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2013/01/14

Che cos’è la felicità?


Che cos’è la felicità? Non mi meraviglierei se qualcuno di voi spegnesse il computer, se qualcun altro abbandonasse la pagina e si mettesse a ridere. Va bene, non è un gioco, non sto scherzando, parlo sul serio. 

Per voi che cos’è la felicità?

Si tratta di uno stato d’animo? Di un sentimento che si prova nel momento che qualcosa va bene, gira per il verso giusto? O forse è la somma di tante situazioni che vi portano a pensare di essere in pace con il mondo intero? Perchè è così difficile ammettere di essere felici? E si è o si può sentirsi felici anche quando tutto va a rotoli? La felicità lo sappiamo, è un sentimento relativo, molto personale. Ognuno dà alla felicità un valore diverso e lo percepisce in modo differente da quello di un suo simile. Un clochard che chiede l’elomosina davanti a Notre Dame può ottenere un giorno di felicità se riesce a mangiare un pranzo abbondante e appetitoso. Viceversa per un ricco uomo d’affari, un buon pranzo è un valore già acquisito e la felicità è raggiunta solo quando ottiene qualcosa che ancora gli manca, quando raggiunge un obiettivo che si era prefissato. E l’infelicità come la cataloghiamo? Se il clochard di cui si parlava precedentemente, non riesce a mangiare un pranzo abbondante e appetitoso pensate che sarà infelice? Se l’uomo d’affari non raggiunge il suo obiettivo sarà altrettanto infelice? O forse l’infelicità non è altrettanto sintomatica della felicità? Certo il contrario di felice è infelice quindi automaticamente dovremmo sentirci infelici se qualcosa va storto nella nostra vita, nella realtà non è affatto così. Contrariamente a quanto si crede l’infelicità causata dal nostro stesso comportamento è abbastanza rilevante e solamente su questo fronte possiamo intervenire con una certa speranza di ottenere un buon risultato. Capito? Siamo infelici solo se ci aspettiamo un risultato positivo e non arriva, ma se è un evento inaspettato allora non saremo infelici, semmai indifferenti.

Fermo su questo concetto mi domando se esista un modo per essere felice che vada bene a tutti. Secondo me non esiste un modo per essere felice, valido per ogni individuo, ci sono delle similitudini, certo, la squadra di calcio del cuore che vince la partita provoca felicità nell’animo dei propri tifosi, il loro stato d’animo potrebbe anche cambiare positivamente perchè hanno vinto ma, alla fine, è una gioia momentanea che non ci cambia la vita, anche se avesse perso, la squadra, la nostra vita non sarebbe cambiata, avremmo continuato a viverla come prima. Allora? È possibile personalizzare il criterio di valutazione per determinare quando c’è felicità e come si ottiene?

La conoscenza di ogni individuo porta sul cammino della comprensione, se conoscete voi stessi allora potrete capire come trovare la vostra felicità. Che sarà solo vostra, al massimo la condividerete con altri, che apprezzeranno questo vostro stato d’animo, veder felice una persona aiuta a star meglio, si gioisce insieme anche se poi, nel proprio intimo non si condividono le stesse emozioni. È quindi importante vivere in armonia con se stessi con un occhio attento al proprio ambiente, per non cadere nell’incomprensione, per non sentirsi fuori dal contesto. Ve l’immaginate un carcerato a vita fra suoi compagni di cella, lui felice come un fringuello e gli altri tristi e abbattuti perch hanno realizzato di dover trascorrere fra quattro mura tutto il resto della propria esistenza? Come pensate che possano sentirsi gli infelici con un compagno di camera che rasenta la pazzia dimostrando una felicità esagerata? L’essere felici è uno stato mentale che va attentamente amministrato per non urtare la sensibilità e aggiungerei l’infelicità altrui. Nonostante tutti siano convinti che sia ovvio che una persona debba essere se stessa, anzi, che non sia necessaria nessuna volontà specifica per esserlo, che sia tutto perfettamente naturale, l’esperienza mi fa invece pensare che sono pochi coloro che effettivamente riescono ad essere se stessi e si comportano come tali.

Essere se stessi quindi per essere felici?La natura funziona basandosi in primo luogo si basa sulla diversità biologica. Ogni essere vivente è diverso dall’altro, perfino due gemelli monozigotici che apparentemente sembrano identici, in realtà hanno delle piccole differenze, come nelle impronte digitali o qualche neo sulla pelle, crescendo poi le differenze si fanno più marcate, se un estraneo non riesce a riconoscerli da bambini, da adulti sarà decisamente più semplice, il motivo è insito nell’essere se stessi. Sappiamo però che l’evoluzione della natura è stata resa possibile proprio dalla diversità, perché queste hanno consentito di creare una moltitudine di combinazioni differenti le une dalle altre, e tra queste quelle favorevoli al progresso. Dimenticatevi che siamo tutti uguali, con uguali diritti, uguali doveri, siamo invece tutti diversi.

Il futuro di ciascuno di noi sarà diverso da quello del nostro fratello o sorella, oppure dal più caro amico o compagno. Un differente patrimonio genetico determinerà un diverso carattere psicologico e anche un distinto percorso di salute. Diversi caratteri comportano differenti reazioni alle stesse situazioni ambientali e alle relazioni personali, quindi percorsi di vita anche molto diversi. La nostra felicità dunque non dipenderà più solo dalle situazioni ma anche dallla conoscenza delle nostre potenzialità, dalla capacità di sapersi sentire felici anche e solo con un piccolo gesto, un piccolo e insignificante evento che a altri potrebbe anche sembrare banale, futile, insulso, mediocre, scialbo, irrilevante, trascurabile.
L’esperienza comune evidenzia come, quasi in tutti i casi, due fratelli nonostante siano vissuti nello stesso ambiente ed avendo avuto un patrimonio genetico molto simile hanno in pratica due caratteri diversi e di conseguenze due diverse vite. Stando così le cose è inutile osservare gli altri, per capire come possiamo essere felici, dobbiamo invece studiare noi stessi, e scendere in profondità, più a fondo possibile, senza lasciarsi influenzare dai consigli degli altri.

Il mestiere di un genitore è il più arduo e difficile che ci sia, rientra nei suoi compiti anche educare i propri figli alla ricerca della felicità. Si vive per vivere, se questa vita è anche felice probabilmente si vivrà meglio, anche più a lungo, un figlio va quindi aiutato a cercare la propria felicità, senza influenzarlo e senza obbligarlo a percorrere la strada più gradita o più conveniente per l’interesse della famiglia. La psicologia ci fornisce molti strumenti che possono aiutare ad individuare la propria personalità e le caratteristiche attitudinali, usiamoli. Le crisi adolescenziali sono spesso causate dallo scontro, a livello inconscio, tra due forze. La forza dell’educazione dei genitori basata sulla loro pluriennale esperienza, consiglia le cose più opportune da fare, e la forza inconscia, ancora non repressa o plasmata, del ragazzo che si scatena per diventare come vorrebbe essere. Se il ragazzo soccombe alle insistenze e alla volontà dei genitori ne risulta un carattere represso, disadattato, soggetto alle nevrosi, infelice. Diversamente se riesce a far emergere la propria individualità sarà comunque felice e soddisfatto in qualsiasi situazione si venga a trovare, perchè sarà una propria scelta e comunque accettata senza tante recriminazioni. In questo modo troverà il suo status di felicità anche nelle piccole cose senza il bisogno di cercarla nelle grandi sfide che la vita gli presenterà.

Occorre individuare e potenziare le attitudini positive e cercare di ridurre, o almeno tenere sotto controllo i difetti del carattere. In ogni modo, già il fatto di conoscere e accettare i propri difetti è già un gran passo avanti, perchè permette di tenerli sotto controllo. Vivere o comportarsi senza rispettare l’armonia della propria personalità significa andare contro la propria natura, e di conseguenza l’infelicità ci aspetta al varco.

Consiglio di non basare una relazione sperando di cambiare, in futuro, il carattere del compagno, o della compagna, perchè solitamente questo è molto difficile, dovreste essere invece pronti ad accettarli così come sono. Si può ottenere qualche piccolo miglioramento nell’aspetto e nel comportamento, ma fondamentalmente si rimane sempre uguali. Nel mondo sono presenti tutti i tipi di personalità, anche le più strane, e senz’altro esiste quella che si adatta alla nostra, qualunque essa sia. E’ necessario avere un po’ di pazienza e perseveranza solo così si raggiunge il primo stadio della felicità, la base necessaria affinché la mente possa recepire con facilità le condizioni che ci portano verso una sensazione di felicità. Sentirsi felici sempre e raggiungere le massime concentrazioni di felicità aiuta a vivere meglio, guardando con serenità al futuro, fosse anche il futuro buio del clochard, sapere che potrebbe esserci un’altra opportunità per un lauto pranzo che soddisfi il suo appetito può essere una ragione per vivere felicemente la propria esistenza, anche se grama, anche se pietosa, anche da poveri.

Vi è mai capitato di vedere un accattone in giro per la città, magari d’inverno, sotto la neve, vestito con quattro stracci, mentre voi tremate dal freddo e vi stringete dentro a un costoso giaccone di piume d’oca? E lui ride, si vede che è contento, che traspare felicità da tutti i pori, ride e voi non capite perchè e magari ve ne uscite col classico «Ma avrà da ridere quello?» oppure «Che ha da esser felice quello che non ha nemmeno gli occhi per piangere?» Ecco la dimostrazione lampante, evidente, apodittica che dico appariscente, chiara e comprensibile, eloquente, certa e inconfutabile che la felicità non è uguale per tutti. Si può anche non aver nulla e essere felici, avere tutto e essere infelici.

La maggior parte della nostra vita trascorre sul posto di lavoro. Cercare e trovare il lavoro più adatto alle nostre caratteristiche attitudinali è quindi fondamentale. Purtroppo spesso si commette l’errore di accettare il primo lavoro che capita. Considerando l’elevato rateo di disoccupazione dei giorni nostri non si può rinunciare a certe occasioni anche perchè di solito non si ripetono. Pochi hanno il coraggio di rinunciare ad un lavoro, certo e ben retribuito, offerto da un amico o tramite raccomandazione, per aspettare un’occasione più adatta. In pratica nessuno ha il coraggio di rinunciare ad un lavoro sicuro per un futuro incerto! Nessuno però considera che quel lavoro potrebbe essere troppo stressante e rendere la vita infelice? Quando si entra in un ciclo di vita, d’amicizie, parenti, figli e coniuge si rimane talmente coinvolti che può risultare molto difficile uscirne. Sarebbe opportuno non entrarci per nulla. Le relazioni umane sono come i legami di una ragnatela che ci legano da tutti i lati, con le persone che ci circondano, le istituzioni ed anche le attività professionali. Questa ragnatela ci sostiene nella vita quotidiana, ma comporta anche un fitto legame che impedisce di allontanarci se cambiamo idea per il nostro futuro. A volte l’incapacità di separarsi da tali legami, ritenuti troppo oppressivi, determina la decisione di chiudere per sempre con una decisione estrema. E così si decide di non vedere più un fratello o una sorella, di chiudere i ponti con la sua famiglia, rinunciando al calore di sentirsi parte della stessa famiglia perchè non si condividono le scelte, gli atteggiamenti, il carattere, la propensione a piantar grane o semplicemente la superficialità, l’opportunismo evidente, la banalità del nostro parente stretto senza capire il male che si fa, l'infelicità che si provoca nell'altro. Forse la nostra potrà anche sembrare felicità ma nella realtà non sarà mai vero. Queste scelte che spesso derivano dall’avventatezza sono causa di un’infelicità nascosta che ci porteremo dietro per tutta la vita, e questo anche se non siamo capaci di ammetterlo pubblicamente, e sicuramente non siamo nemmeno capaci di ammetterlo dichiarandolo a noi stessi. Tutto questo è infelicità!

La soluzione migliore sarebbe quella di programmare la vita quotidiana dedicando almeno un’ora a svolgere quelle attività che soddisfano la propria personalità, lo sport, i giochi, le letture, anche internet ma senza abusarne, il giardinaggio, telefonate agli amici, una bella regata in barca a vela soli o con amici. Spesso il contatto diretto con il mare porta felicità che dura nel tempo, se si affievolisce possiamo ricaricare le batterie per essere pronti nuovamente e affrontare la vita. La stessa attenzione, però, dovrà essere dedicata anche ai nostri conviventi, affinchè anch’essi abbiano le stesse opportunità. Dovremmo essere capaci di favorirla anche se, molto probabilmente, sarà diversa dalla nostra, e andrà in conflitto con le loro vite, con i tempi, con gli impegni. Gli elementi di una famiglia che hanno la possibilità di esprimere se stessi saranno più felici, ottimisti e l’armonia entrerà nella casa. Quando una persona è soddisfatta è in grado di affrontare meglio le avversità della vita e trovare le soluzioni senza cadere nello sconforto. Sei capace, in occasione dei compleanni e delle feste, di fare un regalo che piace veramente a chi lo riceve? Se la risposta è no, significa che non hai ancora risolto la seconda parte del problema, ossia non conosci ancora, o non vuoi accettare, l’essenza delle persone che ti circondano.

Se i regali che ricevi non ti piacciono, può significare tre cose: gli altri non ti amano, tu non ti comporti in modo spontaneo, l’altro non si sta impegnando a far emergere la tua essenza. La ricerca della felicità è sempre personale, quando l’hai trovata condividila con chi ti sta vicino, riuscirai a trasmetterne un pò anche a loro.

Siate felici!

2013/01/13

Vivere per vivere?

Una spiaggia di sabbia bianchissima a Los Roques, Venezuela
È una storia di questi giorni, e comunque sarebbe riduttivo chiamarla storia, diciamo un evento che porta a pensare a ponderare con attenzione i valori della vita, la vita di tutti i giorni. 

Il quattro gennaio scompare dai radar un piccolo aereo da turismo con a bordo quattro italiani a cui vanno a aggiungersi i piloti.
In tutto sei persone forse sette di cui non si sa piú nulla. Dove sono finiti? I media ne parlano per qualche giorno, scrivono qualche articolo, fotografie e testimonianze forse perchè a bordo oltre ai soliti malcapitati c’è il figlio di qualcuno conosciuto, importante.  

In Venezuela su quella rotta maledetta che dall’arcipelago delle Los Roques (dallo spagnolo dovrebbe tradursi come Le Rocce) porta a Caracas capitale del Venezuela, una nazione governata con la carota e il bastone (in particolare quest’ultimo) da Hugo Chavez, sono già spariti cinque aerei in diciannove anni. Troppi incidenti per una breve rotta, anche se molto frequentata, troppi per un aeroporto votato al turismo anche se fatiscente, e ancora troppi per un Paese che dovrebbe essere il primo produttore sudamericano di petrolio, troppi per non fermarsi a considerare il rischio di non tornare piú da una vacanza di sogno alle Los Roques.

Domanda quindi lecita: perché le isole Los Roques, cosa c’è di magico e fatale da attirare così tanti turisti ogni anno? Diciamocelo seriamente, ogni anno a Los Roques i turisti sono alcune centinaia di migliaia, non tantissimi ma nemmeno pochi. C’è di tutto, dalla pousada a basso prezzo all’hotel di lusso, hotel dove probabilmente alloggiavano gli ultimi scomparsi del 4 gennaio.

Considerando però la distanza, il viaggio in aereo Roma Caracas e poi il trasferimento su carrette dell’aria, alla fine chi trascorre una vacanza nell’arcipelago è sicuramente gente che se lo può permettere. E qui entra il mio discorso, entra brutalmente come un dardo lanciato da una balestra nella classica mela del Guglielmo Tell di turno. Perchè rischiare la vita per vedere un piccolo paradiso?
Che senso avrebbe, considerando che tutte le isole Caraibiche sono da sogno e molte permettono un sano turismo senza alcun rischio sia nel volo sia di permanenza?

Perchè la vita viene così mal considerata quando si decide di andare a visitare un atollo sperduto in un mare lontano, che siano le isole di Los Roques che quelle della Micronesia finisce sempre così che non si da abbastanza valore alla propria vita e ci si affida al caso e alla fortuna che tutto possa andar bene.
Che pessima idea, viaggiare è sempre un rischio anche quando il vettore aereo è conosciuto come sicuro. Ho viaggiato moltissimo in aereo, sono oltre quarant’anni che volo con regolarità almeno tre o quattro volte all’anno. Ho sempre considerato che la mia vita valesse più di una vacanza speciale in qualche punto sperduto del mappamondo, mi sono sempre rifiutato di volare con carrette del cielo, e quando non c’erano alternative, ho rinunciato alle proposte piuttosto di veder terminare anzitempo la mia vita. Che valore dobbiamo dare a questa nostra vita? Non c’è errore più banale che prendere un aereo di una sconosciuta compagnia aerea di cattiva fama e sperare che possa portarci sani e salvi fino alla meta. Queste sono speranze di quelle che vorreste sostenere solo a parole mentre, nel vostro intimo, continuate a pregare che non possa capitare a voi.  Lo so che stiamo parlando di probabilità, che vale la pena rischiare perchè sono i numeri a dirlo ma non quando si hanno alle spalle figli e famiglie che aspettano il nostro ritorno, e se il ritorno non avviene perchè qualcosa è andata male, capita che altri continuino a ricadere nella stessa scellerata opzione soprattutto quando il caso ci si mette di mezzo. 
Allarghiamo quindi il discorso al valore della vita, vivere per vivere o vivere per essere ricordati? Certo che l’illusione di vivere per sempre, se non fisicamente ma nel ricordo di chi ci vuole bene, di chi ci apprezza sarebbe il massimo. Chi vuole vivere per sempre non bada ai rischi della vita, perchè sa che dopo la vita terrena viene la vita del ricordo. Come non dimenticare i grandi filosofi del passato: Platone, Socrate, Aristotele eppure qui non si discute della vita futura, bensì di quella presente.

La vita umana ha un gran valore, è assodato. Ogni persona svolge un certo ruolo nella comunità e questo fornisce anche uno scopo alla vita umana. L’intera umanità, nel suo insieme, ha poi un altro grande scopo da realizzare, ma questo è un argomento che dovrebbe essere approfondito in altra occasione. Qualunque sia lo scopo della vita dobbiamo cercare di vivere al meglio e di conservare attraverso l’attenzione, la comprensione, la cura il nostro vivere, felici o infelici non dovrebbe essere importante anche se, obiettivamente, meglio vivere felici. Le cause che impediscono di essere felice sono molto numerose e possono essere divise in tre grandi categorie: cause dovute ad eventi imponderabili o naturali, quelle prodotte dalla volontà altrui, quelle determinate dalla nostra stessa volontà e qui penso ai carcerati, a quelli condannati a pene detentive per tutta la vita, certo non possiamo pensare o credere che siano felici.
Ciò nonostante anche a loro è richiesto di vivere una vita, quello che rappresenta il viverlo anche se si tratta di una vita da reclusi, in quel caso magari con la speranza di poter uscire prima che la vita abbia termine e rigodere di quella sensazione senza fine che è la libertà ma è moralmente accettabile la valutazione sul valore della vita umana? 

Secondo il mio modesto avviso il valore della vita umana non è un termine assoluto ma relativo, e può essere confrontato con quello degli altri. Il valore della vita umana non è costante nel tempo, e cambia in base al proprio comportamento. Non dipende da ciò che si è ma da ciò che si fa. Siamo quindi obbligati al rispetto delle regole e delle leggi anche se questo determina una limitazione della nostra libertà. Ma è libertà disporre della propria vita come si preferisce anche se questo porta a una fine anticipata di essa a causa dei nostri errori o valutazioni errate o superficiali? È giusta la vecchia regola che sancisce: “la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri” oppure non è sufficiente, perché troppo limitativa? Capisco che qualcuno leggendo l’articolo stia già pensando che mi sto arrampicando sugli specchi, un terreno minato di ragionamento che esula dai significati tradizionali e spazia in concetti astratti che hanno poca attinenza con la realtà ma il punto è proprio questo: posso io decidere della mia vita senza curarmi di quello che potrebbe accadere nel caso dovesse finire anzitempo causa una mia scelta scellerata che porta a una fine anticipata? Secondo il mio credo e punto di vista no.

E qui torniamo all’episodio del quattro gennaio. Potevano le persone che si sono imbarcate su quel volo in partenza da Los Roques decidere della propria vita senza curarsi affatto di quello che indubbiamente potevano lasciarsi alle spalle? Il dolore, l’ansia, lo sconcerto, il desiderio, l’incredulità, la paura del domani e del presente senza contare, nel caso di uno degli scomparsi, tutti i problemi legati alle responsabilità nei confronti degli altri familiari, i figli, i fratelli, i genitori, l'azienda, la comunità?
Era lecito rischiare la vita? 

L’uomo non è completamente libero, soprattutto non è libero di provocare direttamente o indirettamente del male alla società. Il costo della felicità, e del benessere collettivo, è pagato da una limitazione della libertà e felicità individuale. Il nostro valore, aumenta con la capacità di limitare la nostra libertà, e in particolare di quanto siamo capaci a limitare il nostro egoismo, per favorire la nostra collettività. C’è stata questa considerazione di responsabilità quando i passeggeri di quel volo maledetto hanno deciso di partire? Hanno considerato che potevano anche non arrivare? Non si tratta di un bieco calcolo statistico, i numeri parlavano chiaro, le probabilità che potesse avvenire un incidente erano altissime, eppure questa possibilità non ha nemmeno sfiorato le loro menti, il pensiero alla bella vacanza riempiva tutto, impossibile pensare a altro.

La vita è rischiare, è cadere e rialzarsi, è non esitare. 
La vita è un gioco forte e allucinante.
La vita è per vivere!


2013/01/10

Il Razzismo (secondo Ari)!


Ricevo da un carissimo amico un lungo commento al mio precedente articolo sul razzismo. Siccome supera abbondantemente le cinque righe permesse dal software di blogger gli propongo di pubblicarlo.
A me è piaciuto molto e per questo ho chiesto e ottenuto il permesso di inserirlo nel mio blog affinché resti a imperituro ricordo, fatemi sapere, gli amici per email e tutti gli altri se si diletteranno nello scrivere un commento qui sul blog, se vi è piaciuto. Anche se non vi è piaciuto, tanto l’articolo resta lo stesso, semmai prenderò in seria considerazione i vostri commenti per i miei futuri articoli sulla comprensione umana. 

Sentirsi superiori. 
Se per superiorità si intende conoscenza, senso civico, educazione, cultura ed intelligenza, io mi sento superiore a molta, anzi moltissima gente che ho visto e conosciuto in giro per il mondo. Mi sento parimenti inferiore a chi ha doti maggiormente sviluppate delle mie fra quelle elencate. Quindi, mi sento superiore alle mie domestiche, ad esempio, alle quali è difficile far capire persino la differenza fra “pulito e sporco”. Per contro mi sento inferiore a Piero Angela, a Bill Gates e a tantissima altra gente. 
Sistemi di pensiero. Se si accetta l’idea che è necessario stabilire una piattaforma di convenzione su cui basare criteri, giudizi, opinioni, allora vale quanto ho indicato qui sopra. Altrimenti si potrebbero stabilire altri criteri su “superiorità ed inferiorità”. Può l’altezza di un individuo costituire valore di superiorità? Oppure il peso corporeo? O la capacità di bere più alcool? 

Filosofie e religioni. 
Su cosa basavano i loro pensieri gli antichi filosofi? Sulle conoscenze dell’essere umano, della vita e della natura, sostanzialmente. Per coniare una massima che magari è piú che mai valida e ancora oggi utilizzata correntemente, dovevano per forza avere idee di cosa fosse buono, cattivo, utile, essenziale, superfluo... dovevano saper interpretare sia le proprie emozioni che quelle degli altri. Cosa facciano i filosofi moderni lo ignoro, filosofeggeranno sulla borsa? Sulla politica? Oppure rapporteranno ai tempi moderni lo stesso ordinamento di pensiero dei loro illustri predecessori? E se è vero che i maggiori filosofi erano Greci, dove le regole del vivere civilmente in società erano indubbiamente conosciute, Si può dire che i Greci di allora (su quelli di oggi ci sono molti dubbi...) erano superiori agli aborigeni australiani? O magari si possono ribaltare queste teorie, forse questi ultimi erano più avanzati dei primi ma non è stata data loro la giusta “pubblicità”? 

Ma si può discutere di questo oppure non ne vale la pena? 
L’opinione mondiale, conta oppure no? Religioni, argomento complesso, astruso di cui si capisce di primo acchitto che quanto più un individuo è ignorante, tanto più sarà “plasmabile”. In un contesto multiplo ciò è ancora piu’ fattibile, basti pensare ad Hitler e cosa è riuscito ad ottenere dalla sua gente...L’Islam che come un rullo compressore si sta diffondendo sempre piu’ nel mondo va oltre la religione. L’Islam per i mussulmani è la vita. In nome del suo profeta si fa di tutto, compreso l’uxoricidio, l’omicidio di parenti e addirittura figli, si fanno sacrifici corporali, mutilazioni dei genitali femminili...insomma cose che la natura non ha previsto ma che secondo molti di loro è giusto fare. Loro credono di essere superiori a tutti gli “infedeli” che non sanno neppure mangiare, secondo loro, in maniera igienica. Il maiale non sarebbe neppure commestibile. Mah, avranno ragione loro? Per me no, infatti sono fortemente razzista verso i mussulmani fanatici, anzi li odio profondamente. Li tengo persino fuori considerazione da questa analisi, come fossero una specie animale aliena.

L’adeguata risposta si può già dare, relativamente al sentimento di “razzismo”, rispondendo a qualche ulteriore semplice domanda da inserire nella discussione. Cosa è il disagio? Cosa è pericoloso? Cosa ci fa paura? Dunque, se non si prova disagio a stare in mezzo ad individui che non curano l’igiene personale (perchè forse non hanno acqua corrente, tantomeno soldi per comprare diversi vestiti, ma ci sono anche quelli che dispongono di entrambe le risorse ma non hanno la forma mentis di usarle), allora si è quasi scevri dal provare sentimenti di razzismo. Se in un locale pubblico un gruppo di persone parla a voce esageratamente alta, anche in una lingua sconosciuta, schiamazza, si muove senza circospezione, importuna chi non è parte di quel gruppo, non osserva leggi o regole di buonsenso e tutto questo non ci da fastidio, vale quanto detto sopra. Se in una strada o piazza pubblica vogliamo fare una passeggiata e dobbiamo camminare fra rivoli di urina umana, vetri di bottiglie appena spaccate intenzionalmente, gente che non considera la presenza altrui e anche qui non proviamo disagio o fastidio, non siamo di sicuro razzisti. Se ci rapinano per strada o in casa nostra, ci danneggiano beni personali e accettiamo di buon grado quanto subito, non possiamo mai diventare razzisti sia nei confronti della categoria “ladri e vandali” che di quella più specifica “stranieri ladri e vandali”.

Ed il pericolo, la paura? Se veniamo accerchiati da un gruppo di zingari, sporchi, puzzolenti, dalle facce poco amichevoli (si vuole forse fare anche una disamina di cosa si intenda per faccia amichevole, puzza e sporcizia? Spero di no), ci sentiamo in pericolo? Ne abbiamo paura? Sarebbe prudente cercare di imporre loro il nostro diritto di essere lasciati in pace? Sarebbe consigliabile alterare il nostro vero sentimento in favore di uno che possa compiacere le persone con cui non abbiamo mai avuto intenzione di avvicinarci? Ossia, invece di gridare “ma che volete, perchè non ve ne andate via, ma chi vi ha cercato?” dire al gruppo “salve, voglio proporvi un gioco, io compro una cassa di birra e vediamo se riusciamo a berla entro cinque minuti, così battiamo il record”. Se sì, significherebbe aver dimostrato di avere paura, di aver avvertito la sensazione di pericolo, proprio pericolo fisico, quello di subire percosse, escoriazioni, fratture, menomazioni, perdita della vista, dei denti, forse anche della vita. 
Il mio sentimento è tutto il contrario di quanto ipotizzato sopra circa il disagio. Quindi sono razzista. Lo sono nei confronti di tutti quelli che mi disturbano, infastidiscono, danneggiano. 

Qualche mese fa ero a pranzo con la mia famiglia più una coppia di amici in un ristorante filippino fronte mare. Alla fine del pranzo, e per fortuna non prima, erano entrati due giovani individui corpulenti, uno flaccido, l’altro più tonico. Parlavano in russo, a voce molto alta, incuranti degli altri, famiglie come la mia, bambini... Le facce erano decisamente di gente di basso profilo (la fisiognomica, non sarà una scienza esatta ma spesso ci azzecca...), i loro modi assolutamente incivili. Non credo che qualcuno fosse contento della loro presenza, forse neppure il proprietario o gestore del ristorante. Bevevano liquore dalla bottiglia ed è facile immaginare come può andare a finire se si resta ancora a lungo. Appena l’alcool fa effetto, quella gente diventa più espansiva con gli sconosciuti, ma non vorranno confrontare opinioni su economia o gastronomia... troveranno un pretesto per attaccare briga e allora si salvi chi può. 

Non sono gli unici russi che non mi sono piaciuti, per cui sono da considerare aprioristicamente razzista verso i russi. Ma lo sono anche verso certi inglesi (forse anche peggiori dei russi), ma qui già distinguo, per i russi sono più generalista, proprio non posso neppure sopportare di sentire la loro lingua, mentre per gli inglesi è assai diverso. Non sono disturbato dalla loro vista, comportamento, modo di parlare, atteggiamento. Lo sono ancora verso quelli dell’est europeo, dato che ci ho vissuto per anni ed ho avuto spesso spiacevoli sensazioni nel vivere in mezzo a loro. Ma lo sono addirittura verso i miei stessi corregionali. Molti sardi non posso sopportarli. Una volta un collega aveva fatto una considerazione su un terzo collega: “cosa ti aspettavi da lui? È pugliese”. E così mi faceva osservare cose cui non avevo mai fatto caso. Cose negative che interessavano i pugliesi. Ripensando a certe mie esperienze passate, avevo dovuto concordare su certe caratteristiche negative dei pugliesi. Le considerazioni erano basate su fatti oggettivi. Semplici coincidenze oppure caratteristiche degli abitanti di quelle regioni?

Quando ero in Croazia capitava che fra noi dell’Europa di allora (la CEE era di 12 Paesi) si parlasse dei locali. Mah, i croati non piacevano a nessuno. Non ci piaceva il loro essere sgarbati, grezzi, maleducati, approfittatori, non ci piaceva la lingua e altre cose. Qui nelle Filippine fra noi stranieri si fanno spesso conversazioni sui locali. Ci raccontiamo esperienze, ci chiediamo del motivo per cui non riescano a comportarsi in modo a noi consono e così facendo ci danneggiano. Subiamo i loro ritardi, i mancati pagamenti, le truffe, l’inaffidabilità... Ci sono alcuni che obiettano sul cosa sia il “modo consono” a noi più congeniale. Si parla di cose che universalmente sono conosciute e standardizzate come il tempo. L’orologio è uno strumento comune per misurarlo, e un ora in Germania ha la stessa durata di un ora cambogiana, o italiana o filippina. Anche sui giorni della settimana non dovrebbero esserci discussioni: sono 7 dappertutto. E lasciamo perdere disquisizioni ed elucubrazioni su calendari cinesi, stima visuale del tempo e altre cosette. Se non si è d’accordo su questa piattaforma delle cose basilari non c’è discussione. 

Se non mi consegnano della merce che ho prepagato nel giorno stabilito perchè qualcuno sbaglia a contare i giorni, oppure sbagliano l’orario per motivi simili, mi creano un danno, quantomeno un disagio. Se queste cose avvengono più che sporadicamente ma pressoché su base stabile, allora scatta quel sentimento che ci fa imprecare: “dannati questi, o quelli”. Si potrebbe continuare a lungo su questo tema, sui danni provocati da certa gente a causa della loro incompetenza / disonestà / stupidità. Come nelle costruzioni. Chiunque qui abbia costruito qualcosa ha da mettersi le mani nei capelli quando ripensa alle disavventure. Come in un’ordalia...qui lo standard è questo: devi realizzare qualcosa? Metti in preventivo perdite di tempo, di danaro e salute. Se invece uno vuol farsi la casa in Scandinavia, dovrà altresì prepararsi alle stesse cose oppure può affrontare la questione con maggior serenità? Gli scandinavi, già. Perchè vengono spesso citati come modelli di civiltà e progresso? Sono balle oppure hanno una marcia in più rispetto ai Ghanesi o ai Filippini? E questi ultimi, giusto per citare un esempio attinente ad una categoria di lavoratori, i marittimi, perchè sono considerati inefficienti ed inaffidabili da diverse compagnie di navigazione? Ho letto che sono giunte proteste ufficiali in tal senso, così che le autorità filippine hanno deciso di chiudere per poi riformare le scuole professionali marittime, dovendole adeguare a degli standards che i marinai locali non sono attualmente in grado di rispettare. 

Due Italiani che lavorano nel settore e che ho interpellato sulla questione mi hanno confermato queste cose. Quindi esistono differenze fra i diversi popoli (non potendo più parlare di “razze” per evitare di offendere qualcuno, visto che forse anche etnie non è corretto, spero che “popoli” possa andare bene), ci sono quelli più versati per la tecnologia, le scienze, le arti e via dicendo. Se anche il grado di progresso raggiunto da un popolo può rientrare anch’esso nella piattaforma basilare, è possibile redigere una “scala”, un ordine di quali siano i popoli migliori e peggiori? Forse no, perché dovremmo includere diversi altri parametri quali la percentuale di incidenti, di delitti, di truffe...
Quindi non si puo’ semplificare come in un sistema scolastico, dove chi ha i voti migliori è considerato il più bravo, il più intelligente, insomma il migliore. Il migliore è superiore al peggiore, almeno da un punto di vista, credo sia apodittico. Ma chi ha inventato i voti, i sistemi di attribuzione di questa superiorità? Perchè è stato necessario formare delle graduatorie, invece che promuovere sempre tutti quanti a prescindere dal rendimento scolastico? 

Poi, cos’è questa discriminazione sul lavoro, ovvero la ricerca di figure per certi incarichi in possesso di un alto titolo di studio con corredo di specializzazioni? Gli altri che non hanno le stesse carte, come sono considerati? Semplicemente “non idonei” oppure possono essere definiti inferiori? Io che non ho studiato sentendomi definire tale accetterei di buon grado. Purtroppo non posso competere con chi ha studiato e si è qualificato dimostrando capacità ed intelligenza. Ovviamente non si parla di superiorità assoluta ma relativa, anch’io posso avere qualche caratteristica che mi rende “superiore” rispetto ad un plurilaureato. 

Un giorno parlavo di cose pratiche di campagna con un amico tedesco residente nelle Filippine da molti anni. Concordavamo sull’abilità di qualsiasi filippino, uomo o donna, nell’accendere un banale fuoco. Entrambi avevamo confessato la nostra incapacità a fare altrettanto. Malgrado l’esperienza di aver acceso chissà quanti fuochi per poi arrostire carni e pesci, sia in Sardegna che altrove, qui nelle Filippine non mi è quasi mai riuscito di accendere un bel fuoco che bruciasse bene come sanno fare gli indigeni. Quel tedesco mi diceva che insieme ad altri tedeschi intenzionati a fare barbecue, non riuscivano nemmeno a far prendere le fiamme con spruzzate di benzina. Per quanto sia stata curata la disposizione di carta, esca, pagliuzze, rametti e legni piú grandi, qualcosa nella combustione non funziona, il fuoco tende a spegnersi e per farlo partire bisogna affrettarsi ad aggiungere altra carta, legnetti asciutti.... I filippini sono superiori a noi nelle tecniche di sopravvivenza, conoscono le caratteristiche di ogni pianta, arbusto, foglia. 

Chissà se Bill Gates si è mai dedicato al barbecue...





2013/01/04

Perché sei razzista?

Parliamo di razzismo, che è anche attuale, visti i sentimenti che animano i nostri giovani, e non solo i giovani, negli ultimi tempi, nella vita e nello sport. Nello sport poi non ha senso, è un’incongruenza, il razzismo sta allo sport come il cavolo a merenda, come un goccetto appena alzati, come un cappuccino con panna prima di andare a nanna, ci metterei anche la paura del diverso che sta dilagando un po’ ovunque e che spinge spesso ad atti inconsulti. Vedi quei quattro deficienti di Busto Arsizio colpevoli di cori razzisti nei confronti di alcuni giocatori del Milan nel corso di una partita amichevole con la locale Pro Patria. 

Penso che sarebbe materia più per la psicologia che per la filosofia chiedersi da quale sentimento derivi il razzismo, ma è possibile anche aprire una prospettiva filosofica a riguardo. Mi sembra infatti un atteggiamento abbastanza primordiale, non costruito su basi filosofiche o politiche, al massimo, come purtroppo sappiamo, è accaduto che venisse legalizzato e sfruttato, ma in sé mi pare principalmente istintivo (l'istinto non è sempre bene). 

Secondo una mia riflessione sul piano morale credo che il razzismo sia uno dei tanti modi di anteporre una prospettiva totalitaria, quella di etnia o presunta 'razza' ad esempio, alla dignità dell'altro essere umano che in quanto tale non si lascia ridurre ad un gruppo o, peggio, ad uno stereotipo. Per superare il razzismo occorre sempre valutare prima il singolo uomo che non il gruppo al quale cerchiamo, forzatamente ed arbitrariamente, di ricondurlo inventandoci un’appartenenza.

Questo non significa che le generalizzazioni circa le persone siano sempre inutili e dannose, anzi alle volte sembrano indispensabili, ma dobbiamo riaffermare la priorità dell'altro in quanto uomo libero, nostro pari, ma irriducibile a noi e ai nostri stereotipi proprio in quanto libero. Non bisogna superare il razzismo affermando che siamo tutti uguali, non siamo tutti uguali ma simili. Ogni etnia gode di piccole differenze che la caratterizzano pur facendo parte della stessa razza umana, però occorre capire la diversità irriducibile del prossimo, che si manifesta nella sua libertà. Uguali perchè diversi ed irriducibili l'uno all'altro. 

Sappiamo, perché noi persone di cultura l’abbiamo letto sui testi scolastici, che molteplici  razze umane non esistono, sappiamo che siamo tutti figli della stessa razza anzi per dirla tutta, della stessa specie, l’uomo per l’appunto, qui semmai si dovrebbe parlare di etnie perché il termine “razza” viene utilizzato per identificare le differenze fra le razze di animali domestici, creati dall’uomo. Evidentementente queste spiegazioni non attecchiscono nel pensiero razzista di certi individui che fanno della prevaricazione una condotta di vita. 

Nella sua definizione più semplice infatti, per razzismo si intende la convinzione preconcetta e scientificamente errata (come dimostrato dalla genetica delle popolazioni e da molti altri approcci metodologici), che la specie umana sia suddivisa in "razze" biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, con la conseguente idea che sia possibile determinare una gerarchia di valore secondo cui una particolare e ipotetica "razza" possa essere definita superiore o inferiore a un'altra.

Le radici del razzismo sono antiche ed intrinseche, già nell’antichità vi erano nobili e schiavi, i cristiani venivano perseguitati e massacrati; negli Stati Uniti vi è stato il razzismo coloniale, nel corso del secolo scorso la presunzione di superiorità della razza ariana, proclamata da Hitler, causò lo sterminio di milioni di ebrei da parte dei nazisti; e anche le stragi etniche di molti conflitti, come quelli nella ex Yugoslavia, in Rwanda e Burundi, in Congo e nello Zaire, sono state compiute con motivazioni che convergono nel razzismo. 

Quando si parla di razzismo viene associato, soprattutto, alla discriminazione verso colori di pelle diversi; ciò non è del tutto esatto perché la selezione può riguardare anche il sesso, le differenze religiose, politiche, economiche e di collocazione geografica, e, anche se ci rifiutiamo di ammetterlo, verso gli handicappati o gli anziani, considerati come un peso dalla società moderna. 

Da ciò scaturiscono gli atteggiamenti di intolleranza pressoché quotidiani che si verificano in molte parti del mondo e si concretizzano in vari tipi di violenza, che partono da gesti di scherno e minacce, fino a arrivare all’omicidio , verso coloro che vengono ritenuti diversi e, più di ogni altra cosa, inferiori; infatti il razzismo oltre a riconoscere le differenze, le ingigantisce, con lo scopo di dominare, legittimando così la superiorità di un gruppo nei confronti di un altro.

I corsi e ricorsi storici ci hanno reso chiaro quanto gravi e disastrose possano essere le conseguenze dei pregiudizi razzisti, ma, a dispetto di tutto ciò questi continuano ad sussistere ed a manifestarsi; viviamo in una società piena di gravi problemi, dove la violenza e gli atti criminali sono all’ordine del giorno, la disoccupazione è un fenomeno di grosse proporzioni, dove il valore più importante sembra essere quello del denaro; così è conveniente trovare dei capri espiatori a cui attribuire tutte le responsabilità.

Vi è poi l’abitudine di parlare di questo fenomeno come di un qualcosa che non ci riguarda, sosteniamo che non è giusto ma non facciamo niente di concreto per combatterlo; sono convinto ci sia anche tanta ipocrisia, e che la vera domanda da porsi sia: in fondo in fondo siamo veramente sicuri di essere totalmente tolleranti ed aperti verso chiunque? E’ facile fare proclami o scrivere belle frasi, bisogna vedere come ognuno reagisce in una situazione reale che lo riguarda.

La prima azione da compiere per combattere la discriminazione è cercare di approfondire la conoscescenza di tutte le circostanze storiche ed economiche che l’hanno prodotta, così saremo in grado di combattere le differenziazioni e bisogna anche ricordarsi bene che identificare un’etnia e definirla razza inferiore a un’altra non è un’opinione ma un reato.

Domandiamoci tutti: quali sono i motivi di un’ideologia che ci porta ad sentirci superiori a un altro essere umano? Quali i sistemi di pensiero, le filosofie o le religoni, che stanno dietro tutti questi sentimenti? Quando saremo capaci di trovare le risposte a queste semplici questioni allora avremo risolto un quesito che affligge da migliaia di anni il genere umano senza mai, veramente, trovare una adeguata risposta.


2013/01/03

Election Day


Innanzitutto non si capisce perché in Italia, dove è risaputo si parli e si scriva in italiano, si debba usare un termine nella lingua d’Albione per indicare le prossime elezioni. L’abbiamo sempre chiamato “il giorno delle elezioni” adesso siamo costretti nostro malgrado a chiamarlo “Election Day” in omaggio a una inglesizzazione del nostro idioma ormai, evidentemente, vecchio e fuori moda. Ché, seppur vero che agli italiani le lingue stanno indigeste come il mal di pancia, è altresì vero che in Europa siamo in buona compagnia, almeno in quell’Europa del sud, tutta povera e vicina al collasso finanziario nonché economico formata da Spagna, Portogallo, Albania, Romania e Grecia dove l’Inglese si parlicchia ma insomma con certi accenti da far rabbrividire non solo Shakespeare che di Albione era probabilmente un acculturato ma anche del sommo poeta nostro Dante che della lingua perfetta è sempre stato un fautore. Ordunque torniamo al nostro election day, il giorno delle elezioni. Perché deve essere un giorno che poi sappiamo bene che son sempre due? Già qui ci sarebbe da discutere, non è mai successo nella storia della Repubblica che le elezioni si svolgessero in un mese freddo. Si sa che il freddo non favorisce le persone, i più anziani preferirebbero starsene al calduccio in casa propria invece di andare a porre una croce su alcune schede che tanto si sa, sono sempre voti buttati via, qualunque schieramento si scelga poi fanno quello che vogliono loro alla faccia del popolo sovrano.

Il popolo sovrano, altra grossa balla. La Merkel di teutonica origine ci impose il Mario Monti senatore a vita per interrompere quella che, secondo lei - e la banda dei quattro di cui era ed è rappresentante di spicco - era una condotta politica e finanziaria volta al disastro a opera del nazional popolare Berlusconi, legalmente eletto e voluto dal popolo sovrano, coinvolgendo, e questo è il vero motivo, nella caduta il resto d’Europa perchè l’Italia non è un Paese del terzo mondo ma una delle colonne dell’Europa Unita.
Ma come? Siamo una delle colonne dell’Europa si saranno chiesti gli italiani. E da quando?

Non si è mai notato in passato, quando siamo stati sempre vilipesi, malconsiderati, ignorati, ridicolizzati agli occhi dell’Europa e del mondo. Quando la Merkel e il tappo francese Sarkozy si facevano quattro risate alludendo al nostro Berlusconi, che sarà tappo anche lui pur ricorrendo a a scarpe con ben 4 centimetri di tacco ma quelli se li poteva comprare come un campione del suo Milan con qualche milione, visto che, al confronto dei due poverelli e malmessi politici d’oltre le Alpi, è sempre uno dei più ricchi uomini d’Europa, che dico, del mondo intero. 

Ecco che di colpo diventiamo colonna portante in nome di un’Europa che va salvata. E lì già sorgono altri dubbi, i dubbi di chi standosene fuori dai confini italici nota e ha notato quanta grande fosse la disparità fra i cittadini del sud Europa rispetto a quelli del nord. Noi saremo anche colonne d’Europa ma non entriamo nel consiglio di sicurezza dell’Onu dove entra la Francia per esempio, anzi i Francesi che pure han perso la guerra, la grande guerra come noi, che pure hanno assecondato la Germania pur di cavarsela in qualche modo come noi, come dimenticare il Governo di Vichy altrimenti detta Repubblica di Vichy?

Per chi la storia non la ricorda e per chi fa finta di dimenticarsela ecco che inserisco un paragrafo di storia affinché serva quale monito alle generazioni future. L’Italia e gli uomini che avrebbero dovuto difenderne il nome, non è mai stata capace di difendere con forza e coraggio i propri diritti, e nonostante tutto abbiamo sempre subito la forza e l’arroganza dei nostri vicini. Basterebbe pensare alla Francia ma anche alla Germania che non aveva alcun diritto alla fine della seconda guerra mondiale, eppure abbiamo visto dove sonoarrivati. E la Francia? Abbiamo detto della Repubblica di Vuchy, i sostenitori della legittimità del governo di Vichy affermano che la formazione del nuovo Stato avvenne tramite regolare votazione della Camera e del Senato, mentre i suoi detrattori, in particolar modo i Gaullisti, sottolineano che la votazione avvenne in un momento di notevole disordine pubblico per la Francia e che non fosse conforme ai principi della Repubblica. 

L'11 luglio gli atti del Parlamento conferirono pieni poteri al Maresciallo Pétain con il compito di redigere una nuova Costituzione, che venne scritta e mai promulgata. Di fatto venne decretata la fine della Terza repubblica e dato inizio ad un nuovo ordinamento che prese il nome di Stato francese. Pétain prese il titolo di "Chef de l'Etat" (Capo di Stato), mentre i primi tre capi del governo che si succedettero ebbero il titolo di vicepresidente del consiglio. Pétain instaurò in breve un regime appoggiato da movimenti fascisti, nazionalisti, monarchici ed antisemiti presenti in Francia, facendo leva sul carisma derivatogli dall'immagine di eroe della Grande Guerra. Le camere non furono sciolte, e gli altri partiti non vennero proibiti. Tuttavia il parlamento fu "aggiornato fino a nuovo ordine" e mai più convocato.
Il 24 ottobre 1940 Pétain ufficializzò la sua collaborazione con i tedeschi incontrandosi e stringendo la mano ad Adolf Hitler a Montoire-sur-le-Loir.

Ecco la Francia, quella stessa Francia che alla vigilia dello sbarco in Normandia non condanna l’aggressione tedesca in Marocco ma si limita a poche e convenzionali lettere di protesta, lettere che sollevano i compiti del governo che passa totalmente in mani tedesche. E quando Roosevelt, presidente degli Stati Uniti scrive al Premier britannico “Quando l'America è entrata in guerra, l'unica Francia che conosco stava dalla parte dei tedeschi. “ si capisce perfettamente quanta volontà e desiderio di essere liberati animasse i francesi. Così tanto che sessantasei anni dopo il Premier tappo francese Sarkozy scherza e deride il nostro Capo del Governo Berlusconi insieme alla culona tedesca Merkel erede di quella stessa Germania che aveva invaso e annichilito la Francia 70 anni prima. E sempre il tappo francese si permise di dettare le condizioni all’Italia, supportato dalla culona di cui sopra, dimentico di quello che i crucchi avevano perpetrato ai danni del suo paese. 

Ecco che adesso il popolo italiano si accinge a votare, con paure e indignazioni, con il timore di cadere dalla padella nella brace, con la consapevolezza che, mai come prima, il destino dell’Italia è nelle proprie mani. Quando è caduto il governo Monti con il paventato ritorno sulla scena di Berlusconi molto media hanno confermato quanto già si sapeva: senza una decisa e autorevole agenda europea l'Italia resta un Paese a rischio. Pericolosa per sé e per l'intero continente.

Ecco, le preoccupazioni degli altri, quei compagni di merende degli europei a cui si uniscono gli americani, riguardano non già l’Italia come popolo sovrano in crisi d’identità e di cultura politica, basterebbe pensare ai guai provocati dalla casta dei politici ingordi, riguardano soprattutto gli equilibri mondiali che potrebbero vacillare sotto il peso di un fallimento politico e finanziario del nostro Paese, fallimento che interessa gli altri solo per le ricadute nei confronti di tutto l’establishment finanziario, il gotha della finanza mondiale, l’asse di controllo europa america che crollerebbe insieme al castello di carta creato artificialmente dalle banche, vero pericolo mondiale (altro che le sinistre caro Berlusconi).  

Ecco che non è solo «il ritorno della mummia» come ha titolato a tutta pagina il francese Liberation (si guardassero le loro mummie francesi invece di venirle a cercare nei nostri palazzi, si guardino il caro Hollande che, novello Robin Hood, punisce i ricchi per salvaguardare la faccia ma non premia i poveri che invece soccombono sotto una raffica di aumenti di tutto il tassabile), o «di nuovo bunga bunga» come ha scritto la tedesca Bild Zeitung, a preoccupare. E nemmeno la convinzione che Silvio Berlusconi «sia il simbolo della politica marcia», come ha vergato il Financial Times, e «il peggiore ciarlatano del dopoguerra», come ha ripetuto il Tagespiegel, ad inquietare le cancellerie europee.

È la paura che l'Italia torni come un anno fa, e forse sarebbe anche meglio di adesso, tutto sommato stavamo meglio quando pensavamo di stare peggio. Questi pensano che possiamo tornare a essere un Paese inaffidabile, incapace di mantener fede alle riforme avviate dall’ultimo governo, riforme? Quali riforme? Un paese prigioniero degli interessi personali ed elettorali di chi governa? E quando mai?  

Troppo a lungo come italiani ci eravano abituati a fare i furbi, non rispettando i bilanci e scaricando sulle casse pubbliche la nostra dolce vita, non portando a termine i compiti assegnati e giocando a svalutare la lira o a gonfiare l'inflazione per camuffare la nostra impreparazione ad affrontare strutturalmente i problemi. Fin che questo avveniva, potevano permetterci anche politici arraffoni, inconcludenti, populisti, vergognosamente indaffarati solo a fare i propri interessi, anche giudiziari e patrimoniali, come l'intera disastrosa parabola partitica insegna. 

Purtroppo quanto avviene in Italia, se cade un governo la responsabilità ricade sull'intera Europa, perché noi siamo parte piena dell'Europa, siamo uniti dalla stessa moneta e dagli stessi destini, ne subiamo gli stessi attacchi speculativi e ne beneficiamo degli stessi effetti positivi quando calano i tassi e il costo del denaro. Fare quel che vogliamo, anche distruggere noi stessi (o il futuro dei nostri figli) come abbiamo fatto allegramente negli ultimi trent'anni, ora non ci è più consentito. Perché il danno non lo facciamo solo a noi, ma all'Europa intera. E per questo motivo che l’Europa guarda alle nostre elezioni, per la paura di crollare insieme a noi, e allora poi si che saranno problemi, direi finalmente, problemi per tutti, non solo per l’Italia.

Ecco perché le elezioni fra poche settimane, nel 2013, saranno epocali, come e più di quelle del 1948. Perché si tratterà di decidere se stare dalla parte dell'Europa o contro, se rimanere un grande Paese e una grande economia mondiale o sprofondare nel vuoto.

Su questo si voterà a febbraio. Non si tratterà più di scegliere fra tre schieramenti, destra, sinistra e centro. Non ci sarà più un referendum su chi sta con o contro qualcuno. Sarà una conta su chi pensa che l'Europa sia la soluzione dei nostri problemi, e senza l'Europa non c'è Italia ma anche il contrario di tutto perché l’Europa non è la salvezza nostra, ma solo della Germania, forse della Francia e di pochi eletti Paesi, la salvezza è cambiare il nostro modo di pensare, di vivere, di decidere il meglio e il peggio in tutte le possibili varianti e colori passando dal bianco al nero. Se invece spareremo sull'Europa, non significherà aver perso, forse sarà solo un primo vero passo verso la libertà.

Sarà una campagna elettorale incandescente, dai toni duri e dagli effetti devastanti, dove uscirà il peggio del populismo e del qualunquismo che è stato seminato in questi anni e che ha partorito il dissesto attuale. Sarà una campagna elettorale dove da una parte ci sarà chi sparerà quotidianamente sull'euro, sulla Merkel, sui «burocrati di Bruxelles» e sul rispetto degli impegni presi. Dall'altra chi invece crede che l'Italia non ha futuro se non in Europa, e solo in Europa può contare nel mondo.

Sarà una campagna elettorale che vedrà alleati gli estremismi e gli egoismi della destra illiberale e xenofoba, con gli estremismi della sinistra antisistema, movimentista e giustizialista. La destra dell'Italietta provinciale che pensa solo ai propri miseri tornaconti immediati, unita nello stesso linguaggio e negli stessi obiettivi della sinistra del «no», del «contro», degli slogan dei diritti senza l'impegno dei doveri. Dall'altra parte verso il centro ci saranno i battuti centristi con Casini e Fini fratelli ini di un partitino che non è mai riuscito a combinare nulla se non dimostrare di saper spender bene i soldi dei poveri italiani che hanno assunto il premier dimissionario Monti per tentare di uscire dall’anonimato di un elettorato deluso. Delusi saranno loro e ancora non lo sanno, hai visto mai che gli italiani delusi e mazziati diano credito a chi li ha ridotti peggio di prima? 

È questa la posta in palio nel voto di febbraio. 

Sarà una partita decisiva. Soprattutto per le prossime generazioni.