Salame: la storia dalle origini del nome alla sua eccellenza
In origine, presso i romani, era insicia e salumen, nel Medioevo divenne salamem e salacca, per poi evolversi in salame per gli italiani e infine salami, in quasi tutte le lingue del mondo. Sono questi i nomi che nel tempo si sono succeduti per indicare il principe dei salumi, generalmente composto di carne suina scelta, macinata prima, speziata in vari modi poi, infine insaccata nel budello e lasciata stagionare. E ognuno di quei nomi (eccetto insicia da cui deriva però insaccato) contiene il riferimento al sale, che per il salame non rappresenta solo un ingrediente, ma una tecnica di conservazione. In realtà, non è raro che la vicenda di un nome si indentifichi con l’oggetto che descrive, ma nel caso del salame è particolarmente vero.
Ed è una storia antichissima di saperi, sapori, contaminazioni culturali, tradizioni e innovazioni che in gran parte accompagna la storia delle nostre abitudini alimentari e della nostra civiltà nel suo complesso. In particolare, di un paese: l’Italia. In Italia, infatti, non solo si producono le più numerose varietà di salami al mondo, ma è anche dove quel tipo di preparazione ha origine e dove è diventato arte della tavola. Un’arte raffinatasi nel tempo, fatta di gusto e tecnica, che spesso associata ai suoi compagni d’elezione, il pane e il vino - il quale talvolta ne è anche ingrediente -, richiama sfere più intime della vita come famiglia e convivialità.
Anche Ulisse mangiava salumi
E l’origine del salame è talmente italiana da affondare le radici della sua tradizione al tempo degli Etruschi e dei Romani, esplodere e consolidarsi nel Medio-evo, per poi differenziarsi di località in località, di campanile in campanile, dando vita a decine di preparazioni diverse, grazie a tecniche di macinatura, spezie, stagionature tra loro alternative dalle quali si sono sviluppate le attuali tipicità locali. E allo stesso tempo è una storia tanto intimamente europea da conservare tracce importanti dell’incontro tra latini e germani.
Ma procediamo con ordine e senza fretta. Il viaggio è lungo e pieno di curiosità e attraversa i millenni e un bel pezzo di Mediterraneo. Infatti, ad essere rigorosi, prima di Etruschi e Romani, già in epoca preistorica ci sono le prime esperienze di conservazione e lavorazione della carne. Ma il sale ancora non è usato: al processo di essiccazione si provvede o con il calore del sole o con quello della fiamma viva e del fumo. Il salto in avanti avviene con gli egiziani: appaiono per la prima volta dei prodotti simili agli insaccati odierni che pare fossero apprezzati anche alla corte del faraone, tanto che se ne trova una testimonianza sulla tomba di Ramsete III. Il primo a scrivere di salumi è però Omero. Siamo un paio di secoli dopo il 1000 a.C., e in alcuni passi dell’Odissea si fa riferimento a un composto a base di sangue e di grasso.
Non è, però, ancora propriamente salame come lo intendiamo oggi, almeno. Come non è forse salame quella lucanica che viene talvolta menzionata da Aristofane molti secoli dopo – siamo nel IV secolo prima di Cristo - nelle sue commedie e di cui sembra rimasto intatto solo il nome. A dirla tutta, siamo nel campo delle supposizioni e delle ricostruzioni circa gli ingredienti e le tipologie di prodotto, ma una cosa è certa: fin dall’antichità gli uomini lavorano la carne di maiale con varie tecniche per conservarla a lungo e goderne a distanza le caratteristiche e il gusto.
SPQR, la storia diventa romana
Per avere testimonianze più certe occorre spostarsi, appunto, in Italia e attendere qualche secolo, quando entrano in scena prima gli Etruschi e poi i Romani e dove probabilmente gran parte della storia del salame si gioca lungo quella via Salaria che collega Roma con l’Adriatico proprio per trasportare l’elemento essenziale per la lavorazione e conservazione degli alimenti: il sale. Ma la carne in quei salumi, pare, sia solo cotta: occorrerà molto tempo ancora perché la base del salame diventi la carne di suino cruda. Di questo, si ritrova testimonianza anche in Catone il Censore, che dedica al tema della salatura della carne suina alcuni passi di un suo famosissimo trattato, il De Agricoltura del II secolo a.C.
Cotta o cruda che sia, i romani non sembrano farsene un cruccio e i loro poeti (Orazio per dirne uno) in molte opere citano con entusiasmo quelle preparazioni, in genere riservate alle feste e ai banchetti. In quest’epoca i romani chiamano i salumi ancora insicia (che richiama l’insaccamento della carne) o botulus, Solo nella tarda epoca latina si affaccia il nome salumen, che avrà però bisogno ancora di qualche secolo per diventare il nome esclusivo delle carni suine insaccate e stagionate: al momento indica tutti gli alimenti lavorati con il sale.
In ogni caso, il salame è già diventato una consolidata tradizione italica che si è diffusa nel resto dell’Impero. Non solo: la lavorazione della carne di maiale sviluppa in Italia anche altre specialità come il prosciutto, che pare abbia sedotto Annibale, e la mortadella, nell’allora Bonomia, ovvero Bologna. La passione dei romani per i salumi si ritrova ancora oggi nella toponomastica capitolina: il nome di via Panisperna - sede del gruppo di fisici guidati da Enrico Fermi - significa pane e prosciutto, rispettivamente panis e perna in latino.
Un salame barbaramente buono
Roma decade e l’Impero si trasforma in tante entità nazionali, di stampo cristiano e latino-barbarico. L’Italia, dopo gli Ostrogoti, diventa la casa dei Longobardi che provano a unificarla in un solo regno. Di mezzo c’è il Papato e quell’unione non “s’ha da fare”. Ma i Longobardi uniscono l’Italia in modo diverso: sotto il loro regno si diffondono lungo la penisola dei procedimenti che rinnovano l’ormai secolare tradizione della lavorazione della carne. E la vera novità è che si trova il modo di trattare e conservare in sicurezza anche la carne cruda.
Con l’intensificarsi del consumo di maiale, che allo stato brado è molto diffuso nei boschi europei, iniziano a profilarsi le zone a maggiore vocazione salumaia, che forse non a caso, coincidono con quelle a maggiore presenza longobarda: Sannio, Umbria, Pianura padana, in particolare Lombardia ed Emilia. In quest’epoca inizia, così, a emergere in maniera più spinta la tendenza alla differenziazione delle lavorazioni e degli ingredienti. I salumifici dell’epoca sono i conventi e le grange – la versione medioevale delle aziende agricole: è lì che convergono le carni provenienti dal circondario.
Per indicare il salame si usa ancora la generica parola latina salumen. Ma i tempi corrono veloci e, tra alti e bassi, dopo il Mille il consumo di carne suina e di pesce nordico aumentano. Tanto da rendere necessario distinguere il baccalao – ovvero il merluzzo salato – dalla carne di maiale. Si afferma il nome salamem, affiancato da salacca. Secondo alcuni, l’originaria comunanza del nome spiegherebbe perché nell’italiano familiare sia salame sia baccalà indichino bonariamente uno sciocco. La salatura, infatti, conferirebbe quella rigidità tipica dei meno intelligenti, conservandone l’intima bontà.
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