I post che hanno maggior successo su Facebook sono quelli in cui l’autore (autrice) parla di se stesso o mette foto di se stesso, ma ancor di più quelli in cui racconta di qualche dolore molto intimo. Qualche anno fa su Facebook si scriveva: “Ecco la mia foto mentre sto facendo colazione davanti al mare”. Oggi si scrive: “Ecco la mia foto mentre sto facendo colazione davanti al mare, nello stesso posto in cui venivo con mia madre quando era viva e adesso mi mancano tanto le sue carezze dolci.”
Quando, nel 2004, nell’era paleolitica ante-Facebook, aprii un blog, diverse persone mi domandavano se non mi sentissi a disagio a condividere su internet i miei pensieri. Quanta acqua è passata sotto i ponti dell’era dei social network! Il grado di intimità del mio blog era minimo a confronto con gli attuali standard! Se sui giornali si scrivono, pubblicano e leggono le notizie pubbliche, Facebook è, ogni giorno di più, il luogo delle cose intime.
Ma perché piace tanto il dolore messo in piazza? Perché riscuote tanto “successo”? E perché uno mette in piazza il proprio dolore, soprattutto su Facebook? Beh, innanzitutto per meccanismi vecchi quanto il mondo o vecchi quanto Facebook. Leggere o ascoltare del dolore altrui ci fa banalmente pensare: “Ah, che fortuna che non è capitato a me!”, ma anche, al contrario: “Ah, che sollievo constatare che non è capitato solo a me!”. In entrambi i casi, ci sentiamo sollevati e contenti e quindi esprimiamo tale emozione con apprezzamento. L’attrazione per il dolore è inoltre scatenata da una naturale morbosità: chi non si è mai fermato a curiosare quando un’ambulanza è ferma in mezzo alla strada? Il dolore, le lacrime, il dramma ci attraggono naturalmente. Tutto questo è sempre accaduto, ben prima dei social networks. Ma Facebook amplifica ogni comportamento, ogni tendenza.
Per quanto concerne Facebook, da sempre è fondato sugli assiomi: “approvo per essere approvato”, “ti metto un like perché tu lo metta a me”: una continua richiesta e soddisfazione del proprio bisogno di approvazione da parte degli altri, ottenuta in cambio del facile esercizio di approvare gli altri. Se dunque racconto delle mie emozioni più intime mentre mi sto recando al letto di morte di mio padre, so che tante persone mi dedicheranno attenzione perché io ho fatto altrettanto con loro.
Ma c’è di più. A cosa si sta veramente concedendo la nostra approvazione a mezzo like? Alle parole del nostro “amico” che ci racconta dei suoi ricordi di quando entrava in quel negozio con sua madre quando era piccolo…o invece al fatto di condividere quei ricordi con i propri “amici”? La sensazione è che ciò che stiamo apprezzando non sia tanto o solo l’oggetto del post, quanto l’atto di pubblicare quel tipo di post così intimo. La conseguenza implicita, ma chiara di questo comportamento è che chi non espone in pubblico la propria sfera intima è disapprovato socialmente.
Se nel presente questa affermazione può apparire provocatoria e iperbolica, non è così assurdo pensare che stiamo andando proprio in quella direzione considerando l’enorme potere dei social network sui comportamenti di un animale così sociale come l’essere umano. Stiamo cioè avviandoci verso una società in cui non solo è ben visto esibire i propri dolori e nostalgie più intime, ma è socialmente disapprovato chi non lo fa. Personalmente, il mio comportamento sociale su Facebook è virato esattamente nella direzione opposta e, infatti, sto postando raramente foto mie e ancor più raramente miei pensieri e mai davvero intimi, i miei interventi su Facebook sono assai meno apprezzati rispetto alla media.
La nostalgia è forse il principale motore di Facebook, ossia di una delle maniere più comuni con cui comunichiamo.
Perché dunque oggi , il mettere in piazza il nostro dolore è un comportamento elogiato, mentre fino a pochissimi anni fa sarebbe stato giudicato sconveniente e impudico? Il mezzo è ovviamente cruciale. Negli ultimissimi tempi, l’uso che facciamo di Facebook si è così evoluto da diventare il luogo supremo di una comunicazione soft. È vero che i nostri sentimenti più profondi riguardanti una persona cara che non c’è più, un amore perduto o la nostra depressione li condividiamo con i nostri amici (anche se in molti casi i profili Facebook sono assolutamente pubblici), ma a quanti di questi “amici” racconteremmo le stesse cose faccia a faccia, guardandoli negli occhi?
Su Facebook ci si può aprire completamente rimanendo però nascosti, si può comunicare con tutti, ma non avvicinarsi davvero a nessuno. Si crea cioè un “meta-rapporto”, che prescinde dal loro “esserci”, al punto che, se dovessimo incontrare davvero un nostro “amico” che ha letto di quanto siamo tristi e disperati perché nostra madre è appena morta, probabilmente non saremmo in grado di proseguire il discorso, che verosimilmente si svolgerebbe su un altro piano, incentrato sulle solite cose e sui soliti argomenti.
In altre parole, il mezzo tecnologico consente un’enorme e nuova facilità di comunicazione che vive e cresce però in un piano diverso da quello reale, in cui ci si guarda negli occhi, ci si tocca, si sta in silenzio seduti allo stesso tavolo. E paradossalmente la facilità del primo tipo di comunicazione ha accresciuto la difficoltà del secondo tipo. Non è certamente un caso che gli adolescenti di oggi possano contattare chiunque senza grande sforzo (un WhatsApp non è così pregno di significato), ma la barriera per avvicinarsi davvero si è alzata rispetto a quando, per parlare con “la ragazza che ti piaceva”, dovevi alzare la cornetta e telefonare a casa chiedendo al padre o alla madre di parlare con lei. Niente “passatismo” per carità: semplice analisi del fatto che, se le pulsioni umane rimangono le stesse, i contesti e gli strumenti cambiano. E ciò cambia anche il declinarsi di queste pulsioni.
O forse c’è una profonda solitudine alla base di questi comportamenti? Guardare nelle vite altrui e quindi, per il tipico meccanismo di Facebook, esporre agli altri la propria vita perché sia guardata, è sintomo chiaro di solitudine. Si racconta a Facebook del proprio dolore e delle proprie tristezze per essere meno soli? E lo si fa anche perché si è così soli da non avere nessuno con cui parlare sul serio?
Forse questo tipo di comportamento è anche un po’ esibizionista (sempre soft…)? Ogni mattina, uscendo dalla doccia, cammino nudo per la stanza, le cui finestre sono a circa 100 m da quelle del palazzo di fronte. So che qualcuno può vedermi, ma la distanza è tale che la cosa non mi disturba, anzi mi procura un sottile piacere. Eppure non mi sognerei mai di fare altrettanto se le finestre fossero a 10 m di distanza. Quasi ogni settimana appaiono sulla mia bacheca Facebook pensieri intimi di persone con cui, faccia a faccia, non ho mai raggiunto, né credo mai raggiungerò un particolare grado di intimità. E non nascondo che la cosa un po’ mi disturba. Sarà perché io non sono capace di fare altrettanto e invece mi piacerebbe? Sarà perché anche io avrei bisogno di una valanga di like e commenti di appoggio e sostegno di fronte al dolore che, prima o poi, compare nella vita di chiunque?
Mentre penso a queste cose, per televisione appare Celine Dion che canta tra le lacrime una canzone che racconta del padre, del marito e del fratello morti di cancro di fronte ad un pubblico emozionato e coinvolto. Da qualche settimana, ho inoltre terminato di leggere un libro intimo ed intenso scritto dal figlio di un medico impegnato per i diritti umani, assassinato dai paramilitari colombiani qualche anno fa, in cui il dolore è ovviamente un assoluto protagonista. Il pubblico del concerto di Celine Dion e le migliaia di lettori di quel libro sentono compassione per quel dolore, ossia, etimologicamente, percepiscono la sofferenza altrui, desiderando alleviarla. L’autore del libro dichiara esplicitamente di essere riuscito a superare il terribile dolore di vedere il padre appena assassinato, sanguinante sul selciato, proprio parlandone, esprimendolo attraverso la scrittura. E probabilmente anche Celine Dion pensa lo stesso.
Mi chiedo dunque se l’autore dei post che trovo su Facebook, che racconta della moglie morta ancora giovane ogni santo giorno tanto da creare un tormentone infinito o le lacrime della mia amica che non riesce a superare l’abbandono del marito non nascano dallo stesso desiderio di comunicare il dolore per poterlo alleviare e per poter suscitare compassione. E cosa sarebbe del vostro pensiero se vi venisse detto che l'autore di cui sopra non ha mai, e ripeto mai, speso una buona parola per la moglie mentre era ancora in vita? E della mia amica? Poteva pensarci prima per salvare la sua relazione invece di piangere lacrime da coccodrillo su Facebook quando ormai è troppo tardi?
Probabilmente una cantante e uno scrittore sono più bravi di loro a coinvolgere e far immedesimare chi la ascolta o lo legge nella propria intimità; verosimilmente la loro tecnica sarà migliore.
E allora la domanda è: non è forse identico il bisogno, l’autenticità e anche il diritto di comunicare dei miei “amici” su Facebook?