La recente polemica innescata dalla Russia riguardo la questione delle mine antiuomo italiane ci porta letteralmente in un cammino minato. Se è vero che le mine antiuomo (in particolare) non vengono più prodotte in Italia (non è detto che noi italiani siamo totalmente fuori perché le mine della Valsella erano e sono ancora prodotte in Iran per esempio), è pur vero che le mine se correttamente conservate possono essere utilizzate anche a distanza di anni dalla loro produzione. A parte il caso dell'Irak menzionato a seguire, le mine sono state vendute un po' ovunque, dal Medio Oriente alla Cina e a quasi tutte le nazioni più o meno impegnate in conflitti sottotraccia, quelli che non finiscono mai ma che seminano morte e distruzione continua anche in assenza di combattimenti.
“Migliaia di mine anticarro e antiuomo di fabbricazione italiana sono state scoperte dai corpi del genio delle Forze popolari di mobilitazione (PMU) irachene nei pressi di Bassora. Durante la guerra tra l’Iran e l’Irak queste mine erano utilizzate lungo il confine”.
Così l’agenzia irachena al Sura ha diffuso una notizia che ci riguarda. Corredandola di fotografie in cui spiega che le migliaia di mine fatte riaffiorare dalla sabbia del deserto dalle milizie filo-sciite sono mine anticarro Valmara Vs 2.2 e mine antiuomo Valmara 69, i famigerati prodotti di punta dell’export italiano della Valsella tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in questo campo. Sono passati ormai più di trent’anni dalla sanguinosissima guerra tra Iran e Iran (1980-1988); l’Iraq è stato sfigurato da una lunga catena di altri conflitti che perdurano tuttora, come sappiamo bene.
E nel frattempo in Italia la Valsella quelle mine non le produce più: smise di farlo già prima della messa al bando, giunta vent’anni fa con il Trattato di Ottawa. E questo avvenne grazie al coraggio e alla determinazione di Franca Faita e delle altre colleghe operaie che a Castenedolo (Bs) decisero di dire basta a un lavoro macchiato di sangue e lottarono per la riconversione di queste produzioni pur redditizie anche per loro. Eppure nonostante tutto questo le mine antiuomo italiane sono ancora disseminate in vaste aree del mondo e pronte a uccidere.
Va aggiunto che non è un caso che dal Golfo Persico la notizia venga fuori proprio ora e che a diffonderla sia una milizia sciita. Le armi della Valsella erano infatti state vendute negli anni Ottanta all’Irak di Saddam Hussein in funzione anti-iraniana. E la bonifica di quel confine rimasto di fatto impraticabile dai tempi della grande guerra degli anni Ottanta è anche un segnale politico preciso in un Irak dove realtà come le Forze popolari di mobilitazione vogliono far pesare sempre di più l’asse con Teheran a scapito dei sunniti, i grandi sconfitti. Dunque anche le mine italiane diventano oggi un facile simbolo nella lotta di potere in corso a Baghdad.
Ma al di là di queste letture interne irachene resta il dato di fatto che le mine italiane tuttora continuano a essere disseminate e anche ad uccidere. A ricordarlo è ogni anno il Landmine Monitor 2017, il rapporto compilato a ogni fine anno per fare il punto sull’obiettivo di un mondo senza mine-antiuomo non solo prodotte ma anche in funzione, che la comunità internazionale – sulla spinta del Trattato di Ottawa firmato nel 1997 – si è dato per il 2025. Obiettivo che – nonostante investimenti significativi nelle bonifiche in alcuni contesti – in altre aree del mondo resta lontanissimo.
Sono tuttora 61 i Paesi dove si ritiene che vi siano ancora mine antiuomo. E nel 2016 – l’ultimo anno sul quale si hanno dati – le vittime di queste mine sono addirittura aumentate: 8605 persone nel mondo sono rimaste vittima dell’esplosione di uno di questi ordigni e ben 2089 sono morte. Si tratta di un dato che non si vedeva dal 1999 – scrivono gli esperti. Va poi aggiunto che nonostante l’impegno preso dalla comunità internazionale a non utilizzare più questi ordigni, due Paesi non firmatari del Trattato di Ottawa – il Myanmar e la Siria – hanno piazzato nuove mine antiuomo in propri territori di confine durante il 2017.
Tutto questo ci ricorda quanto abbiano effetti nefasti a lungo termine gli affari generati dalla vendita delle armi. E quanto questo tema resti di attualità in una fase in cui anche il made in Italy ha pesantemente partecipato alla corsa agli armamenti che le guerre del Medio Oriente hanno innescato. Come più volte ricordato anche su questo sito è dalla Sardegna che sono partite tante delle bombe che l’aviazione dell’Arabia Saudita continua a sganciare sullo Yemen, devastato da ormai cinque anni da una guerra che nessuno vuole vedere. Ordigni che anche quando non utilizzati restano negli arsenali, pronti ad essere riciclati per le guerre e per le vittime di domani.
Secondo il Landmine Monitor 2020 sono stati registrati circa 5,554 incidenti da mine/ERW, più della metà dei quali provocati da mine improvvisate (2,949). I civili sono ancora la maggioranza delle persone coinvolte negli incidenti rappresentando l’80% del totale, e di questi circa la metà coinvolge bambini (43%).
La situazione relativa al 2020 mostra che 60 Stati e diverse altre aree sono contaminati da mine antipersona inclusi 33 Stati firmatari del Trattato per la messa al bando delle mine, 22 Stati non firmatari e cinque altre aree. Nel 2019 almeno 156 km² di terreno sono stati dichiarati liberi da mine e più di 123.000 mine antipersona sono state bonificate e distrutte. Nel 2019-2020 molti Stati hanno indicato miglioramenti all’accessibilità, nella qualità o nella quantità dei servizi per le vittime. Tuttavia, nel 2020 la pandemia ha aggravato il problema della scarsità di risorse per le attività di assistenza alle vittime in molti Paesi.
In Italia la storia della Valsella Meccanotecnica sintetizza la produzione di mine italiane dagli Settanta fino alla fine degli Novanta. Tra il 1970 e il 1983 l’azienda ha goduto di un periodo strepitoso da un punto di vista affaristico. Soltanto nel 1983 gli affari con l’Iraq vanno talmente a gonfie vele da far balzare il fatturato oltre la soglia dei 100 miliardi di lire. Successivamente con l’acquisizione da parte della Borletti, la Valsella Meccanotecnica entra nell’orbita del Gruppo Fiat. Dal 1993 in poi a seguito della mobilitazione dell’opinione pubblica e della messa al bando delle mine antiuomo, il tema della riconversione aziendale emerge con decisione. Nel settembre 1997 la Valsella Meccanotecnica viene messa in liquidazione.
Oggi nessuna azienda italiana produce più mine o bombe a grappolo. Nonostante questo enorme passo avanti, il Parlamento italiano dovrebbe sbloccare il ddl C 1813, “Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni a grappolo”. Per la Onlus “Campagna Italiana Contro Le Mine”, appare abbastanza singolare che una proposta di legge arrivata alla firma del Presidente della Repubblica, il cui vulnus è stato sanato nel passaggio al Senato, oggi soffra così tanto a proseguire nel suo iter. La legge sarebbe un fiore all’occhiello della diplomazia italiana impegnata nel disarmo, una buona pratica da condividere e promuovere in Europa.
Rispetto alla legge, un argomento su cui si è dibattuto in questi anni – anche a livello internazionale – e che ogni tanto riemerge è che, qualche volta, le autorità di vigilanza, chiamate in causa dalla legge a stilare le liste delle aziende o realtà da escludere dal supporto finanziario, hanno sempre sollevato dubbi di competenza o capacità di individuare fonti adeguate per stilare le liste. Qualche volta adducendo problemi specifici di riservatezza che circondano il settore armiero.
Secondo il rapporto Worldwide Investments in Cluster Munitions, esiste una responsabilità condivisa del 2018 che mostra 88 istituti finanziari di tutto il mondo i quali hanno investito 9 miliardi di dollari Usa in 7 società coinvolte nella produzione di munizioni a grappolo bandite dalla Convenzione di Oslo sottoscritta e ratificata dal nostro Paese. Parliamo della Avibras (Brasile), Bharat Dynamics Limited (India), China Aerospace Science and Industry (Cina), Hanwha (Corea del Sud), LigNex1 (Corea del Sud), Norinco (Cina), Poongsan (Corea del Sud). In totale 7 aziende di 4 paesi coinvolti nella produzione di munizioni a grappolo con cui si sono trovati collegamenti finanziari.