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2021/12/13

Un titolo deciso (anche) a tavolino!

A decidere il risultato finale del campionato mondiale di Formula 1 del 2021, uno dei più combattuti ed emozionanti di sempre, è stato un sorpasso avvenuto a undici curve dal traguardo dell’ultimo Gran Premio dell’anno, che si è svolto domenica ad Abu Dhabi. Una lunga serie di eventi imprevedibili da una parte e di decisioni controverse dall’altra aveva permesso ai due contendenti, l’olandese Max Verstappen della Red Bull e l’inglese Lewis Hamilton della Mercedes, di arrivare a pari punti all’ultima gara e infine di giocarsela all’ultimo giro, letteralmente. Alla quinta curva Verstappen ha superato Hamilton, che era stato più veloce di lui per tutta la gara, e dopo aver mantenuto la posizione ha tagliato per primo il traguardo, vincendo il suo primo titolo in carriera.

L’incertezza riguardo all’esito del campionato è proseguita al termine della corsa, dopo che la Mercedes ha presentato due reclami ai commissari del Gran Premio per presunte violazioni del regolamento sportivo, successivamente respinti (la Mercedes ha annunciato che presenterà appello al Consiglio Mondiale della FIA, la Federazione Internazionale dell’Automobile).

Secondo l’impressione prevalente tra cronisti sportivi, esperti e appassionati di sport motoristici, è difficile – più di quanto lo sia mai stato in passato nella storia della Formula 1 – comprendere e stabilire quanto la spettacolarità del Mondiale del 2021 sia stata frutto di una competizione sportiva più che mai equilibrata e avvincente, e quanto sia stata in parte favorita da applicazioni imprevedibili e incoerenti del regolamento da parte degli ufficiali di gara responsabili delle procedure e della sicurezza in pista.

«Sembrava che a decidere ci fosse Vince McMahon [presidente della più grande federazione americana di wrestling, i cui incontri sono notoriamente organizzati ai fini dello spettacolo]», ha scritto la rivista sportiva The Athletic. Da altri pareri autorevoli – come quelli del caporedattore della Formula 1 per BBC Andrew Benson, del giornalista Jonathan Noble di Autosport e quelli di diversi piloti di Formula 1 in attività – sono emerse perplessità simili in merito alla gestione della corsa da parte del direttore di gara e delegato alla sicurezza in pista Michael Masi, da tempo molto contestato per altre decisioni controverse anche prima dell’ultima gara.

Lewis Hamilton e Max Verstappen sul podio del Gran Premio di Abu Dhabi, il 12 dicembre 2021 (Clive Rose/Getty Images)

Cosa è successo ad Abu Dhabi
Al Gran Premio di Abu Dhabi, l’ultimo dell’anno, Verstappen e Hamilton erano arrivati a pari merito nella classifica dei piloti (369,5 punti), seppur con un leggero ma importante vantaggio per Verstappen, che avendo vinto più Gran Premi rispetto al suo rivale nella stagione 2021 avrebbe vinto il Mondiale in caso di ultima gara senza punti per entrambi i piloti. In altre parole: un eventuale scontro in pista tra i due piloti, senza possibilità di proseguire la corsa, sarebbe stato a vantaggio di Verstappen.

La prima decisione controversa è arrivata al primo giro. Verstappen, partito dalla pole position, è stato superato da Hamilton in partenza ma è riuscito a riavvicinarsi dopo poche curve, e ha quindi tentato un contro-sorpasso alla fine di un lungo rettilineo, all’interno della curva 6, ritardando moltissimo il momento della frenata. Anziché prendere la curva accodandosi alla Red Bull di Verstappen, Hamilton ha tagliato la chicane e mantenuto la prima posizione.

Il team principal della Red Bull Christian Horner ha protestato per la manovra di Hamilton, al quale è stato tuttavia concesso dal direttore di gara di mantenere la prima posizione, senza bisogno di alcuna indagine. Masi ha assunto che Verstappen avesse di fatto costretto Hamilton a lasciare la pista, non lasciandogli a quel punto spazio sufficiente per prendere la curva, e ha spiegato a Horner che il tempo guadagnato da Hamilton tagliando la chicane era poi stato “restituito” da Hamilton attraverso un successivo rallentamento prima della fine del giro, concluso con un distacco di 1 secondo e un decimo tra i due piloti.

Lewis Hamilton davanti a Max Verstappen durante la prima parte del Gran Premio di Abu Dhabi, il 12 dicembre 2021 (AP Photo/Hassan Ammar)

«È stata una decisione veramente al limite del regolamento, in cui entrambe le parti potevano affermare di avere ragione – un’altra situazione esemplare delle scappatoie della Formula 1 che creano incertezza in regole delle corse che sono già tutt’altro che chiare», ha commentato il giornalista sportivo Alex Kalinauckas su Autosport.

Da quel momento in poi, Verstappen non ha avuto altre possibilità di riavvicinarsi a Hamilton, quasi costantemente più veloce del suo rivale per tutta la corsa. Un unico momento di particolare spettacolarità si è verificato dopo la prima tornata di pit-stop, quando Hamilton ha raggiunto il compagno di squadra di Verstappen, il messicano Sergio “Checo” Pérez, al ventesimo giro.

Pérez non aveva ancora effettuato il suo pit-stop e questo gli aveva permesso di passare provvisoriamente al comando della gara. La Red Bull aveva quindi deciso di lasciarlo in pista abbastanza a lungo da farlo raggiungere da Hamilton, che in una complicata e spettacolare serie di tentativi di sorpassi e contro-sorpassi con Pérez ha perso complessivamente 7 degli 8,7 secondi di vantaggio che aveva su Verstappen, prima di riuscire a tornare in prima posizione. Pérez è stato molto apprezzato non soltanto per la bravura mostrata nel difendere la sua posizione ma anche per la sostanziale correttezza delle sue manovre. «Checo è un mito!» ha commentato Verstappen in un messaggio radio alla squadra a quel punto della corsa.

Ma una volta ripresa la prima posizione, Hamilton ha nuovamente riguadagnato un vantaggio rassicurante su Verstappen, dando l’impressione che il gran lavoro di squadra di Pérez non fosse bastato a cambiare la storia del Gran Premio e del Mondiale. Successivamente, al giro 36, Verstappen ha effettuato un secondo pit-stop – imprevisto – per mettere pneumatici nuovi, approfittando tempestivamente di una fase di virtual safety car (un limite di velocità imposto ai piloti per consentire ai commissari di rimuovere dalla pista elementi di pericolo non grave, senza bisogno dell’ingresso della safety car).

A causa del rischio di perdere la prima posizione su Verstappen e di non riuscire poi a superarlo di nuovo, Hamilton non si è invece fermato per un secondo pit-stop ed è rimasto in pista, arrivando a ottenere un vantaggio complessivo di 16,4 secondi su Verstappen all’inizio del 38° dei 58 giri di pista previsti. E nonostante montasse pneumatici più “vecchi” di 24 giri rispetto a quelli di Verstappen, Hamilton è sembrato rimanere in controllo della gara, gestendo il margine di vantaggio in funzione dell’ottimizzazione della durata delle gomme.

A quel punto Verstappen avrebbe dovuto guadagnare 0,8 secondi al giro, per avere speranze di raggiungere e superare Hamilton, ma non riusciva a guadagnarne mediamente più di 0,3 al giro. «Non lo avrei mai preso, andavano troppo più forte, oggi», ha poi detto alla fine della gara commentando quella fase.

La svolta nel Mondiale
A 5 giri dalla fine del Gran Premio, il pilota della Williams Nicholas Latifi, in ultima posizione, ha perso il controllo della macchina finendo violentemente in testacoda contro le barriere alla curva 14. «Non era mia intenzione, e posso soltanto scusarmi per aver condizionato la corsa e creato un’opportunità», dirà poi Latifi a fine corsa commentando l’ingresso della safety car (quella vera, non la virtual), ritenuto necessario dalla direzione corse per rimuovere la macchina dalla pista.

A quel punto, quando il Mondiale sembrava praticamente assegnato, la Red Bull si è trovata nella condizione ideale di poter approfittare nuovamente di un regime di velocità molto limitata delle macchine e far rientrare Verstappen per effettuare un terzo pit-stop senza perdere troppo tempo. Oppure di decidere di non farlo, a seconda della scelta compiuta prima dal pilota al comando della corsa: sparigliare era infatti l’unica possibilità per la Red Bull di provare a vincere la corsa, a pochi giri dalla fine. La Mercedes ha lasciato Hamilton in pista, ipotizzando che la corsa sarebbe finita in regime di safety car. La Red Bull ha richiamato Verstappen ai box e ha montato sulla sua macchina un altro set di gomme nuove.

«Non era affatto chiaro se la gara sarebbe ripresa oppure no, e la Mercedes non aveva altra scelta che restare in testa e sperare per il meglio», ha scritto Benson su BBC. Se la gara fosse ripresa, Verstappen, con gomme nuove appena montate, sarebbe riuscito facilmente a superare Hamilton, che a quel punto aveva già percorso oltre 40 giri con gli stessi pneumatici. Ad ogni modo, con forse un solo ultimo giro a disposizione per tentare un sorpasso su Hamilton, Verstappen avrebbe comunque dovuto prima sbrigare una serie di doppiaggi: tra lui e Hamilton c’erano infatti le macchine di Lando Norris, Fernando Alonso, Esteban Ocon, Charles Leclerc e Sebastian Vettel, tutti doppiati.

«Quello che è successo dopo non ha precedenti», ha sintetizzato Benson.

Il direttore di gara Masi ha inizialmente comunicato che ai piloti doppiati non sarebbe stato permesso di sorpassare Hamilton e “sdoppiarsi”, come si dice in gergo, con una decisione nelle facoltà della direzione corse ma contraria al protocollo abituale, che prevede che le macchine doppiate possano sdoppiarsi e ri-accodarsi al gruppo annullando il loro ritardo di un giro. La Red Bull ha contestato quella decisione. Masi ha quindi cambiato idea e ha permesso alle cinque macchine tra Hamilton e Verstappen – e soltanto a quelle – di sdoppiarsi.

Sono invece rimaste due macchine doppiate tra la Red Bull di Verstappen e la Ferrari di Carlos Sainz, che era in terza posizione, e un’altra macchina doppiata tra la Mercedes di Valtteri Bottas e l’Alpha Tauri di Yuki Tsunoda. Anche questa decisione è contraria al protocollo abituale, ed è stata quindi contestata dalla Mercedes.

La gara è ripresa a un giro dalla fine del Gran Premio, e Verstappen è riuscito a superare Hamilton alla quinta curva. Nel rettilineo successivo Verstappen si è difeso da un tentativo di controsorpasso di Hamilton cambiando più volte direzione per non concedere al suo avversario il vantaggio dell’effetto scia. È una manovra non consentita dal regolamento ma è una violazione quasi sempre controversa e comunque sanzionata con penalità che possono variare molto a discrezione dei commissari (Verstappen avrebbe potuto cavarsela anche soltanto con una reprimenda o una multa in caso di indagine, che comunque non c’è stata). «Il campionato era passato di mano, a seguito di una discutibile decisione del direttore di gara», ha scritto Benson.

«Max è un pilota assolutamente fantastico che ha avuto una stagione incredibile e non posso che avere un enorme rispetto per lui, ma quello che è appena successo è assolutamente inaccettabile. Non posso credere a quello che abbiamo appena visto», ha scritto su Twitter il pilota della Williams e prossimo pilota della Mercedes George Russell, che in precedenza si era ritirato per un guasto alla macchina.

Il modo in cui è stata gestita la parte finale della gara non è quello in cui normalmente viene gestita la corsa in regime di safety car, ha scritto BBC citando lo «sconcerto» a fine corsa da parte di molti addetti e piloti, uno dei quali ha detto a BBC che in circostanze normali questo Gran Premio sarebbe semplicemente finito dietro la safety car.

L’oggetto della contestazione

Uno dei due reclami presentati dalla Mercedes a fine corsa, il primo a essere respinto e il più pretestuoso tra i due, riguarda la presunta violazione dell’articolo 48.8 del regolamento sportivo, che vieta a qualsiasi macchina di compiere sorpassi in regime di safety car, salvo particolari eccezioni. La Mercedes sosteneva che dopo il rientro della safety car ai box e prima della ripresa della corsa per l’ultimo giro, la macchina di Verstappen avesse sopravanzato per un attimo quella di Hamilton. Il reclamo è stato respinto sulla base del fatto che in quella fase «entrambe le auto stavano accelerando e frenando» e che Verstappen si è poi subito correttamente riposizionato dietro a Hamilton prima dell’inizio del primo giro senza più la safety car, come da regolamento.

L’altro reclamo, più consistente, riguarda la presunta violazione dell’articolo 48.12:

Se il direttore della corsa [è l’ufficiale che lavora in collaborazione con il direttore di gara] ritiene sicuro farlo, e il messaggio “LAPPED CARS MAY NOW OVERTAKE” [“le macchine doppiate devono ora superare”] è stato inviato a tutti i team sul sistema di messaggistica ufficiale, a qualsiasi auto che sia stata doppiata dal leader sarà richiesto di superare le altre auto e la safety car. […]

Dopo aver superato le auto e la safety car, queste auto dovranno poi procedere in pista a una velocità idonea, senza superarsi, e fare il possibile per tornare in posizione in fondo alla fila di macchine dietro la safety car. […]

A meno che il direttore della corsa ritenga che la presenza della safety car sia ancora necessaria, una volta che l’ultima auto doppiata ha superato il leader, la safety car tornerà ai box alla fine del giro successivo.

Se il direttore della corsa ritiene che le condizioni della pista non siano adatte a permettere sorpassi, il messaggio “OVERTAKING WILL NOT BE PERMETTED” [“i sorpassi non saranno consentiti”] sarà inviato a tutti i team sul sistema di messaggistica ufficiale.

La regola lascia ampi margini di manovra nella misura in cui attribuisce al direttore di gara, Masi, la responsabilità di decidere quando sia sicuro mostrare un determinato messaggio o un altro, e quando sia opportuno e sicuro far rientrare la safety car e ricominciare la corsa. Il punto, ha scritto Benson, è che il messaggio visualizzato dai team era diverso da uno dei due messaggi possibili e descriveva un’eventualità non contemplata nel regolamento: che soltanto alcune macchine dovessero sdoppiarsi. Inoltre Masi ha violato un’altra parte dell’articolo 48.12, ordinando il rientro della safety car ai box non al termine del giro successivo a quello in cui l’ultima macchina doppiata supera il leader, bensì in quello stesso giro.

Hamilton, il team principal della Red Bull Christian Horner e Max Verstappen sul podio del Gran Premio di Abu Dhabi, il 12 dicembre 2021 (AP Photo/Hassan Ammar)

Un altro articolo, il 15.3, stabilisce che riguardo a una serie di questioni, incluso il caso della safety car, il direttore di gara ha «autorità prevalente» su quella degli altri ufficiali di corsa. Ed è questo l’articolo utilizzato dai commissari per respingere i reclami della Mercedes. «Ma questa norma significa che Masi può decidere di fare quello che vuole in queste situazioni, o che ha l’autorità ultima nella corretta applicazione delle regole?», ha scritto Benson. Lo stesso articolo 15.3, ha fatto notare Noble su Autosport, dà al direttore di gara il controllo sulla procedura di partenza: «Questo significa forse che, in un caso estremo, la gara potrebbe partire dopo che vengono mostrate soltanto tre luci anziché cinque, come previsto da altri articoli del regolamento?».

«È stato fatto ovviamente per la battaglia, era chiaramente per la TV, per il risultato. Se fosse giusto o meno non sta a me deciderlo», ha commentato Lando Norris, uno dei piloti a cui è stato permesso di sdoppiarsi. Norris ha detto che in genere o permettono a tutti di passare o non lo permettono, e si è detto sorpreso di quell’improvviso cambio di decisione per permettere di correre un ultimo giro.

Anche Alonso, Sainz e Leclerc hanno definito strana e senza precedenti nella loro esperienza la decisione della direzione di gara riguardo alla procedura da seguire in regime di safety car. «Quando hanno mandato in pista la safety car ho pensato che saremmo riusciti a superare velocemente, perché normalmente succede così. Vedi la luce verde della safety car e poi ti sdoppi finché non rimuovono la macchina. Solo che non avevamo quel segnale verde, e due giri dopo il mio ingegnere di pista mi ha detto che non avremmo potuto sdoppiarci e le posizioni sarebbero rimaste quelle. Una curva dopo la luce verde si è accesa e ho detto: “Ma abbiamo luce verde?”, e mi hanno risposto “Sì, sì, ora puoi farlo, segui Norris”», ha raccontato Alonso.

Finisce qui?

La possibilità che il preannunciato ricorso in appello della Mercedes al Consiglio Mondiale della FIA a Parigi possa sovvertire l’ordine di arrivo del Gran Premio di Abu Dhabi e determinare un differente esito del campionato mondiale è ritenuta molto improbabile.

Tra commentatori e opinionisti resta tuttavia molto condivisa l’impressione che i responsabili della sicurezza e della corretta applicazione del regolamento sportivo nel 2021 – in ultima istanza, Michael Masi – non siano stati all’altezza del talento e delle abilità di guida ampiamente dimostrate dai due contendenti per il titolo. Come è condivisa l’idea che l’esito del campionato e il suo prolungato equilibrio siano stati almeno in parte condizionati da una serie di decisioni difficili da spiegare soltanto sulla base del regolamento.

«Mentre i processi decisionali del direttore di gara della Formula 1 dovrebbero essere completamente indipendenti dalla considerazione delle sorti dei singoli concorrenti – perché tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo – ciò che non è facile da accogliere per molte persone è il modo in cui è sembrato che il regolamento venisse annullato pur di fare accadere le cose», ha scritto Noble su Autosport. È mancata, secondo Noble, la percezione che Hamilton e la Mercedes siano stati semplicemente sfortunati, perché il regolamento non è stato applicato alla lettera bensì fuori dall’ordinario.

«Ma se le regole non contano perché il direttore di gara ha l’autorità di ignorarle, allora questo come può essere giudicato giusto ed equo in termini sportivi?», ha commentato Noble. Se l’obiettivo condiviso tra squadre e direttore di gara prima dell’inizio del Gran Premio era quello di provare a evitare una conclusione della corsa in regime di safety car, c’è inoltre una possibilità che Masi non è sembrato prendere in considerazione e che era invece stata presa nel Gran Premio scorso, in Arabia Saudita, dopo un incidente in pista: quella di sospendere la gara, esponendo una bandiera rossa.

La bandiera rossa avrebbe da un lato permesso ai commissari di pista di rimuovere la macchina di Latifi senza che la durata del loro lavoro incidesse sul numero di giri rimanenti. Dall’altro avrebbe permesso a Hamilton di cambiare gomme – come previsto dal regolamento – prima di un’eventuale ripartenza, riequilibrando la sfida nei restanti giri finali. «La competizione si sarebbe decisa quindi in pista ad armi pari, senza interferenze esterne. Sarebbe stato un intrattenimento eccezionale e avrebbe segnato la fine spettacolare di una stagione straordinaria», ha concluso Noble, definendo la fine del Mondiale «ingiusta» anche per Verstappen, dopo una stagione eccezionale e conclusa da campione ma con meriti offuscati nell’ultima corsa dalle circostanze che lo hanno aiutato a vincere ad Abu Dhabi.

Max Verstappen festeggia la vittoria con il resto della squadra Red Bull ad Abu Dhabi, il 12 dicembre 2021 (AP Photo/Hassan Ammar)

Nel corso della stagione c’erano state altre interpretazioni incoerenti e decisioni controverse, specialmente riguardo ad alcune manovre di Verstappen, ha aggiunto Benson su BBC, pur giudicando ampiamente «meritato» il titolo di Verstappen. Per esempio, il pilota della Red Bull non aveva ricevuto alcuna penalità per aver spinto Hamilton fuori dalla pista in una fase del Gran Premio del Brasile in cui stava difendendo la sua posizione, ma era stato successivamente sanzionato per una manovra del tutto simile nel Gran Premio dell’Arabia Saudita. Dopo quella gara, il team principal della Red Bull Christian Horner aveva detto di sentire la mancanza del precedente direttore di gara della Formula 1, Charlie Whiting, morto a marzo 2019.

Anche prima delle ultime gare, cioè quelle in cui la Mercedes aveva mostrato una più chiara superiorità di mezzi, Masi era stato molto contestato per altre decisioni, tra le quali quella di correre in Belgio soltanto per due giri e dietro la safety car, a causa delle condizioni meteorologiche avverse, ad agosto. La scelta di mandare comunque le macchine in pista per due giri prima di interrompere definitivamente e dichiarare conclusa la gara – il Gran Premio più corto della storia della Formula 1 – aveva permesso l’assegnazione dei punti in palio (sebbene dimezzata, come da regolamento quando la corsa non raggiunge il 75 per cento del totale dei giri previsti).

Da diverse figure di alto profilo sentite da BBC è stata infine ritenuta inadatta alle circostanze e poco ortodossa la risposta data da Masi via radio al team principal della Mercedes Toto Wolff, che durante l’ultimo giro si era subito lamentato delle decisioni prese dalla direzione gara. «È una gara automobilistica, Toto», ha risposto Masi.

«Penso che sia sempre possibile imparare lezioni sia come squadra che nella vita in generale. Sentivamo che le decisioni a inizio gara andassero contro di noi. Ovviamente sentivamo che la decisione a fine corsa fosse giusta. È stata una stagione così. Ci sono state decisioni al limite: di alcune abbiamo beneficiato, la maggior parte ci ha penalizzato», ha commentato Horner.

fonte: ilPost.it

2021/10/08

Gianluigi Donnarumma: storia di un tradimento



Donnarumma arriva nelle Giovanili del Milan nel 2005, 15 anni, pescato dalle giovanili della Juve Stabia. Farà due anni in prima squadra, senza presenze (2008-2009 e 2009-2010) prima di essere ceduto. Qualcosa non vi torna? Normale, perché stavamo parlando di Antonio.
Gianluigi Donnarumma, invece, viene prelevato dal Milan per 250000 euro, nel 2013 (14 anni), dalla scuola calcio Club Napoli di Castellammare di Stabia.
Il 31 Marzo 2015, a 16 anni, firma il primo contratto da professionista fino al 30 Giugno 2018, contestualmente ai rinnovi di Cutrone e Locatelli. Esordisce in serie A il 25 ottobre 2015 contro il Sassuolo. Il 19 Novembre rilascia un'intervista in cui dichiara "Rinnovo di contratto? Non ci penso, non ho nemmeno l’età per comprare un’auto. Perché il Milan e non l’Inter? Sono stato io a scegliere perché sono milanista e perché mio fratello aveva giocato qui".

Diventa titolare (alternando interventi incredibili per un ragazzo della sua età a grossi errori) e nei primi mesi del 2016 la sua procura passa a Mino Raiola. L'anno successivo, 2016-17, Donnarumma compirà 18 anni a Febbraio, potendo quindi firmare un contratto più lungo. Comincia presto il tira e molla tra la società e il giocatore. Il 20 marzo 2017, dopo il bacio allo stemma nel finale di Juventus-Milan, Donnarumma dichiara in merito al rinnovo: "Sono legato al Milan, sono milanista e spero di restare ma ci penserà il mio procuratore". Il Milan aumenta l'offerta per il rinnovo progressivamente fino a 5 milioni per l'entourage del giocatore, che non firma.

Il 27 Maggio, secondo il procuratore del portiere, al ragazzo viene comunicato da Mirabelli "o firmi, o vai in tribuna".
Il 15 giu 2017, dopo un'ora di colloquio tra la dirigenza e Raiola, la dirigenza milanista improvvisa una conferenza stampa; L'AD Fassone dichiara: "Piuttosto che fare un comunicato, ho preferito spendere due parole subito al termine dell'incontro con Mino Raiola. L'agente ci ha comunicato la decisione di non rinnovare con il Milan, decisione definitiva presa dal giocatore" Intanto si vocifera di un'offerta da 13 milioni all'anno più 1 di bonus da parte del PSG.

18 Giugno 2017: Europei Under 21, durante Italia-Polonia, arriva una contestazione annunciata dal Milan Club Polonia, dietro la porta da lui difesa appare il celebre striscione "Dollarumma", il giocatore viene sommerso dai fischi ad ogni tocco del pallone e arriva un lancio di banconote false. I giornali parlano di un ragazzo molto scosso, che starebbe meditando di lasciare il procuratore.
Il 25 Giugno 2017 il portiere risponde su Instagram: "#Donnarumma #Raiola ieri, oggi e domani". Mino Raiola intanto chiede 40 milioni per fare rinnovare il suo assistito.

Mirabelli allontana una cessione estiva: "Donnarumma è un grandissimo campione, un grandissimo ragazzo e un giocatore del Milan. Per questo nella prossima stagione certamente giocherà ancora con noi".
Raiola dichiara che il problema non sono i soldi, ma il progetto, la serietà della società, i risultati sportivi, le ambizioni del ragazzo, e tante altre cose, tra cui le minacce di Mirabelli che avrebbero scosso il ragazzo.

L'11 Luglio 2017 arriva il rinnovo su un contratto da 6 milioni netti per 4 anni, mentre il procuratore non è con lui; nell'accordo rientra anche il contratto da 1 milioni a stagione per il fratello Antonio, che diventa il terzo portiere. Ci sarebbe da accordi anche una clausola rescissoria, che non verrà mai depositata perché mancante della firma del calciatore. Il giorno dopo Donnarumma dichiara: "Sono contentissimo e orgoglioso di essere al Milan, sono nato e cresciuto qui e nella mia testa non ho mai avuto dubbi sulla mia permanenza. Mi dispiace che i tifosi si siano sentiti traditi, ma io non ho mai voluto che accadesse, sono molto orgoglioso e ringrazio i tifosi che in questi due anni mi hanno sempre sostenuto".

A Dicembre 2017, Gigio, dopo aver percepito tre mensilità, invia un documento ai dirigenti del Milan in cui sostiene di essere stato oggetto di pressioni psicologiche, firmando senza la necessaria serenità.

Si alza ovviamente un polverone, in cui, andando contro alle parole di Mino Raiola (che sostiene pubblicamente il contrario), dichiara: “Non ho mai detto né scritto di aver subito violenza morale quando ho firmato il contratto”.

La vicenda scema progressivamente, fino ad avvicinarsi alla scadenza del nuovo contratto.
Da Giugno 2020 (qualche mese prima, in realtà), riparte la telenovela: il milan offre inizialmente 7 milioni fino al 2026. Non c'è alcuna apertura dall'agente che vuole almeno 12 milioni, una commissione molto alta (si vocifera intorno ai 20 milioni) e una clausola rescissoria molto bassa. Il Milan cerca di non rendere troppo mediatica la trattativa, tenendo i toni bassi. Dal giocatore, che intanto indossa la fascia di capitano, sulla vicenda c'è il silenzio più assoluto, mentre il suo procuratore lo offre in giro per l'Europa.

Il 19 Febbraio 2021, Donnarumma dice che giocare la Champions League con i rossoneri sarebbe un sogno.

Il 3 Maggio 2021, durante un incontro con gli Ultras, dichiara "Voglio restare al Milan e sul futuro decido io"
La settimana dopo Raiola si presenta a Casa Milan e propone un rinnovo biennale per 10 milioni. Maldini rifiuta. Il Milan vuole un accordo almeno triennale e per non più di 8 milioni, altrimenti si guarderà intorno.

Maldini prova a parlare con il giocatore, che gli risponde "Faccio quello che dice Mino". Raiola gli telefona e gli dice, dopo ogni tentativo di approccio, "di soldi parlo solo io". Maldini difende pubblicamente il giocatore, difendendolo dalle richieste di tribuna viste le voci di un passaggio alla Juventus, e annuncia che non si avranno novità fino a fine campionato.
Il Milan fa un'ultima offerta al calciatore: 7 milioni più 1 di bonus, con inserimento di una clausola rescissoria da 20 milioni in caso di mancata qualificazione alla Champions. Il portiere risponde picche.

Da parte di Gianluigi Donnarumma per un intero anno non arriva una singola dichiarazione sulla sua prossima separazione dal Milan, nessun tipo di indizio. Silenzio.
Solo conferme sul suo amore per i colori rossoneri, sempre più diradate. Il Milan centra la qualificazione in Champions e il portiere il 24 Maggio parte per il raduno della nazionale in vista degli Europei senza che il suo futuro sia ancora chiaro.

Il 26 mag 2021 Maldini su precisa domanda dichiara: "Donnarumma? Le nostre strade si separano, lo ringraziamo. Il progetto Milan proseguirà e ci porterà a competere ai massimi livelli".

Il giocatore lascia su Instagram la foto con la maglia del Milan, mentre i tifosi gli intimano di cambiarla.

Seguirà la vittoria degli Europei, il premio come miglior giocatore della competizione.
Il 13 Luglio farà un post su Instagram, in cui scriverà tante parole di circostanza, ma mai un "grazie", che sia ai tifosi, alla società che lo ha cresciuto, allo staff, ai compagni. A nessuno.
Segue la firma per il PSG. Le parole del giocatore durante la presentazione: "Ho sempre sognato di vestire la maglia di questo club"

Il 19 Agosto giustificherà l'addio dicendo che lui e il Milan hanno "ambizioni diverse".
Due giorni fa, prima del primo ritorno a San Siro, dichiara "Mi dispiacerebbe se mi fischiassero, sarò sempre un tifoso del Milan".

Chi ha vissuto queste vicende, in questi anni, lo ha fatto in modo viscerale, aspettando ogni giorno una risposta, una dichiarazione, un chiarimento che non è mai arrivato. 5 anni di mezze parole, mezze dichiarazioni, bugie.
E' sbagliato vivere male queste cose? Probabile. Ma se non ci si affeziona ai propri idoli, se non si spera che almeno loro, a cui diamo tutti, ci trattino con rispetto, di chi dobbiamo sperarlo?
Si può davvero scindere il disprezzo, per come si è stati trattati, dal colore della maglia?

Fonte: Calciomercato.com

2020/11/25

Addio Pide de Oro!


Diego Maradona è morto oggi 25/11 a causa di un arresto cardiocircolatorio nella sua casa di Tigre, in Argentina, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l'intervento chirurgico alla testa di qualche settimana fa. Preferisco ricordarlo così, giovane e vittorioso. Addio campione, riposa in pace.


Quante vite dentro una vita che non c’era già più. Quante volte si è perso Diego, quante volte l’avevamo perduto, anche di vista. Maradona ricoverato, Maradona ingrassato, Maradona operato, Maradona tossico, Maradona dopato, Maradona alcolizzato, Maradona disintossicato. E poi, ancora, Maradona con il bypass gastrico per salvarlo dalla bulimia (2005) una prima e una seconda volta (2015). Maradona e la cocaina, Maradona e l’efedrina, Maradona che sforna figli come gol: le due bambine (Dalma Nerea e Gianinna Dinorah) con la prima e storica moglie Claudia Villafane, poi Diego junior con Cristiana Sinagra, la ragazza napoletana che dovette combattere per anni in attesa che il campione riconoscesse quel figliolo identico a lui, non serviva il test del Dna per dimostrarlo, bastavano un paio d’occhi e una figurina. E poi, ancora, una bambina di nome Jana, avuta da una nuova fidanzata, tale Valeria Sabalaìn, e per chiudere un altro Diego, questa volta un Diego Fernando, figlio (ultimo) di Maradona e Veronica Ojeda. Amori, forse. Ma chi può dire cosa ciascuno porta nel cuore?

La prima vita di Diego resta immortale, e si può dire conclusa nel 1994 quando ai mondiali americani venne trovato positivo all’antidoping. Quel giorno, dopo il famoso urlo nella telecamera che era un ruggito, un barrito, il verso dell’animale tornato re di ogni foresta e di ogni savana, Diego Armando Maradona cominciò la sua morte prolungata come la “rottura” dei cavalli da corsa. Quando si comincia, non si finisce più. Anche di morire, a volte, non si finisce più. Ma se sei stato Maradona, cosa potrai mai essere dopo? Cosa potrai chiedere di più?

Del giocatore, immenso e unico, praticamente una divinità, quasi non vale la pena parlare. Sarebbe ovvio, superfluo. Sarebbe come voler dire chi era Odisseo, chi era Dante Alighieri, chi era Gesù Cristo nostro Signore, chi era Einstein, chi era Renzo Tramaglino. Trasfigurato dalla sua stessa gloria, probabilmente e semplicemente il più grande calciatore di tutti i tempi, Maradona è stato Uno e Due. Uno: il migliore e basta. Due: il perduto, lo smarrito. E questa sua seconda fase, lunghissima e dolente, è forse il miglior modo - sebbene tristissimo - per accompagnare il ricordo di Diego fino a questo epilogo tragico, un colpo di testa ma contro il pavimento e non contro un pallone, l’ematoma, il peggioramento repentino, il ricovero (l’ennesimo), le mani di un chirurgo purtroppo invano, la morte che ci annichilisce tutti.

Ma alzi la mano chi da anni non si aspettava che Maradona facesse una brutta fine, coerente con la sua caduta nel pozzo. Uno scivolamento lento e costante, progressivo e senza tonfi ma ogni volta sempre più giù, sempre più in fondo dove nulla può rischiare il buio, neppure il più bello dei gol, meno che mai la mano de Dios.

La seconda vita (ma era poi vita?) di Diego lo ha visto diverse volte in panchina, tentando una carriera da allenatore piuttosto improbabile: la carriera, e anche l’allenatore. E dire che a un certo punto gli consegnarono addirittura la Nazionale dell’Argentina, a furor di popolo, e Maradona la portò comunque ai quarti di finale di un mondiale, quello in Sudafrica nel 2010, quando l’Albiceleste venne eliminata dalla Germania (e poi, Diego esonerato). Eppure, la ricerca del peggio e del limite, della periferia sportiva e della marginalità agonistica, Maradona l’ha compiuta con animo girovago, cominciando ad allenare persino durante la prima squalifica per doping: eccolo infatti nel 1994 sulla panchina del Textil Mandiyù, squadra argentina ai più sconosciuta.

Una caratteristica, questo semi-anonimato dei club affidati a Dieguito, che proseguirà nel tempo in una serie bislacca che comprende l’Al-Wasli (Dubai), il Fujarah (Emirati Arabi), i Dorados (Messico), fino al ritorno in Argentina ma non certo al River Plate, o meno che mai al suo adorato Boca, semmai alla guida del Gimnasia La Plata. Come intermezzo non meno bizzarro, la presidenza onoraria di un club bielorusso, la Dinamo Brest, frammento di meteora nel firmamento del pallone.

Nulla, di questa sua seconda vita coerente col disastro e lo sperpero di sé, ha avvicinato la meraviglia e l’estasi della sua prima vita. Molti sono stati gli incontri clamorosi, da Fidel Castro a Chavez passando per Menem, ma è sembrato un folclore emotivo, la disperata ricerca di essere ancora qualcosa di unico, di clamoroso. Diego lo ha fatto a cicli, sparendo e riapparendo altrove, una volta più magro e un’altra volta più grasso, una volta biondo ossigenato e un’altra volta totalmente tatuato. Sempre danzando sul confine tra una vita perduta e una morte scontata vivendo, come avrebbe detto il poeta. Però, ragazzi, il poeta era lui.

Fonte: La Repubblica

2020/04/14

Solo per sete...


Anche prima che le borracce cominciassero ad andare di moda per ragioni ambientaliste, c’erano alcuni ambiti in cui erano usatissime: tra questi il mondo del ciclismo, dove senza l’acqua contenuta nelle borracce si va poco lontano. Come succede per tutti gli oggetti usati nelle competizioni sportive, le borracce usate dai corridori sono studiatissime e le aziende che le producono cercano di migliorarle di anno in anno. Eppure paradossalmente hanno una vita molto breve: non appena i ciclisti hanno finito di bere l’acqua che contengono, le gettano via, per alleggerirsi. Allora però possono essere raccolte dai tifosi collezionisti, ed entrare in una specie di seconda vita, esposte su uno scaffale.

Perché possa esistere il ciclismo ci sono cose la cui presenza è imprescindibile. Se quel ciclismo è su strada, ed è contemporaneo, servono, per cominciare: un po’ di asfalto, delle fibre di carbonio, due ruote di gomma vulcanizzata, dei freni, un manubrio, una catena e due pedali che permettano, completandosi a vicenda e con un paio di ruote dentate, di sfruttare un movimento centrale per convertire un moto rotatorio in spostamento in avanti. Trattandosi, poi, di un mezzo a propulsione umana, la bicicletta ha bisogno di un essere umano che ci pedali sopra. Quell’essere umano, chiunque sia, è per gran parte fatto d’acqua. Pedalando, esso consuma un po’ di quell’acqua, avvertendo quindi l’esigenza di introdurne periodicamente di nuova nel suo organismo. Può trovarla nei bar o alle fontanelle. Ma è molto più comodo portarsene appresso una scorta, specie se quell’umano che sta facendo ciclismo ha fretta di raggiungere la meta.

Una certa fretta nel raggiungere una certa meta, oggi, ce l’hanno in tanti, non solo quando vanno in bicicletta. Quelli per cui la fretta è oggettivamente motivata sono i ciclisti e le cicliste professionisti, i componenti delle uniche categorie alle quali è concesso, talvolta persino implorato, di liberarsi delle borracce appena usate. Sono una cosa strana le borracce nel ciclismo: fondamentali per qualche minuto, o qualche chilometro; poi improvvisamente superflue. Prima dell’uso sono protette, dopo diventano un peso da sacrificare alla rigorosissima causa del rapporto peso/potenza. Nel ciclismo – soprattutto in quello professionistico – la borraccia è un prodotto in cui il destinatario finale spesso non è né l’acquirente né il consumatore più importante. Il destinatario finale è un altro: chi l’ha trovata, raccolta o richiesta, magari senza pensare a tutta la strada che ha fatto quella borraccia per arrivare allo scaffale su cui adesso fa da cimelio.

Per fare una borraccia, così come per fare un mucchio di altre cose, si parte dai polimeri sintetici. In genere derivano dal petrolio – ma stiamo lavorando affinché arrivino anche da altre e migliori fonti, che non hanno bisogno di miliardi di anni per rinnovarsi – e ai nostri occhi si presentano sotto forma di piccole palline: dure, compatte, inodori e, a guardarle, per nulla attraenti. Si può sapere a grandi linee come sono ottenute quelle palline di “borracce in potenza”, ma molte aziende usano formule che preferiscono tenere per sé. In ogni caso, basta che una su cento di queste palline sia di un certo colore per avere borracce di quel colore.

Con anticipate scuse per il freddo al cuore che proverà ogni ingegnere leggendo le prossime righe, nelle fabbriche di borracce le palline vengono scaldate fino a fondersi tra loro per formare un unico fluido, che viene plasmato dalla gravità in una forma oblunga. A guardarlo bene, già si può intuire che quel pezzo potrebbe diventare una borraccia, ma è ancora presto per prenderlo in mano o versarci dentro dell’acqua: ha una temperatura di oltre 150 gradi centigradi. Quella temperatura serve a far sì che uno stampo e un forte getto d’aria permettano di allungare il pezzo, di perfezionarne la forma e di definirne i lineamenti.

Seguono una serie di procedimenti, quasi tutti svolti da una macchina, che hanno lo scopo di verificare che tutte le borracce siano uguali e allo stesso modo lisce e prive di imperfezioni. Tra questi procedimenti ce n’è uno che consiste in una veloce spazzolatura e un altro che, di nuovo e per poco, riscalda la parete esterna della borraccia, per permettere alla stampa di essere precisa e indelebile. La superficie della plastica delle borracce viene poi trattata per modificare la sua tensione superficiale. Buffo, a proposito, che questo fenomeno si chiami “bagnabilità”.

In un’altra linea di produzione – che può trovarsi a pochi metri di distanza e sotto lo stesso tetto, ma volendo anche a centinaia di chilometri – si creano tappi e valvole erogatrici, le altre due parti necessarie per trasformare il grezzo contenitore di cui sopra in un pratico aggeggio per trasportare e all’occorrenza bere liquidi senza rovesciarli. In molti casi, sia tappo sia valvola sono ricoperti da un materiale gommoso, più piacevole al contatto con le labbra e meno scivoloso.

Così come accade per spazzolini, rasoi, preservativi, smartphone, automobili e razzi spaziali, anche con le borracce si cerca sempre di fare qualcosa che sia ogni volta innovativo e migliore. Le qualità che si cerca di perfezionare sono la leggerezza, la morbidezza, l’assenza di odore e la velocità di erogazione del liquido. Qualche grammo in meno, qualche millilitro al secondo in più, e la piacevole certezza che l’acqua all’interno sappia di… acqua.

Chi di lavoro produce borracce per ciclisti passa una ragguardevole parte del proprio tempo ad ascoltare le variegate esperienze d’uso di massaggiatori, meccanici e soprattutto ciclisti. Serve a capire quali criticità trasformare in novità attraverso formule chimiche, composti e processi di produzione, il tutto senza tralasciare l’aspetto economico – si parla comunque di un contenitore d’acqua, non di un lander lunare.

Dopo essere state pensate, progettate, perfezionate, prodotte e testate, le borracce sono pronte per essere spedite. Nel caso di borracce per il ciclismo professionistico su strada, ogni squadra sa già da quale azienda prenderà le sue borracce per la stagione successiva, e quante ne ordinerà. Ancor prima che inizino i ritiri invernali, le prime borracce lasciano gli stabilimenti dirette ai magazzini delle squadre. Si possono dunque immaginare due borracce, nate dallo stesso sacchetto di palline di polimeri, estruse dalla stessa vite, cresciute nello stesso stampo, che lasciano la fabbrica lo stesso giorno: una per diventare la borraccia bianca di una squadra degli Emirati, l’altra per diventare la borraccia nera di una forte squadra britannica. Un po’ prima di Natale, entrambe viaggeranno su ruota – di camion – fino ai magazzini delle due squadre. Per poi ritrovarsi, un paio di mesi più tardi, nei portaborracce di due biciclette avversarie, magari da qualche parte sulle strade tra Milano e Sanremo.

Le borracce, comunque, raramente stanno sole. Dopo averle ordinate dalle aziende – tra le più importanti ci sono l’italiana Elite e l’olandese Tacx – le squadre le ricevono in grandi scatoloni, ognuno dei quali ne contiene circa 200. Prima di ogni corsa, e ancora prima di ogni corsa a tappe, le squadre fanno un calcolo che prende in considerazione fattori come la temperatura prevista, l’umidità, la lunghezza e la possibile difficoltà della corsa. Si parte dal presupposto che per ogni ciclista, per ogni giorno di corsa, servano almeno quattro borracce. Ma l’esperienza suggerisce che in questo calcolo è sempre meglio abbondare, quindi per la maggior parte delle corse ogni squadra prepara tra le sette e le dieci borracce per ciclista. In genere le si prepara la sera prima, così da trovarle pronte al mattino. La maggior parte delle borracce, nel ciclismo moderno, sono piene d’acqua. Ma ci sono anche quelle in cui all’acqua vengono aggiunti sali minerali o maltodestrine, talvolta in dosi e percentuali diverse da un atleta all’altro, per questione di gusti, eventuali problemi di salute e disagi alimentari, o perché così ha detto di fare l’allenatore oppure il nutrizionista. Ogni ammiraglia ha almeno un frigorifero al suo interno, che a sua volta contiene diverse decine di borracce. Almeno cinquanta sono d’acqua e almeno altre trenta di acqua e sali o acqua e maltodestrine. Nelle corse più importanti le ammiraglie sono due, ognuna con un frigorifero al suo interno. Ci sono poi le borracce che, dentro un’altra macchina, si portano avanti rispetto ai corridori, per aspettarli nella zona di rifornimento.

Qualche anno fa, qualcuno provò a usare borracce da 300 millilitri, ma non funzionò: oggi la gran parte delle borracce è da 550 millilitri. Per distinguerne il contenuto e riconoscere a chi sono destinate, ci si fanno sopra dei segni con un pennarello. Un bravo meccanico deve saper riempire il frigorifero nel modo opportuno incastrando più borracce possibile, ma deve anche mettere le borracce speciali – riempite per un determinato corridore – dove potrà trovarle facilmente. Un bravo gregario deve capire quando è il momento di andare a prenderle e portarne quante più riesce, ma deve anche ricordarsi dove sono posizionate le borracce, e quali, così da poterle prontamente servire al compagno che ne ha bisogno.

Quel che succede dopo che una borraccia arriva a chi la deve usare è lapalissiano. Il gregario porta la borraccia, chi la riceve beve un po’ – non troppo tutto insieme perché, come diceva la nonna e come dice Davide Cassani nei video su YouTube, «poi fa male» – e infine, se va bene, la ripone ancora mezza piena nel portaborraccia. Se va male, cioè se fa molto caldo o il momento è in qualche modo topico, il liquido finisce subito, e la borraccia viene buttata via. In ogni caso, appena vuota viene gettata; spesso anche prima di esserlo.

Se un buon numero di fortunate borracce vive i concitati momenti in cui assurge alla sua funzione originale, altre se ne stanno bel belle al fresco in frigorifero dalla partenza all’arrivo. Una volta arrivate, sempre che non vengano regalate a quel bambino con gli occhi grandi e supplicanti, le borracce superstiti tornano al pullman o all’albergo, insieme ai ciclisti che per quel giorno non le hanno usate. In genere, a queste borracce viene data una seconda possibilità, specialmente se il giorno dopo c’è la nuova frazione di una corsa a tappe.

Ci sono poche, pochissime borracce fortunatissime, quelle che vengono fotografate e celebrate per il modo in cui vengono afferrate, passate, svuotate o buttate. Ce ne sono altre, quasi tutte, funzionali a momenti non particolarmente rilevanti, e quindi anonime. Ce ne sono alcune che la gara non la vedono nemmeno, perché diventano borracce da allenamento. E ce ne sono altre ancora che magari neppure escono dallo scatolone in cui erano state infilate molti mesi prima.

Ogni anno, ciascuna squadra ordina molte più borracce di quelle che usa. Succede sempre, perché un ciclista senz’acqua è un problema ben più grande di un magazzino con qualche scatolone in più. Succede ancora di più quando, a maggio, una squadra cambia sponsor e tutto ciò su cui c’è scritto «Sky» deve, da un giorno all’altro, aver scritto «Ineos». E anche se non cambia lo sponsor principale, da una stagione all’altra magari cambia uno degli sponsor, o una combinazione di colori, o il pantone di un colore, o una scritta, e quindi via con altre migliaia di borracce. Le borracce inutilizzate durante l’anno passato e inutilizzabili per quello venturo vengono in genere regalate, magari a una squadra giovanile che sta nei paraggi del magazzino.

Complessivamente, una squadra professionistica maschile ordina, per ogni sua stagione, tra le ventimila e le quarantamila borracce. Solo per un giro di tre settimane ne servono più o meno tremila. Non vuol dire che in ogni tappa vengano effettivamente usate centocinquanta borracce, cioè quasi venti borracce per ognuno degli otto ciclisti in gara. Se ne portano tremila perché non si può mai sapere, e perché oltre a essere contenitori per liquidi ed eventuali pezzi da collezione, le borracce sono anche ottimi mezzi pubblicitari.

Il 6 luglio 2019 nei dintorni di Bruxelles, sede di partenza dell’ultimo Tour de France, c’erano 22 squadre, ed è lecito pensare che sparse tra biciclette, frigoriferi, bagagliai, scatoloni e gavoni ci fossero in tutto più di sessantamila borracce, più di quindici al giorno per ognuno dei centosettantasei corridori al via. Non tutti sono arrivati fino a Parigi, e nessuno ne ha certamente usate quante previsto; ma c’erano. Solo considerando le squadre maschili con licenza World Tour, si può dire che ogni stagione ciclistica comporti l’ordine di circa cinquecentomila borracce. Vuol dire, a riempirle tutte, 275mila litri d’acqua, oppure 100 chilometri di altezza se le si mette una sopra all’altra, o quasi tremila metri quadrati se le si mette una accanto all’altra.

Sembra tanto. Anzi: è tanto. Ma basta un po’ di prospettiva perché diventi poco: nel tempo che ci vuole per arrivare alla fine del presente paragrafo, che questo apparentemente non necessario inciso sta allungando giusto quanto serve, nel mondo è stato venduto, a grandi linee, un numero di bottiglie di plastica più o meno pari alle borracce prodotte per un’intera stagione per tutte le squadre maschili del World Tour. Se doveste avere dei dubbi sulla vostra velocità di lettura, è stato calcolato che in un minuto si venda nel mondo circa un milione di bottiglie di plastica.

Allargando ancora di più la prospettiva, si stima che in un anno vengano prodotte circa 350 milioni di tonnellate di plastica. Tutte le 500mila borracce da ciclismo di cui stiamo parlando pesano invece – da vuote – qualcosa di vicino alle 25 tonnellate: uno zero virgola, seguito da un po’ di altri zeri, del totale. Si può dire, quindi, che nel grande schema delle cose le borracce possono non essere considerate un grande problema ambientale, per uno sport che, tra l’altro, si basa su mezzi che vanno a muscoli e non a motore.

A prescindere dal destino a cui andranno incontro durante l’anno le borracce già prodotte, è comunque certo che ogni anno se ne produrranno di nuove, quasi sempre usando plastica vergine. Ogni borraccia, se gettata e abbandonata sul ciglio di qualche strada, in un prato o in un campo, ci mette tantissimo tempo a diventare qualcosa di diverso da una borraccia; troppo tempo per potersene fregare. Ma è vero che anche tra i professionisti – gli unici ad avere un valido motivo per buttar via una borraccia – c’è sempre più attenzione alla questione. Molte borracce, quindi, finiscono nelle “zone verdi”, le aree appositamente pensate per far sì che i ciclisti in gara si liberino di borracce, pacchetti, sacchetti, carte e cartacce. Molte altre sui cigli delle strade, nei prati o nei campi ci restano giusto qualche secondo, al massimo minuto, perché per fortuna c’è chi le raccoglie, un fenomeno che forse ha a che fare più con la passione che con l’ecologia; ma all’ambiente va comunque bene così.

Non c’è proprio modo di dire quante borracce vengano buttate ogni anno ai bordi delle strade dai ciclisti, nemmeno con un discreto margine di errore. Dipende da troppe variabili. Nel 2018, nel suo ultimo Tour de France, la Sky pensò, a complemento dell’operazione «Sky Ocean Rescue», di mettere dei codici sulle sue borracce, così che chi le trovasse potesse farlo sapere con l’incentivo di poterci vincere qualcosa. Poi la Sky cambiò sponsor e di quel progetto non si è più saputo niente. Peccato, perché nel suo piccolo avrebbe potuto dare una mano a raccontare qualche altra bella storia.

A proposito, nel mio piccolo di borracce ne ho raccolte anch’io (anche se quella che uso è un’altra: quasi tutta nera, con sopra una frase e un segno che citano i Joy Division). Quelle che raccolgo, chiedo o trovo, però, le conservo. L’ultima, per ora, è del 12 ottobre 2019. Il giorno prima si correva il Giro di Lombardia, e questa borraccia l’ha lanciata qualcuno della Bardiani-csf. Magari il promettente Luca Covili, che arrivò sul traguardo di Como 20 minuti e 100 posizioni dopo il vincitore Bauke Mollema. O magari uno tra Lorenzo Rota e Giovanni Carboni, quel giorno i migliori piazzati della squadra, giunti rispettivamente sessantatreesimo e sessantaquattresimo. Io l’ho raccolta a poco più di cento chilometri dall’arrivo, alla rotonda che sta all’incrocio tra la strada provinciale 51, che sale da Civate, e la strada provinciale 60, che scende da Galbiate, mentre passava il gruppo a caccia dei fuggitivi di giornata, sotto al cartello pubblicitario di un’azienda specializzata «nella vendita, installazione e manutenzione di stufe e caminetti».

È una borraccia bianca, con tappo nero e valvola rossa. Sopra ci sono i nomi e i loghi di: Bardiani valvole («Che trovano la loro applicazione negli impianti dell’industria lattiero-casearia, dell’industria di processo alimentare e bevande, dell’industria farmaceutica e cosmetica»), csf Inox («Pompe centrifughe e pompe volumetriche industriali»), Guerciotti («Azienda storica del ciclismo e leader nello sviluppo e nella produzione di biciclette da corsa»), LifeCode («Integratori sportivi per raggiungere obbiettivi») ed Elite («Specializzata nella ricerca e produzione di rulli di allenamento, borracce e portaborracce per ciclismo»). C’è anche l’hashtag #greenteam, che non è uno sponsor né una dichiarazione di ecologismo, ma ha a che fare con la storia della «formazione ciclistica più longeva del ciclismo mondiale».

Insomma, non una gran storia quella della mia ultima borraccia. E nemmeno una gran borraccia, a guardarla bene, ma è comunque una in più per lo scaffale delle borracce e una in meno rimasta dove non dovrebbe stare. A guardarla, o a guardare le altre arrivate prima di lei, fa strano pensare di averci dedicato tutte queste elucubrazioni. A chi mi conosce e apprende che l’ho fatto per davvero, può fare addirittura ridere. Comprensibilmente.

Le borracce, a ben vedere, non sono strettamente indispensabili al ciclismo e chissà che fra dieci, venti o trent’anni non ci si inventi qualcosa di nuovo e diverso per far arrivare acqua e energie a chi sta pedalando. Intanto però ci sono, stanno lì da più di un secolo e vanno benissimo così. Non sono imprescindibili perché possa esistere il ciclismo: per quello basta qualcuno che pedali e qualcuno che gli dica «Dai! Dai!» a bordo strada. Se quel qualcuno si trova vicino una borraccia da raccogliere, però, è più contento.

Racconta la storia delle borracce uno dei capitoli di Acqua passata da cui questo articolo è tratto, il sesto libro scritto dalla redazione di Bidon, una rivista online dedicata al ciclismo il cui nome significa appunto “borraccia”, in francese, in molte altre lingue e in generale nella comunità internazionale del ciclismo. Acqua passata racconta un po’ tutto quello che ci si potrebbe chiedere sulle borracce nel ciclismo e racconta molte storie di borracce famose che i corridori si sono passati. Il capitolo su come vengono prodotte le borracce si intitola “Ci vuole una borraccia” e l’ha scritto Gabriele Gargantini, redattore del Post. Il libro intero si può acquistare, nella versione cartacea, dal sito di People, la casa editrice che lo ha pubblicato, oppure in versione ebook anche su Amazon o IBS.