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2015/01/17

Condannato a morte


Solo scrivere il titolo mi è costato fatica interiore, aborrisco l'atto anche quando in cuor mio potrei pensare che sia la giusta fine per tremendi crimini commessi anch'essi contro un essere umano. Uccidere chi ha ucciso in effetti non sarebbe la migliore soluzione. Si condanna chi uccide e poi si uccide per eseguire la pena. E se condannassimo chi ha ucciso su mandato delle istituzioni? Il boia non è mai colpevole? Come vive un boia, un uomo che ha nella sua coscienza la morte di centinaia di uomini e donne e a volte anche minori.

La pena di morte è la menzogna che la società continua a raccontarsi sulla giustizia. Non è una punizione né una riparazione e non serve neppure a rendere il mondo più giusto. Non è utile nemmeno a legittimare atti come il pagamento di un parcheggio o l’isolamento forzato in carcere. Per giustificarla, dobbiamo essere così sicuri del nostro giudizio da rendere legittimo il legare un uomo al letto e avvelenarlo. Nel frattempo, la pena di morte ci fa sentire onesti e infallibili, a tal punto che riusciamo ad accettarla senza sensi di colpa.

A dir la verità, la pena di morte era la menzogna che la società si raccontava. Potevamo incriminare qualcuno, rinchiuderlo, e infine togliergli la vita. Un uomo era colpevole solo perché era stato giudicato tale. Potevamo gridare alla menzogna, ma il sistema poteva ignorarci perché, in fondo, non avevamo altro. Ora innocenza e colpevolezza non sono più così definitive. L’analisi del DNA ha contraddetto la menzogna, dimostrando l’innocenza di molti condannati a morte, e anche di molti giustiziati. Per delitto e castigo tira una brutta aria.

Da parte di molti, vi è il sospetto che la pena di morte svolga una funzione di pulizia sociale, poiché sono numerosi gli alcolizzati, i malati di mente, gli emarginati che vengono uccisi, mentre a coloro che risultano colpevoli degli stessi crimini ma che vivono in condizioni migliori viene riservata una sorte diversa. Si ha l’impressione di essere davanti a quello che è stato definito un "potere giardiniere", un potere che si incarica di estirpare le erbacce.

Tra le vittime di esecuzioni capitali si contano anche molti perseguitati per motivi politici o religiosi, uomini a volte "colpevoli" solamente di reati di opinione, che non hanno mai fatto uso di violenza né istigato all’uso. In questi casi la pena di morte appare non solo come uno strumento di discriminazione e di arbitrio, ma anche di repressione.

Nonostante il gran numero di condanne ingiuste, c’è ancora qualcuno fermamente convinto che la pena di morte sia legittima. Non c’è da stupirsi, in un mondo in cui il rimorso è temporaneo e il potere della scienza di scagionare si sta affermando solo di recente. Forse la statistica può aiutarci a fare un conto del numero delle perdite dovute alla giustizia impazzita. 

Negli Stati Uniti vengono condannati alla pena di morte, in prevalenza, i neri, spesso i minorenni, non di rado i sofferenti di disturbi mentali, oppure persone che appartengono a più di una di queste categorie.

Nonostante la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia stabilito, più di venti anni fa, la incostituzionalità della pena di morte in ragione delle discriminazioni razziali che essa in pratica comportava, un esame del caso dei giustiziati a partire dal 1977 evidenzia come la discriminazione razziale continui ad essere presente.

Più del 40% dei condannati a morte degli Stati Uniti sono neri, nonostante il fatto che i neri costituiscano solo il 12% della popolazione, e la percentuale di neri che si trovano nel "braccio della morte" è in alcuni stati ancora più alta. Osservando le vittime degli omicidi, le disparità emergono con ancora più chiarezza: l’85% dei condannati a morte "giustiziati" dal 1977 sono stati riconosciuti colpevoli di omicidi di bianchi, nonostante il fatto che neri e bianchi siano vittime di omicidi in misura simile. La probabilità che un nero accusato dell’omicidio di un bianco venga condannato a morte è assai più elevata di quella che un bianco venga condannato a morte per l’omicidio di un nero.

Solo nove Stati proibiscono di infliggere una condanna a morte nei confronti di chi è insano di mente o mentalmente ritardato e molti di questi fissano come soglia un quoziente di intelligenza estremamente basso. Dal 1982 oltre 50 detenuti affetti da gravi problemi mentali sono stati giustiziati.

Nemmeno la minore età salva dalla pena di morte: può essere condannato anche chi è minorenne al momento del reato. In alcuni casi la giovane età non viene neppure introdotta nel dibattimento in quanto circostanza attenuante. Negli ultimi cinque anni sono stati giustiziati minorenni al momento del reato in USA, Nigeria, Pakistan, Iran, Iraq e Arabia Saudita.

In Cina alcuni reati politici e di opinione sono punibili con la pena di morte. E’ del tutto evidente che qualsiasi punizione inflitta a chi ha espresso pacificamente le proprie opinioni politiche o religiose costituisce la violazione di un diritto fondamentale per ogni uomo.

L'aspetto spaventoso del problema è che quelli che non sono stati assolti né giustiziati stanno ancora scontando la pena in prigione. In effetti, i condannati innocenti molto spesso finiscono con lo scontare un ergastolo. Cosa capiamo di tutti gli altri casi giudiziari? Direttamente, nulla, i casi capitali sono diversi. Non si può generalizzare. Ma ci danno un’idea della situazione. I detenuti che rischiano la pena di morte sono i più controllati, ma il tasso di condanne ingiuste rimane simile a quello di tutti gli altri casi sarebbe possibile arrivare a una stima abbastanza precisa per un gruppo e mostrare che il tasso degli altri crimini violenti è simile. Non ci sono grandi differenze. 

La pena di morte come deterrente

Un argomento frequentemente usato è quello secondo il quale la pena di morte costituirebbe un deterrente efficace nei confronti di omicidi e di altri gravi reati comuni. Ma è veramente così?

Nessuno degli ormai numerosi studi condotti in materia ha potuto dimostrare la maggiore efficacia della pena di morte rispetto ad altre pene, in ordine a particolari figure di reato, omicidio compreso. E’ del tutto errato ritenere che la maggioranza di coloro che commettono crimini gravi quali l’omicidio calcolino razionalmente le conseguenze delle loro azioni. Gli omicidi sono spesso commessi in momenti di passione, quando forti emozioni prevalgono sulla ragione. Sono a volte commessi sotto l’effetto di droghe o dell’alcool, o in momenti di panico, quando il colpevole è scoperto nell’atto di rubare. Alcuni soggetti colpevoli di omicidio hanno problemi di grave instabilità psichica o sono malati mentali. In nessuno di questi casi è pensabile che il timore di essere condannati a morte possa operare come deterrente efficace.

Vi è un altro grave limite a cui va incontro l’argomento della deterrenza. Anche chi progetta un crimine in maniera calcolata può scegliere di procedere, nonostante la consapevolezza del rischio che corre, nel convincimento che non sarà scoperto. La maggioranza dei criminologi sostiene da tempo che il modo migliore per scoraggiare questo tipo di comportamento criminale non è quello di accrescere la severità della punizione, bensì di aumentare le probabilità di scoprire il delitto e di condannare il colpevole.

Addirittura è possibile che la pena di morte abbia effetti contrari a quelli voluti. Chi sa di rischiare la morte per il reato che sta commettendo può essere, in certi casi, incoraggiato a uccidere i testimoni del suo crimine o chiunque altro possa identificarlo e farlo incriminare.

Infine, i dati sulla diffusione dei crimini negli Stati abolizionisti non dimostrano affatto che la pena di morte abbia provocato il loro incremento. L’insieme dei dati non corrobora in alcun modo la tesi della deterrenza.

La pena di morte viene spesso invocata come strumento utile e necessario per arginare il terrorismo. L'indignazione suscitata da attentati dinamitardi, rapimenti, uccisioni di pubblici ufficiali o esponenti politici, dirottamenti di aerei e altre azioni di violenza a sfondo politico suscitano una comprensibile indignazione; tuttavia, come hanno ripetutamente affermato diversi esperti di lotta al terrorismo, le esecuzioni possono, anziché porre un freno al terrorismo, provocarne l’inasprimento.

I terroristi e gli autori di crimini politici sono motivati ideologicamente e votati al sacrificio per amore della loro causa, e non provano timore per la pena di morte. Inoltre, le attività terroristiche sono pericolose, il terrorista affronta quotidianamente rischi letali e tende a non essere intimorito dalla prospettiva della morte immediata.

Le esecuzioni portate a termine per crimini di natura politica hanno l’effetto di pubblicizzare gli atti terroristici, suscitando l’interesse dell’opinione pubblica e offrendo ai gruppi terroristici l’opportunità di rendere note le proprie posizioni politiche; si rischia anche di creare dei "martiri" la cui memoria deve essere onorata. Inoltre, le esecuzioni vengono utilizzate come giustificazione di ulteriori atti di violenza compiuti per ritorsione: i gruppi armati potrebbero sostenere la legittimità delle proprie azioni dicendo di volersi servire anch’essi della stessa "pena di morte" che i governi sostengono di avere diritto di applicare nei loro confronti.

Il sistema giudiziario è sempre stato minacciato dal fantasma dei detenuti innocenti. Ma non è altro che un sogno irreale. 

A quanto pare, i fantasmi sono qui e ci guardano.

2015/01/11

#FUORIDALL€URO


Uno dei temi che agitano questo inizio d’anno è la necessità di rivedere la posizione dell’Italia sull’Euro. A destra Lega Nord e Fratelli d’Italia da tempo chiedono che l’Italia esca dalla moneta unica,  anche l'ormai mummificato Berlusconi lo afferma a mezza voce, rilanciando un diverso sistema fiscale. Al centro Grillo ha trasformato l'uscita dall'Euro nel suo cavallo di battaglia anche in vista delle prossime - quanto prossime non si sà ma si immagina - elezioni politiche.

Credo  sia ora non solo di fare chiarezza ma anche di stabilire una linea di credibilità. Il tema infatti è fondamentale e potrebbe essere un’ottima occasione per qualificare l’opposizione nei confronti del governo ma  - anche per differenziarsi dalla demagogia di Grillo – credo non sia più tempo di slogan ma di assunzione di responsabilità.

Certo il concambio iniziale verso l’Euro è stato pesante (se lo ricordi Prodi in procinto di scalare il Colle, perché ne porta la responsabilità!) ma è ora che queste questioni vadano affrontate e studiate a fondo prima in termini tecnici e solo dopo proposte ai cittadini-elettori, ma senza superficialità né sparate demagogiche che non servono a nulla: avere una piattaforma comune e credibile su questa questione sarebbe fondamentale per vincere alle elezioni.

Personalmente credo che uscire dall’Euro sia giusto, non possiamo più permetterci di continuare con “questo” sistema di moneta unica. L’Italia deve rinegoziare gli accordi europei o sarà sempre più difficile uscire dalla crisi. Siamo in un vortice malefico che ogni giorno si porta via un pezzetto della nostra sovranità già ai minimi termini. Liberiamocene o diventeremo il paese satellite della Germania come aveva tramato e voluto Hitler fin dall'inizio e non era riuscito nell'intento sia a causa di Mussolini, per una volta difensore della Patria, sia a causa dell'incapacità del baffetto germanico di attuare un piano realistico e non una sterile conquista. Non gli credeva nessuno ai tempi, non crede nessuno alla Merkel ora.

Prima di tutto cerchiamo di capire che la moneta è un mezzo di espressione economica ma non è l’aspetto più importante di una economia nazionale: è il paracetamolo con cui si affronta la febbre della crisi, ma se la febbre è arrivata per una infezione  si può ridurre la febbre, ma non si supera la malattia. 

Allo stesso modo il semplicistico sistema di proporre una uscita dall’euro, tornare alla lira e  svalutare la moneta è puerile: la svalutazione funziona come sistema di emergenza e una tantum ma alla  lunga uccide il paziente, soprattutto in una situazione economica come quella italiana legata alla dipendenza di materie prime straniere.

In realtà l’Euro, dopo il devastante impatto psicologico di aumento dei prezzi di molti beni di consumo (1 euro= 1000 lire) ha dimostrato almeno due limiti che non erano stati previsti al momento della sua istituzione: non è accompagnato da un potere unico politico-economico centrale sufficientemente forte  e non è stato pensato per i periodi di crisi. Per un pò l’allargamento dell’area-euro accompagnata da una certa espansione ha coperto i suoi limiti che però oggi vengono al pettine. 

Se infatti il “ministro del tesoro” di un ipotetico governo unico europeo fosse eletto direttamente con i voti dei cittadini portoghesi e polacchi, tedeschi e italiani non dovrebbe difendere e privilegiare il proprio attuale orto elettorale nazionale, ma dovrebbe armonizzare l’economia di tutta l’Europa, cosa che è difficile da fare oggi perché diverse sono le priorità nazionali cui fa riferimento ogni singolo stato e i relativi ministri-commissari.

L’Euro ha unito monetariamente l’Europa ma il concetto di stato unitario europeo non è andato avanti, anzi, ultimamente gli euroscettici incalzano. Il risultato è che mentre un dollaro americano è gestito in modo unico per la California come in Florida o nel Vermont, l’Euro produce effetti diversi a Helsinki rispetto a Atene, così come il dollaro non unisce New York e Costa Rica, Messico o Santo Domingo dove non comandano né Obama né la Federal Reserve.

Difficile tenere insieme economie a sviluppo variabile e moneta unica.

Ma d'altronde noi pagheremmo i debiti del nostro vicino di casa che non ha tirato la cinghia, che non rispetta i pagamenti o i piani di rientro e si fa protestare le cambiali? Tutti pensiamo prima a noi stessi, la Merkel – eletta dai tedeschi – prima pensa a loro e a sé stessa e quindi è comprensibile l’atteggiamento di Germania e paesi collegati. 
Diverso se – come è avvenuto – al mio vicino di casa i soldi li avessi prestati, non li restituisce  e vorrei quindi fossero venduti all’asta i suoi gioielli di famiglia (magari svendendoli  per far cassa) oppure in cambio volessi in pegno  proprio quei gioielli per rientrare del mio credito. 

E’ un po’ il caso dei banchieri tedeschi che prima hanno aiutato o prestato fondi a stati come la Grecia (guadagnandoci) e che prima di tutto oggi vogliono rientrare dal rischio dei propri investimenti, alla faccia dei pensionati greci che per loro  possono anche fare la fame. Se ci pensiamo, però, non è che una banca italiana si comporti diversamente con i propri clienti, quindi…

Diciamo allora che nell’area Euro tutti hanno fatto un po’ i furbi sperando che pagassero i vicini di casa. Alla lunga il sistema non funziona se troppe sono le aree di crisi e soprattutto non è chiaro chi debba comandare, così alla fine il più ricco fa la voce grossa anche perché i suoi rappresentanti pensano ai propri interessi e dopo un po’ logicamente trascurano quello dei vicini, oltretutto che non riescono da soli a uscire dai guai.

E l’Italia? Credo che stare in una moneta forte sia complessivamente un vantaggio per il nostro paese, ma per starci bisogna saperci stare e rendersi conti che i debiti vanno onorati. Debiti politici, organizzativi, burocratici. Per colpa nostra, è bene rimarcarlo, non stiamo mantenendo tutti i patti e visto che li abbiamo sottoscritti è evidente che o si cambiano o ce ne si chiede conto.

Qui c’è la politica di mezzo che non riesce, non vuole, non sa come ridurre innanzitutto la spesa pubblica, ma deve farlo sono gli eventi contingenti che la obbligano a attivarsi. Poi dobbiamo renderci conto che non possiamo più mantenere dei servizi se costano troppo, ma è evidente che se ci servono vogliamo prima ridurre quelli degli altri. La classica regola di aumentare le imposte per contenere il deficit porta a risultati opposti se la tassazione è sempre più alta e soprattutto vale solo se tutti le pagano. Poiché da noi non succede alla fine colpisce una quota di cittadini ma è ininfluente per gli altri raddoppiando le ingiustizie, così come le discriminazioni territoriali quando solo alcune aree del paese pagano per le altre più del dovuto. 

Ricette? Secondo me, ovviamente, vanno privilegiate vere riforme interne che però stentano a decollare al di là della demagogia, mentre una misura temporanea potrebbe essere di togliere dal vincolo di bilancio una serie di investimenti direttamente legati allo sviluppo economico o a settori che si ritengano primari per la ripresa. 

Allo stesso modo visto che c’è “catena lunga” tra le misure prese in sede di BCE e effetti sull’economia è essenziale ridurre i costi finanziari ed i tempi di investimenti a progetti non solo di dimensione “europea” ma anche locale, settoriale, di singola media impresa produttiva. Questa norma europea dovrebbe essere comune a tutte le imprese europee, tagliando fuori le burocrazie nazionali.

Questa perché se non si ritorna a produrre e incrementare il PIL (ma i criteri di calcolo sono corretti? Anche qui ci sono molti dubbi) la mossa classica di aumentare le imposte indirette (IVA) ottiene effetti distorti e contrari. Altra riforma – ma in Italia si sta andando al contrario – è il decentramento del controllo, della spesa, dell’autonomia: il livello giusto è quello di aree omogenee (maxi regioni) e non statale o micro-regionale dove peraltro negli anni scorsi si sono buttate somme schifosamente imponenti senza produrre benefici, se non ricchezza per un ristretto ceto politico-imprenditorial-burocratico.

Su questo punto incide un aspetto sempre più importante: la burocrazia.
L’Europa sta affogando nelle regole: lasciamo più libere le imprese (tutte) senza più una massa asfissiante di vincoli, spese, controlli, tempi buttati. Chi sbaglia paga, ma non è possibile che alla fine l’ipotetico meglio (pensate solo alla privacy, all’infortunistica, alle contabilità ecc.) sia nemico del bene. 

Anche perché le regole interne europee devono valere anche sulle importazioni o il mercato continentale continuerà a acquistare “fuori” mentre crollerà la produzione UE perché strozzata dai propri stessi parametri. Non si può comprare in Cina perché costa meno e si produce senza regole e uccidere l’imprese europee perché vengono obbligate a rispettare le regole!

Questi sono spunti di politica europea che dovrebbero interessare il centro-destra perché a sinistra si è pieni di responsabilità e contraddizioni su questi argomenti, ma chi è interessato a farlo?

lanciamo l'hashtag dunque #fuoridalleuro e vediamo come va a finire, altrimenti preparatevi a lustrare le scarpe alla Merkel, ormai non manca molto.

2015/01/08

Gli errori di Oriana


Questo articolo, come molti oramai - il tempo diventa sempre tiranno quando la crisi si porta via le risorse per vivere - non è un'opera del mio ingegno ma preso da chi di ingegno ne ha a vagonate. Vogliate scusarmi cari lettori ma, se lo scrivo qui, è perché ho preso coscienza che la libertà di satira e di stampa sono una mina vagante che ambiscono a distruggerci e non fanno assolutamente ridere.


Mi riferisco certamente alla strage di ieri in Francia, una strage voluta prima di tutto dai quei vignettisti, sapevano, erano stati avvisati, avevano ignorato la regola numero 1: mai mostrare il volto, reale o artefatto, immaginato e sognato, del profeta Maometto. Non lo fanno loro, i suoi seguaci, a maggior ragione non dobbiamo farlo noi e peggio ancora attraverso una satira che si legge bene anche come sberleffo, presa in giro. 

Ecco, pensateci bene e pensate che il diritto nostro di fare satira, nostro inteso come mondo occidentale, finisce esattamente dove inizia il diritto loro (islamici) di far rispettare le loro credenze e la fede beninteso.

Non giustifico l'attentato alla sede di Charlie Hebdo, anzi la condanno ma suggerisco gli spunti per capire fino a che punto possiamo spingerci e dove dobbiamo fermarci.
Forse abbiamo superato quel limite, il famoso vaso di Pandora è colmo, d'ora in poi tutto quello che succederà sarà sempre e solo per colpa nostra. 

Anche la mia riflessione la trovate in fondo al testo. Viene da un autore che ha vissuto a lungo nei paesi arabi prima di arrivare dove sono ora, quei luoghi, quella gente, l'ho conosciuta prima di molti di voi, sicuramente prima di Oriana, e probabilmente prima anche di Tiziano. Pensateci per un momento, noi sappiamo chi siamo e quello che vogliamo?

Godetevi la lettura.

Sergio Balacco

Prefazione a cura dell'autore Matteo Gracis 

Leggere questo scritto richiede circa 20 minuti. Tempo che, ve ne renderete conto una volta finita la lettura, raramente avete investito così bene. Se vogliamo farci una nostra idea e opinione sui fatti che purtroppo oggi tornano d’attualità (terrorismo, Islam, ecc), credo sia giusto e necessario cercare di avere una visione a 360 gradi, senza chiudersi in quel girone di odio, intolleranza e vendetta, dove politici, mass media e il nostro stesso istinto umano, ci trascinano. E se non si ha la pazienza di leggere un testo del genere, non bisogna nemmeno avere l’arroganza di commentare i fatti in questione.

Questa è la lettera aperta di Tiziano Terzani datata ottobre 2001, in risposta all’articolo “La rabbia e l’orgoglio” di Oriana Fallaci, che la scrittrice aveva pubblicato all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Buona lettura ma soprattutto, buona riflessione (la mia è in fondo al testo).

Il Sultano e San Francesco
Non possiamo rinunciare alla speranza

<< Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.

Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere ‘Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.

Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilità perchè certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, “Libertà duratura”. O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via.

Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione – lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perchè col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perchè vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perchè io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”. Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perchè non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perchè non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.

L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia“, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme”. Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perchè sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perchè, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.

Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”. Ma non possiamo rinunciare alla speranza. “Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: “Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto“.

Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? “Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo“, diceva il cartello di un dimostrante in Germania. “Un mondo giusto non è mai NATO“, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo “più giusto” è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perchè ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi”, di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perchè i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perchè i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. E così perchè anche Firenze s’é “globalizzata”, perchè non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. >>

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Il mondo, dopo quell’11 settembre, rispose alla minaccia del terrorismo con la guerra, così come la signora Fallaci incitava. Oggi, a distanza di 14 anni e all’indomani di un nuovo attacco terroristico in occidente (Parigi, Charlie Hebdo) è chiaro che aveva ragione Terzani: il terrorismo non è stato per niente scalfito. E la nostra società, libera-democratica-civile, è sempre più in declino. Stay human!


2015/01/05

Away


Away

The sun turns red in the ground, I look away

Two points in red coming from far away

Move swaying in the hot air of the desert that change things

They are firm and true, they are mobile and virtual

My mental exercise sees things distorted but look real

Like the morning mist that tinge of gray every distant object

Far away and I can not touch them

Far away and they can not hurt me


2014/12/29

PINOCCHIO PATOLOGICO

Questo post è dedicato a qualcuno che sa di essere
un bugiardo cronico ma che non lo ammette.

Perché questo testo anche se sarebbe più corretto scrivere "per chi"?
Viviamo in un mondo di bugiardi, tutti imbrogliano il vicino, l'amico, il fratello, l'amante, la moglie, il marito, i figli e aggiungiamoci il collega, il partner, il capo, il direttore e la lista sarebbe infinita.

Limitiamoci pertanto a una sfera privata, rimaniamo nell'ambito dell'amicizia e consideriamo che, forse, la persona con la quale stiamo per concludere affari d'oro altro non è che un bugiardo patologico, capace di infinocchiare chiunque per suo unico vantaggio. Diffidate di persone come questo descritto, diffidate.

Chi è bugiardo patologico, affetto dalla cosidetta sindrome di pinocchio, manifesta un vero e proprio disagio psicologico, di cui tende a escluderne la gravità, fino ad arrivare a non riconoscerlo neanche. Ciò causa molta sofferenza a sé stesso ed agli altri.

Le principali caratteristiche del bugiardo patologico sono:

Mentono gratuitamente, anche se non è necessario
Sono impazienti
Sono manipolativi nei confronti degli altri
Sono seduttivi e disinibiti
Sono intolleranti alle critiche
Pretendono perché è tutto dovuto loro
Non provano nessun rimorso
Sono incapaci di relazioni affettive mature
Il comportamento di chi “subisce” un bugiardo psicologico prevede tre strategie in tre tempi diversi:

Non tollerare assolutamente le bugie, anzi bisogna smascherarle sistematicamente, affrontandone l'onere di farlo, senza nessuna indulgenza.
Chiedere al bugiardo patologico l'auto-riconoscimento del proprio stato patologico ed invitarlo a chiedere un aiuto esterno per combatterne cause e sintomatologia.
Nel caso che le prime due strategie non siano accettate, prendere in considerazione l'opportunità di “abbandonare” il bugiardo patologico. Spesso questa si rivela l'unica strategia efficace nei confronti di chi è affetto da Sindrome di Pinocchio. Infatti il bugiardo patologico non accetta di rimanere solo.
La sindrome di Pinocchio, all'interno delle problematiche e dipendenze affettive e relazionali, si manifesta attraverso il negare, anche di fronte all'evidenza, tradimenti ed inventare attorno a tali situazioni vere e propri castelli di bugie.

Il partner che accetta tale tipo di comportamento o tende ad essere indulgente verso lo stesso, deve seriamente interrogarsi sul perchè non pone in atto un proprio efficace comportamento di contrasto. Come già accennato prima il bugiardo patologico necessita della presenza dell'altro.

Dal punto di vista clinico il bugiardo patologico può essere affetto da disturbo istrionico di personalità che è caratterizzato da un tipico quadro pervasivo di emotività eccessiva, ricerca di attenzione, ed appaiono a prima vista attivi, interattivi e disinibiti.

Per essere diagnosticato come disturbo il DSM IV prevede che deve manifestarsi in una varietà di contesti con la presenza di almeno cinque dei seguenti sintomi:

la persona è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell'attenzione
l'interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante
manifesta un'espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale
costantemente utilizza l'aspetto fisico per attirare l'attenzione su di sé
lo stile dell'eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli
mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni
è suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze
considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente.