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2020/04/01

La Trojka è realtà!




I sovranisti smemorati invocano Mario Draghi come Presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale. L’incapacità criminale del governo PD-M5S e l’imbarazzante gestione dell’emergenza sanitaria della coppia Conte-Casalino non possono far passare in secondo piano chi è Mario Draghi e le tappe principali della sua “onorata carriera”:

· Nel 1992, come Direttore Generale del Ministero del Tesoro, prende parte all’incontro primaverile sul panfilo Britannia con alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Nel suo discorso, anticipa quanto farà in estate, con l’avvio del piano di privatizzazioni selvagge e la svendita delle principali aziende pubbliche italiane. L’ex-Presidente della Repubblica Cossiga sintetizza efficacemente la sua azione di quegli anni: “Un vile affarista, liquidatore dell’industria pubblica italiana”. I risultati della stagione avviata da Draghi li abbiamo visti al Ponte Morandi.

· Nel 2011 firma assieme a Jean-Claude Trichet la famosa lettera con cui intimava al governo italiano ulteriori privatizzazioni, la riduzione degli stipendi pubblici, l’innalzamento dell’età pensionabile, la cancellazione di diritti sociali e tutele sindacali, l’inasprimento delle tasse. Tutto ciò per “ripristinare la fiducia degli investitori”. L’operazione sarà conclusa a luglio, con il colpo di Stato con cui la BCE cessò di acquistare i titoli di Stato italiani per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, spianando la strada all’ascesa del Governo tecnico di Monti.

· Nell’estate del 2015 la BCE di Draghi destabilizza deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche e costringendo il Governo di Tsipras ad accettare le misure di austerità del nuovo Memorandum.

Siamo nel 2020, nel pieno di una gravissima emergenza sanitaria che porterà alla peggiore crisi economica del dopoguerra, Draghi si propone come salvatore della Patria. Improvvisamente il debito pubblico non è più un problema: dopo aver privatizzato i profitti bisogna socializzare le perdite per tenere a galla gli istituti finanziari e per derubare definitivamente i paesi europei della loro sovranità nazionale con l’inganno degli Eurobond.

Draghi non è l’uomo nuovo: rappresenta il potere di sempre, quello dei tagli che hanno devastato la nostra sanità pubblica, delle privatizzazioni che hanno lasciato nel degrado le nostre infrastrutture, dell’austerità che ha abbandonato alla povertà milioni di cittadini. Chi ha organizzato il problema non può presentarsi come la soluzione. Chi vuole dirsi realmente sovranista non può che rifiutare radicalmente qualsiasi ruolo di Mario Draghi per l’Italia che verrà. Chi invece appoggerà l’arrivo di un uomo della Troika a Palazzo Chigi sarà responsabile di alto tradimento allo stesso modo di chi ha votato le leggi e le riforme che hanno devastato il nostro paese negli ultimi anni.






fonte OrdineFuturo

Gli illusi e le supercazzole europeiste (di Elio Crovetto).


Parlare con il ‘senno del poi’ per quanto non sia il mio sport preferito, permette di poter commentare oggettivamente gli eventi sulla base di fatti e comportamenti avvenuti e consuntivati, pertanto, quando necessario, è utile praticarlo.
Ed è da questo presupposto che stamane riflettevo sull’Europa, ma attenzione, non sull’Europa di oggi, quella dell’emergenza Covid per intenderci, ma sull’Europa ante-Covid, quella che fino a soli due mesi fa discuteva temi comunitari fino a quel momento prioritari quali politiche economiche e Patto di Stabilità, gestione del fenomeno immigrazione, riflessioni post-Brexit, ecc.

Su quell’Europa discutibile - ed infatti discussa - molte persone tra le quali molti amici, hanno sempre ribadito l’idea Europeista auspicando - in riferimento agli aspetti più contraddittori delle politiche adottate – il miglioramento dell’Europa, la necessità di lavorare per dare peso ai pensieri ed alle necessità di paesi oggi secondari, tra cui il nostro, nell’ambito dell’attuale assetto politico e decisionale Europeo ad evidente trazione nord-europea, guidato di fatto da un solo paese leader, la Germania, da una corte di paesetti tirapiedi (Olanda, Finlandia, Estonia ecc.) e da una Francia a corrente alternata che - in funzione delle proprie convenienze – sceglie tema per tema. La Gran Bretagna aveva invece già salutato tutti e lasciato il tavolo.

Tutto questo fervore Europeista e migliorista credo nella ovvia e genuina convinzione che ciò non fosse una mera utopia, ma un obiettivo concreto e realizzabile, che passava – necessariamente – per una supposta consapevolezza dei paesi leader della necessità di un cambiamento e – soprattutto - per la loro disponibilità allo stesso.

Ipotesi queste peraltro non campate in aria, evincibili tutto sommato da un vento, o meglio, una brezza leggera che sembrava soffiare in direzione diversa dopo clamorosi ed oggettivi fallimenti come la Brexit o la gestione della crisi Immigrazione, un vento fatto dalle diverse dichiarazioni più o meno ufficiali, dalle interviste, dalle asserzioni di solidarietà, dai tanti bla bla che puntualmente spuntavano da Bruxelles e riempivano tv, giornali e social ad ogni acuirsi di crisi.
Ma come si dice “Dal dire al fare c’è di mezzo il mare” e difatti, fino a Marzo 2020, sono rimaste solo parole, ricche di spirito Europeista, di fratellanza blustellata, di tante speranze, ma sempre e solo parole.


Poi è arrivato il Covid-19.

Come uno tsunami poderoso, annunciato ma largamente sottovalutato, è entrato a gamba tesa in Europa, falcidiando in pochissime settimane i sistemi sanitari e le economie dei paesi EU, ed in particolare ha colpito di più i paesi meno virtuosi, i poveracci insomma.
Ha ingenerato una crisi umanitaria/sanitaria/economica senza precedenti, la cui portata è incommensurabilmente più grande di tutte le altre fino ad ora affrontate dall’Europa, una crisi che – proprio in virtù della sua portata e della veemenza - non ammette tentennamenti né tanto meno ammette errori.

Quello che per il teatrino Europeo proprio non ci voleva: una crisi anti-supercazzole.
Eggià, il Covid-19 non lo si vince con le dichiarazioni, parole o promesse, ma lo si vince con i “fatti”, e al contempo non lo si può vincere un domani più o meno lontano, ahimè lo si deve vincere “ieri”.
Ecco qui che cade la maschera, in questo caso né chirurgica né FFP3 (quelle se le sono tenute ben strette), cade invece la maschera dell’ipocrisia Europea, dell’Europa che comanda, con il Covid-19 le parole si sciolgono come neve al sole di Agosto e rimangono solo i fatti. Ed i fatti li conosciamo tutti, non serve nemmeno ripeterli.

Ma non voglio scendere nel merito delle iniziative “comunitarie” di gestione del Covid, sulle quali credo di aver espresso più che palesemente la mia opinione, come detto all’inizio voglio rivolgermi agli illusi Europeisti, a chi aveva davvero creduto alle supercazzole che sono state raccontate dopo la Brexit, dopo la crisi Immigratoria ecc, li invito ad uscire dal torpore e a guardare i fatti, a riconoscere CHI SONO i nostri interlocutori in Europa e quello che realmente FANNO e non le supercazzole che ci raccontano per farci contenti.

Se non fosse arrivato il Covid-19 chissà per quanti anni ancora vi avrebbero illuso.
Una propaganda fatta così bene che sono arrivati al punto di farvi teorizzare che è grazie all’Unione Europea se da 75 anni non ci sono guerre in Europa… peccato che l’UE esista solo dagli ultimi 27 e - in particolare - esiste solo da 19 come unità monetaria e che all’interno di questo periodo, in nome del rigore fiscale, ha inginocchiato senza pietà paesi come la Grecia (paese cavia in questo senso, ed i prossimi siamo noi) e dato fiato al ritorno degli estremismi e sovranismi come mai accaduto nei precedenti 50 anni ante UE.

Una propaganda pacifista strombazzata da quegli stessi pulpiti che nella prima metà del secolo scorso (e non parlo di duemila anni fa) hanno causato due guerre mondiali e 92 milioni di morti, di cui 6 milioni nelle camere a gas.

Cari amici illusi e necessariamente disilludendi, mi ricordate tristemente la scena iniziale del film “SOBIBOR”, nella quale gli ebrei venivano fatti scendere da un elegante treno passeggeri ed accolti dai nazisti nel campo di sterminio con tanto di corteo di accoglienza, sorrisi e musica, per poi venire suddivisi con ragionevoli motivazioni tra quelli che sapevano lavorare legno e metalli e gli altri, dopodichè, questi ultimi, e sempre con ragionevoli parole, venivano convinti a lasciare cose e vestiti per fare una bella doccia, proposta accolta a braccia aperte dagli inconsapevoli ed illusi protagonisti.

Una doccia senza ritorno però.

Cari i miei amici illusi e disilludendi vostro malgrado, la storia insegna a capire CHI E' IL VOSTRO INTERLOCUTORE, anche in quel caso è cominciata con le parole e sorrisi, la deportazione con i carri bestiame, i “Güterwagen”, è avvenuta solo dopo.

La diversità svedese


Amo il sole della primavera italiana. Perciò avevo accettato di partecipare a tre festival letterari: Milano a marzo, Venezia ad aprile, e poi Udine verso l’estate. Invece sono finito qui, in isolamento volontario, su un’isola nell’arcipelago di Stoccolma. Non perché debba, ma perché voglio. Ho una bella scorta di legna, e posso andare a far la spesa all’emporio come al solito. Certo, oggi sta nevicando, ma la primavera arriverà anche qui.

Tutti stanno facendo la stessa domanda: perché il governo svedese non combatte la pandemia di coronavirus come fanno gli altri? Perché non introduce restrizioni e controlli? Quasi tutti i ragazzi continuano ad andare a scuola. Persino gli asili sono aperti. Possiamo ancora viaggiare come ci pare, o andare al pub se ce ne viene voglia, e anche se il divieto di assembramenti, da un massimo di 500 persone, è stato di recente abbassato a 50, ci sono enormi differenze rispetto al resto d’Europa.
Saremo forse degli ingenui? Oppure questa bizzarra strategia è spiegabile in altri modi?

Lasciate che ci provi.

In fin dei conti, il modello svedese si basa sulla fiducia. In generale, gli svedesi hanno fiducia gli uni degli altri, e nelle istituzioni: seguiamo volentieri consigli e raccomandazioni, specialmente se il primo ministro, e magari anche il re, alzano la voce. Lavatevi le mani! Non spostatevi se non è indispensabile! Proteggete gli anziani! E fintanto che questa fiducia funziona, i divieti non sono necessari. Questa fiducia rappresenta un ingente capitale, proprio come le finanze dello Stato, in parte perché nel nostro Paese la corruzione è cosa rara. Anche qui c’è stata la deregolamentazione di alcuni mercati, ma lo Stato continua a essere stabile. Anche qui ci sono delle voci critiche che temono il collasso, ma per ora si va avanti.

Inoltre, le istituzioni svedesi godono di una peculiare indipendenza. Nel nostro assetto statale, di antica tradizione, un ministro non può mettersi a fare il bello e il cattivo tempo quando l’opinione del momento pretende le maniere forti. La responsabilità operativa appartiene alle istituzioni, e al momento è l’Istituto di salute pubblica a dirigere le danze. Un epidemiologo finora sconosciuto, un grigio impiegato statale in maglioncino, tiene quotidianamente una conferenza stampa per spiegare la situazione. Il governo segue a sua volta le raccomandazioni delle istituzioni.

Un direttore generale se possibile ancor più grigio non fa che ripetere che dobbiamo guadagnare tempo. Se tutti si ammalano contemporaneamente il sistema sanitario collasserà. Più o meno tutti recepiscono il messaggio. Rimane da scegliere una strategia opportuna per appiattire il grafico dei contagi. Finora la situazione è identica in ogni Paese; la differenza è che la Svezia preferisce la libertà di scelta alle costrizioni. Si valuta che sia la strada più efficace, soprattutto pensando alle prossime settimane. O mesi.

All’inizio dell’epidemia vi fu chi chiese di chiudere tutte le scuole, come negli altri Paesi. Ma l’Istituto di salute pubblica valutò che i pro, in termini di minori contagi, non avrebbero superato i contro, in termini di carenza di personale nelle strutture sanitarie. 
In Svezia non ci sono molte casalinghe; quasi tutti lavorano, uomini e donne, e queste ultime sono preponderanti nella sanità. Chiudendo le scuole, si è pensato, molte infermiere sarebbero rimaste a casa coi figli. Inoltre si è immaginato che i ragazzi si sarebbero incontrati comunque, scambiandosi il virus, anche con le scuole chiuse.

Gli studenti più grandi e gli universitari possono seguire le lezioni a distanza senza troppi problemi, così in quel caso si è deciso di chiudere. I pro superano i contro: semplice matematica, che la gente capisce.
Tempo, è tutta una questione di tempo. Alla fine della guerra fredda, quando i neoliberisti avevano il mondo in pugno, i depositi di emergenza svedesi vennero smantellati, dunque anche noi siamo a corto di dispositivi di protezione e di respiratori, non solo di personale sanitario. Ma anche in tal caso interviene la fiducia. Confidiamo semplicemente che l’industria svedese sappia riorganizzarsi rapidamente e produrre quel che manca. Ed è quel che sta succedendo proprio ora.

Che Viktor Orbán dichiari lo stato d’emergenza non sorprende, probabilmente stava aspettando un’occasione simile, e forse sarà necessario ricorrere a misure altrettanto draconiane anche in Francia, Spagna e Italia, ma per molti aspetti la Svezia è diversa. Certo, potremmo anche noi mettere tutta Stoccolma in quarantena e mandare l’esercito a presidiare le vie d’uscita, o fare come i tedeschi e vietare gli assembramenti di più di due persone, ma qui da noi lasciare libertà di scelta funziona meglio. I vaccini per le malattie infantili, per esempio, sono sempre stati volontari. 

Eppure la Svezia è in cima alla classifica: non perché dobbiamo, ma perché vogliamo.
Va anche detto che la Svezia è un Paese omogeneo, dominato da una nutrita classe media benestante, le cui virtù possono essere fatte risalire al proletariato secolarizzato del dopoguerra e a vari movimenti popolari più o meno puritani. Ovvio, anche noi dobbiamo gestire certi ricchi viziati che reputano la settimana bianca più importante di ogni forma di solidarietà e, negli ultimi tempi, un sottoproletariato d’importazione, extraeuropeo, tra cui la povertà e l’affollamento delle abitazioni favorisce il contagio, ma si tratta di fenomeni marginali.

Gli svedesi sono in vasta maggioranza disciplinati, e io sono uno di loro. Nessuno mi vieta di andare a trovare mia madre di 95 anni, che abita in una regione dove i contagi non hanno ancora raggiunto numeri significativi, ma siccome mi si raccomanda di evitare gli spostamenti non lo faccio. Quasi tutti fanno valutazioni simili. E i risultati si vedono. Sappiamo che il contrasto all’epidemia è un questione di equilibrio, tra salute ed economia, e ci fidiamo più di altri dei nostri burocrati.

Forse, mi viene da pensare, c’entra anche il fatto che la Svezia è uno Stato nazionale antichissimo. Lo so, nella nostra epoca il nazionalismo è un flagello, ma il fatto è che la Svezia esisteva già nel medioevo, e credo che le radici della fiducia affondino fin là. Che noi svedesi siamo ingenui perché ci siamo tenuti fuori dalle guerre mondiali del Novecento non mi convince. Le tradizioni vanno ben più indietro nel tempo.

Tra l’altro, siamo più patriottici che nazionalisti. 
È una distinzione importante. 

George Orwell ha scritto una volta, nel 1945, che il patriottismo nasce dall’amore per un certo luogo e per la vita che vi si conduce, ma che non cova mai dentro di sé il desiderio di imporre lo stesso stile di vita agli altri. Di conseguenza, il patriottismo è difensivo e pacifico. Il nazionalismo, invece, che è legato al desiderio di potere politico, può facilmente imboccare la via sbagliata.
Le cose stanno più o meno così. Facciamo quel che possiamo, a modo nostro, al tempo della peste.

Un anno fa mi trovavo sulle colline a Est di Firenze, ospite della Fondazione Santa Margherita di Donnini. Ci rimasi qualche settimana, scrivevo tutto il giorno e poi la sera cenavo, bevevo vino, ridevo e battibeccavo con scrittori italiani, canadesi, irlandesi, inglesi e colombiani. Di rado andavamo d’accordo, ma siamo diventati buoni amici. È così, esattamente così, che si fa politica. Spero di tornare presto. L’isolamento è temporaneo, credetemi.

Fonte: REP.
Traduzione di Andrea Berardini
Fredrik Sjöberg è biologo e scrittore, il suo ultimo libro “Mamma è matta, papà è ubriaco”. Ha pubblicato “L’arte della fuga” e “L’arte di collezionare mosche”