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2014/03/29

Italia, peggio di così....




Dopo una missione durata oltre 10 anni, 43 caduti sul campo (53 quelli comunque collegati alla missione), molte centinaia di milioni di euro spesi in campo militare e civile l’Italia si appresta a lasciare l’Afghanistan. Il risultato militare è nullo: formalmente si passano le consegne al nuovo esercito afgano, ma c’è da temere che in poco tempo esso sarà incapace di tutelare anche il poco territorio dove esercita una specie di superficiale sovranità. Le lungimiranti e positive realizzazioni civili italiane (tra le quali 83 scuole, 47 strutture sanitarie, 2 ospedali) saranno devolute alla Cooperazione internazionale che in qualche modo le porterà avanti, sperando per il meglio. 

Il quesito di fondo è: “Ma ne valeva la pena?” A parte il peso dei caduti (tragedie, ma pur relativamente pochi in rapporto all’ecatombe americana e inglese) c’è stata una missione ultradecennale che non ha risolto nulla, non ha fatto crescere l’Afghanistan in modo moderno ma anzi spesso ricondotto indietro un paese dove la democrazia, il ruolo delle donne, il diritto e la legge sono concetti che restano radicalmente diversi dai nostri. Finimmo nel calderone afghano dopo l’attacco dell’11 settembre a New York perché l’America doveva dare “una lezione al terrorismo”: non pare che i successi abbiano minimamente compensato i costi e se è vero che i nostri militari si sono comportati bene, con impegno e onore e che sono stati accettati molto meglio dalle popolazioni locali rispetto a altri contingenti internazionali è il fronte “politico” a piangere perché l’Italia non sembra nemmeno meritare un “grazie” da parte degli alleati. Stiamo in Afghanistan (il rientro è previsto per fine anno), abbiamo migliaia di uomini e donne impiegati in Libano e su tanti altri fronti “caldi” dello scacchiere mondiale, spendiamo ogni anno cifre imponenti per questa presenza, ma l’Italia conta meno di zero. 

A livello europeo nessuno tiene conto di questi costi che pur penalizzano il bilancio dello stato, sul fronte della pirateria (dove pure abbiamo tuttora diverse navi a presidio dell’Oceano Indiano) la vicenda dei “Marò” la dice tutta sulla solidarietà internazionale verso l’Italia. Almeno sul piano di un riconoscimento politico si ipotizzava che l’ex ministro degli esteri Franco Frattini potesse diventare il nuovo segretario generale della NATO invece proprio questa settimana è stato nominato l’ex premier norvegese. Ma allora perché l’Italia deve continuare a impegnarsi e a pagare in termini economici e di vite umane? 

Poi arriva Obama e tutti a genuflettersi, con il Presidente USA che - visitando il Colosseo - è stato capace solo di dire: “Però, è più grande di uno stadio di baseball!” In quella frase c’è tutta l’ignoranza di oltre oceano, ma europei e italiani ormai certe sensazioni non le capiscono (e non le “sentono”) più: pensiamoci, anche (o soprattutto) per questo siamo in crisi!

Giustissimo il tentativo del governo di mettere un tetto agli stipendi dei supermanager di stato e a quei burocrati dalle non sempre certe capacità che hanno fatto il loro nido nelle società para-pubbliche, di solito autoreferenziali di sé stessi. Se però “tetto” deve esserci allora sia per tutti. Perché invece – per esempio - un artista o un presentatore TV della RAI (di fatto una azienda di stato) può guadagnare fino a 20 volte il Presidente della Repubblica? Se Mediaset (società privata e quotata in borsa) riesce a essere in utile con ottimi programmi e considerando che è per di più un servizio gratis per l’utente, come mai invece la Rai perde soldi pur imponendo il pagamento del canone? Se anche in RAI si tagliassero i super-stipendi forse molti protestando se ne verrebbero via ma - dopo poco tempo - ci sarebbe un normale riequilibrio di mercato e i “big” (o presunti tali) tornerebbero a cuccia con la coda bassa. Certo che se quegli stessi presentatori o dirigenti sono invece mantenuti per fare la ruota a certi politici (guarda caso, quasi sempre di sinistra) ecco spiegato perché non si vuole cambiare mai niente.

Sono sempre stato favorevole all’abolizione delle province anche se il costo è circa l’1% della spesa pubblica (le regioni costano 40 volte tanto ma chissà perché nonostante gli scandali seriamente non le vuole riformare o tagliare nessuno) soprattutto per la grande confusione che gira intorno a questa vicenda, diventata tutto uno spot dalla poca sostanza. Ben vengano le “aree metropolitane” perché tutti capiscono che Sesto San Giovanni, Monza e Milano sono un’unica conurbazione urbana (ma allora ci dovrebbe essere anche un solo comune) ma mi dite cosa c’entra Torino “area metropolitana” in cui è inserita anche il Sestriere o il Parco del Gran Paradiso? Il problema – e lo ripeto da anni – andava affrontato al contrario: PRIMA stabilire cosa devono fare le province e solo DOPO stabilire la loro area ottimale sulla base delle loro competenze. La scelta più saggia era di raggrupparle ma tenerle in vita per le aree periferiche dove non ci sono comuni grandi e le città sono lontane perché oggi le province servono per la manutenzione delle strade, lo sgombero della neve, le scuole secondarie, l’ambiente, caccia, pesca, la formazione professionale ecc. ovvero materie che non è logico vengano gestite da lontano ma sul territorio. 

Macchè, demagogia assoluta e risparmi pari a zero, anzi nuovi costi se i dipendenti (auguri!) passeranno con inquadramento regionale. Nessuno comunque che abbia pensato anche ai servizi, quelli che in qualche modo dovrebbero essere garantiti ai cittadini – per ora - il nulla assoluto, come purtroppo volevasi dimostrare. 


Veloce come il vento: Michael Schumacher



No, non è morto, non ancora. Ma è come se lo fosse.

Ridotto ormai a meno di 60kg Michael Schumacher sembra l'ombra di quel grandissimo pilota che è stato. Le speranze che possa risvegliarsi sono ormai ridotte a una percentuale inferiore allo zero virgola moltissimi zeri e un solitario uno. Prepariamoci al peggio, prepariamoci a considerarlo perso per sempre anche se, tutti sperano, non morirà presto. 


Quanto durerà il coma? Nessuno può dirlo con precisione, potrebbe non svegliarsi mai, e noi dimenticarci di lui.


Questo mio articolo serve a ricordare, a tutti, chi era Michael Schumacher quando calcava le piste di tutto il mondo guidando bolidi da leggenda e anche chi è ora.


Spesso se ne vanno cosi', per motivi banali, senza nemmeno salutare.
E' successo a molti campioni dello sport, imbarazzati da quell'immobilismo che diventa la vita una volta smessi i panni dello sportivo, specialmente se lo "sport" praticato significava provare l'ebbrezza della velocità, una scarica di adrenalina costante nelle vene. Chi non l'ha provato non può capire.

Ma Michael Schumacher non se n'è andato, si trova ancora all'ospedale di Grenoble e sebbene i medici che hanno in cura il sette volte campione del mondo di Formula 1 abbiano già detto che esistono pochissime possibilità di risveglio, la moglie avrebbe deciso di riportare Michael nella loro villa di Nyon, sul lago di Ginevra. Nelle prossime settimane verrà approntata una struttura dotata dei più sofisticati macchinari ospedalieri così che Michael possa essere assistito come fosse in ospedale. 


Non più fra la vita e la morte ma in uno stato che non è vita e nemmeno morte. E' ancora fra noi. Non può parlare, ringraziare i tifosi, quelli che sempre gli hanno voluto bene. Non lo può fare ora e nessuno sa quando potrà, ma lui c'è sempre, dorme. 


Piloti di Formula 1, superbike o altre discipline motoristiche, rischiano la vita in ogni gara, poi quando smettono i panni da pilota, rimangono spesso invischiati in attività al limite dell'impossibile per continuare a voler dimostrare di essere ancora superuomini, e l'incidente è dietro l'angolo. Qualcuno potrà obiettare che sciare non rientra fra le discipline sportive a rischio specialmente se praticata con amici fuori dalle competizioni. Verissimo, ma non dimentichiamo, non esiste un vero limite di sicurezza quando si praticano discipline sportive, anche se non si cerca il limite, potrebbe accadere di tutto e non esserne consapevoli. 

Graham Hill è l'esempio lampante ma i casi funesti non mancano. 
Si dirà che non è il destino del pilota, salvare la pelle in pista e morire altrove, morire con onore, sappiamo che è maledettamente normale. La gente, tutti quelli che non spendono la vita al volante di una formula 1, muore in banali circostanze ogni giorno senza, per questo, che si gridi all'eccezionalità, al destino beffardo. Succede, come a tutti prima o poi. A Michael Schumacher stava per succedere molto prima di quando uno se l'aspettasse anche se poi, potrebbe non risvegliarsi mai.

"Vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo. Siate affamati, siate folli.  Nessuno vuole morire. Neanche chi vuole andare in paradiso vuole morire per arrivarci. E nonostante tutto, la morte è la destinazione che condividiamo. Nessuno vi è mai sfuggito. E così dovrebbe essere perché la Morte è probabilmente l'unica, migliore invenzione della Vita. E' l'agente di cambiamento della Vita. Elimina il vecchio per far spazio al nuovo." 

Tutti i grandi campioni restano a lungo nel cuore della gente, è successo con Jim Clark, con Gilles Villeneuve, con Juan Manuel Fangio, chi sostituirà Michael Schumacher? Si dirà che lui rimarra' sempre li, nel profondo del cuore di ognuno degli appassionati, di chi l'aveva amato e apprezzato, magari anche odiato e invidiato. L'unico, perfetto. Eppure, la gente deve avere un cuore grande così, almeno i tifosi di formula 1 perché oltre al grande Schumacher quel cuore riserva uno spazio a un altro grande, quel Gilles Villeneuve che, pur non avendo mai vinto un titolo mondiale, è rimasto nel cuore di molti e sopravvive tuttora. Sarà dunque Schumacher capace di scalzare Gilles Villeneuve? Non credo, a ognuno i propri estimatori, per ognuno un tempo, dei ricordi e una leggenda, la leggenda degli uomini veloci come il vento.

Chi è Michael Schumacher?


Come l'Avaro di Moliere, così Michael Schumacher ha vissuto dentro a una maschera: quella dell'Antipatico. Perché ai tempi della sua militanza in Ferrari non ne voleva sapere di parlare italiano, perché rifiutava di concedere al pubblico la sua vita privata, perché sapeva di essere considerato il più bravo, il più ricco, il più ambizioso. Anche per questo era un personaggio. Capace però anche di momenti di tristezza infinita, di lacrime e di pianto e davanti a tutti senza nascondersi. In realtà Michael Schumacher, primo campione del mondo targato Ferrari dopo 21 anni, antipatico non era. Era timido, e come tutti i timidi spesso aggrediva, oppure taceva, non rispondeva, oppure rispondeva ma in modo scostante. Era quello che correva a trecento all’ora rasentando i cordoli e guidando con una perfezione da orologio svizzero, era quello che aveva sognato la Ferrari per tutta la vita e quando era riuscito a entrare in paradiso s'era accorto che forse non era quello che si aspettava. Era quello che la cura Ferrari aveva faticosamente smussato il carattere chiuso senza scheggiarlo più di tanto, regalandogli in dote un italiano comprensibile ma simpaticamente impreciso, che il micidiale accento da Sturmtruppen, di cui lui era dolorosamente consapevole, gli impediva di parlare in pubblico, riservandone una dose omeopatica per gli auguri di Natale o durante la festa di fine anno con quelli della Ferrari. 

Considerato da moltissimi il miglior pilota di Formula 1 di sempre, detiene imbattuto il record assoluto di mondiali vinti e di vittorie nei gran premi, davanti a nomi illustri quali Alain Prost, Ayrton Senna, Niki Lauda, Manuel Fangio. Michael nacque a Huerth-Hermuelheim, vicino a Kerpen (Colonia), il 3 gennaio del 1969, figlio di Rolf e Elisabeth Schumacher, lui ancora in vita, lei deceduta nel 2010. Lui ex piccolo artigiano che fabbricava camini in pietra, lei casalinga. Poveri (allora) e con i due figli, Michael e Ralf, destinati ad un futuro sostanzialmente anonimo, forse da contabile, forse da giardiniere. Oppure, come è più probabile, da meccanico. Senonché il signor Rolf cessa l'attività dei camini e accetta un nuovo impiego nuovo: il 'factotum' in un kartodromo vicino a Kerpen, dal giardiniere al meccanico a quant'altro. È la svolta della famiglia Schumacher, anche se ancora nessuno lo sa. 

Perché nel giro di pochi mesi di quel kartodromo il padre rileva la gestione, e anche la signora Elisabeth smette i panni della casalinga per occuparsi della mensa. E all'età di 4 anni il piccolo Michael si siede per la prima volta su un kart. A 8 ne avrà uno personalissimo. Glielo costruì letteralmente il padre, dopo aver notato che quel bimbo aveva per i motori una passione fuori dal comune. La scoperta - narra la leggenda, riferita da Schumacher a alcuni amici e da questi bisbigliata di bocca in bocca con la forza del "mi raccomando non dirlo in giro" - avvenne mentre passeggiavano una domenica ai margini di un lago: il bimbo notò nell'acqua uno scooter. Era sul fondo. Chiese al padre. "Me lo prendi?". "Sei matto?". "No, dai, lo voglio". Insomma, quello strano bambino tanto fece e strillò che il padre si procurò una corda e pescò dal lago lo scooter miracoloso. Una volta a casa, poi, ne prese il motore, lo aggiustò di tutto punto e ci costruì sopra un veicolo su misura per il figlio. Una specie di kart, raccontano, sul quale Michael provò per la prima volta l'ebbrezza della velocità. Fu la rivelazione.

Schumi cominciò così a gareggiare (e vincere). Vinceva pur non avendo un marco in tasca. Pur di esserci, al termine di ogni corsa andava di nascosto a visionare le gomme gettate via dai suoi concorrenti, sceglieva quelle migliori e se le montava sul kart per la gara successiva. 

Dicono che sia nato lì il suo talento sull'acqua. A 14 anni Michael comincia a disputare gare karting ufficiali, a 15 è campione di Germania jr, a 16 è campione del mondo jr. Nell'88 è campione di Germania in formula Konig, nell'89 passa in formula 3000, nel '90 - per la Sauber-Mercedes - è campione d'Europa anche in quella categoria. E ha solo 21 anni. 


Da allora è un crescendo: approda in formula 1 nel 1991, con la Jordan. Succede a Spa, che dalla tedesca Kerpen dista pochi chilometri. E succede e per caso: il pilota ufficiale della scuderia inglese, Bertrand Gachot, la notte prima della gara si fa arrestare per ubriachezza. Preso in contropiede Eddy Jordan ingaggia lui. Per un gran premio solo. Ma l'allora team manager Benetton, Flavio Briatore, vede subito in quel ragazzo il cavallo di razza e dal GP successivo lo prende in scuderia al posto del brasiliano Moreno. In sole 4 gare Schumi riuscirà a andare a punti 3 volte, arrivando quinto a Monza, e sesto all'Estoril e a Melbourne. L'anno dopo, nel '92, vincerà il suo primo GP (sempre a Spa) e nel 1994 raccoglierà l'eredità di Senna vincendo il titolo. Per due stagioni consecutive.

«Non è un uomo - diranno i critici - è un computer. Freddo, in pista e fuori. Un martello». È stato per questo che la Ferrari lo ha voluto (e pagato, dai 40 mld annui di allora fino ai 100 di fine carriera, 50 milioni di euro). Per vincere su una rossa. Ci ha messo 5 anni, alternando prestazioni da manuale a errori clamorosi. Ma i titoli sono arrivati, «Indubbiamente è un ragazzo dal carattere un pò esuberante» ebbe modo di commentare Gianni Agnelli dopo che a Spa nel '98 Schumi andò a tamponare Coulthard nel tentativo di doppiarlo. «Però - aggiunse l'Avvocato - è il più bravo».

È proprio questa immagine di pilota freddo, così manager di se stesso (con suo fratello è arrivato addirittura ad aprirsi a Kerpen una mostra permanente dedicata agli Schumacher) che lo ha costretto dentro alla maschera dell'Antipatico. In realtà - dicono gli amici che frequentano la sua casa di Nyon (Ginevra) - di Schumi ce ne sono due: uno è quello che entusiasma e divide i tifosi di mezzo mondo; l'altro è quello privato, che nel '95 ha sposato l'ex girlfriend di Frentzen, Corinna Betsch, coetanea. Hanno avuto due figli: la prima è Gina Maria, ormai diciottenne, stravede per suo padre e spesso gli prestava la sua spazzolina rosa perchè gli portasse fortuna; l'altro è Mick, 15 anni. Dicono sia suo padre sputato. Sarà per loro che il sette volte campione del mondo ha smesso di correre in pista?


Migliaia i messaggi di solidarieta' durante i primi giorni della degenza all'Ospedale di Grenoble, Francia, ricordiamolo cosi' nei pensieri di chi gli vuole ancora bene, torna Michael, fallo per noi, per la tua famiglia, per vivere la tua leggenda, fa che non abbia mai termine:



BILL CLINTON (politico): " "Penso oggi a Michael Schumacher e sono grato per tutto ciò che egli ha fatto per la Clinton Foundation e altro. Prego per lui e la sua famiglia".
LAUDA (ex pilota e manager): "Prego Dio che finisca tutto bene ma purtroppo al momento non sembra così"
BRIATORE (ex manager di F1): "Sono scioccato per quello che è successo a Schumi. Dobbiamo solo pregare... e basta commenti idioti..."
MONTOYA (pilota): "Spero che Michael Schumacher migliori presto. Il suo è un incidente assurdo che auguro non capiti mai a nessuno. Stiamo tutti pensando a lui". 
GROSJEAN (pilota): "Il mio pensiero va a Schumi e alla sua famiglia. Spero ti riprenderai presto #Schumi #leggenda"
SUTIL (pilota): "Spero che Michael Schumacher si riprenda presto. I miei migliori auguri a lui e famiglia"
PIQUET JR (pilota): "#forzaschumi"
ALONSO (pilota): "Riprenditi presto Schumi! Spero arrivino buone notizie al più presto"
HAMILTON (pilota): "I pensieri e le preghiere mie e della mia famiglia sono con Michael e la sua famiglia. Gli auguro una pronta guarigione. Dio lo benedica"
VALENTINO ROSSI (pilota): "Forza Schumi non mollare. Siamo tutti con te" 
FISICHELLA (ex pilota): "Michael, sei il migliore. Questa è la gara più difficile ma sono certo che ce la farai"
BARRICHELLO (pilota): "Ricordo tutti i bei momenti e le risate insieme. Preghiamo per te"
BIAGGI (ex pilota): "Forza Michael! Siamo tutti con te dai!! Ti vogliamo bene! Non fare scherzi"
DEL PIERO (calciatore): "Un pensiero per Michael Schumacher: forza Campione!"
NOWITZKI (giocatore di basket): "I miei pensieri sono per Schumi"
BECKER (ex tennista): "Preghiamo per un pronto recupero di Michael Schumacher"
MARCHISIO (calciatore): "Non mollare Schumi!! #campione #F1 #ferrari #campione del mondo"
MILITO (calciatore): "Forza Michael Schumacher. Siamo tutti con te"
MARADONA (ex calciatore): ''Forza Michael campione di velocità ma soprattutto di umanità, sei un ragazzo pieno di vita che è stato esempio in gare di Formula 1, ma ancor di più come uomo. Forza Amico mio, che ce la puoi fare ancora una volta''
WEBER (ex manager di Schumacher): "Sono profondamente scosso e totalmente depresso ma una cosa mi tiene un po' su: so che è un combattente e finora ce l'ha sempre fatta e ha superato sempre tutto, di questo sono certo"
HAUG (ex responsabile motori Mercedes): "Prego per Michael e la sua famiglia"
LAPO ELKANN (imprenditore): "Con il mio cuore, pensieri e preghiere... sono lì con te grande Schumi #Schumacher #campione"
FERRARI: "Tutta la Ferrari vicina a Michael". La scuderia di Maranello - si legge in una nota sul sito Internet della casa del Cavallino Rampante - si stringe attorno al pilota tedesco, pluricampione del mondo con le monoposto di Maranello. "Sono ore di apprensione per tutti alla Ferrari da quando si è saputo dell'incidente a Michael Schumacher"
FERRARI CLUB ITALIA: "Siamo vicini a Schumi, genio della Formula 1, che ha saputo conquistare, nei lunghi anni trascorsi in Ferrari, il cuore di tutti noi grazie al suoi trionfi e alle sue prodezze". Così, in una nota, il presidente del Ferrari Club Italia, Vincenzo Gibiino, esprime vicinanza al campione tedesco e alla "sua famiglia". "Il Ferrari Club Italia e i suoi piloti - prosegue la nota- seguono con viva preoccupazione l'evolversi della situazione clinica. A Michael il nostro più sentito augurio di superare al meglio questo difficile momento".
MERKEL (cancelliera tedesca): "La cancelliera Angela Merkel si è detta "sgomenta" alla notizia del grave incidente sugli sci in cui è rimasto coinvolto Michael Schumacher. "Come milioni di tedeschi, anche la cancelliera e i membri del governo federale sono rimasti eccezionalmente turbati nell'apprendere del grave incidente sciistico di Michael Schumacher", ha dichiarato oggi il portavoce governativo, Steffen Seibert. Parlando all'ultima conferenza stampa dell'anno, il portavoce della Merkel ha fatto gli auguri di pronta guarigione a Schumacher e di incoraggiamento ai suoi familiari. "Speriamo con Michael Schumacher e la sua famiglia che egli possa superare le sue ferite e guarire".
MALAGO' (presidente del Coni): "Tutto il mondo dello sport aspetta buone notizie. Siamo tutti col fiato sospeso, è una notizia che ci lascia attoniti. Sembrava che all'inizio non ci fosse pericolo, che non fosse così grave, Sta combattendo la partita più importante della sua vita, ma sappiamo che è un combattente"


2014/03/27

MH370 misteries


Flight MH-370 may go down in history as one of most incredible aviation mysteries. The cruel reality is that even though we have a fair amount of information now, we still know so little.
Malaysian Prime Minister Najib Razak informed the families of the victims that the plane had crashed into the remote south Indian Ocean, and all 239 people onboard are presumed dead.
That tragic but not unexpected conclusion was based on data analysis by satellite company Inmarsat, which Malaysia now says was able to track Flight 370 until the signal ended very near where searchers are now hunting for plane wreckage.

The location tells a lot about what might have happened to the doomed flight while telling us not a single detail about why it crashed.
The presumed location of the wreckage makes it all but impossible for certain scenarios to have played out as many observers insisted they must have.
The first thing to understand is altitude is everything. A turbofan powered jet like the Boeing 777-200ER relies on altitude to make good on its ultra long-range capabilities. At its normal cruising altitudes from around 35,000 to 40,000 feet, the 777 can fly very long distances, in excess of 11,000 miles. But it seldom flies long routes.
Flight 370 search unites global community

On its trip from Kuala Lumpur to Beijing, the plane would have had, according to investigators' projections, around seven hours of total endurance at a normal cruising speed of around 600 mph -- just enough to have flown its suspected flight path north for 40 minutes, west for around that much time again, and then south for many hours.
 Listening for MH370 'pings' underwater Search area is a 'giant washing machine'
At lower altitudes, turbofan engines like the Rolls-Royce engines on the Malaysia Airlines airplane, burn substantially more fuel than they do at typical cruise altitudes -- as much as twice depending on the altitudes one uses for comparison.
The increase in fuel burn will greatly reduce range, making it impossible for Flight MH-370 to have reached the southern Indian Ocean at a low altitude. It would need to have flown at a much higher optimum altitude in order to make it that far.
Pilots can reduce the power to cut back on fuel flow, of course, but that also reduces airspeed, which again reduces range.

There's no winning when it comes to flying a turbofan-powered airplane: If you want to fly far, you need to fly high. So the fuel required for MH-370 to have reached the presumed crash location around 1500 miles west of Perth, Australia, means that the airplane did not do a lot of climbing or descending after it deviated from its original planned route to Beijing while it was still an hour or so north of Kuala Lumpur.
So if there was a struggle for control of the flight -- whether it was mechanical issues or a hijacker -- it could not have lasted long or involved great altitude deviations.
This means it's hard, though not impossible, to explain the disappearance as being the result of a mechanical or electrical failure. Such a scenario, as I've been saying since the beginning of the mystery, would require a kind of mechanical magic bullet, an event that would have taken out the transponder and ACARS radio, as well as the voice communications radios. Why else would they not have communicated the emergency?

Pilot: How mechanical problem could have downed Flight 370
Then one must accept that such a failure chain could then allow the crew -- or skilled intruder-- to be able to drive the airplane around the sky for a protracted period of time, eventually pointing it south, in the opposite direction from where the airplane was originally headed.
Let's remember, too, that the airplane would have to maintain an altitude sufficient to allow it to reach the southern Indian Ocean. All this must also have left the 777 in good enough shape to fly for another six hours or so before crashing.
A failure of the pressurization system might account for the scenario, but only if the pilots completely mismanaged their response to the emergency. The 777's backup and emergency oxygen systems are just as intelligently designed as the rest of the jet's redundant systems.

It's also difficult, if not impossible, to explain how the jet could have made the turns it did if the crew were unconscious during that time. Were they desperately trying to find an airport before time ran out? If so, they would have done two things they didn't do: They would have communicated the emergency and they would have descended. Neither of those things happened. While it's horrific to imagine, a botched hijacking or failed pilot commandeering of the airplane are still the most likely scenarios.
Only when searchers have located and recovered the wreckage, as we all desperately hope they do, will we have our first good clues to what have might have unfolded on Malaysia Airlines Flight MH-370.

Since the disappearance of Amelia Earhart, no aviation search has garnered more attention than the loss of Malaysia Airlines Flight 370. The disappearance has become the mystery of the century. It is baffling both to the public and to aviation experts alike, myself included. First, let's not forget to find compassion for the families and friends of the passengers on board this flight. Accident investigations are aimed at finding them an answer, at discovering the cause of such tragedies and at preventing them from ever happening again.
Rather than delve into the numerous sabotage/terrorist theories, I'd like to focus on mechanical malfunction. Considering all the facts, or the accepted assumption of facts, a malfunction that overwhelmed the crew may still be a viable explanation. This makes the most sense to me, as a 30-year airline veteran.
Piecing together all the current information as of March 24, I'll describe a chronological scenario. The scenario is pure speculation on my part, and I have included commentary at various points.

0. The captain utilizes a PC-based flight simulator and deletes some files. So what? My take: This is a hobby. The captain is passionate about flying. Did he fly only the 777 in the simulator? He could well have flown other types of aircraft in the simulator, for his own purposes. Regardless, he wouldn't require this device to execute a nefarious plot. An 18,000-hour captain already has all the resources, i.e. charts and manuals, including his own experience.

1. The captain completes a cell phone call prior to takeoff. Judging by the distance from the main terminal to the runway, this cell phone call was most likely made after pushback from the gate at Kuala Lumpur. Yes, this was a violation of the sterile period (during which extraneous activity outside of aircraft operations should not occur) and not quite up to professional standards but not a big deal. Most likely, the captain made the call while the airplane had been safely stopped on a taxiway. It does not imply malicious intent. As of this writing, information has not been released regarding the details of the phone call.

2. At 12:36 a.m., Malaysia 370 contacts the Kuala Lumpur tower and receives a clearance to hold short of Runway 32R at the departure end, my translation from a non-verified transcript.

3. At 12:40 a.m., Malaysia 370 receives clearance to take off.

4. At 12:42 a.m., Malaysia 370 receives a clearance to climb to 18,000 feet and is directed to the IGARI waypoint, approximately 300 miles away, the entry point into Vietnam's airspace.
 Brother: We need conclusive evidence How did satellite 'find' missing plane?

5. Although the transcript timeline seems abridged, having eliminated communication with other aircraft that had to be on the frequency, it appears that the co-pilot reported the altitude level at 35,000 feet on three occasions. Apparently, this repeated report has caused concern. My colleagues will agree that the most diplomatic method to remind an air-traffic controller that you had requested a higher altitude would be to state your current altitude. It's a subtle hint in air-traffic control parlance. Maybe the original clearance was filed for a higher flight level than 35,000 feet.

6. At 1:07, ACARS (the Automatic Communication and Reporting System) gives what turns out to be its final report. Also at this time, it was alleged that an additional waypoint not on the original flight plan had been entered into the flight management computer. The implication is that someone in the cockpit had intent to veer off-course for nefarious purposes. I believe that if indeed a waypoint was entered -- and it seems difficult to verify with the ACARS no longer reporting -- it was entered as a means to identify an equal-time point. Such a point is a position on the route that indicates the flight is equal in time to two or more diversionary airports. It is a required dispatch calculation prior to departure but an optional entry on the flight management computer.

7. At 1:19, a Kuala Lumpur Center air-traffic controller instructs Malaysia 370 to contact Ho Chi Minh Center (Vietnam radar) on frequency 120.9. The co-pilot responds with the now-famous "All right, good night." Although the correct response would have been to repeat the frequency, the co-pilot was informal. Not a big deal. Crews that have flown that route know that the frequency doesn't change. It is printed on the en route chart.

8. At 1:21, the transponder ceases to send out its coded discrete signal that identifies the flight. Perhaps the beginning of a malfunction in the electronics and engineering compartment?

9. At 1:37, the automatic ACARS transmission does not give its 30-minute report. Had the problem become a full-blown emergency?

10. An undocumented report that a Narita, Japan-bound flight is asked by Ho Chi Minh Center to attempt contact with Malaysia 370. The Narita flight is approximately 30 minutes ahead but is unable to establish contact with Malaysia 370. This attempted "relay" would have been a typical procedure used by air-traffic control. Ho Chi Minh Center would have first attempted contact on the assigned frequency and then used the emergency frequency that all controllers and airlines monitor. There is cause for concern but no reason just yet to sound the alarm.

11. At 2:15, Malaysian military radar (disclosed one week after the disappearance) claims to have observed a primary target on the west side of the Malaysian peninsula, indicating that the flight flew a westerly course at some point after the last verbal transmission.

In my view, the above timeline only includes what appears to be the most credible assertions. Subsequent to this timeline, reports of satellite "pings" and engine data being transmitted indicate that the airplane may have remained airborne for an additional five to seven hours. Without verification and true understanding regarding the implications of these reports, it is difficult to speculate. In addition, raw data from another radar site indicated that the 777 may have climbed to an altitude above the airplane's certified ceiling and then quickly descended and climbed again. And now the most recent assertion has the airplane descending to 12,000 feet. If in fact the airplane descended to 12,000 feet, its fuel consumption would have been almost double that at the higher altitudes. In that regard, how did the airplane fly so far south into the Indian Ocean, as has now been announced emphatically by the Malaysian Prime Minister?

Assuming the airplane did indeed continue to fly, here is a hypothetical scenario:
A smoldering fire began to affect the components in the electronics and engineering compartment. The fire was insidious, producing smoke at a slowly increasing rate. As components began to fail, the crew followed appropriate checklists until it was determined that the primary concern was to land the airplane. The captain entered the waypoint identifier for a diversionary airport into the flight management computer. The autopilot turned the airplane toward the diversionary airport, a southwesterly direction.
In the meantime, the crew attempted to control an airplane that may have been losing portions of its electronic flight control systems. Primary flight displays on the instrument panel may have begun to shut down, making it difficult to interpret airplane attitude and airspeed. The crew donned their oxygen masks with the integral goggles, but toxic fumes, low visibility etc. eventually overcame them when the oxygen bottled was depleted due to the pilots both breathing rapidly in a high-stress environment and the mask switch most likely being selected to 100% at high pressure.

A degraded autopilot continued to steer the airplane toward the diversion airport at an altitude selected by the crew. When the airplane reached the last waypoint -- the diversionary airport -- the flight management computer functioned as designed and kept the airplane on its last heading. Fuel exhaustion caused the engines to flame out one at a time. Operating on one engine for a brief period may have caused a turn due to the differential power that couldn't be compensated by a degraded automatic system.
When the autopilot could no longer maintain the airplane at the selected altitude, it disconnected. The airplane would have begun a slow, erratic descent. When the last engine shut down, the ram air turbine would have deployed, providing both limited hydraulic power and limited electric power. Eventually, the airplane would have descended and crashed into the ocean.

A lot of focus has been on the fact that the crew did not communicate the problem. Maybe they did attempt to declare a "mayday." Had the primary radios been destroyed by fire? Or more likely, the communication went unheard because the airspace where the malfunction occurred was just out of the range of normal VHF communications, in addition to being just outside Ho Chi Minh Center's radar.
It is all pure speculation until the airplane is located. I'd like to keep an open mind. Regardless, perhaps I've explained some of the unexplainable.

Author's note: Les Abend is a 777 captain for a major airline with 29 years of flying experience. He is a senior contributor to Flying magazine, a worldwide publication in print for more than 75 years.


Pray for the passengers of flight MH370

fonte

2014/03/21

L'Italia, l’Europa e l’Euro (cronache di fallimenti)


Entrare nell’Euro per l’Italia è stato complessivamente positivo perché ha stabilizzato le finanze, ci ha imposto delle regole, ha sottolineato i nostri limiti e ci ha obbligati a passare da una economia dell’inflazione a quella della stabilità.

Il problema è che parte dell’Europa (non solo l’Italia!) era molto squilibrata rispetto alla “media” centro-continentale ovvero Germania, Francia e Benelux ed allargandosi man mano ha sì portato avanti un positivo discorso europeista, ma non riesce ad affrontare la crisi tanto che lo stesso concetto di “Europa” sta crollando a livello di opinione pubblica, con punte del 68% di cittadini europei insoddisfatti della UE.

Un Euro che ha funzionato come unificante, ma non regge in periodo di crisi anche perché aggrava e non risolve gli squilibri.

Perdono le economie deboli che sono obbligate però a mantenere il regime dei prezzi, dei costi e delle norme comuni, ma non possono agire sulla leva finanziaria per rilanciarsi in tempi di crisi.

Oggi che – diversamente dal 2002 - la crisi “morde” dal punto di vista dell’occupazione, degli investimenti, della concorrenza internazionale i paesi che non possono ricorrere al credito (o lo usano male, a volte per coprire “buchi” di bilancio dello Stato o delle proprie banche, ma che però sono comunque obbligati a farlo per rigide norme comunitarie) non possono più competere. Così chi è ricco lo è sempre di più (Germania) e impone le regole, chi è povero va in rovina. Vale per l’Italia ma anche per Grecia, Spagna Portogallo, Irlanda, Cipro, con le nuove nazioni dell’Est che sono sulla nostra stessa strada:

La domanda è se un Euro concepito così ci serva ancora, se dobbiamo passivamente subirlo a queste condizioni oppure se non dobbiamo invece cominciare a chiedere di cambiarne almeno alcuni parametri.

Ricordate quando c’era la lira, tanti anni fa, ed i prezzi di Palermo e del Sud erano sensibilmente inferiori a quelli di Milano? Con l’Euro c’è stato un riallineamento al rialzo incredibile: in Italia, Grecia, Portogallo TUTTI i prezzi si sono riallineati alla media europea, il pane oggi costa a Lisbona come a Berlino, ma un pensionato italiano prende un terzo degli euro tedeschi, così come un insegnante o un dipendente mentre il pensionato portoghese ne prende un quinto.

L’imprenditore sta anche peggio perché la sua azienda non può più essere competitiva in quanto i costi di acquisto, del lavoro, del denaro ecc. sono addirittura più alti della concorrenza europea e quindi va fuori mercato. La conferma è nei dati: la disoccupazione tedesca è minima, la nostra paurosa. D'altronde una impresa tedesca può ammodernarsi e investire, riducendo ulteriormente i costi e la nostra no… per regole fissate in Germania!

La politica europea è uscita dalla logica: via i dazi extra UE si importa il riso asiatico e si chiudono le risaie a Vercelli, come le nostre imprese di trasformazione sono distrutte da nazioni dove il costo del lavoro è 10 euro al giorno e l’esempio vale per tutti i settori.

Questi effetti sono dovuti proprio anche all’Euro e a una politica monetaria assurda, non possiamo più nascondercelo.

Il New Deal americano, dopo la grande depressione del ’29, puntò alle infrastrutture e agli investimenti per dare lavoro e far ripartire l’economia. La stessa politica monetaria USA di oggi (dollaro bassissimo contro l’euro) uccide le nostre esportazioni e ha moltiplicato il deficit federale americano, ma l’economia USA “tira”, noi siamo al blocco del 3% dai vincoli di bilancio!

Non mi piace la demagogia, ma la concretezza: il governo italiano deve assolutamente chiedere delle rinegoziazioni serie dei trattati, altrimenti è interesse nazionale minacciare l’uscita da un sistema monetario impossibile e che non ci permette più di essere competitivi.

Attenzione: anche uscendo dall’Euro ci sarebbero problemi, ci saranno indubbiamente moltissimi vantaggi nel breve e medio termine, qualche rischio se non si opera una stretta vigilanza per non ricadere nei problemi che abbiamo avuto quando siamo passati dalla lira all'euro ma non c’è dubbio che stando così le cose facciamo la fine dei polli di Renzo (non di Matteo, quelli dei Promessi Sposi!)… e ci tirano il collo.

Quello che spaventa è che di queste cose non si parla mai a fondo, si urla anzichè ragionare, non si ascoltano i dubbi che cominciano a circolare anche a livello monetario internazionale e ci sono “tabù” che sembrano intoccabili. Uscire o rinegoziare l’Euro non significa uscire dall’Europa: Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, Danimarca ecc. sono nazioni europee ma non usano l’Euro e se la cavano molto meglio di noi.

Noi italiani tra l’altro abbiamo un grande vantaggio da far pesare sulle trattative: siamo comunque un mercato di 60 milioni di persone che se ricominciassero a comprare italiano, mangiare italiano, fare vacanze in Italia e così via (magari anche tornando a pagare in valuta italiana…) avrebbero tutto da guadagnare e rilancerebbero l’economia e l’occupazione interna. 

Vogliamo ripartire con questo discorso? Credo proprio che sia necessario.

2014/03/20

Fuga da New York

La grande fuga da New York 
Un vero newyorkese pensa che New York sia l’unica città al mondo dove si può vivere sosteneva in un’intervista al “Village Voice” Milton Glaser, lo storico graphic designer che ha contribuito a costruire l’immagine della città, fondando il New York Magazine nel 1968 e inventandosi nove anni più tardi il logo “INY”. Eppure, nonostante quella promessa di amore eterno, l’elevato costo della vita sta mettendo a dura prova l’attaccamento dei newyorkesi alla loro città, provocando la fuga della classe media e di artisti, musicisti e creativi che per decenni hanno rappresentato l’essenza della metropoli. New York non era solo una città. Era un’idea infinitamente romantica, il misterioso legame che teneva insieme tutto: amore, denaro e potere, il sogno stesso luminoso e deperibile, scriveva Joan Didion in un meraviglioso saggio intitolato “Addio città incantata” (il titolo originale è “Goodbye to all that”), pubblicato sul Saturday Evening Post. Era il 1967 e la scrittrice californiana provava a spiegare perché aveva deciso di lasciare New York, a 29 anni. Parte di ciò che voglio raccontarvi riguarda cosa significa essere giovani a New York, come sei mesi possano trasformarsi in otto anni con l’ingannevole facilità di una dissolvenza in un film, spiegava, le fontane del Seagram Building che sfumano in fiocchi di neve, io che entro da una porta girevole a vent’anni e ne esco parecchio più vecchia, e su una strada diversa. Ma soprattutto voglio spiegare sia a voi che a me stessa, forse, strada facendo, perché non vivo più a New York.

Il libro di Sari Botton è uscito lo scorso ottobre.
Già allora Joan Didion riteneva che New York fosse una città "adatta solo ai molto ricchi e ai molto poveri", ma soprattutto una città per giovanissimi. Ispirata dal saggio della grande giornalista e saggista americana, la scrittrice Sari Botton ha raccontato la sua storia di newyorkese in fuga degli anni Duemila in “Goodbye to all that. Writers on loving and leaving New York”: dopo aver vissuto per anni in città, nel 2005 Botton è stata costretta a trasferirsi a Hudson, paesino a nord di New York, lungo il corso dell’omonimo fiume. L’affitto del suo loft su Avenue B, ad Alphabet City, era triplicato improvvisamente arrivando a 6.600 dollari al mese, divenendo preda di un famoso attore. Non c’è solo l’esperienza di Botton nel libro: la scrittrice ha chiesto a ventotto colleghe americane di raccontare le ragioni del loro addio a una città segnata da una profonda crisi economica e sociale, dove il reddito medio familiare si attesta intorno ai 50.000 dollari.
Molte persone non possono più permettersi di vivere a New York, e io sono una di loro, ha spiegato Sari Botton al Corriere della Sera dopo la presentazione del suo libro da Strand, storica libreria di Union Square. Certo, non tutti se ne stanno andando, questa resta la città più popolosa d’America – ha continuato – ma i creativi, ormai, non possono più permettersi di vivere in una metropoli dove gli affitti si impennano mentre case editrici e librerie chiudono.

Perché andarsene da New York?

E’ arrivato il momento di andarsene, ha confermato Christine Sun Kim, sound artist californiana di origine coreana, residente a New York da undici anni. Di fatto vivo qui, ma posso dire di essere andata via lo scorso giugno, quando ho lasciato il lavoro per concentrarmi sull’arte. Christine, che ha esposto le sue installazioni al MoMa e al Whitney Museum, si divide fra Berlino e l’appartamento di un’amica a Bushwick, uno dei quartieri periferici di Brooklyn.
Bank Street, illustrazione di James Gulliver Hancock, “All the buildings in New York”
Quando la mia professione sarà rispettata come quelle di Wall Street, allora gli affitti non saranno più un problema, ha sottolineato. Il tema è stato affrontato anche da David Byrne, leader dei Talking Heads, leggendario gruppo new wave formatosi a metà degli anni Settanta nei bar dell’East Village, citato come fonte d’ispirazione da Paolo Sorrentino durante la notte degli Oscar. Byrne, che rientra nell’1% di popolazione più ricca di New York, ha denunciato sul “Creative Time Reports” la diseguaglianza dilagante che starebbe spingendo verso mete più ospitali ed economiche la linfa vitale rappresentata dagli artisti. Anche negli anni Settanta sapevamo che  non sarebbe stato facile, ha ricordato il musicista scozzese residente a New York da quarant’anni, ma allora c’erano affitti economici, sebbene in loft senza acqua calda e riscaldamento. L’eccitazione di essere a New York faceva dimenticare le difficoltà.

Quanto costa la vita a New York?

La città descritta da Byrne assomiglia a quella teorizzata dal neosindaco di NYC Bill de Blasio, il quale –  durante la campagna elettorale – ha preso in prestito da Charles Dickens il concetto di “A tale of two cities”: una città dei ricchi e una dei poveri. A New York abitano circa 400.000 milionari, mentre quasi metà dei nostri vicini vive attorno o al di sotto della soglia di povertà, scriveva sul suo sito la scorsa primavera. La nostra classe media non si sta solamente riducendo – avvertiva – ma sta rischiando di scomparire del tutto. Così, soprattutto grazie allo spauracchio di una crescente diseguaglianza, lo scorso 5 novembre, il partito democratico ha riconquistato New York dopo vent’anni di amministrazione di Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg, il repubblicano divenuto indipendente rimasto a City Hall per tre mandati, che è stato accusato di aver lavorato solo per i ricchi di Wall Street. 

Oggi a New York il divario fra ricchi e poveri è il maggiore di tutti gli Stati Uniti: l’1 per cento più facoltoso guadagna il 45 per cento del reddito totale della città. Nel 2011, i contribuenti newyorkesi che incassavano oltre 10 milioni di dollari erano 1.041, mentre in 120 superavano i 50 milioni. Il 18 per cento delle tasse erano pagate da un piccolo gruppo di 1.200 contribuenti, ha specificato Ronnie Lowenstein, direttore dell’Independent Budget Office cittadino. Per risolvere la crisi delle abitazioni (il 30 per cento dei cittadini spende più di metà del proprio reddito per l’affitto), de Blasio ha intenzione di costruire nuovi edifici alla portata di tutti e di proteggere i diritti degli affittuari. Il suo piano, inoltre, prevede la creazione di circa 50.000 nuove unità abitative a basso costo nei prossimi dieci anni, arrivando a 200.000 su 3,3 milioni di unità abitative totali, gran parte delle quali molto più costose degli standard nazionali.

Quanto costa l’affitto a New York?

Secondo lo “State of New York City’s Housing and Neighborhoods”, il rapporto pubblicato nel 2012 dal Furman Center della New York University, fra il 2007 e il 2011 gli affitti sono aumentati nonostante i prezzi delle case siano calati, con la grande maggioranza della città che si dichiara moderatamente o duramente gravata. Il coefficiente Gini – che deve il nome a uno statistico italiano della prima metà del Novecento, Corrado Gini, ed è uno strumento universalmente riconosciuto per misurare la diseguaglianza – si conferma il peggiore fra tutte le grandi città degli Stati Uniti. Quello che sta succedendo a New York è il risultato di principi economici di base, ha spiegato al Corriere della Sera Ingrid Gould Ellen, codirettrice del Furman Center della New York University, dipartimento che studia il settore immobiliare e le politiche urbane. La grande domanda per vivere in città, unita a una limitata disponibilità di terra su cui costruire, ha fatto aumentare i prezzi degli affitti. Considerando che due terzi dei newyorkesi vivono in affitto, è preoccupante vedere che i prezzi sono aumentati molto in tutta la città e non sono più abbordabili per gli inquilini. La crisi economico-finanziaria del 2007 ha fatto il resto: mentre i prezzi di vendita delle case calavano infatti del 20 per cento, gli affitti sono aumentati dell’8,6 per cento e i costi mediani mensili per un appartamento sono passati da 1.096 dollari a 1.191 dollari. Nello stesso periodo, il reddito familiare mediano in città calava del 6,8 per cento, passando da 54.127 a 50.433 dollari all’anno. Il continuo aumento dei prezzi e l’impatto degli affitti potrebbe non solo far fuggire la classe media, puntualizza Gould Ellen, ma scoraggiarla dal venire a New York in primo luogo.

C’è un mercato del tutto nuovo per il terreno urbano, sottolinea la sociologa Saskia Sassen, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento, “Expulsions”. Si compra sotto forma di edifici ed è divenuto un ottimo investimento. A New York gli spazi sono acquistati da ricchi forestieri che raramente ci vivono. Lo stesso accade a Londra, a Hong Kong e in un’altra ventina di città, specifica Sassen, docente della Columbia University. I dati sembrano darle ragione. Nel 2001 i newyorkesi che guadagnavano oltre un milione di dollari erano 11.700, dieci anno dopo erano 20.412. Nell’arco dello stesso decennio sono aumentati anche i poveri, passati da 1,6 milioni nel 2000 a 1,7 milioni nel 2012: il 21,2 per cento dei cittadini vive oggi al di sotto della soglia di povertà. Secondo un rapporto della National Low Income Housing Coalition, un impiegato a salario minimo – che guadagna quindi 7,25 dollari all’ora – dovrebbe lavorare 139 ore a settimana, invece delle quaranta previste dalla legge, per potersi permettere l’affitto di un bilocale in città.

Non sono i poveri ad andarsene, hanno troppi benefit nel restare a New York e difficilmente si muovono, ha raccontato Joel Kotkin, professore di sviluppo urbano alla Chapman University, in California, newyorkese di nascita. La vera migrazione è quella della classe media, in particolare delle famiglie. Per Kotkin, a far aumentare i prezzi sono stati due fattori: le politiche della Federal Reserve, la banca centrale americana, volte ad aiutare i ricchi (per lo più concentrati nella capitale finanziaria) e l’arrivo degli investitori internazionali. Bloomberg non era solamente il sindaco dei ricchi, ma ne incarnava le visioni e i valori, ha affermato. Per quanto riguarda de Blasio, invece, la sua descrizione della città è corretta, ma non la prescrizione. Per limitare la diseguaglianza bisognerebbe creare e mantenere lavori per la middle class in città.
Se Manhattan fosse una nazione, scrive il New Yorker, il gap fra il 20 per cento più ricco e il 20 per cento più povero sarebbe in linea con quello di Paesi come Sierra Leone, Namibia o Lesotho. Eppure, nonostante tutto, New York resta un’attrazione per molti. Fra il 2010 e il 2012 la popolazione della città è aumentata del 2 per cento (161.500 unità), grazie soprattutto alla migrazione internazionale. Oggi gli abitanti di New York sono 8,3 milioni, e una ragione ci deve pur essere.

Ditemi una ragione per restare a New York!