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2018/02/04

Fissando un quadro che non si conosce....


Ieri ho scritto, per Il Fatto, una cosa molto personale. Eppure di tanti milioni di persone che so, capiranno:

Una delle principali industrie farmaceutiche del mondo ha deciso di sospendere la ricerca sui farmaci per combattere l’Alzheimer. E allora vi racconto una storia- la mia- che probabilmente somiglia alla storia di tante persone che sperano che la scienza non le abbandoni.

“La nonna viene a stare da noi per un po’.”. “Per un po’ quanto?”. “Per un anno.”. Avevo 15 anni e quando mia madre mi annunciò la cosa e mi parve un’idea di quelle belle. Mia nonna (mamma di mia mamma) mi piaceva un sacco. Viveva a 600 km da noi, era vedova da tempo di un uomo che era stato capitano di navi in giro per il mondo e la vedevo poco. Un po’ d’estate, quando mia madre lasciava me e i miei fratelli con lei in montagna.

Aveva 80 anni ed era stata un donna molto bella, una stanga biondissima, occhi verdi, un seno prorompente e un carattere di ferro, vagamente addolcito con l’età. Cucinava, lavorava a maglia e creava dei maglioni pazzeschi, disseminava la casa di riviste tipo “Gente” e altre letture frivole da signore annoiate. Era una donna di compagnia, mi diceva sempre che ero bella (“Hai un bel figurino!”) e in adolescenza era una carezza di quelle rassicuranti. Non capii fino in fondo perché mia nonna veniva a stare da noi. Un vago “Sta poco bene” aveva risolto la mia curiosità. Mia nonna veniva a stare da noi perché aveva l’Alzheimer. Non poteva più vivere da sola. La mamma aveva deciso che lei e i suoi due fratelli l’avrebbero tenuta con sé un anno per uno. Noi eravamo i secondi, in questo triste turno, solo che io non avevo capito. E forse, nessuno di noi aveva davvero capito cosa significasse questa malattia il cui nome, che poi è il nome dello psichiatra tedesco che l’ha studiata per primo, ha il suono duro delle cose che non lasciano scampo.

Quell’anno fu devastante. Per noi, per mia madre, per mia nonna. E’ difficile spiegare cosa sia l’Alzheimer, quante sfumature contenga questa malattia e quante nuove sfumature riesca a creare con malefica prolificità ogni giorno. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. “Polpette, nonna!”. “Oh bene, mi sono sempre piaciute le polpette!”. Trenta secondi dopo. “Selvaggia, cosa mangiamo stasera?”. Questi furono gli esordi. Io e miei fratelli, all’inizio, col sadismo tipico dell’adolescenza, ci ridevamo su. Ogni tanto ci divertivamo a darle le stesse notizia del tg ogni due minuti, per sganasciarci di fronte alla sua sorpresa sempre rinnovata. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviario?”. “Oh ma davvero c’è stato un incidente ferroviario?”. Una, due, tre, quattro volte di seguito. Finché non dimenticava tutto, per poi ricominciare. “Ehi nonna, sia che c’è stato un incidente ferroviario?”. Eravamo scemi, eravamo inconsapevoli. Non vedevamo il baratro. Mia nonna non poteva capire cosa le stesse accadendo, ma poteva sentire.

Sentiva che si annoiava, che la mente non le faceva più compagnia. Quando i ricordi si sgretolano, quando resta solo il presente, il presente va riempito. E quindi mia nonna iniziò a chiederci ininterrottamente “Posso fare qualcosa?”. Solo che lei iniziava a fare qualcosa e poi dimenticava quello che stava facendo. La vedevamo smarrita, in mezzo a un corridoio di una casa che tutti i minuti conosceva per la prima volta, con un piatto in mano. Un minuto prima le avevamo detto: “Sparecchia se vuoi!”, lei si lanciava entusiasta sulla tavola e poi due passi dopo non sapeva più perché avesse un piatto in mano. Perché fosse lì. E qui -è una cosa orribile da dire, ma i parenti dei malati di Alzheimer si scoprono delle persone orribili, talvolta- iniziò la nostra insofferenza. 

“Fammi fare qualcosa!” era lo scoglio a cui si aggrappava per non farsi inghiottire dal buio della sua mente. Ed era il nostro incubo. Quelle domande ripetute erano una goccia cinese che caricava la nostra quotidianità di nervosismo e intolleranza. Iniziammo a sbuffare, a risponderle male, qualche volta. O a ignorare le sue domande ossessive, che era anche peggio. 

A mia nonna si stava sgretolando anche il presente.

Allora le affidammo i suoi amati ferri. Qualche gomitolo colorato comprato a caso in una merceria. “Fammi una sciarpa!”, “Fammi un cappello!”, mentivamo. Il movimento dei ferri era una delle poche cose che non aveva dimenticato. Il suono delle due bacchette che si toccavano ritmicamente era la colonna sonora delle nostre giornate. Dei miei compiti. Delle serate davanti alla tv. Le sciarpe, i maglioni, i cappelli, mia nonna non li finiva mai. Ricordava la gestualità, ma non il disegno. Le sue mani andavano da sole, era stato come essere salita sui pattini dopo tanto che non ci vai. I piedi, la gambe, hanno una loro memoria fatta d’istinto. La mente no. Lo schema della sciarpa non riusciva a comporlo. Allora io e mia mamma, quando lei andava a letto, le smontavamo quel ritaglio di maglia che aveva creato e il giorno dopo lei iniziava daccapo, senza ricordare, sorprendendosi dei gomitoli nuovi, del lavoro da fare. Era una Penelope smemorata, mia nonna. Una Penelope da cui non sarebbe tornato nessuno. Da lei tutto andava via, si staccava, partiva. Per sempre.

Poi non fu più autonoma in nulla. L’Alzheimer è una malattia degenerativa di quelle che corrono in maniera imprevista. Mia mamma le faceva il bagno. Le sentivo litigare, fuori dalla porta. “L’acqua è troppo calda!”. “Mi fai male.”. “Lo shampoo puzza!”. Per via della malattia, stava diventando capricciosa, ostile, aggressiva. Mia mamma, che ne aveva patito la severità da bambina, rivedeva un film antico. Doveva improvvisamente trattare come una bambina una donna che non le aveva mai consentito di essere una bambina. L’Alzheimer polverizza o amplifica certi aspetti del carattere, è un perfido silenziatore e un’infame megafono, a seconda dei casi. Con mia nonna fu megafono. Era stata una donna dura, diventò “nemica”. Cominciò a svegliarsi la notte. Alle due, alle tre, alle quattro. Ci tiravano giù dal letto urla disumane. “Mi avete catturata!”. “Bastardi, mi tenete prigioniera!”. “Dove sono?”. “Non mi toccare!” “Mi vuoi uccidere!”. Non ridevamo più. Eravamo pugili suonati dall’angoscia e dallo stupore. “Perchè la nonna è diventata cattiva?”. Non sapevamo. Nessuno sa cosa sia davvero l’Alzheimer se non ci passa attraverso. Forse ci odiava, forse la odiavamo. Smise di farci ridere, smise di farci pena. Contavamo i giorni che mancavano alla sua partenza. Alla fine di quell’anno cominciò a non riconoscerci più. Mi scambiava per una cugina, per un’altra nipote. Non riconosceva più sua figlia, di tanto in tanto. Intanto, il suo fisico, la teneva in piedi. Tutto quello che si sgretolava in lei, era dentro di lei. Nella sua testa. Poi arrivò il giorno in cui andò dall’altro figlio e non la vedemmo più. Morì un po' di tempo dopo. Fu strano, perché quella notizia non ebbe il suono della notizia: per noi la nonna non c’era già più. Lei non ci riconosceva più, noi non la riconoscevamo più. Sono passati trent’anni.

C’è un’altra Penelope, nella nostra vita. E nonostante l’infame ci abbia trovati pronti, ci si sente anche noi, smarriti come in un corridoio, con un piatto in mano, fissando un quadro che non si conosce.

(scritto da Selvaggia Lucarelli per il Fatto Quotidiano, 2018)

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