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2020/11/27

Vaccinarsi conviene?




Tutto quello che non quadra nelle sperimentazioni nell'atto d'accusa della prestigiosa rivista britannica
Un atto d'accusa durissimo alla sperimentazione dei vaccini anti-Covid. Partito non da un blog di no-Vax, bensì dal British Medical Journal, una delle riviste che - assieme a Lancet - si contende la palma di vera e propria bibbia della scienza.

A firmalo è l'editore associato Peter Doshi, che si chiede quanta attendibilità possano avere i roboanti annunci fatti in serie da Pfizer, Moderna e Astrazeneca sull'efficacia dei propri ritrovati. Annunci che, a prima vista, sembrano davvero autorizzare all'ottimismo - con percentuali di efficacia dei vaccini oltre il 90% dei casi - ma che, se si analizza la questione più in profondità, lasciano perplessi i protagonisti della comunità scientifica.

Non c'è solo il caso Astrazeneca a preoccupare il British Medical Journal. Certo, la vicenda del dosaggio sbagliato potrebbe essere la spia di una sperimentazione non immune da altri errori, magari dettati dalla fretta di arrivare al risultato finale. Ma la prestigiosa rivista settimanale inglese getta un'ombra anche sui due prodotti americani. Accusati, in particolare, di aver adottato una politica di scarsissima trasparenza sui dati. Proferendo annunci che, oltre a creare una grande aspettativa in un mondo messo in ginocchio dall'epidemia da Coronavirus, mettono anche una grande pressione sulle autorità che poi dovranno validare definitivamente i vaccini prima della loro diffusione.

Ma quali sono i dati che mancano? Innanzitutto specifiche maggiori sul campione che si è sottoposto alla sperimentazione. Per dire, niente è trapelato sull'efficacia dei farmaci in alcune sottocategorie importanti, ad esempio gli anziani fragili. Inoltre, ancora non si sa delle prestazioni del vaccino a 3, 6 o 12 mesi. La percentuale di efficacia dei vaccini influenzali, invece, viene calcolata in base alla durata del periodo di copertura: una stagione. Nè, infine, si sa ancora se una persona vaccinata, oltre a non sviluppare i sintomi più gravi del Covid, è o meno in grado di contagiare gli altri.

Ma, al di là di queste problematiche che erano in parte già state evidenziate dalla comunità scientifica, Peter Doshi scende ancora più nel dettaglio. Innanzitutto, gli effetti collaterali. "Il comunicato stampa di Moderna - scrive Doshi - afferma che il 9% (del campione, ndr) ha sperimentato mialgia di grado 3 e il 10% affaticamento di grado 3; La dichiarazione di Pfizer ha riportato che il 3,8% ha sperimentato stanchezza di grado 3 e il 2% mal di testa di grado 3".

Poca roba? Non proprio. "Gli eventi avversi di grado 3 sono considerati gravi" spiega l'editore associato del British Medical Journal. Ma, riguardo gli effetti collaterali, c'è un problema molto più latente. In molti casi, infatti, essi assomigliano ad alcuni dei sintomi del Covid (lieve febbre, stanchezza, dolori muscolari). Per essere sicuri che le persone del campione che avessero mostrato questi sintomi non fossero in realtà positive al Covid, sarebbe stato necessario sottoporle tutte ai test. Ma davvero tutte le persone con un sospetto Covid sono state sottoposte a un tampone di conferma? Questa è un'altra informazione cruciale senza la quale è impossibile stimare la reale percentuale dell'efficacia del vaccino. Se alcune delle persone con presunti effetti collaterali del vaccino avesse in realtà i sintomi del Covid, quel famoso 90% di efficacia si abbasserebbe sensibilmente. "I protocolli di prova per gli studi di Moderna e Pfizer - scrive Doshi - contengono un linguaggio esplicito che istruisce gli investigatori a usare il loro giudizio clinico per decidere se indirizzare le persone per i test". Un'implicita ammissione che i tamponi non vengono fatti a tutti i protagonisti della sperimentazione, ma solo alle persone per le quali i medici lo ritengono necessario.

"Solo la piena trasparenza e il controllo rigoroso dei dati consentiranno un processo decisionale informato. I dati devono essere resi pubblici" conclude Doshi, gettando un'ombra non indifferente sull'intera vicenda. E non finisce qui, perché sullo stesso numero della rivista compare un appello firmato da quattro scienziati di tutto il mondo (lo spagnolo Jose M Martin-Moreno, il britannico John Middleton, l'israeliano Manfred S Green e Mohamud Sheek-Hussein degli Emirati Arabi) che chiedono alle multinazionali del vaccino di mettere in condivisione tutti, ma proprio tutti i dati relativi alla propria sperimentazione. Lasciando che a dare il giudizio finale sia l'Organizzazione Mondiale della Sanità. L'unica, per prestigio e indipendenza, a poter mettere il timbro di validità su una vicenda dai contorni ancora troppo poco chiari.

2020/11/25

Addio Pide de Oro!


Diego Maradona è morto oggi 25/11 a causa di un arresto cardiocircolatorio nella sua casa di Tigre, in Argentina, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l'intervento chirurgico alla testa di qualche settimana fa. Preferisco ricordarlo così, giovane e vittorioso. Addio campione, riposa in pace.


Quante vite dentro una vita che non c’era già più. Quante volte si è perso Diego, quante volte l’avevamo perduto, anche di vista. Maradona ricoverato, Maradona ingrassato, Maradona operato, Maradona tossico, Maradona dopato, Maradona alcolizzato, Maradona disintossicato. E poi, ancora, Maradona con il bypass gastrico per salvarlo dalla bulimia (2005) una prima e una seconda volta (2015). Maradona e la cocaina, Maradona e l’efedrina, Maradona che sforna figli come gol: le due bambine (Dalma Nerea e Gianinna Dinorah) con la prima e storica moglie Claudia Villafane, poi Diego junior con Cristiana Sinagra, la ragazza napoletana che dovette combattere per anni in attesa che il campione riconoscesse quel figliolo identico a lui, non serviva il test del Dna per dimostrarlo, bastavano un paio d’occhi e una figurina. E poi, ancora, una bambina di nome Jana, avuta da una nuova fidanzata, tale Valeria Sabalaìn, e per chiudere un altro Diego, questa volta un Diego Fernando, figlio (ultimo) di Maradona e Veronica Ojeda. Amori, forse. Ma chi può dire cosa ciascuno porta nel cuore?

La prima vita di Diego resta immortale, e si può dire conclusa nel 1994 quando ai mondiali americani venne trovato positivo all’antidoping. Quel giorno, dopo il famoso urlo nella telecamera che era un ruggito, un barrito, il verso dell’animale tornato re di ogni foresta e di ogni savana, Diego Armando Maradona cominciò la sua morte prolungata come la “rottura” dei cavalli da corsa. Quando si comincia, non si finisce più. Anche di morire, a volte, non si finisce più. Ma se sei stato Maradona, cosa potrai mai essere dopo? Cosa potrai chiedere di più?

Del giocatore, immenso e unico, praticamente una divinità, quasi non vale la pena parlare. Sarebbe ovvio, superfluo. Sarebbe come voler dire chi era Odisseo, chi era Dante Alighieri, chi era Gesù Cristo nostro Signore, chi era Einstein, chi era Renzo Tramaglino. Trasfigurato dalla sua stessa gloria, probabilmente e semplicemente il più grande calciatore di tutti i tempi, Maradona è stato Uno e Due. Uno: il migliore e basta. Due: il perduto, lo smarrito. E questa sua seconda fase, lunghissima e dolente, è forse il miglior modo - sebbene tristissimo - per accompagnare il ricordo di Diego fino a questo epilogo tragico, un colpo di testa ma contro il pavimento e non contro un pallone, l’ematoma, il peggioramento repentino, il ricovero (l’ennesimo), le mani di un chirurgo purtroppo invano, la morte che ci annichilisce tutti.

Ma alzi la mano chi da anni non si aspettava che Maradona facesse una brutta fine, coerente con la sua caduta nel pozzo. Uno scivolamento lento e costante, progressivo e senza tonfi ma ogni volta sempre più giù, sempre più in fondo dove nulla può rischiare il buio, neppure il più bello dei gol, meno che mai la mano de Dios.

La seconda vita (ma era poi vita?) di Diego lo ha visto diverse volte in panchina, tentando una carriera da allenatore piuttosto improbabile: la carriera, e anche l’allenatore. E dire che a un certo punto gli consegnarono addirittura la Nazionale dell’Argentina, a furor di popolo, e Maradona la portò comunque ai quarti di finale di un mondiale, quello in Sudafrica nel 2010, quando l’Albiceleste venne eliminata dalla Germania (e poi, Diego esonerato). Eppure, la ricerca del peggio e del limite, della periferia sportiva e della marginalità agonistica, Maradona l’ha compiuta con animo girovago, cominciando ad allenare persino durante la prima squalifica per doping: eccolo infatti nel 1994 sulla panchina del Textil Mandiyù, squadra argentina ai più sconosciuta.

Una caratteristica, questo semi-anonimato dei club affidati a Dieguito, che proseguirà nel tempo in una serie bislacca che comprende l’Al-Wasli (Dubai), il Fujarah (Emirati Arabi), i Dorados (Messico), fino al ritorno in Argentina ma non certo al River Plate, o meno che mai al suo adorato Boca, semmai alla guida del Gimnasia La Plata. Come intermezzo non meno bizzarro, la presidenza onoraria di un club bielorusso, la Dinamo Brest, frammento di meteora nel firmamento del pallone.

Nulla, di questa sua seconda vita coerente col disastro e lo sperpero di sé, ha avvicinato la meraviglia e l’estasi della sua prima vita. Molti sono stati gli incontri clamorosi, da Fidel Castro a Chavez passando per Menem, ma è sembrato un folclore emotivo, la disperata ricerca di essere ancora qualcosa di unico, di clamoroso. Diego lo ha fatto a cicli, sparendo e riapparendo altrove, una volta più magro e un’altra volta più grasso, una volta biondo ossigenato e un’altra volta totalmente tatuato. Sempre danzando sul confine tra una vita perduta e una morte scontata vivendo, come avrebbe detto il poeta. Però, ragazzi, il poeta era lui.

Fonte: La Repubblica

2020/11/21

Christmas Holidays!



Nel mondo sottosopra plasmato dalla pandemia, con i parametri della normalità saltati o riscritti, anche le agognate vacanze di Natale rischiano di diventare una iattura per gli studenti ansiosi di tornare in classe. Quello che fino all'anno scorso era un traguardo atteso per tirare il fiato dopo i primi mesi di lezioni e interrogazioni, ora verrà sfruttato per prolungare di un paio di settimane la quarantena forzata degli studenti delle scuole superiori (e di seconda e terza media per le regioni rosse).
 
Come scrive Corrado Zunino, anche la ministra Azzolina sembra essersi arresa alla prudenza e non insisterà per un rientro prematuro: la data del 7 gennaio - sempre che la curva dei contagi torni davvero sotto controllo - è ormai la più probabile per sancire la riapertura di licei e istituti. Questo significa un altro lungo periodo di lezioni virtuali, con buona pace dei ragazzi No Dad e della loro voglia di tornare a scuola: un tempo che dovrà servire a risolvere i problemi strutturali evidenziati dall'inizio della seconda ondata, cioè i trasporti pubblici, il tracciamento e le assenze in cattedra.
 
Sull'altro piatto della bilancia ci sono i disagi di una generazione di alunni che porta addosso i segni di questo anno pandemico, con danni psicologici e cognitivi che non possono essere ignorati. Fa riflettere, sul tema, il commento di Chiara Saraceno, che accusa il nostro modello (di governo, di società, di economia) di aver tenuto in considerazione le esigenze e i diritti di tutti tranne che quelli dei giovani e degli studenti, dimenticandosi che il progetto "recovery fund" si chiama in realtà "Next generation". È vero, per loro fortuna gli adolescenti sono meno soggetti ai sintomi gravi del virus e anche quando si contagiano, se la cavano con pochi danni. Ma non per questo si possono continuare a ignorare i danni interiori che la pandemia sta provocando. Vacanze di Natale comprese.
 

2020/11/15

Non sta andando tutto bene!

 


La seconda ondata del covid rischia di essere una replica della prima, solo più cattiva. E non si tratta della violenza del virus, che pure continua a fare paura. Ma dell’animo degli italiani, ormai lontani parenti di quelli che a marzo commossero il mondo cantando dai balconi “andrà tutto bene”.

Nella sola Lombardia, un medico su quattro dichiara di essere stato vittima di discriminazione sociale a causa del proprio impegno contro la pandemia. Quegli stessi camici bianchi che in primavera furono esaltati come eroi, oggi sono emarginati come untori, quando non insultati e minacciati come uccelli del malaugurio per il semplice fatto di denunciare i rischi del contagio e la sofferenza degli ospedali.

E sull’altro fronte, quello dei pazienti, le cose non vanno meglio. Sei mesi fa eravamo tutti chiusi in casa, e a tenerci dentro o a liberarci, tutti insieme, ci aveva pensato il governo. Ora le chiavi della libertà passano spesso dal sistema dei tamponi o dalle Asl, entrambi in crisi da settimane. 
Sono decine, da nord a sud, i racconti dei prigionieri del virus, bloccati in casa non dai sintomi, non dalle diagnosi, ma dalla burocrazia.

Dopo i malati e l’economia, ora la vittima del virus sembra la comunità. Quando la solidarietà salta e le regole non funzionano, resta solo la legge della giungla.