L’Africa non è solo un continente, smisurato, unico, ma anche un modo diverso di concepire la vita. In Africa tutto ha un tempo che scorre e il suo scorrere spesso ci porta a pensare che stiamo perdendo il nostro tempo. Chi ha avuto modo di viverci per lungo tempo sa che non è così, l’africano vive la vita seguendo canoni diversi, maggiormente legati al territorio, si adatta al proprio ambiente e cerca di assimilarne le esigenze, non cerca di modellarlo, non prova nemmeno a cambiarlo. È in Africa, culla della vita, che è nato l’uomo, si è sviluppato, evoluto, cresciuto e lì tutto ha avuto origine. Un’Africa umile e grandiosa, simbolo di un’umanità smarrita che cerca il suo potente soffio vitale. Lo stesso che affascina da secoli inesauribili schiere di viaggiatori.
Perchè dal basso?
Quando sei in basso giudichi quello che vedi da un altro punto di vista, magari limitato, pur sempre reale, a contatto con tutto quello che ti circonda. Ti porto un esempio: se guardo la Tour Eiffel dal piazzale, la vedo in tutta la sua maestosità, in quel momento lei è la protagonista della scena e io solo un puntino piccolo piccolo alla base, un osservatore attento farebbe fatica a individuarmi, a riconoscermi perchè la mia figura si confonderebbe nell’immagine della torre. Restando però in basso io vivo la realtà che mi circonda, annuso gli odori, ascolto le voci, vedo i colori, provo dolore e gioia insieme a quelli che mi circondano. Se io salgo su quella torre, il mio orizzonte si ampia, sono sempre un puntino ma all’ultima terrazza della torre non c’è spazio per migliaia di persone, sono pochi gli eletti che di volta in volta hanno accesso a essa, da quel punto privilegiato allora posso guardare la città che mi circonda, domino tutto ma quello che realmente potrebbe interessarmi lo vedo distante, come puntini in mezzo al verde, come puntini in mezzo al grigiore, come puntini su un bateau mouche che naviga nella Senna, un mondo a me distante del quale non posso sapere nulla, perchè troppo lontano. Dal basso invece sintetizza il modo come ho iniziato a scoprire l’Africa.
Cioè sei andato in Sud Africa?
No, l’Africa nera l’ho scoperta dalla Nigeria. In questo caso il titolo non ha un riferimento geografico, è semmai un percorso il mio, la scoperta di un continente, della sua gente, abitudini, delle usanze e costumi partendo dal gradino inferiore di una ipotetica scala di valori. Più in basso di così non era possibile, avrei dovuto assumere le loro sembianze. Questo non vuol dire che mi elevo in ogni caso a un gradino superiore, io uomo bianco ho cercato di essere come loro, ho cercato di immedesimarmi nel ruolo di uomo nero riuscendone a cogliere tutti gli aspetti del loro modo di vivere arrivando perfino ad una sorta di simbiosi fra la mia cultura e la loro. Io ne sono uscito rafforzato, tutta la mia conoscenza ha beneficiato di questo processo negli anni seguenti e i benefici li posso percepire ancora adesso.
Quindi il tuo era un viaggio al contrario, sei fuggito dalla realtà deve vivevi per entrare in un mondo totalmente sconosciuto e scoprire sulla tua pelle come vive l’uomo nero?
Non necessariamente, non sono partito con quell’intento, io in Nigeria sono andato per lavorare, non ho scelto l’Africa semmai, parafrasando, l’Africa ha scelto me.
Non è stato un percorso facile. Arrivare in Nigeria fu un tremendo impatto con una realtà che non mi aspettavo, tutto era molto, troppo diverso da quello che pensavo fosse possibile, la gente, i colori, gli odori colpivano i sensi e rendevano un’immagine ben diversa da quegli stereotipi che anni di scuole e università erano riusciti a insegnarmi. La prima reazione fu agghiacciante, il primo pensiero fu di scappare e lasciare ad altri quelle responsabilità che mi si chiedevano, anzi imponevano. Fu la perseveranza che sempre mi contradistingue e la consapevolezza che potevo farcela che mi tennero li, col tempo imparai a conoscere l’ambiente ove vivevo e integrarmi in un mondo così diverso. Ma solo dopo i primi mesi mi resi conto che il processo per la piena accettazione del vivere nel continente nero aveva avuto un esito positivo, che desideravo restare e potevo integrare il loro modo di vivere al mio.
Uhmm restare? Per restare ti sei sposato un’africana?
Sicuramente no, non era nelle mie intenzioni entrare in Africa dalla porta più facile. L’idea prevalente che si fanno gli italiani è che il matrimonio risolve tutto, anche le difficoltà ad ottenere un visto. Salvo poi scoprire che un matrimonio dovrebbe essere “per sempre” e quasi mai, in Africa, va a finire così.
Perchè? Perche le tentazioni sono tante, se ti sei sposato con uno scopo ben preciso e non “per amore” vuol dire che sei anche africanizzato, quindi non più padrone di te stesso, devi rendere conto di una parte della tua vita alla tua dolce metà che sarà dolce solo i primi mesi di vita insieme. Dopo la convivenza ti sembrerà sempre più salata, non è lei a peggiorare, non solo, sei tu. Perché cerchi e vorresti continuare a fare quello che facevi prima. Perché sai che il tuo matrimonio non è per dividere una vita insieme ma solo un salvacondotto per restare in quella particolare nazione che fa gola ai tuoi interessi.... A questo punto della storia il matrimonio scoppia perché ti rendi conto che lei non è l’arrendevole donna che cercavi e lei capisce che tu non sei l’uomo innamorato che voleva portarla via da li.
Tu vuoi restare, il matrimonio è solo una scusa. Lei voleva andarsene e a quel punto della storia si sente presa in giro, gabbata. Parliamoci chiaro, sono poche le donne africane che aspirano a restare in Africa, se si sposano l’uomo bianco, principe azzurro, verde o blu, è per avere un passaporto per un mondo che si dovrebbe aprire toccando appena la maniglia. Un mondo dove c’è tutto quello che desiderano o hanno sempre desiderato: dalla tv ai fast food, dai cinema al coperto alla piscina con l’acqua chiara, vestirsi come vuoi, un’auto scoperta con il vento che scompiglierebbe i capelli (finti)... Insomma le avete illuse e tagliate i loro sogni?
Avrete vita matrimoniale molto breve in Africa.
Appena capiscono le vostre intenzioni non dichiarate prima del grande passo vi salutano in un momento, piantandovi li con una montagna di conti da pagare ed una famiglia della sposa sull’uscio armata di machete e con intenzioni non proprio da buon samaritano.
L’Africa non è quello che il comune senso del pensare crede che sia, non è la terra da colonizzare. L’Africa è viva, pulsante, colorata, vanitosa, volenterosa, ambiziosa. Vuole crescere nonostante molte classi dirigenti africane - copiando molto da quelle europee - credano che sia sufficente riempire il proprio conto in banca.
Bene, sani principi. Come ti sei organizzato?
L’intento era di creare una base, non in Nigeria e nemmeno in uno dei paesi limitrofi dove vivere per un uomo bianco equivaleva ad andarsi a cercare i guai col lanternino. Avevo in mente un’idea che andava affinata, mi serviva inoltre una più vasta conoscenza della gente, delle autorità, come potevo muovermi, come potevo evitare i problemi e crescere. A quel tempo mi offrirono di lavorare in Kenya per una multinazionale impegnata nella costruzione di alcuni impianti di desalinizzazione acqua. Scoprii che non era esattamente quello che mi aspettavo. La multinazionale non aveva alcuna esperienza del Kenya, nessuna conoscenza dell’ambiente e nemmeno delle leggi, quelle scritte e quelle non scritte. Insomma un incubo. I lavori civili li avevano affidati ad un’impresa kenyota, le installazioni meccaniche ad un’impresa indiana riservandosi per se stessa la conduzione dei lavori, a me fu affidato il difficile incarico di project manager. Difficile perché alla fine mi ritrovai a dover litigare dalla mattina alla sera con i kenyoti in ritardo abissale, con gli indiani che litigavano con i kenyoti e con il cliente che non voleva pagare per via del ritardo abissale. Trovai la soluzione e la proposi alle parti. Il cliente accettò senza compromessi, gli indiani mugugnando, i kenyoti tagliarono la corda lasciandoci in braghe di tela e la multinazionale si defilò fiutando il fallimento. Libero da condizionamenti e con carta bianca del cliente che mi assunse a tempo pieno completai l’impianto nei tempi supplementari senza dover ricorrere ai rigori, pagammo tutti i subcontractors che ero riuscito a recuperare dopo la dipartita del partner civile e gli indiani che sorridevano anche quando prendevano legnate sui denti. Quell’esperienza mi fece capire che l’Africa non era da sottovalutare, che le difficoltà di un’azienda italiana vengono moltiplicate per cento non appena questa metteva piede nel continente nero, che non si possono gabbare le persone raccontando storielle o vendendo loro la cassa di vetri colorati, che gli affari sono affari ma bisogna condurli con capacità imprenditoriali, che l’africano si era evoluto e al posto dell’orecchino d’osso aveva l’auricolare del telefonino.
Lasciai il Kenya destinazione South Africa due settimane dopo la fine dei lavori, deciso ad iniziare la mia attività.
Diventare imprenditori in Sud Africa? Wow, un bel salto di qualità. Successo immediato suppongo?
Valutazione errata. Intanto dovevo guardarmi attorno per cercare la location più adatta allo scopo. Il South Africa ruota attorno a tre capitali ognuna con una ben distinta identità:
Pretoria, sede del Governo, Città del Capo, dove si trova il Parlamento, e Bloemfontein, sede del potere giudiziario. Ai fini internazionali, tuttavia, è Pretoria a essere identificata come capitale in quanto sede della Presidenza, Johannesburg non è nella lista delle capitali ma, nel corso degli ultimi tre decenni è stata la città che più di tutte ha cambiato il volto di questo grande paese arcobaleno. A Johannesburg ci sono le sedi di molte banche, africane, europee, americane e nei tempi più recenti asiatiche. Ci sono le industrie manifatturiere, estrattive, quelle di trasformazione delle materie prime. L’oro dall’estrazione alla vendita passa tutto da qui, ma anche altri metalli preziosi. Moltissime ambasciate hanno sede qui o a Pretoria che comunque dista solo una decina di km, alberghi internazionali e catene di negozi sono comunque presenti e operano attraverso centri di servizi a Johannesburg.
Nonostante tutto è anche la città con il più alto crime rated in tutto il South Africa. Non molto distante da Jo’burg, come viene soprannominata, c’è Soweto il cui nome è un acronimo, significa infatti South West Township. Negli anni vicini alla fine dell’apartheid molti degli eventi che hanno accelerato la fine di un periodo buio della storia di questo grande Paese, si sono svolti qui. Come dimenticare quel 16 Giugno 1976 quando iniziarono violenti scontri tra gli studenti neri e la polizia segregazionista del National Party, partito nazionalista al governo del paese? Il motivo specifico della protesta studentesca di Soweto fu un decreto governativo che imponeva a tutte le scuole in cui erano segregati i neri, di utilizzare l'afrikaans come lingua paritetica all'inglese. Quest' ultimo episodio, preceduto da una lunga serie di imposizioni da parte degli afrikaner, fu percepito come direttamente associato alla logica generale dell'apartheid. L'inglese era la lingua più diffusa presso la popolazione nera ed era stata scelta come lingua ufficiale da molti bantustan al contrario dell'afrikaans, la lingua degli oppressori. Il Ministro per l'Istruzione Bantu, Punt Janson, incurante del volere della popolazione arrivo ad affermare « Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un "capo" che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue. »
Queste ultime dichiarazioni suscitarono numerose proteste da parte del corpo docenti e degli studenti neri delle scuole dov'erano segregati. Il 30 aprile 1976, i bambini della "Orlando West Junior School" diedero inizio a uno sciopero, rifiutandosi di andare a scuola.
Gli studenti di Soweto intanto formarono un comitato d'azione, il "Soweto Students' Representative Council" per organizzare la protesta, indicendo una manifestazione di massa per il 16 giugno. Migliaia di studenti e docenti neri si riversarono nelle piazze e si diressero verso lo stadio di Orlando. Si decise per la linea pacifica, pianificando in modo accurato il tutto, in modo tale che fosse chiaro: nelle prime file del corteo erano esposti cartelli con scritte come "Non sparateci - non siamo armati". Il corteo incontrò la polizia, che aveva preparato delle vere e proprie barricate. Si optò per una deviazione del corteo su di un percorso alternativo: anziché andare allo stadio, giunsero presso la Orlando High School.
Qui, nuovamente trovarono la polizia ad attenderli che cercò subito di disperdere la folla con i gas lacrimogeni.
Dal corteo cominciarono a levarsi slogan di protesta ed i bambini esasperati dalla condizione di segregazione in cui si trovavano costretti a vivere sin dalla nascita e dal crescendo di angherie che erano costretti a subire, cominciarono a tirare pietre verso la polizia.
La polizia prontamente e senza alcuno scrupolo, aprì il fuoco uccidendo quattro bambini, fra cui il tredicenne Hector Pieterson di cui la fotografia del suo corpo martoriato divenne un simbolo della violenza della polizia Sud Africana.
Negli scontri che seguirono durante la giornata morirono altre 23 persone.
Dopo il massacro del 16 giugno, la tensione fra gli studenti neri di Soweto e la polizia continuò a crescere.
Il giorno successivo, le forze dell'ordine Sud Africane giunsero a Soweto armate di fucili automatici, inoltre furono dispiegate anche forze dell'esercito.
Soweto era pattugliata da elicotteri e automobili della polizia e diverse fonti riportarono di agenti in borghese che giravano in automobili civili e sparavano a vista sui dimostranti neri.
Le contestazioni durarono circa 10 giorni e si dovette arrivare alla morte di più di 500 manifestanti e il ferimento di oltre 1000, perchè il regime dell'apartheid crollasse.
La rivolta contribuì a consolidare il sentimento anti-afrikaner nelle masse nere e la posizione predominante dell'ANC come principale interprete di questo sentimento.
Molti dei cittadini bianchi Sud Africani presero parte in modo deciso a favore dei dimostranti. Alle manifestazioni di studenti neri si andarono ad aggiungere quelle degli studenti bianchi. Dal mondo studentesco, inoltre, la protesta si allargò a diversi settori produttivi con una catena di scioperi da parte degli operai di molte fabbriche. La rivoltà che si estese in tutto il Sud Africa pagò ed ebbe un ruolo fondamentale nella caduta del National Party e nella fine dell'apartheid, sancita definitivamente nel 1994.
Pagine buie, orrende, errori che non si dovevano commettere. L’arroganza di certi afrikaneer ricorda molto da vicino gli eventi che hanno caratterizzato la nostra storia, un’altra pagina triste, dal 1939 al 1944 quando alleati dei tedeschi entrammo in guerra contro il resto dell’Europa.
Che tristezza, l’uomo non impara mai dai propri errori. Quindi non fu facile?
Non fu facile, e non fu nemmeno una bella esperienza, almeno nei primi anni. Fu così difficile che dopo un periodo euforico decisi di abbandonare i sogni di gloria e cercarmi un lavoro da dipendente. E non andò meglio, anzi peggio di prima. Il fatto era che ormai ero abituato all’idea di essere imprenditore, così cercavo sempre la soluzione migliore per risolvere i problemi man mano che si verificavano o venivano identificati, attirandomi le ire di chi con quei problemi aveva convissuto per anni e goduto dei privilegi derivanti dal denunciarli e risolverli e non più di uno all’anno. In sei mesi di lavoro presso un’impresa trovai almeno trenta anomalie e risolsi una decina di contratti che vivacchiavano sugli aiuti di chi invece doveva chiuderli. Quando trovai le gomme dell’auto bucate per la terza volta, decisi che non era il caso di insistere, a quel punto però il mio datore di lavoro pretese la stessa profusione di impegno e dedizione di prima, per un pò fui capace di mantenere il ritmo e guardarmi le spalle dai cattivi, quando raggiunsi il punto di saturazione mi dimisi con sommo dispiacere del direttore e tornai a riflettere sulle situazioni strane della mia vita. Per tornare a vivere veramente, eufemismo visto che io stavo vivendo, dovevo ritrovare la via, un percorso che fosse tutto mio da poter plasmare secondo le mie esigenze e desideri. Nel 1992 tornai in Italia per cercare idee e alternative da poter applicare in Africa.
Esperienza negativa da imprenditore, ancora negativa da dipendente, che alternativa speravi di trovare?
Nessuna esperienza, anche quelle peggiori, può essere considerata negativamente, tutte arricchiscono il bagaglio dell’individuo in quanto essere umano che pensa e comprende e sa giudicare con cognizione di causa le diverse situazioni e trarne giovamento. Da quelle esperienze avevo capito che avrei dovoto prima di tutto cercare dentro me stesso le necessarie motivazioni e quindi cercare di raggiungere i miei obbiettivi con tutta l’ostinazione e la caparbietà che sempre mi aveva caratterizzato fin dai tempi della scuola. Poi successe un fatto strano, nel 1993 una persona che conoscevo da una decina d’anni, mi informa che sta partendo per un’esperienza africana in un villaggio vacanze, il paese scelto è la Tanzania, qualche chilometro a sud di Dar Es Salaam. Mi chiede se sono disposto a partire con lui e, nel caso di informarlo per poter organizzare il viaggio.
Non è quello che cercavo ma un’esperienza africana di quel tipo mi mancava e accettai. In realtà quello che giustificava la scelta non era direttamente connessa con quella filosofia anche spiccia dei villaggi turistici, argomento che mi era totalmente sconosciuto fino a allora, bensì il contatto con le popolazioni locali e l’eventuale interazione fra la nostra cultura e la loro, mi interessava cogliere le eventuali similitudini comportamentali e assimilare quanto più possibile di quegli aspetti per poter in seguito mettere in pratica quando imparato. Invece non m'immaginavo lontanamente che i contatti con l'esterno erano ridotti al minimo e la gente locale veniva prontamente tenuta lontana dalla struttura e dai turisti. Così, il momento del beach volley per me si trasformava in un angoscia, puntualmente la zona di gioco si animava di bimbi e ragazzi africani che pur di toccare e dare anche solo un calcio, correvano avanti e indietro a recuperare e riportarci il pallone per poter continuare la partita, il gioco è unione, e li invece era vissuto come separazione, c’erano ospiti che giunsero perfino a spintonare i bimbi per cacciarli dal terreno di gioco, il gioco è complicità e rispetto, spesso la fratellanza e la reciproca fiducia si fondono magicamente mentre ci si diverte, purtroppo ogni nuovo gioco era invece vissuto come un dramma e meditai numerose volte di andarmente così su due piedi lasciando come statue di sale l’amico e il gestore del villaggio.
Inoltre proprio in quel periodo il villaggio stava finendo la costruzione di un ennesimo muro che avrebbe dato così la possibilità ai turisti di raggiungere la spiaggia tranquillamente, evitando nello stesso tempo qualsiasi contatto e disturbo da parte degli africani! Rabbrividivo, giorno dopo giorno, alla parola "ignoranza" che lo staff italiano facilmente usava. Ero deluso e mi sentivo soffocare, così nelle piccole pause giornaliere e alla notte, terminato lo spettacolo ed il nostro lavoro, sgattaiolavo di nascosto all'aria aperta bramoso ogni volta di aprire il mio cuore all'Africa e facendo la felicità della guardia africana ai cancelli del villaggio a cui davo qualche dollaro per ringraziarlo del suo silenzio! Uscita dopo uscita, aggiungevo nuove ed indimenticabili immagini ai miei occhi ed indelebili impronte alla mia vita. Quella che ora posso dire, mi ha donato l'Africa!
Amavo già l’Africa, il mio percorso era nato in Africa e volevo poterlo terminare, anche se mi rendevo conto che non avrei trovato lo stesso idilliaco ambiente in nessuna delle destinazioni future da tempo programmate. L’esperienza tanzaniana potevo giudicarla positivamente, avevo accumulato la necessaria conoscenza e credevo di poter essere in grado di organizzare viaggi africani a mia volta improntati a un diverso rapporto di coesione, partecipazione e complicità del baturi uomo bianco con la gente che avremmo potuto incontrare nel corso dei viaggi di esplorazione che mi ero prefissato.
Avevo naturalmente ancora degli aspetti da identificare, il disegno andava piano piano affinato e completato con informazioni pratiche e organizzative ma sentivo già crescere in me quel desiderio di simbiosi con la gente africana come non l’avevo mai provato prima e che, in quel momento, era portato a farmi credere non l’avrei più trovato se non prendevo al volo quello che il caso o la fortuna mi stavano offrendo sul classico piatto d’argento. Quei quattro mesi non hanno fatto altro che alimentare questo grande amore e rendere ormai sofferenti i mesi che devo passare lontana da quella Terra! Ogni volta che ritornavo, ritrovavo il mio cuore. In Africa tutto è accentuato, è sentito, è grande e assorbito profondamente, a partire dalle emozioni e dalla fame fino al suono della Terra e della Natura, dal bisogno d'amore all'amore per la vita e ancora all'inno alla vita che giornalmente l'Africa esprime con il sorriso dei bambini, con i maestosi baobab, con la musica e con le stelle! Per tutto questo e per tutto quello che è l'Africa vorrei non sentirne più la mancanza, vorrei dissetarmene all'infinito e sopratutto vorrei che un domani mio figlio potesse esser circondato da questa meravigliosa Terra per crescere con la stessa umiltà e sensibilità alla vita, con lo stesso fiero sorriso negli occhi e nell'anima con cui i miei fratelli africani ci guardano! La mia vita è cambiata dalla prima volta che ho messo piede su quella terra rossa anni addietro, ma è nell'ultimo ritorno che ho definitivamente maturato la convinzione che in realtà quello sarà il mio piccolo angolo di paradiso dove vorrei stare, è lì che la mia nuova vita deve iniziare!
Continua....