà una crisi finanziaria globale di proporzioni epiche . Porterà l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti in ginocchio, e quasi un miliardo di esseri umani sulle montagne russe per i prossimi cinque anni. Una corsa che nessuna generazione ha mai visto. Sono sicuro al 100% che colpirà nei prossimi mesi . “

5 John Hussman avverte che le condizioni di mercato che stiamo osservando in questo momento si sono verificate solo in pochi momenti chiave in tutta la nostra storia …

“Guardate i dati e vi renderete conto che le nostre preoccupazioni attuali non sono esagerazioni. Semplicemente non abbiamo osservato le condizioni di mercato che osserviamo oggi, tranne che in una manciata di casi nella storia del mercato, e le cose sono andare piuttosto male”

6 Nel corso di una recente apparizione sulla CNBC, Marc Faber ha suggerito che il mercato azionario degli Stati Uniti potrebbe presto perderà fino al 40 per cento …

7 Henry Blodget suggerisce che il mercato azionario americano potrebbero presto perdere fino al 50 per cento …

8 Egon von Greyerz ha recentemente detto che stiamo andando verso “una storica distruzione della ricchezza” …

Ci sono più aree problematiche al mondo che situazioni stabili. Nessuna nazione importante in Occidente può rimborsare i propri debiti. Lo stesso vale per il Giappone e la maggior parte dei mercati emergenti. L’Europa è un esperimento fallito. La Cina è una bolla enorme, in termini di mercati azionari,mercati immobiliari e sistema bancario ombra. Gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo e hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per oltre 50 anni.

Così vedremo l’esplosione di due bombe gemelle: una del debito da 200 trilioni di dollari e una di derivati da 1,5 quadrilioni che porterà ad una storica distruzione della ricchezza, con i mercati in calo di almeno 75-95 per cento. Il commercio mondiale si contrarrà drammaticamente e vedremo un enorme disagio in tutto il mondo.

Hanno ragione? Lo sapremo presto.

2015/07/21

... bambini che muoiono di fame

Fotografia di Patrizia Masuri


Sono così educati i bambini che muoiono di fame:

non parlano con la bocca piena, non sprecano il pane,

non giocano con la mollica per farne palline,

non fanno mucchietti di cibo sul bordo del piatto,

non fanno capricci, non dicono: “Questo non mi piace!!”,

non arricciano il naso quando si porta in tavola qualcosa,

non pestano i piedi a terra per avere caramelle,

non danno ai cani il grasso del prosciutto,

non ci corrono tra le gambe, non si arrampicano dappertutto…

hanno il cuore così pesante, e il corpo così debole, che vivono in ginocchio…

per avere il loro pasto, aspettano buoni, buoni…

qualche volta piangono, quando l’attesa è troppo lunga…

No, no, state tranquilli, non grideranno, non ne hanno più la forza: 

solo i loro occhi possono parlare…

incroceranno le braccia sul ventre gonfio, 

si metteranno in posa per fare una bella foto…

moriranno piano piano, senza far rumore, senza disturbare…

Quei bimbi lì…sono così educati.

Si, sono così educati i bambini che muoiono di fame…


--Roberto Clandestino--

2015/07/16

La bomba atomica in Iran

L'Iran avrà la promessa bomba atomica. L'accordo firmato è un'elegante beffa gestita con pazienza e capacità ("abbiamo trattato a lungo, ha detto il capo delegazione iraniano Zarif, e siamo riusciti ad affascinare l'Occidente"): le ispezioni programmate con un mese d'anticipo e rifiutabili da una commissione sono uno scherzo; dieci o quindici anni di tempo ridicoli rispetto alla possibilità successiva di armare la bomba atomica sotto gli occhi di tutti; l'apertura al mercato delle armi in cinque anni esteso a otto per i missili balistici; la diluizione dell'uranio già arricchito e il basso arricchimento sono assurdi quando si resta in possesso di 6000 centrifughe e degli impianti "sperimentali" e "medici" che possono trasformarsi. L'Iran era in grado di mettere in funzione una bomba atomica in due mesi; adesso gli ci vorrebbe un anno. In sostanza, è evidente che quello che deve giocare qui è la fiducia fra le parti, l'idea che l'Iran vuole davvero fermare la corsa al nucleare. 



Ma l'Iran vuole solo che entrino nelle sue casse i 1500 miliardi di dollari delle sanzioni che nel giro di un anno andranno a rimpinguare le casse che finanziano gli Hezbollah per occupare il Libano e difendere Assad, gli Houti che si sono impossessati dello Yemen, le Guardie della Rivoluzione di stanza in Iraq. Serviranno anche a finanziare le imprese terroristiche in cui l'Iran è campione in tutto il mondo e a rafforzare i Basiji, la milizia che tiene il suo tallone su un Paese sofferente non solo per la miseria. La legge shariatica prevede l'impiccagione degli omosessuali, e nelle campagne ancora si incontra la lapidazione, nei tribunali la donna vale metà; si chiudono i giornali e i giornalisti vanno in galera. Ma come si fa a fidarsi, come fa Obama, di un accordo con un Paese che per vent'anni ha trattato tirando in lungo per seguitare ad arricchire l'uranio mentre illudeva l'interlocutore che l'accordo fosse dietro l'angolo?

Durante le trattative dell'EU3 (Inghilterra, Francia e Germania) a Teheran nel 2004, il presidente Rouhani, allora capo dei negoziatori, ha poi detto ai giornalisti iraniani rivendicando il ruolo di costruttore del nucleare: "Coi colloqui siamo riusciti a provvedere il tempo necessario per completare il lavoro a Ishfahan “una centrale importante" così il mondo fu costretto a capire che l'equazione era del tutto cambiata". Rouhani portò il numero delle centrifughe da 164 a 1500, ora restiamo con le seimila della trattativa. E l'Iran, lentamente perché deve pagare un pedaggio per le sanzioni, può seguitare a guadagnare tempo nella sua marcia verso il nucleare, l'egemonia sciita nel mondo islamico, l'egemonia islamica nel mondo occidentale. 

Senza peli sulla lingua: allora tanto vale cercare anche un accordo con l'Isis, perché no? Chiediamogli di presentarsi con educazione a Vienna e trattiamo: non dovranno rinunciare né alla sharia né alla guerra per il califfato ma per dieci anni lascino terrorismo e taglio delle teste; in cambio, stabiliremo un'ambasciata a Raqqa e consentiremo grandi transazioni economiche, petrolifere e commerciando nei reperti archeologici. I barbuti col turbante, pure selvaggi, tuttavia non sono meno determinati a imporre sul mondo l'egemonia islamica, solo la guardano dal punto di vista sunnita, e non sciita.

Noi europei e americani ("occidentali" è una parola ormai senza senso) non ascoltiamo mai perché siamo poco seri: se malediciamo qualcuno, se lo minacciamo di morte domani cambieremo idea, qualcuno ci vedrà presto a braccetto col nostro nemico a prendere un caffè. Inoltre, noi non ricordiamo la nostra storia: non sappiamo più molto, noi europei, delle guerre che ci hanno contrapposto, del desiderio di divorarci che ha posseduto a turno i nostri Paesi finché la Germania ci ha battuto tutti col nazismo, non ricordiamo altro che il recente irenico desiderio di pace, seppelliamo sotto la sabbia l'odio e il rancore per comodità e per superficialità. 

L'Islam non è come noi, ricorda e sa: l'Iran sa la storia sciita e prima ancora quella dell'Impero persiano. Tre giorni fa, subito prima dell'accordo col P5+1 una enorme piazza con la guida suprema Khamenei gridava "Morte all'America" e "distruggeremo Israele". Il suo urlo di piazza deve essere inteso in forma estesa, include anche noi, ed è serio. Quando Khomeini, il grande ayatollah esiliato a Parigi tornò in patria nel 1979 a fare la rivoluzione, gli chiesero cosa sentiva tornando in Iran. Rispose "Niente". Era vero: non era l'Iran che gli interessava ma la grande rivoluzione islamico sciita che avrebbe portato, come ha spiegato più volte, a tutto il mondo. 

Questa grande guerra avrebbe portato il Mahdi a salvare la Terra, sarebbe giunta la fine dei tempi e la redenzione, come pensa lo shiita credente. Con l'Iran proprio come con l'Isis, non si cerca di evitare il "MAD", Mutual Assured Distruction che la Guerra Fredda gestì fra Russia e America evitando che ci ammazzassimo tutti. Al contrario, per far giungere il Mahdi, e Ahmadinejad furioso antisemita e antiamericano lo ripeté anche all'ONU, bisogna creare il caos, non lo si deve evitare. La nuclearizzazione è l'arma migliore per farsi padrone di Gog e Magog, e per questo l'Iran l'ha scelta.

2015/03/06

Noi e la Libia

Bisogna essere molto cauti nell’intraprendere qualsiasi azione armata ma non è neppure possibile far finta di niente, subire, non reagire, come stanno facendo in queste settimane l’Italia e l’Europa davanti al caos libico mentre l’ONU sostanzialmente decide di non fare nulla e aspettare gli eventi

D'altronde i fatti di Libia sono anche conseguenze di una politica scellerata nei confronti di Gheddafi qualche anno fa. Francia e USA ne portano per primi la responsabilità, ma come molto spesso succede “non pagano dazio”.

Ma alcune cose si possono fare, subito, davanti all’offensiva dell’ISIS cominciando per esempio a distruggere sistematicamente – vuote! – tutte le imbarcazioni e i gommoni che trasportano i disperati. Lo si è fatto a suo tempo in Albania e si può farlo anche in Libia, perché si sa benissimo da dove partano i viaggi dei novelli schiavisti e questo deve avvenire preventivamente sulla costa oppure un minuto dopo l’avvenuto trasbordo dei clandestini 

Se non lo si fa è perché non si ha il coraggio o la possibilità di farlo e la brutta figura della nostra motovedetta disarmata che deve restituire il gommone a tre tagliagole offende il buonsenso prima ancora della dignità nazionale. 

Se i migranti non sono più una questione umanitaria ma innanzitutto un ricatto politico non lasciamoci ricattare: se si sparge la voce in tutto il Nordafrica che il mare non lo si può più attraversare diminuiranno i passaggi ma se – come oggi – si strombazza in TV che tutti vengono raccolti è ovvio che il traffico si moltiplica.

L’Italia – minacciata direttamente - alzi inoltre finalmente la voce a livello internazionale CON ATTI CONCRETI perché è la Sicilia a due passi dalla Libia, non a Berlino o Parigi.

Per esempio l’Italia rimpatri (o minacci di rimpatriare) SUBITO tutte le nostre presenze militari all’estero, dall’Afghanistan al Libano al Kossovo. Sospendiamo il pattugliamento internazionale in Oceano Indiano (tanto vediamo cosa succede, per ringraziamento, ai nostri due Marò…) e per protesta si lascino tutte le missioni “di pace” (spesso quasi inutili o diventate marginali) e vedrete che qualcuno si sveglierà.

Cominci intanto a dimettersi contro l’ignavia europea anche la “ministro nulla” ovvero la signora Federica Mogherini che sta solo “nella vigna a far da palo” e conta meno di zero a livello europeo, e lo si è visto per la Libia così come per l’Ucraina. 

Un po’ di nerbo, santiddio, non la solita poltiglia italiana che ci fa ridere dietro a livello internazionale!

2014/11/13

Alibaba lost the forty thieves


It is ironic that on November 11, the day the West looked backwards and remembered World War I, China looked forward and was open for business. Wide open. November 11, a day carved from the calendar by Alibaba to kickoff the largest shopping season of the year, has not just become the world’s biggest online commerce event of the year but now tops the business done on both Black Friday and Cyber Monday in the United States.

The November 11 shopping frenzy is a reminder of the astonishing progress of huge chunks of China’s technology industry. In one generation many segments of China’s technology industry have achieved what took a century in Silicon Valley.

Western xenophobes will protest that this is due to the Chinese theft of intellectual property and protective regulation – an attitude sadly captured by Vice President Biden in a recent speech when he said to his audience, “I challenge you, name me one innovative project, one innovative change, one innovative product that has come out of China.” If the Vice President had spent more time in China he would realize the country teems with creative entrepreneurs and can also justly lay claim to housing not one, but four, Silicon Valleys.

The best Chinese entrepreneurs – Jack Ma, Pony Ma, Hongyi Zhou, Robin Li, Richard Liu, Lei Jun, Eric Shen and Charles Cao (to name but a handful) - demonstrate the same flair for combining innovation, opportunism and intuition as the bold names of the Western technology universe. However, they, and their companies, are much better positioned for the next twenty-five years than their Western counterparts even though many in China still harbor an absurd inferiority complex for developments in the United States.

Western technology leaders who take the time to travel to China to learn will be richly rewarded and will return with a basketful of ideas for new products, business models and management techniques. Many in Silicon Valley – despite the conclusive evidence and deafening hoopla of Alibaba’s IPO - still have a hopelessly outdated view of China. They are in for a shock.

Chinese companies will do far better outside their borders than the U.S. counterparts will do in China. This has much less to do with regulations than it does with culture and attitude. Most of today’s Chinese entrepreneurs – particularly those raised in the large cities - had ten years of English instruction at school and eagerly devoured Hollywood movies. Not too many American entrepreneurs can pretend to possess the same familiarity with China and what should be an opportunity appears hopelessly intimidating and mysterious. It is just very hard for foreign entrepreneurs, no matter how talented, to design software and systems that demand intimate knowledge of local customs and habits.

Today’s Chinese have other huge strengths. Any entrepreneur who can survive, let alone prosper, in the most competitive business environment in the world, is in great shape to take on even the best-trained, foreign contender. Add to this the memories of privation and dark times that still loom large in the psyche of the current generation of Chinese entrepreneurs and there is an inexhaustible quest for work. Name one sizeable Silicon Valley company that operates 12/7 – the Chinese shorthand for twelve hours a day, seven days a week.

This year, Beijing’s celebration of November 11 was particularly striking. Not only were retail sales larger than ever, but the gathering of world leaders for the APEC meeting prompted a characteristic Chinese orchestration of events. Factories have been closed, many government workers have been given a six-day holiday and stiff driving limits are being enforced. The result: temporarily clear skies that allow, anyone who cares to look, a sharper view of many of the world’s best technology companies.