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Emigranti italiani a Ellis Island, New York |
Leggo su facebook una
discussione nella quale mi ritrovo inconsapevolmente sul banco degli accusati a
causa di un mio articolo sull’opportunità di cambiar vita riciclandosi in
Vietnam. La discussione parte dal Vietnam e vira con disinvoltura verso
opinioni diverse riguardo il lavorare o meno all’estero come espatriato, brutta
parola molto usata in Italia per indicare colui che va all’estero a lavorare
per brevi o medio lunghi periodi ma che prima o poi rientrerà a vivere nel bel
paese. È solo uno spunto per iniziare il discorso che spazierà sopra e sotto
l’argomento analizzando paure e motivazioni di chi sceglie o viene scelto per
una vita lontano da casa fino a quando il resto del mondo diventa la sua casa o
si ritorna in Italia.
Partiamo dalla storia, noi
italiani siamo famosi per l’alto numero di emigranti negli ultimi due secoli.
In effetti l’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei caratteri
più singolari e caratteristici della storia contemporanea del nostro paese.
L’interesse per il tema rimane tuttora forte, a causa dei recenti, diffusi
fenomeni di xenofobia verificatisi in una nazione a lungo protagonista di
flussi verso l’estero, e per l’ampio dibattito riguardante il voto degli
italiani all’estero. Appare utile quindi riandare con la memoria a quando
l’Italia divenne protagonista del fenomeno.
‘Nce simmo a la partenza... io mme ne vaco... addio...
Napule bello mio, non te vedraggio cchiù. Quanto ’nc’è de cchiù caro dinto de
te se ’nzerra... addio... addio. ’A chiagnere mme vène, Napule bella, addio...
addio... addio... lo paraviso mio, sempe pé me tu sí...
Loro, gli emigranti in partenza, i loro fratelli, le loro
madri, i loro figli che restavano in patria, non dicevano mai addio, dicevano:
“Guagliù, Carmè, oj mà, nun dico: - Addio! - pecché ve
porto dint’ ’o core mio!”2.Partivano, ma in cima ai loro pensieri restava
sempre e solo Napule, perché... ogne napulitano vo’ a Napule campà...e llà vo’
murì…. Là, ’nterra ’a banchina, si dicevano: “tuorn’ampressa”, “turnarraggio”;
“scriveme”, “te scrivarraggio”.
Anche la giovane donna di cui parla Viviani in Chistu è
’o vapore, pur disperata per la prematura separazione, così mescolava
commozione e speranza mentre lui partiva per la “terra promessa”: “...me
restarrà fora ’a banchina, malata ’pucundria... sola comm’ ’a Maria; partarrà
pe’ fa’ fortuna... pe’ ce puté spusà”.
Non tutti partivano da
soli. Con il cuore in lacrime, ma colmo di speranze, c’era chi portava con sé
tutto ciò che aveva, la famiglia: “E
lasso ’a patria mia, l’Italia bella, pe’ ghi luntano assaie, ’nterra straniera.
E sott’a n’atu cielo e n’ata stella, trasporto li guagliune e la mugliera”.
La maggior parte di loro
non parti' per l'America col progetto di restarci, anzi erano considerati
uccelli di passaggio e in quanto tali ritenuti inaffidabili. Un motivo in più
per guardarli con sospetto. Furono migliaia i nostri concittadini che
specialmente tra la fine dell'800 e i primi anni del 900 sbarcarono nei porti
di Baltimora, Boston, New Orleans, New York e Philadelphia. Il il 75% degli
immigrati erano agricoltori in Italia ma non aspiravano ad esserlo negli Stati
Uniti (in quanto questo implicava una permanenza che non era nei loro piani).
Al contrario, si diressero verso le città dove c’era richiesta di lavoratori e
dove le paghe erano relativamente alte. Molti uomini lasciarono a casa mogli e
bambini, perché convinti di ritornare (e molti, moltissimi lo fecero), ma i
napoletani non ripudiarono mai la loro città, anzi continuarono a vivere
secondo il loro stile di vita tutto partenopeo. È anche certo che vari cognomi
furono trascritti erroneamente a causa della scarsa diligenza e conoscenza
dell’italiano da parte del personale di bordo addetto e – sembrerà incredibile
ma molti emigranti non erano in grado di indicare correttamente il proprio
cognome , ma mai si scordarono il paese di provenienza , la provincia e la loro
terra natia.
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Lo skyline di New York negli anni '40 |
Trattandosi di un
argomento prolungato e complesso, è auspicabile l’individuazione delle varie
fasi, diverse tra loro per caratteristiche demografiche e sociali;
cronologicamente, la classificazione più diffusa ne propone cinque:
-la prima, dal 1861 al
1900;
-la seconda, dal 1900 alla
prima guerra mondiale;
-la terza, tra le due
guerre;
-la quarta, dal dopoguerra
agli anni ‘60/’70;
-la quinta, dal 2007 ad
oggi a causa della perdurante crisi finanziaria.
(la prima rilevazione
ufficilale risale al 1876 e della fase precedente esistono solo stime, che
aiutano comunque a comprendere l’evoluzione di un fenomeno non riconducibile
alla sola età contemporanea).
Tra il 1861 e il 1985 sono
state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco
più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al
momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si
trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord
Africa.
Si trattò di un esodo che
toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1861 e il 1900 interessò
prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da
sole il 47% dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il
Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%). Nei due decenni
successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre
milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, e
quasi nove milioni da tutta Italia.
Già nel tardo medioevo si
evidenziano alcune tipologie ricorrenti: il ruolo di polo attrattivo delle
ricche città del settentrione d’Italia, i flussi dal contado alla città, i
movimenti dei mercanti italiani verso l’Europa e le colonie veneziane; la
persistente mobilità di alcuni gruppi (militari, studenti, religiosi): tutti
esempi uniti dalla temporaneità dell’emigrazione, che non intaccava il forte
legame con la terra d’origine.
In età moderna si verifica
il declino del ruolo delle città (comunque importanti fattori d’attrazione), la
nascita di Stati regionali autori di politiche demografiche strutturate. Nel
complesso, il paese appare diviso in tre aree: il nord, area sottopopolata che
utilizzava l’emigrazione come risorsa economica; il centro, caratterizzato
dalla mezzadria e da spostamenti brevi ma spesso definitivi; il sud,
latifondista, con flussi bracciantili stagionali dovuti allo sfalsamento dei
ritmi agricoli. In aggiunta, le isole rimanevano un’area difficilmente
inquadrabile: la Corsica restava terra di partenza soprattutto per i suoi
militari, dalla fama diffusa; la Sardegna, priva di flussi e la Sicilia, da
sempre terra d’immigrazione. Rimangono forti, nel periodo, gli spostamenti
“religioni causa” e quelli dei mercanti, che giungono a creare alcune comunità
nazionali nei vari paesi.
Agli inizi del 1800 quindi
si registrano soprattutto movimenti politici, specie verso la Francia, e
controlli più accurati degli Stati sui flussi, indirizzati verso le aree
sottopopolate o da bonificare: come si vede, al momento della “grande
emigrazione” la società italiana è abituata all’idea della migrazione come via
d’uscita da una condizione di disagio. Questa “eredità immateriale” necessita
solo di alcune concause per svilupparsi.
Le cause avanzate per
spiegare l’imponente crescita dei flussi sono varie, e si concentrano per lo
più sul mondo delle campagne, il “serbatoio” inesauribile di emigranti. La
società agraria appare attraversata da una crisi profonda, strutturale, non
riconducibile esclusivamente alla pur grave crisi agraria dovuta all’invasione
dei grani americani che, sfruttando i progressi della navigazione a vapore e
beneficiando della meccanizzazione del settore che consentiva costi di
produzione infinitamente minori, annientarono, semplicemente, ogni agricoltura
aperta al mercato. Innanzitutto, va sottolineata la crescente pressione fiscale
dello Stato unitario, ben più rigida, al Sud, delle precedenti. Inoltre, la
vendita dei beni della Chiesa, l’abolizione degli usi civici e la liquidazione
dei demani avevano favorito l’ascesa dei nuovi ceti borghesi, privando il mondo
contadino di antichi diritti comunitari che, spesso, costituivano importanti
voci nei bilanci familiari.
Secondo recenti
statistiche, gli italiani all’estero sarebbero 4 500 000. Gli oriundi, secondo
il Ministero degli Esteri, sono 58 500 000; un’altra Italia.
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La Tour Eiffel a Parigi, Francia |
Perchè espatriare?
La vita da espatriato è
tra le più facili: personalmente il tagliare i ponti con il proprio ambiente
non è costato molto, sono chiuso di carattere, riservato e gli amici... gli
amici sono rimasti sempre gli stessi. Prima ci si sentiva al telefono, in
seguito un’email era il mezzo più semplice oggi c’è facebook che non te ne fa
perdere di vista neppure uno. Gli amici non ti mancano quando decidi di tagliare
i ponti con un tuo recente passato per crearti un nuovo futuro, speri che sia
migliore del tempo appena trascorso e ci metti tutto l’entusiasmo per riuscire
ma non sempre dipende da te. La sfida più grande è inserirsi senza danno in
altre culture a volte diversissime, esporsi a personalità, situazioni, pericoli
estremi; lanciarsi verso l'ignoto senza un paracadute a attutirne l’atterraggio
spesso morbido ma non necessariamente, ricreare relazioni di lavoro e sociali,
e tornare a tagliare i ponti, ricominciare da capo, con altre sfide, altri
rischi, altre culture.
È un percorso che in
genere inizi da solo, probabilmente non ti sei neppure sposato, non convivi, se
avevi una fidanzata probabilmente ti ha lasciato o vi siete lasciati quando le
hai comunicato l’intenzione di voler partire. Non va sempre così intendiamoci,
non è la regola ma fa parte della casistica, viene considerata dalla maggior
parte degli analisti, studiata. Ci sono due tipologie di italiani inclini a
partire per cercare nuove esperienze fuori dai confini: chi già possiede un
bagaglio di esperienze familiari e chi decide di tentare la carta dell’estero
come alternativa a quello che ha in Italia.
Nel primo caso la strada
risulta spianata almeno a livello emozionale, in genere si cerca di
ripercorrere la strada compiuta dai genitori, non necessariamente andando alla
ricerca delle passate emozioni.
Condividere tutto ciò con
una persona amata diviene più complicato. Le priorità, le scelte, le sofferenze
sono affrontate in due, ma il rispetto delle esigenze di due persone spesso non
combacia con i tempi e l'assenza di normalità di un mercato del lavoro
sregolato come quello dell'espatrio.
Le parole chiave divengono
mediazione, adattamento, flessibilità. E gioia di scelte comuni.
È luogo comune che la vita
di chiunque cambia radicalmente con l'arrivo di figli.
Nel caso di un espatriato,
si amplifica all'estremo la sensibilità ed il senso di responsabilità e
protezione per i propri figli, esposti, non per scelta, ad una vita che
“normale” non é. Ma la “carriera” da espatriato diventa la quadratura del
cerchio, tra esigenze e tempi di lavoro che non combaciano coi tempi della vita
di famiglia, la scuola dei figli, proposte che non si possono rifiutare in
tempi e luoghi impossibili per una vita di famiglia.
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Cape Town, South Africa sullo sfondo della Table Mountain |
L'espatrio con famiglia
condivide con le altre forme di espatrio tutte le difficoltà, ma le amplifica: gli
assignments sono più lunghi, a causa dei costi che le società sono costrette a
supportare: doppi biglietti aerei, a volte tre, quattro o undici persone come,
un caso limite, capitò in Cina dove il Capo Cantiere aveva moglie, otto figli e
la nonna che non poteva essere lasciata sola a casa, e comunque le condizioni
di vita e di esposizione ai esasperano quelle che sono le costanti
dell'espatrio.
Spesso si lavora sono in
luoghi remoti in paesi in cima alla lista di quelli più poveri del mondo, a
volte in città senz'acqua potabile nè luce, e sono una selezione formidabile
per chi vuole continuare in quest'ambito. Spesso l'equilibrio psicologico viene
messo sotto pressione dalle atrocità viste e vissute, dalla familarità con la
morte e la miseria, e le contraddizioni del mondo del consumo globale esplodono
come un re nudo nella parola che meglio definisce la relazione tra paesi ricchi
e poveri: inequità. E tutto questo si ripercuote nell’ambito familiare creando
inutili tensioni e alla fine ci si domanda se ne vale veramente la pena.
Molti mi hanno chiesto se è
possibile fare una vita normale, con una famiglia, e continuare a sentirsi un
espatriato o voler vivere da espatriato a questo punto non si nemmeno più se
per scelta o necessità. Quasi sempre prendo un bel pò d'aria nei polmoni prima
di rispondere, e penso alle spiagge con la sabbia bianca e finissima, a un mare
color zaffiro, a una vegetazione fitta, a mia moglie e mio figlio abbronzati e
felici. E, dopo aver squadrato con occhio clinico l'interlocutrice o
interlocutore, rispondo (quasi sempre) di sì.
Certo, non è facile, e il
tasso di separazioni e divorzi in espatrio è più alto che quello medio nei
nostri paesi d'origine; certo, lavorando all’estero è ancora più difficile
perché l'incertezza sul futuro è altissima, e le ferite psicologiche accumulate
lasciano profonde cicatrici.
Se ti guardi allo specchio
e ti chiedi chi sei e che ci fai qui, se tua moglie si innamora di un altro, se
tuo marito s'innamora di un'altra, non hai la tua rete di protezione, le tue
amiche e i tuoi amici più fidati sono distanti qualche migliaia di chilometri,
e molto spesso non hai la possibilità di prenderti tempo o spazio per te stesso,
spesso perché sei sotto i riflettori, hai una posizione da difendere, un lavoro
importante, la responsabilità di un certo numero di persone che dipendono da
te, dalle tue capacità di gestire gli imprevisti, di uscire dalle situazioni
pericolose, dal progredire sempre e comunque secondo i programmi non fermandosi
– apparentemente – di fronte a nulla. Da qualche anno benedetti siano l'e-mail,
le chat ed i telefoni voip, skype e messenger, i telefoni cellulari, l’iphone e
molti altri smart phones che accorciano le distanze (ma perché gli italiani non
leggono mai le loro e-mail?).
Espatriare per scelta o necessità?
Impossibile da definire,
dopo la prima volta quasi sempre per necessità, diventa per scelta, la trepida
attesa di una telefonata, un’email, la prossima proposta sul prossimo paese diventa
di colpo l’obittivo da raggiungere, il target dei desideri, ci si proietta con i
sogni nella nuova destinazione: africa, asia, america. Non importa dove sia, vi
vedete già li. Ci sarà la scuola inglese? È un paese sicuro? La città ha una
vita culturale? Le donne possono vivere normalmente? Le relazioni sociali sono
aperte, tollerate? Riusciremo a comunicare con una delle 4 lingue che
conosciamo? Se ne parla con la famiglia, con moglie e figli quando questi sono
in grado di emozionarsi, di condizionare le nostre scelte. Loro i figli non
decidono mai almeno fino ai dieci anni, poi diventano la vostra ancora, il peso
che vi tiene fermi, che non vorrebbero mai partire. Il cane, parliamo anche di
animali, mai sottovalutare la loro presenza,
che ho adesso tutte le
volte che si deve partire gioca a nascondino, lei vorrebbe restare a casa, non
importa quale casa, l’ultima dove ha vissuto momenti felici, apprezzato l’ambiente
e le persone. Si nasconde, si nega, recalcitante a farsi infilare in una
stretta e buia gabbia per viaggiare lontano. Noi no, alla prima email via a
cercare informazioni su internet, sottoponendo a stressanti conversazioni gli
amici, quelli che ci sono già stati, quelli che ne hanno sempre parlato bene.
Lunghe chiacchierate, e quando abbiamo quasi deciso hop, arriva un'altra mail.
Altro continente, altre condizioni, altro paese, altra cultura, altra lingua -
e le stesse domande. E quando pensi di aver preso la decisione, ti dicono che
ora quella posizione è “già coperta”. E via, si ricomincia.
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La Grande Muraglia, Cina |
Un rischio della vita
dell'espatriato è di vivere come una specie di parentesi, più o meno
avventurosa o gratificante, della tua vita. Nulla di più rischioso. La tua vita
è oggi, radicata nel tuo ieri e proiettata nel domani; e sebbene il tuo oggi da
espatriato sia radicalmente diverso dal tuo ieri, ed il tuo domani stia nelle
mani dell'oracolo di Delfi, è il tuo oggi, qui, che definisce e scandisce il
tuo essere vivo. Oggi, nel mondo della comunicazione totale e delle sue
contraddizioni, la figura dell'espatriato è una figura di precursore della
mobilità estrema e dei mercati globali. Sempre più contratti a tempo, sempre
più pressione sul lavoro, sempre più incertezza e flessibilità, sempre più
necessità della capacità di analizzare la complessità, e prendere veloci
decisioni (sul lavoro, nella vita) sulla base di una lettura rapida dei segni
della situazione. Dicono che le cose che più generano stress nella vita di una
persona sono, nell'ordine, un lutto, il divorzio ed un trasloco. Nei 34 anni
passati ho cambiato casa 16 volte, in 14 paesi differenti, ed ogni volta è
stato un rinascere, una reincarnazione. Amo cambiare, adoro scoprire un paese
nuovo, conoscere gente nuova, imparare con umiltà i mille segni della cultura
di un popolo nuovo e delle sue idiosincrasie, ricominciare a relazionarmi e
prendere le misure in un ambiente sconosciuto.
Casa, dolce casa.
Dov'è,
per voi “casa”? È il luogo di ritrovo della famiglia fra un viaggio e l’altro
oppure l’ultimo tetto dove avete vissuto più o meno intensamente, è l’avventurosa
vita ai confini del mondo, magari in una capanna di legno e paglia o quella
bella villa che una vita di lavoro da espatriato ha permesso di acquistare? Le
risposte sono tra le più svariate, anche se sembra esserci una regola di base
che separa le coppie di una stessa nazionalità da quelle miste. Tra queste
ultime, sono parecchie le coppie che visitano un paese d'origine un anno, e
l'altro l'anno seguente; ma quelle con figli in età di studi universitari
sparsi in diversi paesi le cose si complicano. È per questo che per molti
espatriati l'idea del “ritorno a casa” assume un valore assai relativo; diventa
un ritorno a una normalità che ci si era dimenticati, di una vita piatta dalla
quale si era fuggiti, anche se lo avete pianificato, anche se lo sapevate fin
dall’inizio che prima o poi fosse previsto un “ritorno a casa” di colpo diventa
come la fine di una fase della vostra vita, spesso tornare a casa viene vissuto
in modo assai traumatico, fino a non riuscire a reinserirsi in una vita normale.
Chissà, forse perché non esistono ritorni al punto di partenza, perchè “home”
cambia in conseguenza del vostro status, della collocazione dei vostri
interessi, della vita che vi siete costruiti e anche delle scuole dei figli da
cui non vorreste staccarvi mai, cercando di mantenere un cordone ombellicale
virtuale con loro dimenticando che la vita è anche quello.
All'altro lato del
ventaglio stanno gli espatriati che non tornano mai, nemmeno in vacanza, al
paese d'origine, e che negano parte del passato, novelli emigranti nomadi e
raminghi nel mondo, apolidi privilegiati. Infine, esiste una categoria
particolare di espatriati che ricostruiscono, altrove, le stesse dinamiche che
avevano in precedenza, con puntigliosa dedizione.
Espatriati per scelta, espatriati per forza.
Questi ultimi si chiamano
figli, che non scelgono, bontà loro, di esserlo - ci si trovano, semplicemente,
come condizione di vita. E quante domande, quanti dubbi - gli stessi di tutti i
genitori, solo ampliati in alcuni aspetti non trascurabili. Come sarà
l'equilibrio psicologico, la capacità di relazionamento sociale, di questi
figli di nomadi per lavoro, scelta o necessità, figli che cambiano ambienti e
amici con una regolarità maniacale da orologio svizzero? Figli che si ritrovano
proiettati dalle foreste dell’Amazzonia alle caotiche vie di New York, o dalle
calde spiagge delle Fiji al freddo pungente della Danimarca? Come sarà la loro
relazione con concetti diversi ogni volta e pletore di valori, che i loro
coetanei apprendono ancora sempre nello
stesso ambiente stabile e invariabile? Che cultura penseranno propria? Saranno
girovaghi incapaci di adattarsi ad un posto solo, o al contrario vorranno
radicarsi perché non l'han mai fatto da piccoli? Quanto influirà sulla loro
personalità l'aver interrotto le relazioni d'amicizia, aver avuto migliori
amici spezzettati e a singhiozzo? Quanto sarà utile l'essere passati attraverso
una serie di traumi ed adattamenti? Che visione potranno avere del mondo, dopo
averlo vissuto come un ambiente unico e dinamico, se un giorno metteranno
radici in qualche sua parte? Sarebbe meraviglioso vedere i figli crescere
saggi, aperti, permeabili, con una capacità di adattamento e di lettura
dell'esistente ad un livello ben differente dai loro coetanei, forse nella
realtà sarà così? Pagheranno lo scotto di non riconoscere i mille riferimenti
non detti di una cultura, ma spazieranno con agilità e libertà d'opinione su
varie culture, con un'apertura di spirito ed una disponibilità al conoscere invidiabile
alla quale nessuno dei coetanei vissuti sempre nello stesso nido sarà mai
capace di accedere.
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Equilibrium (Vietnam 2012) |
L'espatrio è un momento di solitudine e un'esperienza in
generale incompresa.
Quando ti trasferisci in
un nuovo paese ti devi inserire, con tutte le difficoltà a ciò legate, quando
torni nessuno capisce il tuo senso di estraneamento. Soprattutto in questa fase
è molto importante essere supportato da qualcuno che ha già vissuto la stessa
esperienza, altrimenti diventa tutto più difficile e doloroso. Il rientro è
infatti uno dei momenti in assoluto più duri.
Ma tu sei espatriato per
scelta o necessità?