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2013/04/05

Gli animali soffrono

Un lontano ricordo di libertà, la voglia di correre senza imposizioni,
senza catene, senza torture è tutto ciò che tiene questi animali vivi.
È giusto costringere animali in circhi e zoo o sagre popolari solo per potersi divertire?

Animali tenuti imprigionati, lontani dal loro habitat naturale, obbligati a compiere perfomance assurde, con l’unico scopo di strappare un sorriso (e qualche euro) a qualcuno. Circhi, sagre e zoo rientrano nell’idea, inculcataci sin dalla nascita, che gli esseri umani abbiano il diritto di appropriarsi della vita di un individuo, strapparlo alla sua famiglia e alla sua casa, manipolarlo, imprigionarlo, torturarlo e infine ucciderlo, per ottenerne il miglior tornaconto, che si tratti di cibo, divertimento, moda o qualche finanziamento a scopo “scientifico”.
L'addestramento degli animali del circo comincia fin da piccolissimi
e è mirato a strappare da loro ogni comportamento naturale,
per piegarli alla volontà dei circensi, tramite la costante minaccia
della morte da percosse

Si tratta forse proprio di una delle più eclatanti forme di sfruttamento degli animali, proprio perchè stravolge l’intera vita di esseri viventi solo per soddisfare la curiosità di qualcuno di osservarli, avvicinarli, divertirsi vedendoli fare cose “ridicole” o pericolose performance.



Chi davanti a un orso che balla, una tigre che si getta in un cerchio infuocato o un elefante che fa la verticale riesce davvero a fingere di non sapere che questo non può essere che il risultato di un ammaestramento crudele?
Obbligati a compiere esercizi contro natura, costretti a “recitare” anche se stanchi o malati, abbagliati dai riflettori, frastornati dal clamore della folla: ciò accade solo perché gli animali sono impauriti dalla frusta e dalla presenza del pungolo d’acciaio che ricordano loro il dolore subito durante l’addestramento.

Il terrore, il dolore, la prigionia e la noia sono le costanti che accompagnano la vita di ogni animale prigioniero del circo fino alla morte

Numerose testimonianze raccontano di cani chiusi in minuscole gabbie per tutta la giornata; elefanti legati costantemente per due zampe e “svuotati” prima di ogni spettacolo perchè non evaquino in pista; cavalli costretti a lavorare anche se malati o feriti; leopardi legati ai due lati della gabbia e pungolati alla gola per ore e ore con un forcone finchè non imparano a stare seduti sulle zampe posteriori; animali vecchi e logori che, dopo un’eternità trascorsa a servire l’uomo, vengono ceduti ai laboratori di vivisezione.




Anche le "innocenti" ricorrenze popolari e religiose sono spesso l'occasione per organizzare sagre, palii e altre manifestazioni crudeli durante le quali cavalli, asini, anatre, oche, tori, mucche, buoi, capre, e altre specie animali sono sottoposte a crudeltà e abusi. Al riparo della tradizione, gli animali si frustano, si sovraccaricano, si usano come bersagli, si obbligano a correre su percorsi accidentati e pericolosi, si forzano a trascinare carretti. 


Nessuna tradizione può giustificare lo sfruttamento e il dolore dei più deboli, né le torture o le sevizie possono essere considerate un patrimonio culturale da tramandare alle generazioni future. Costituisce un passo fondamentale ed indispensabile giungere a considerare gli animali come in realtà sono: esseri senzienti e consapevoli, capaci di provare, come noi, emozioni e dolore. 

L'abitudine al considerare gli animali degli oggetti e non esseri viventi
che soffrono innaturalmente, accresce, nei bambini che assistono
al circo, l'abitudine a non prendere in considerazione il dolore altrui

Ogni anno, si svolgono in molte parti del mondo, anche in Italia, fiere e palii che sfruttano gli animali per fare spettacolo. Per una ragione che mi è sconosciuta, l'uomo crede di far ridere se nello spettacolo si aggiunge un animale che non gradisce determinate situazioni, non gradisce i giochi a cui viene sottoposto suo malgrado, non gradisce di essere ridicolizzato in virtù di uno spettacolo a solo uso e consumo di altri bipedi che urlano, picchiano, insultano.


Il cosiddetto Palio vale a dire una manifestazione popolare "di amicizia, solidarietà e incontro"; trasforma gli animali in veicoli di divertimento, nella fattispecie a cadere nelle braci sono spesso gli asini. E non mi limito a criticare solo le corse degli asini, ma tutto il sistema di fiere e spettacoli, lo stesso che porta a tramandare le corse dei cavalli in un anello in una nota piazza, con il fondo lastricato di pietre, scivoloso come il marmo bagnato dove le povere bestie spesso rompono zampe e zoccoli se non di peggio.

Non credo che i quadrupedi protagonisti di queste presunte "feste" si divertano molto: li abbiamo visti anche alla tv, nervosi, irrequieti, chiaramente a disagio nel bel mezzo della folla urlante alla quale non sono abituati. Come si sentono questo animali condotti contro la loro volontà a misurarsi in una corsa che non li vede protagonisti. Lo sappiamo benissimo, il protagonista sarà sempre il fantino o cavaliero o gonzo di turno che le cavalca, per far ridere, piangere o sognare, non importa se tutto questo sia ragionevolmente lecito, l'importante sembra sia lo spettacolo a discapito dei nostri poveri animali che non apprezzano affatto.

Posizioni innaturali e dolorose, suoni e luci frastornanti, la costante minaccia
della frusta e del bastone. Il circo, per gli animali, è un incubo che nemmeno
possiamo arrivare a capire

È giusto, in nome della tradizione e del divertimento, sottoporre gli animali a simili crudeltà e abusi? Ci siamo mai chiesti che senso ha ridicolizzare, deridere, sfruttare, malmenare, sopraffarre, obbligare a azioni che vanno contro la loro natura con la solita prepotenza tipica della specie umana gli aimali che non condividono questa nostra attitudine?


Il mio cane, un Fila Brasileiro di dieci anni, tutte le volte che dobbiamo partire per andare in qualche Paese diverso dal solito, si nasconde, cerca un luogo dove difficilmente, crede lei, possiamo vederla, aborrisce i viaggi, gli spostamenti, questo sradicarla dalle sue abitudini, dal calore di una famiglia e di una casa che ama. E purtroppo siamo costretti a volte a questa violenza, facciamo sacrifici per non privarla del nostro affetto che, almeno inizialmente, lei non comprende.

Oltre agli spettacoli, la vita degli animali nel circo si riduce a questo: una prigionia forzata senza nemmeno la possibilità di muoversi

Anche i cani, gli asini, i cavalli, le mucche, i leoni, gli elefanti, i coccodrilli, le pantere, gli agnelli e finanche gli uccelli che noi costringiamo in gabbie anguste sono esseri senzienti e consapevoli, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro paure, capaci come noi di provare dolore e sconforto. E non dimentichiamoci di quegli animali costretti a esercizi cruenti nei circhi, a quelli ridicolizzati a eseguire esercizi per far ridere i bambini, e sono anche contro certi zoo dove gli animali sono costretti in gabbie, fiere da condannare a una vota da reclusi solo per mostrare al mondo "l'effetto che fa" come cantava il grande Jannacci scomparso recentemente.


No cari signori, non s'ha da fare, dobbiamo metterci in testa che il pianeta non è tutto nostro ma anche loro, che sono la maggioranza, che sono sulla terra da milioni di anni prima di noi, che hanno saputo adattarsi all'ambiente e anche all'uomo per vivere al suo fianco, per convivere, non per essere maltrattati o uccisi in nome non già di un sacro bisogno di vivere, di nutrimento, ma solo in quello del divertimento.

La tigre, animale fiero e maestoso, oppone una strenua resistenza all'addomesticamento. Per questo, nei suoi confronti, si usa una violenza particolarmente truce, fino a far sì che non possa far altro che essere umiliata davanti a una manciata di spettatori incapaci di provare la minima empatia

Sono consapevole che la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica non la pensa come me, anzi mi prenderà per fanatico e estremista quando evidenzio questi deplorevoli atti di violenza contro il mondo degli animali, qualcuno potrebbe anche dire che "con tutti i bambini che muoiono di fame nel mondo" stai a pensare agli animali, l'ultimo nostro problema.

E invece no, non si tratta dell'ultimo nostro problema ma del primo. Io non ci stò gridava un vecchio presidente della repubblica pescato con le mani nel sacco delle mazzette che giornalmente riceveva, e neppure io ci sto (non le mazzette che per conto mio non so nemmeno cosa siano, nel senso che non ne ricevo) ma in quello del voler maltrattare gli animali e trarne felicità

Non riesco proprio a stare zitto, non tacerò mai fin quando gli animali saranno sottoposti a crudeltà e abusi, a torture e angherie, di qualunque natura essi siano.

È ora di dire basta a queste cose, è ora di smetterla di pensare che l'uomo può tutto sulla natura e sugli animali. Dal canto mio sarò sempre pronti a difendere i più deboli, sarò sempre schierato dalla loro parte; loro sono i senza voce, possono contare solo sulla nostra per guadagnarsi un minimo di dignità.

E per finire non potevo che parlare di Violenza.
Come si può lottare per rimuovere la violenza insita negli individui se questa la si trasmette attraverso manifestazioni solo all'apparenza non violente? Con i circhi in particolare, ma anche con gli zoo noi non ci rendiamo conto che eduzhiamo i nostri figli alla violenza.

Un argomento da non sottovalutare è il fatto che il pubblico privilegiato dei circhi è chiaramente rappresentato dai bambini, accompagnati dai loro genitori ad assistere ad uno spettacolo di molestie e abusi. L'abitudine al considerare gli animali degli oggetti e non esseri viventi che soffrono innaturalmente, accresce, nei bambini che assistono al circo, l'abitudine a non prendere in considerazione il dolore altrui.
Il terrore, il dolore, la prigionia e la noia sono le costanti che accompagnano la vita di ogni animale prigioniero del circo fino alla morte

Se le loro naturali emozioni di disagio in risposta alla vista di un animale in difficoltà si scontrano con l’allegria dell’adulto di riferimento, i bambini saranno letteralmente educati a rimuovere le loro istintive reazioni e adeguarsi a quelle “richieste”. Ne consegue un apprendimento graduale dell’insensibilità, della rimozione dell’empatia, del non riconoscere nell’animale un altro essere vivente che prova dolore ed emozioni esattamente come l’animale umano. Si insegna a ritenere normale il dominio del più forte sul più debole.

Nella mente del bambino si crea una sovrapposizione tra ciò che vede e l’atmosfera di allegria che lo circonda. E così impara che evidentemente quello che sta vedendo deve essere divertente, si abitua a non cogliere la sofferenza degli animali anche laddove i segnali di irrequietezza, tristezza, noia o terrore sono evidenti. Si abitua a rispondere con la gioia e il divertimento alla vista dell’altrui disagio: viene messo in atto un vero e proprio processo di negazione di ciò che si vede.

Lo sviluppo dell’empatia è invece fondamentale per il bambino sin dalla prima infanzia: la capacità di individuare e riconoscere i sentimenti propri e altrui gli permette di apprendere a strutturare il proprio comportamento rispettando le esigenze dell’altro.

Tali spettacoli hanno la responsabilità di indurre nei bambini la formazione di atteggiamenti antiempatici o indifferenti, durante una fase evolutiva in cui l’educazione alla comprensione e al rispetto del sentire dell’altro dovrebbe essere un momento formativo essenziale.


Ci sarebbero meno bambini martiri se ci fossero meno animali torturati, meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime di qualsiasi dittatura, se non avessimo fatto l'abitudine ai furgoni dove gli animali agonizzano senza cibo e senz'acqua diretti al macello.
      (M. Yourcenar)



2013/04/04

L'angolo dell'amore


Qui ti amo.

Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s'inseguono.

La nebbia si scioglie in figure danzanti.

Un gabbiano d'argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte stelle.

O la croce nera di una nave.

Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l'orizzonte ti nasconde.

Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s'affatica invano affamata.

Amo ciò che non ho. Tu sei cosi distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.

E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

(Pablo Neruda)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-171385?f=a:698>

2013/03/30

... e venne Pasqua!

Parafrasando una nota pubblicità verrebbe da dire “Toglietemi tutto ma non (toglietemi) la mia Pasqua.”
Ci hanno tolto la serenita', i risparmi, il futuro, la speranza.
La Pasqua no, quella e' tutta nostra.


È crisi, crisi feroce, da far paura. I dati delle ultime ore confermano quello che ormai tutti sapevano: gli italiani che andranno via per le feste pasquali saranno il 14.1% in meno dello scorso anno. Una flessione ampia, direi quasi enorme, inaspettata nelle dimensioni. Secondo gli addetti al settore alberghiero i dati previsionali di questa Pasqua sono l’ennesima conferma di come l’Italia stia purtroppo vivendo una crisi epocale, che rischia di far tornare l’economia turistica ai livelli post Seconda Guerra Mondiale. Siamo messi proprio male, malissimo. 
Ringraziamo tutti sia Monti che la Merkel, curiosamente il cognome inizia con la emme, la stessa di m***a, ma si tratta giusto di una curiosità. 

Per dilettarvi un po’, ecco le origini della Pasqua nella cultura nostra, caattolica, e in quella delle religioni a noi vicine. Forse non lo sapete ma anche quella araba, l’Eid Mubarak, ha origini che si perdono nella notte dei tempi che fanno risalire l’evento primoridale come condiviso da entrambe le religioni. Curioso vero?

Una volta la Pasqua era detta anche Pasqua dell’Uovo, poiché era tradizione festeggiare l’evento con uova sode colorate e benedette in chiesa. Altre uova realizzate in materiali diversi: smalto, ceramica, lapislazzuli, vetro o addirittura materiali preziosi, venivano regalate. L’usanza sopravvive anche oggi, sotto forma di torte farcite con uova sode e le uova di cioccolata.

La simbologia dell’uovo è semplice: in tutte le religioni ed in ogni tempo è sempre stato il simbolo della fecondità, della rinascita e della resurrezione.
Per un mito indiano, Colui che sussiste volle creare il cosmo dalla propria sostanza: fece prima le acque in cui depose un uovo splendente. Nell’uovo si formò Brahma che vi rimase per un anno. Poi il dio divise l’uovo in due parti creando il cielo e la terra, con nel mezzo le acque.
Anche gli ebrei avevano una festa che veniva celebrata all’inizio della primavera, secondo un calendario che era basato sulle fasi della luna. Era la festa di Pesah, al plenilunio del primo mese lunare dopo l’equinozio di primavera. Una festa che viene celebrata ancora oggi e che ricorda l’intervento di Dio liberatore nel passato e pone le basi per la salvezza futura.

La parola Pesah significa «saltare oltre», a memoria perenne della piaga per la quale l’Angelo del Signore uccise tutti i primi nati delle famiglie egiziane, dopo di che il faraone concesse agli Ebrei di lasciare per sempre l’Egitto.
Inizialmente questa ricorrenza era legata ai pastori che festeggiavano l’inizio della bella stagione la notte di plenilunio precedente la partenza verso i pascoli estivi, immolando i piccoli del gregge e spargendone il sangue su capanne, familiari ed animali per proteggerli dalle disgrazie e renderli fecondi. Poi si mangiava la carne e si eseguiva una danza rituale che comprendeva anche tutta una serie di salti, una sorta di «saltar oltre».

Allorché ci fu la strage dei primogeniti egiziani, si seguirono gli stessi dettami della festa, cospargendo gli stipiti delle case degli Ebrei con il sangue di agnelli o capretti appena nati, mangiando le loro carni abbigliati in maniera rituale e bruciando i resti all’indomani mattina. Era la partenza per la nuova Terra.

Collegata alla Pesah, era la settimana delle Mazzoth, o degli azzimi. Derivava da una festa in ricordo dell’arrivo degli Ebrei nella terra di Canaan, dopo la fuga dall’Egitto. Era l’inizio della mietitura con l’offerta del primo covone e la regola di cibarsi di pane non lievitato (quindi azzimo), a perenne ricordo della veloce partenza dall’Egitto e del viaggio, durante il quale non era stato possibile far lievitare il pane. Il tutto accompagnato da erbe amare per ricordare l’amarezza della schiavitù in Egitto.

Quella ebraica è la Pasqua della memoria, del ricordo infinito della bontà di Dio nel liberare dal terrore e dalla fame il popolo d’Israele: è il compendio e la ricapitolazione di tutta la storia della salvezza, degli interventi di Dio in favore del suo popolo, in un percorso che è una sorta di rinascita degli Ebrei.

L’analogia è evidente nella lettura dei Vangeli, ove Gesù viene detto Agnello di Dio. Quando Dio ordinò a Mosè di far cospargere le case degli Ebrei con il sangue di agnelli, precisò che le ossa degli agnelli non venissero rotte, ma fossero lasciate intatte. Allo stesso modo, quando Gesù venne crocefisso era venerdì e al sabato non si poteva far rimanere in croce i condannati: infatti, Gesù fu l’unico crocefisso, gli altri due erano solo legati. I giudei chiesero quindi a Pilato di poter spezzare le gambe dei crocefissi, cosicché potessero essere portati via. Pilato acconsentì e vennero spezzate le gambe dei due ladroni: ma quando venne la volta di Gesù, questi era già morto, e venne solo ferito nel costato. Come per gli agnelli degli Ebrei, anche all’Agnello di Dio non venne spezzato alcun osso.

Secondo la tradizione, fu durante la celebrazione della Pasqua che Gesù Cristo istituì il sacramento dell’Eucarestia: dal pane e dal vino il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di Dio. Ma la differenza sostanziale fra la Pasqua ebraica e quella cristiana sta nel fatto che l’Agnello cristiano è risorto e di questo viene dato annuncio subito. E la Resurrezione di Cristo (che vuol dire l’Unto) è per i Cristiani l’evento nuovo e divino che offre agi uomini il dono della nuova Vita, veicolata dal battesimo. Infatti, in origine si battezzava una sola volta l’anno, nella notte di Pasqua, perché momento di morte e nascita a nuova vita in Cristo e con Cristo.

Inizialmente la Pasqua cristiana era celebrata ogni domenica, poi, in età apostolica, si giunse alla celebrazione annuale, ma vi fu disaccordo sulla data. Una corrente orientale celebrava la Pasqua secondo il calendario ebraico al 14 di Nisan o alla domenica successiva, mentre quella occidentale nella domenica successiva al primo plenilunio di primavera.

La questione fu a lungo dibattuta e si cercò per diversi anni di risolverla, ma fu solo con il Concilio di Nicea, nel 325 d.C., che si stabilì di festeggiare la Pasqua nello stesso giorno per tutta la cristianità. Di stabilire di volta in volta la data fu incaricata la chiesa di Alessandria. Dal 525, per il computo di Dionigi il Piccolo, la Pasqua venne fissata fra il 22 marzo e il 25 aprile.

La Pasqua ortodossa non coincide con quella cattolica poiché la chiesa ortodossa non ha ancora accettato la riforma gregoriana del calendario, quindi, il più delle volte, cade successivamente.
Per un mito greco, la Notte, con le sembianze di un uccello, venne fecondata dal Vento. Depose un uovo d’argento, dal quale nacque Eros dalle ali d’oro, che portò con sé quel che vi era nascosto: il cosmo intero con le sue creature.

L’uovo è come un sepolcro da cui risorge la vita, è il Cristo stesso: una volta era usanza, il giovedì santo, deporre nelle cattedrali uova di struzzo, per toglierle poi il giorno di Pasqua, allorché la Vita era rinata. Ancora nel medioevo, i reliquiari contenevano uova.
Per secoli si sono benedette le uova il sabato di Pasqua e ancora i parroci benedicevano le uova quando benedicevano le case dei fedeli. Molto antica è anche la tradizione di regalare uova di materiali più o meno preziosi a seconda dell’estrazione del donatore (uova vere, d’oro o d’argento). Di poco successiva l’usanza di inserirvi una sorpresa all’interno.

In occidente l’usanza è andata scemando, al contrario dell’oriente dove, invece, viene associato alla scrittura: l’assimilazione si deve al fatto che la sera prima sul guscio vengono tracciati dei simboli, in un ambiente pervaso da canti e preghiere. Forse l’origine può essere collegata al risveglio della primavera e ad una successiva cristianizzazione del rito.

Un altro simbolo pasquale è la colomba, che può simboleggiare sia il Cristo sia lo Spirito Santo. Per alcuni è il Cristo che porta la pace agli uomini di buona volontà, per altri è lo Spirito Santo che scende sui fedeli grazie al sacrificio del Redentore. A complicare l’identificazione sono il brindellone e la colombina fiorentini: infatti, la colombina viene lanciata a far scoppiare i fuochi d’artificio posti sul brindellone e se i fuochi si accendono allora ci sarà un buon raccolto. La colomba è lo Spirito Santo che accende il fuoco divino suo fedeli? Oppure, è il Cristo che, risorto, porta fuoco e luce ai fedeli?

In linea generale, il suo carattere pacifico ne ha fatto l’espressione della mitezza e dell’amore: per la medicina antica, le colombe non avevano bile e la loro carne aveva un particolare effetto terapeutico, poiché si cibavano di piante medicinali quali il vilucchio e la verbena. 

E’ l’uccello dell’anima del giusto, della sublimazione degli istinti e del predominio dello spirito, ed è anche il simbolo della virtù della moderazione, della semplicità: le ali rappresentano il distacco da ciò che è terreno, in rapporto con la Grazia dello Spirito Santo, indicando la partecipazione alla Natura Divina. In Asia occidentale la figura della colomba è legata alla dea della fertilità, Ishtar, passata ai greci e ai romani come Afrodite-Venere a cui era sacra la colomba, mentre nel mondo musulmano era sacra perché secondo la tradizione aveva protetto Maometto durante la fuga.

Simbolo della Pasqua è anche la campana. Il nome le deriva dal tardo latino campana (vasa), vaso di bronzo prodotto in Campania poiché, secondo la tradizione, il loro uso religioso si fa risalire a San Paolino vescovo di Nola all’inizio del quarto secolo d.C., e in Campania furono fuse le prime. Le prime campane di cui si ha traccia scritta si trovano nella Bibbia: Aronne, fratello di Mosè, sommo sacerdote, durante i riti indossava un mantello ornato di campanelle, più verosimilmente sonagli, d’oro il cui suono gli permetteva di entrare nel Santo dei Santi alla presenza del Signore e uscirne vivo. In Cina le campane erano presenti fin dal 1500 a.C., anche se diverse dalle nostre, non nella forma, ma per la mancanza del batacchio. Infatti, il suono era prodotto percuotendole con mazzuoli di legno.

La campana è identificata con il riflesso della vibrazione primordiale, simbolo dell’unione fra cielo e terra, le è riconosciuto il potere di purificare e di esorcizzare, può entrare in relazione con il mondo dei morti, chiama i fedeli alla preghiera e ricorda l’ubbidienza alle leggi divine più o meno con le stesse valenze in molte religioni. In alcune, come la cristiana e l’indiana, la campana simboleggia la “voce di Dio”, udendo la quale l’anima va al di là delle limitazioni della vita terrena. Come tale, la campana ha anche la facoltà di allontanare gli esseri soprannaturali maligni: sant’Antonio aveva una campana attaccata al  bastone per scacciare i diavoli tentatori del deserto, san Patrizio ne portava sempre una con sé mentre evangelizzava l’Irlanda. Si racconta che fu sepolto con la sua campana e che questa, trecento anni dopo, suonando salvò il paese presso cui era la tomba, che stava per essere devastato da un furioso incendio. 

Molte sono le credenze legate alle campane, nel Medioevo si pensava che avessero un’anima e che agissero autonomamente per annunciare qualcosa di gioioso o una disgrazia. Prima di collocarle erano benedette con una sorta di battesimo, avevano un padrino e una madrina ed erano dedicate a un santo. Tracce delle antiche credenze sono arrivate ai nostri giorni grazie alle iscrizioni sulle più antiche: “Fulgura frango, dissipo vento”, ricorda che al suono delle campane era attribuito il potere di prevedere i disastri e  scongiurarli, oppure di propiziare il favore divino salvando il raccolto dalla siccità. Nel Meridione si credeva che la campana avrebbe avuto un suono più argentino con l’aggiunta del sangue di una vergine al metallo della fusione. Un detto popolare racconta che durante la Settimana Santa le campane non suonano perché “si recano in pellegrinaggio a Roma”.

La campana è considerata simbolo delle virtù femminili, la sua forma la ricollega alla volta del cielo e il batacchio rappresenta ciò che è sospeso tra cielo e terra. Insieme simboleggiano gli organi riproduttivi. Perciò anche le campane sono un simbolo di fertilità che ben si addice alla primavera.

Come colorare le uova per Pasqua (il contenuto, non il guscio, per quello vale ancora il vecchio metodo).

È un modo facile per avere uova colorate senza imbrattare di colore mani e tovaglie.
Le uova debbono essere a temperatura ambiente, foratele delicatamente su una delle due punte con uno spillo, per evitare che in cottura fuoriesca l’albume. Mettetele in una casseruola, copritele d’acqua fredda e portatele lentamente ad ebollizione. Cuocetele per 5 minuti, scolatele e con delicatezza incrinatene i gusci picchiettandole su di un piano. I gusci debbono essere rotti, ma non staccarsi.

Per colorarle:

bollite dell’acqua con un cucchiaio di te nero e un cucchiaio di salsa di soia, immergetevi le uova, che debbono esserne coperte, cuocetele per altri 3 minuti, spegnete, lasciatele raffreddare nel liquido, scolatele e sbucciatele poco prima di servire: avrete uova colorate in modo variegato, dall’aspetto di porcellana.
Potete usare acqua nella quale avete lessato qualche foglia di bieta per avere uova verdi.
Potete usare acqua nella quale avete bollito una barbabietola rossa per avere uova rosse.
Potete usare acqua nella quale avete sciolto dello zafferano per averle gialle.


2013/03/28

Occhio alle truffe (2)

Sempre la stessa storia


Un parente di mia moglie che vive in Canada le ha inviato una e-mail contenente un link a un sito con un articolo su una mamma di Spokane negli USA che fa migliaia di dollari al mese utilizzando il suo computer. 


All'inizio non c'è nessun indizio che faccia pensare a una truffa all'orizzonte. Poi, se cadete nel tranello ve ne accorgete da soli, meno male che il grande mondo del web vi mette sull'avviso.

Ho scaricato l'immagine della mamma di Spokane a nome Melissa Johnson dal sito e ho cercato utilizzando Google.

Et voila, tanti nomi una sola immagine: 






Eppoi notate i siti!! Danno l'apparenza si tratti di siti di notizie. Un paio di loro un po' onestamente visualizzano l'inserzione sotto la voce "Pubblicità" o "Redazionale" in alto, ma non è così evidente. Non si presenta come Kathy, o chiunque altro, non ha intenzione di fare migliaia di dollari con il suo computer, non lei certamente, gli ideatori della truffa invece si. E i polli da spennare sarete voi!





Questa truffa ha iniziato a circolare sul web da un paio d'anni e si ripete con regolarita' perche' i polli non mancano mai, in tempi di crisi poi....

All'apparenza sembra essere una notizia. Si paga un po', e sono tanti che lo fanno, con l'idea di guadagnare soldi, qualcuno pensa anche che potrebbe diventare ricco, s'immagina (se sei stato tu a fare gli annunci falsi), alla fine rimarrete con un bel pugno di mosche in mano e il conto svuotato di 80 euro (grossomodo).

Fate attenzione, i truffatori sono molto furbi e non si fermano davanti a nulla!

2013/03/24

Muscoli e Palle: i Marò




In questi giorni che lo sdegno sale per la decisione del governo italiano di ‘restituire’ Latorre e Girone fucilieri del battaglione San Marco agli indiani ho letto di tutto e di più riguardo questa triste vicenda dai colori e odori forti.
Odori perchè, e non accusatemi di razzismo perchè io non sono razzista, tutta questa storia puzza tremendamente, sia da parte indiana che italiana. Colori per via delle solite figure di m... che notoriamente sappiamo sia marrone e delle facce sbiancate di sorpresa, arrossate di rabbia, annerite dall’odio e verdi causa un riversamento di bile dalla vergogna che stanno provando tutti gli italiani che ascoltano le notizie o le leggono direttamente sui giornali al proposito. 

Il titolo sembra offensivo, non lo è, infatti non si riferisce ai nostri soldati ingiustamente detenuti dagli indiani ma a questa Italia che ci delude. I muscoli sono quelli che la settima potenza del mondo, almeno stando al G7, avrebbe dovuto mostrare e le palle sono quelle dei governanti che evidentemente mancano. Se i due soldati sono in questa situazione lo devono anche a una devastante serie di errori compiuta da chi ne doveva sapere abbastanza per risolvere positivamente la questione, e invece...

Ho avuto modo, solo per un paio di giorni, di entrare a leggere la pagina delle ‘Famiglie dei Marò’ nata spontaneamente su Facebook. Solo per un paio di giorni poiché non appena ho spiegato che i due fucilieri non stavano li per difendere la patria mi hanno bannato.
Sorrido naturalmente, tutto il mondo è paese, mi si dirà e gli italiani non sfuggono alla regola. È pure vero che l’informazione puntuale non fa parte delle nostre abitudini, si usa internet per giocarci, per ricevere le email, per leggerle o scriverle molto raramente, per leggere i siti di gossip, per guardarci le immagini porno e magari anche i film in streaming da scaricare rigorosamente illegalmente, per scrivere sulle chat, sui forum o nei blog, per rispondere agli articoli dei giornalisti, per scrivere qualsiasi cosa passi per la mente purché sia senza senso e potrei continuare un’altra mezzora a riportare tutte le ragioni per cui un italiano usa internet meno che: documentarsi! 

E sì, perché l’italico abitante non si documenta, spara quello che gli passa per la testa, lo copia e incolla sulla prima pagina di internet che gli viene a tiro, meglio se su ‘feisbuk’ se l’ha a tiro per farsi bello con gli amici o solo per sentirsi importante. 

E invece?  

E invece le chiacchiere stanno a zero e la storia molto diversa da quella che una parte dei cittadini italici vorrebbero credere, sperano che sia così mentre invece non lo è affatto.
Innanzitutto analizziamo l’argomento partendo dalle origini, lontane origini.
La nave su cui erano imbarcati i fucilieri della Brigata San Marco, comunemente Marò, fanno parte di unità specializzate denominate Nuclei Militari di Protezione (NMP) che possono utilizzare militari provenienti anche da altre armi, non solo la Marina dunque. I NMP sono stati istituiti atteverso l’applicazione dell’articolo 5 del d.l. n. 107 del 12 luglio 2011, e successiviamente convertito in legge il 2 agosto 2011 n. 130. Dal 1º marzo 2013 sono passati a far parte del 2º Reggimento "San Marco" della Brigata San Marco pur appartenendo a forze armate italiane differenti. È previsto l'imbarco su navi mercantili e passeggeri italiane negli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria, va detto comunque che le navi commerciali e passeggeri possono avvalersi anche di personale non militare, anzi potrebbero se la legge desse loro questa opzione, purtroppo prevista la variante ma mai inserita nel testo della legge e, questo, ci pone in una condizione paradossale che spiegherò in seguito.
Al comandante di ciascun NMP ed al personale da esso dipendente sono attribuite, rispettivamente, le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria e di agente di polizia giudiziaria riguardo ai reati sulla pirateria previsti dagli articoli 1135 e 1136 del Codice della navigazione. Gli NPM vengono imbarcati secondo un rigido protocollo su alcune delle navi mercantili italiane che incrociano le acque dell’Oceano Indiano, con il preciso compito di proteggere beni e persone dall’assalto dei pirati dei mari. Non rispondono né all’armatore né al comandante della nave che li imbarca, tanto vero che per farli salire a bordo l’armatore deve firmare un contratto che li manleva da qualsiasi responsabilità assicurativa. Sono sotto il comando del CINCNAV (Comando in Capo della Squadra Navale della Marina Militare Italiana) e agiscono in forza di precise regole d’ingaggio e sono perseguibili solo ai sensi del codice militare penale in tempo di guerra.

A questo punto gli armatori provvedono a pagare i corrispondenti oneri, allo Stato Italiano.
E siccome si tratta di un servizio a pagamento il servizio offerto non rientra più nella cosiddetta “difesa della patria”. I due fucilieri sono si servitori dello Stato Italiano ma assoldati a pagamento dall’armatore della petroliera Enrica Lexie (in questo caso) e pertanto considerati, sotto un sottile punto di vista che provocherà polemiche a non finire, mercenari o contractors come vengono chiamati oggi per addolcire la pillola.




Prima di analizzare la risposta, anzi le risposte delle due nazioni coinvolte, vorrei inserire una breve descrizione dell’episodio con alcune considerazioni.  Mi si conceda altresì un certa liceità del termine breve, non posso certo limitarmi a due righe, la questione rappresenta uno degli episodi più bui nella storia del nostro Paese, bui per via dell’impreparazione a risolvere le crisi e pertanto pericolosi per l’eventuale ritorno che queste potrebbero avere nei confronti del popolo ‘sovrano’ italiano (della serie ‘ma in che mani siamo capitati’?).

La notte del 15 Febbraio 2012 il nucleo antipirateria, comandato dal capo di prima classe Latorre, ha appena respinto, in acque internazionali, un presunto attacco dei pirati alla petroliera Enrica Lexie sparando colpi di avvertimento in acqua, secondo il rapporto scritto a caldo. A terra la Guardia costiera indiana viene informata che due pescatori sono stati uccisi. Il proprietario del peschereccio sostiene che gli spari sono arrivati da una nave mercantile. Il comandante della Guardia costiera dell’India occidentale, Basra si inventa “una tattica ingegnosa”, come lui stesso ammetterà qualche giorno dopo. Ovvero lancia un’esca sperando che qualcuno finisca in trappola. “Eravamo nel buio più completo riguardo a chi avesse potuto sparare ai pescatori. Grazie ai sistemi radar abbiamo localizzato quattro navi che si trovavano in un raggio fra 40 e 60 miglia nautiche dal luogo dell’incidente” ha spiegato l’alto ufficiale. Gli indiani chiedono via radio se qualcuno “avesse respinto per caso un attacco dei pirati. Solo gli italiani rispondono positivamente”. 

(Grosso errore, negare, negare e sempre negare, come fanno gli americani che poi ammettono, sempre, ma solo quando sono al sicuro e irraggiungibili). 

Quello che Basra non dice è l’inganno comunicato via radio: “Tornate in porto per riconoscere i pirati” che sembrava fossero stati catturati o individuati.

James, il primo ufficiale di coperta indiano della petroliera, conferma: “Eravamo in acque internazionali, ma quando uno Stato costiero chiede assistenza per un’indagine è nostro dovere obbedire. Non solo: ci avevano promesso che non avremmo subito ritardi”. Da terra gli indiani mentono spudoratamente chiudendo la trappola. Il comandante, Umberto Vitelli, deve, per qualsiasi inversione di rotta, segnalarla all’armatore e al charter che affitta la nave. La petroliera è dei Fratelli D’Amato di Napoli, la stessa società che per 11 mesi si è vista sequestrare la nave Savina Caylin, con cinque ufficiali italiani a bordo, dai pirati somali. Secondo più fonti che si sono occupate a lungo del Savina, dalla società armatrice arriva il via libera per tornare a Kochi.

I marò informano il proprio comando e la Marina contatta la Farnesina. Il ministero degli Esteri chiama l’armatore per chiedere cosa stia accadendo. Dall’altra parte del telefono viene garantito che è solo un controllo di routine. La Marina, però, monitorizza la situazione e nota che i media indiani già lanciano notizie di una nave italiana individuata per la morte dei pescatori. La Difesa vuole che la nave tiri dritto, ma è già troppo tardi. La petroliera è entrata nelle acque territoriali indiane. Il sistema si mette in allarme dalle 17:45 ora italiana, ma un elicottero e due motovedette indiani hanno intercettato la petroliera per scortarla in porto. La nave è già alla fonda quando si annusa il pericolo, anche se non risulta ancora chiaro l’inganno.

In serata nella rada di Kochi, il capitano chiede agli indiani: “Facciamo presto che domani dobbiamo ripartire”. A quel punto le autorità locali scoprono le carte e gli ordinano di non muoversi. La trappola si chiude e per i marò il destino del carcere è segnato. La Farnesina sostiene di non aver mai chiesto, né autorizzato il comandante della nave a attraccare a Kochi, né a entrare nelle acque territoriali indiane. L’ex sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, vuol chiedere una commissione d’inchiesta sul caso, quando i marò rientreranno a casa.

Un altro aspetto sono i particolari rapporti di Luigi D’Amato, l’armatore della petroliera, con l’India. La società riceve commesse legate al trasporto del greggio e le sue navi fanno spesso scalo in India. Se la Lexie avesse tirato dritto, le altre unità della compagnia sarebbero state vessate in tutti i modi dai controlli nei porti indiani. Non solo: a bordo della Lexie c'erano 18 marittimi di nazionalità indiana, come erano indiani i 17 membri dell’equipaggio del Savina finito nelle mani dei pirati. Una delle sei sedi della «V. Ships India management», che recluta i marittimi indiani per l’armatore di Napoli, guarda caso è proprio a Kochi, dove ha avuto inizio la disavventura dei marò.

Sono quindi andato a leggermi (in inglese) le dichiarazioni del comandante del peschereccio indiano che ha affermato di essere rimasto sottoposto al fuoco delle armi per oltre due minuti. Qui mi concedo un dato tecnico: se un’arma da sola spara con una celerità di tiro di circa 600 colpi al minuto, è un miracolo che siano morti solo due pescatori su undici. I fucilieri italiani disponevano infatti di diverse armi, quelle utilizzate erano i mitragliatori Beretta AR 70/90, vedete sotto l’immagine, le caratteristiche tecniche di tale fucile (vecchio e di imminente sostituzione con l’ARX 160 sempre Beretta) dicono che sia in grado di sparare 670 colpi/min ma con un caricatore da 30 colpi rimane un mistero come avrebbero potuto sparare per due minuti di fila ben 1340 colpi ciascuno, leggo anche che il tiro utile sia entro 150 e 350 m e il calibro 5,54 NATO, poco più di quello di una scacciacani. 




La Marina Militare sostenne, e non ha modificato il proprio atteggiamento, di aver applicato correttamente le regole d’ingaggio, per cui mi pongo tre domande fondamentali prima di poter parlare di corretta applicazione delle regole d’ingaggio:

La prima è sulla formazione dei militari impiegati in materia di pirateria marittima e tecniche di contro pirateria. Il non aver distinto un dhow da pesca (la tipica imbarcazione da pesca nell’Oceano Indiano) da uno skiff (la minuscola imbarcazione veloce usata dai pirati somali per attaccare le navi mercantili) è stato un errore piuttosto grossolano. Che si siano poi difesi sostenendo di aver usato le armi da fuoco perché sull’imbarcazione da pesca erano presenti delle armi, non è un esimente. È noto a tutti che i pescatori nell’oceano indiano portano con sé armi proprio per difendersi dai pirati, perché se vengono rapiti vengono trattati come schiavi per condurre e manutenere le navi madri con cui solcano l’oceano.

La seconda riguarda la conoscenza da parte dei militari delle tecniche d’assalto usate dai pirati e delle conseguenti misure di difesa da intraprendere in funzione della reale minaccia. Le Best Management Practise (BMP) cioè le regole scritte dall’IMO l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sicurezza in mare, per esempio, consigliano al comandante di manovrare la nave iniziando una sorta di zig-zag che rende difficile l’avvicinamento ai bordi. Se ciò fosse stato fatto prima di usare la forza letale si sarebbe potuto comprendere la vera natura dell’imbarcazione che si aveva di fronte.

La terza domanda si rivolge all’accesso delle informazioni che devono essere costantemente a disposizione dei militari o del personale di sicurezza imbarcato. Ogni giorno il mondo dei professionisti della sicurezza marittima legge elabora e produce decine di intelligence report con il preciso compito di tenere aggiornati armatori e imprese di sicurezza sull’andamento della situazione nelle acque ad alto rischio e nelle zone di guerra, sulla posizione delle cosiddette navi madre e sui principali eventi accaduti in modo da effettuare delle previsioni statistiche basate su calcoli probabilistici tali da permettere di minimizzare i rischi e gli errori.

Le regole d’ingaggio sono probabilmente state applicate in maniera corretta ma il contesto era quello sbagliato.
Per ciò che è avvenuto pertanto non mi sento di assolvere, nell’ordine, né il legislatore, né il Comando della Marina Militare né i militari del NPM imbarcati. Il legislatore è colpevole di aver cercato e trovato una via di comodo alle giuste pressioni dell’armamento italiano che a mezzo di Confitarma reclamavano una norma che consentisse loro di proteggere gli interessi economici della categoria (e anche i nostri come consumatori) in una regione del pianeta da tempo instabile. Economici, non patriottici, ricordatevelo bene. La scelta d’imbarcare personale militare è discutibile sia dal punto di vista tattico che strategico. 

Tattico perché chi è imbarcato è addestrato a fare la guerra (e costa alla collettività oltre un milione di euro all’anno per la sua formazione in tal senso) ma non è preparato e istruito per compiti di prevenzione di un fenomeno criminale come la pirateria marittima.

Strategico perché, se da un lato abbiamo ora un problema diplomatico in più con l’India, dall’altro non possiamo rischiare di radicalizzare la lotta alla pirateria marittima trasformandola da una questione tra privati in una lotta tra lo Stato italiano e poco meno di 2.000 criminali somali.

Lo Stato Maggiore della Difesa e in particolare la Marina Militare sono colpevoli di aver spinto e appoggiato da subito la soluzione militare ostacolando in tutte le maniere quella privata. Anche, si sospetta per trarne giovamento in termini finanziari. Una cosa è avere unità navali sul teatro d’interesse e un’altra è avere soldati a bordo di un mercantile. 

L’NPM è infine colpevole perché ha tirato il grilletto e ha drammaticamente sbagliato. Non nella mira, s’intende, ma nella decisione da prendere, nel comprendere la situazione, nel valutare che di fronte a sé non aveva una minaccia ma semplicemente una imbarcazione da pesca e questo anche se ancora non è stato appurato il motivo per cui il dhow fosse li, a quell’ora di notte, in prossimità di una nave commerciale e per di più con una rotta di collisione apparente con essa. 

Da parte dei pescatori indiani la colpa è di non aver visto una nave grande come l’Enrica Lexie. Perdonabile? Non credo proprio. La professionalità infatti non sta nel saper centrare un bersaglio a mille metri, ma nel saper decidere quando è il momento di sparare. 

La vicenda dei Marò è uno spettacolo che dimostra l’incapacità politica del governo nel gestire una situazione di crisi. Gestita senza alcuna preparazione, prima si è verificato un errore a monte, quando è stata consentita la presenza dei fucilieri nelle navi occorreva cambiare le regole di ingaggio. In una situazione di crisi il controllo doveva passare ai militari e non rimanere sugli armatori. 

Dopo questo si sono commessi altri errori e la diplomazia italiana ha completamente travisato la pericolosità dell’evento. Non solo, anche il governo indiano ha violato diverse norme e accordi internazionali e da quel momento bisognava cercare l’appoggio dell’Onu e dell’Unione europea, ma si sono saltati tutti i passaggi. Come sappiamo l’episodio è accaduto in acque internazionali, lo ha riconosciuto anche l’Alta corte indiana, era quindi competenza della magistratura italiana stabilire se si trattasse di un incidente o di un reato. Non della magistratura indiana e comunque i reati militari non sono gestibili dalla magistratura ordinaria, nemmeno se compiuti in uno Stato estero, ricordatevi dell’incidente occorso alla funivia del Cermis. In quel caso pur rinconoscendo l’errore del pilota, gli Stati Uniti si sono ben guardati da consegnare i due piloti sull’A10 rivendicando, con ragione, il diritto di processare e condannare in patria i responsabili. Come doveva essere anche per il caso dei fucilieri mentre sappiamo non è andata così. 

Anche l’episodio di limitazione della libertà di espatrio nei confronti dell’Ambasciatore Mancini è frutto di incapacità anche nostra, maggiore da parte dell’India, completamente illegittimo. L’India ha commesso una serie di atti non in linea  con i patti internazionali ai quali anche l’Italia non ha risposto adeguatamente, anzi, ha confuso ulteriormente le acque. 

Parlo della decisione di non rispettare un accordo sottoscritto dal proprio Ambasciatore e pertanto, proprio perchè l’Ambasciatore rappresenta lo Stato Italiano, era lo Stato Italiano che non rispettava i patti e andrebbe potuto essere perfino sanzionato se l’India, incapace anch’essa di gestire la crisi con raziocinio, avesse denunciato l’episodio e la violazione alle competenti autorità all’ONU. 

Vorrei ricordare che esiste anche un accordo bilaterale tra l’India e l’Italia il quale stabilisce che le condanne devono essere scontate nei Paesi dei condannati, quindi, nel caso dei Marò l’Italia. Non si capisce la ratio di tutto questo. La vicenda è stata gestita in solitudine quasi di nascosto, sembrava ci si vergognasse di aver subito tale affronto e non essere capaci di risolverlo secondo le regole diplomatiche e gli accordi, tutto questo ha portato la diplomazia italiana al totale imbarazzo.

Mentre il caso dei marò va avanti e i leader decidono quale politica adottare, fonti all’interno della Marina militare italiana confermano che molti ufficiali hanno deciso di prendere malattie, permessi e ferie pur di non salire sulle navi attive in operazioni anti-pirateria. La garanzia di “scampare la condanna a morte” non rappresenta certo un sollievo.

Come corollario di questo articolo vorrei ricordare che l'Italia non è sempre stata gracilina e malata. C'è stato un tempo in cui mostravamo di avere i muscoli, le palle e anche il cervello che adesso, pare, manchi a chi ci rappresenta in Parlamento.

L'episodio viene ricordato come "Il volo su Vienna" fu compiuto il 9 agosto del 1918 da 9 Ansaldo S.V.A. dell'87ª Squadriglia Aeroplani, detta la Serenissima. Il Maggiore Gabriele d'Annunzio, era il comandante della Squadra Aerea San Marco che compì l'impresa.

Il volo era stato progettato dallo stesso D'Annunzio, più di un anno prima.

Una bella dimostrazione di "muscoli" e di "palle" da cui i nostri politici, qualche volta, dovrebbero trarre una lezione.