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2020/05/06

Italia all'ultima spiaggia



Sennò finiamo male… Altrimenti rischiamo di… Siamo sull’orlo del baratro… With all due respect, come si direbbe in un inglese politically correct, tutte chiacchiere di chi dovrebbe sapere che mentre il medico studia, il malato muore. La verità è che siamo già finiti male, che non c’è un “altrimenti”, e che nel baratro ci stiamo già, e da tempo. E quindi, o ci tiriamo fuori da soli, e subito, oppure ci tiriamo fuori da soli subito. 

Cioè a dire, non ci sono alternative. Chiedere i soldi all’Unione europea, invocando una solidarietà che non esiste e che non ci può essere nei confronti di un Paese che ha il risparmio privato tra i più alti al mondo (è quasi il doppio del debito pubblico) è tempo perso; da questo punto di vista, purtroppo, non ha tutti i torti chi ci rinfaccia questa nostra caratteristica dicendoci prendete i soldi a casa vostra. 

Ma c’è di più: chiedere i soldi in prestito, ammesso che ce li diano (e non ce li daranno) significa fare altri debiti. Niente di peggio per chi sta già messo molto male. Se poi li chiedi a chi sai che non te li dà, allora sei poco lungimirante, perdi tempo, e fai anche la figura del pezzente.

I temi sono tanti, vediamo di riassumerli in poche righe.

1) Liquidità subito
2) La Ue che non consente di crearla, perlomeno nell’immediato
3) L’accumulo di altri debiti su un debito stratosferico
4) Il sistema bancario italiano

Parto da quest’ultimo punto: se i soldi vengono dati alle banche, chi ne ha veramente bisogno li vedrà con il cannocchiale. Il perché lo sappiamo tutti ed è inutile dilungarsi su cose conosciute. Chiaro, quindi, che chiedersi queste cose non serve a nulla e che bisogna proporre invece di attendere. Cosa? Una patrimoniale o “reddimoniale”? Per carità di Dio, rischieremmo di far fallire le banche e le assicurazioni in cui sono investiti i risparmi dei giusti, e di incentivare il nero. Facciamo qualche considerazione semplice.

1) L’Italia ha avuto il suo boom economico negli anni ’50 e ’60 non per la (relativa) bravura di una miriade di governi che si sono avvicendati alla guida di questo Paese, ma prevalentemente grazie ai soldi che gli americani hanno investito in Italia.
2) Le multinazionali, che piaccia o no al più accanito comunista, hanno creato aziende e posti di lavoro.
3) L’Italia è il Paese geograficamente, e non solo, più importante del Mediterraneo.
4) L’Italia è parte (essenziale) della Nato.
5) Gli Stati Uniti sono la più grande democrazia occidentale, e hanno un senso del business senza pari. Mi verrebbe da dire che se proprio dovessimo avere un creditore, meglio loro che altri; e certamente, with all due respect, non la Cina o altri Paesi ex comunisti. Non perché non ci possano stare simpatici, senza offesa per Di Battista, ma semplicemente perché sarebbe la scelta meno attenta da parte di un Paese membro dell’Ue e parte della Nato.

E allora? Prima riflessione, scontata. I soldi li prendi da chi ce li ha e sai che te li può dare. Seconda. Se possibile, non li prendi a debito, ma con formule più intelligenti. Bene. Dove stanno i soldi? In Italia, a parte la solita Cassa Depositi e Prestiti, che non è un pozzo senza fondo, nei Fondi Pensione e negli istituzionali, cioè nelle Casse di Previdenza; e, in parte, nei fondi di private equity, molti dei quali stanno aspettando che il mercato crolli completamente per comprare a prezzi di realizzo. Negli ultimi anni in molti hanno parlato di investimenti da parte di questi enti nell’economia reale, soprattutto dei Fondi Pensione. Tanti convegni (io stesso ne ho organizzato più di uno), tante parole, e pochi risultati, perché la normativa è ancora troppo limitativa per consentire che i soldi dei lavoratori vadano ai lavoratori. In America, i soldi (quelli veri) stanno in quegli stessi enti e in realtà più o meno simili nella sostanza operativa. I grandi fondi di private equity sono americani, a parte quelli sovrani che sono una cosa diversa.

È per questo che mi permetto, con umiltà, ma senso pratico, di immaginare una soluzione. Immaginiamo di creare un veicolo ad hoc (in gergo SPV), nel quale i grandi investitori istituzionali americani e, sperabilmente, anche quegli italiani, mettano i soldi di cui abbiamo bisogno. Questo veicolo dovrebbe operare in proprio, e non attraverso le banche. Come? In due modi. Facendo “credito di filiera” e in parallelo sottoscrivendo “bonds di filiera”, o emessi dalle aziende che possono, a tassi agevolati e a scadenze temporali tipiche di un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo. Con un’ulteriore caratteristica: i bonds dovrebbero essere convertibili, a un certo punto, in capitale di rischio. Cioè: mi indebito oggi, ma prima o poi quel debito lo porto a capitale, dando un pezzetto della mia azienda a un investitore istituzionale. Il principio è semplice: meglio avere un socio di minoranza che non interferisce nella gestione aziendale quotidiana, che un creditore che prima o poi mi chiede di rientrare.

Il credito di filiera. Altra storia, altrettanto semplice. Se ho una fattura da mettere all’incasso, devo aspettare 30, 60, 90, 120 giorni o forse Godot, che per dirla con Beckett non arriva mai. Non necessariamente perché il mio debitore è un cattivone, ma perché è più che probabile che non abbia i soldi per pagarmi. Se invece di aspettare Godot, mi faccio liquidare il credito a vista da un soggetto partecipato da investitori istituzionali, prendo danaro e lo metto in circolo. E oltre a incentivare chi lavora, perché se lavora fattura e se fattura viene pagato, faccio emergere anche il nero, che tanti criticano ma tanti continuano a fare. Troppo semplice? A parte l’ironia, dovrebbe funzionare.

Una facile domanda: perché un investitore o una moltitudine di investitori dovrebbero mettere i soldi in un veicolo del genere? Perché in cambio potrebbero emettere carta commerciale e venderla, facendola girare sul mercato. Come si fa con le cartolarizzazioni, salvo che in questo caso il sottostante non sarebbe “junk”, cioè robaccia come i crediti deteriorati, ma roba buona. Il punto è: chi può garantire gli investimenti nel veicolo di liquidità fatti dagli istituzionali? La risposta è, gli stessi soggetti italiani che oggi garantiscono quei finanziamenti che “dovrebbero” poi erogare le banche. E, se non è una bestemmia, ma in periodi di guerra ci sta tutto come concetto, magari anche in larga parte un terzo stato sovrano. Cioè, tra tutti, non la Ue, che stato non è; ma si potrebbe immaginare che siano proprio gli Stati Uniti. Meglio chiedere una garanzia, che i soldi direttamente. E meglio gli americani che altri. Non per uno, seppur sacrosanto, spirito occidentalistico, ma perché in passato i soldi in Italia ce li hanno messi loro, perché siamo parte dell’alleanza Nato e perché è più facile parlare inglese che decifrare un ideogramma o un carattere cirillico, in tutti i sensi e non solo in quello linguistico. Dicendo quindi alla Ue: grazie, mi sono organizzato diversamente. Con il rischio, per la Ue, che magari questo schema venga ripreso anche dalla Spagna o vivaddio dalla Francia, dando scacco matto in modo educato e tecnico a chi oggi ci tratta come pezzenti. Forse in futuro potrebbero anche darsi una regolata, preso atto di qualcosa che oggi né a Berlino né altrove nessuno si aspetta. 

È chiaro che una soluzione di questo genere postula, anzi presuppone, un intervento legislativo ad hoc, e per certi aspetti dirompente, per far sì che le norme ne consentano l’adozione. È altrettanto vero, però, che in tempi di guerra (l’espressione non è mia ma fin troppo usata ed abusata dai politici in questi giorni) si fanno leggi speciali e si adattano le normative alle circostanze che la guerra comporta. 

Un’ultima considerazione: il problema, e quindi il dramma, non lo vivremo a maggio o giugno, perché qualche soldo ci sarà ancora in giro, ma a ottobre e nei mesi successivi, perché la vera stagnazione si creerà allora, non essendo stati messi in circolo soldi nei mesi precedenti. A meno che non ci si muova subito. Il tema va approfondito, perché gli aspetti tecnici non sono pochi, ma a condizione che ci sia qualcuno che ascolti, invece di parlare.

Intervento dell’avvocato professor Alessandro Varrenti (fonte Atlanticoquotidiano.it)

2017/04/02

E noi paghiamo....



C’è l’Europa dei soldi, e c’è l’Europa dei valori morali. In entrambe, l’Italia è messa male. Nessun leader politico ne ha parlato in questa campagna elettorale, e questo mi induce a pensare che anche dopo il voto di domenica non cambierà nulla, o ben poco. Non è pessimismo, ma una previsione basata sui fatti. Prendiamo l’Europa dei soldi. Per ogni euro che versa all’Unione europea, l’Italia riporta a casa appena 60 centesimi, e li spende non male, ma malissimo.

COME FUNZIONA IL SALDO NEGATIVO

Il sistema funziona così. Ogni Paese contribuisce al bilancio europeo con l’1% del pil nazionale. Nel 2013 l’Italia ha così versato nelle casse di Bruxelles circa 15 miliardi di euro e ne ha riportati a casa poco più di 9 da investire in progetti che, in teoria, dovevano rilanciare l’economia, ma in realtà hanno ingrassato le clientele. È un andazzo vergognoso che dura da anni. Rispetto al contributo versato, l’Italia ha perso 5,4 miliardi nel 2012, addirittura 7,4 nel 2011, ben 6,5 nel 2010, e così via. In dieci anni abbiamo versato nelle casse europee 159 miliardi di euro (presi dalle tasse pagate in Italia), e ne abbiamo ripresi appena 104: in totale, 55 miliardi persi, buttati via per grave insipienza politica, sia a livello nazionale che regionale. Mancavano i progetti sui quali investire. E quando sono stati presentati e finanziati, il risultato è stato deprimente: a malapena l’Italia è riuscita a spendere il 52,7% dei fondi comunitari assegnati.

NON E’ UNA NOVITA’

Questo saldo negativo tra il dare e l’avere con l’Europa non è una novità. Su internet si trova ancora il libro bianco che nel 2006 l’allora ministro per le politiche europee, Emma Bonino (governo Prodi), dedicò allo scarso utilizzo dei fondi europei, promettendo un maggiore impegno per il futuro. Da allora non è cambiato nulla. Il Censis lo ha confermato di recente: pur essendo al 12.mo posto nella graduatoria europea del pil, l’Italia è il terzo «contribuente netto» dell’Ue, finanzia il 12% del bilancio europeo (pari a 140 miliardi), ma non riesce mai a riportare a casa i soldi che versa. Meglio di noi fanno altri Paesi, considerati «percettori netti», come la Polonia che porta a casa 8 miliardi l’anno più del versato e la Spagna con 3,1 miliardi. Perfino la Grecia ci supera, incassando ogni anno 4,6 miliardi più del contributo pagato.

COME SONO STATI SPESI I SOLDI

Se poi si va a vedere come sono stati spesi i soldi europei, c’è da restare allibiti. Invece di investire in progetti di ricerca, innovazione delle tecnologie e ammodernamento delle infrastrutture come dovrebbe fare un Paese industriale degno di questo nome, l’Italia si è distinta per i finanziamenti a pioggia, destinati alle iniziative più incredibili. Per averne un’idea basta leggere due libri, il primo di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo («Se muore il Sud», Feltrinelli) e il secondo di Mario Giordano («Non vale una lira», Mondadori). Vista dalla Sicilia con gli occhi di Stella e Rizzo, l’Europa non è altro che una allegra dispensatrice di mance alle clientele politiche («Currìti! Currìti! Piccioli europei pì tutti!»): 3.541 euro alla trattoria Don Ciccio di Bagheria, specialità «pasta cu finocchi e i sardi»; 12.075 euro all’impresa edile Pippo Pizzo di Montagnareale; 2.271 euro alla gelateria Mozart di Castelvetrano; perfino 3.264 euro all’agenzia funebre Al Giardino dei Fiori di Gangi. Non solo. In Sicilia non sembra esserci un solo evento sportivo che non sia stato finanziato da Bruxelles: 188 mila euro per la maratona di Palermo (due edizioni); un milione e mezzo per il concorso di salto a ostacoli; 2,4 milioni per i mondiali di scherma; 127 mila euro per il volley femminile. Attività che con i fondi europei per lo sviluppo non hanno nulla a che fare.

IL CLIENTELISMO DEL NORD E DEL CENTRO

Oltre a quello del Sud, l’Italia ha fatto conoscere a Bruxelles anche il clientelismo del Nord e del Centro. Tra il 2011 e il 2012, segnala Mario Giordano, il Friuli Venezia Giulia è riuscito a ottenere decine di migliaia di euro per finanziare corsi di long drink e cocktail nelle principali città della Regione. La Lombardia ha ottenuto 2.239 euro per «controllare la genuinità della polenta valpadana» e altri 18.095 per «le tecniche di pizzeria» di Tolmezzo; idem in Piemonte, dove tra i tanti progetti insulsi spiccano i tremila euro destinati a una ditta di onoranze cimiteriali di Baveno. Nel Centro Italia sono arrivati finanziamenti a pioggia per le scuole di tattoo, spuntate come funghi dall’oggi al domani, il che aiuta a capire come sia cresciuta questa moda tra i giovani. Idem per i centri massaggi: quello di Serrungarina nelle Marche ha preso 817 euro, mentre il Dharma Centro Massaggi a Civitanova Marche ne ha incassati 2.971. Più robusto il contributo allo Sport Village di Castel di Sangro: 80 mila euro.

L’EUROPA DEI SOLDI SPESI MALE

Si potrebbe continuare con i fondi agricoli europei destinati alle gare di motocross, ai circoli del golf, alle scuole di equitazione, il tutto grazie alla complicità tra politici miopi, clientele fameliche e burocrati strapagati quanto indifferenti al pessimo uso dei fondi Ue. Questa è l’Europa dei soldi spesi male, che vorremmo non vedere più. Anche perché è questa Europa che, mentre dispensava mance, ha distrutto i valori della tradizione culturale europea per imporne una diversa, mai votata da nessuno. Ha scritto Giordano: «È l’Europa che celebra le festività sikh e indù, ma vuole cancellare il Natale; che vieta il crocifisso e punisce chi lo indossa; che non riconosce le proprie radici cristiane; che propone l’insegnamento della masturbazione negli asili o l’abolizione del concetto di mamma e papà (meglio il più neutro genitore 1 e genitore 2); che ha perso i riferimenti morali. L’Europa che si è svenduta all’euro». Tutto vero, purtroppo. E cambiare questa Europa matrigna, per rilanciare il sogno di un’Europa solidale, prospera e democratica, non sarà facile per nessuno.

2016/08/12

Italiani sempre più poveri



L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.

L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell'ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump. Per effetto dell'impoverimento e dello shock generazionale, una quota crescente di cittadini non credono più ai benefici dell'economia di mercato, della globalizzazione, del libero scambio.

Lo studio di McKinsey ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. 

Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81%. Seguono Inghilterra e Francia. 

Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le diseguaglianze o compensino la crisi del reddito familiare.

L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguarda i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.

Lo studio non si limita a tracciare un quadro desolante, vi aggiunge delle distinzioni cruciali per capire come uscirne. Il caso della Svezia viene additato come un'eccezione positiva per le politiche economiche dei governi e gli interventi sul mercato del lavoro che hanno contrastato con successo il trend generale. "Lo Stato in Svezia si è mosso per mantenere i posti di lavoro, e così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti per quasi tutti". 

Perfino l'iper-liberista America, però, ha fatto qualcosa per contrastare le tendenze di mercato. Riducendo la pressione fiscale sulle famiglie e aumentando i sussidi di welfare, gli Stati Uniti hanno agito per compensare l'impoverimento con qualche successo. In Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato finale è ancora peggiore: si passa dal 97% al 100%, quindi la totalità delle famiglie sta peggio in termini di reddito disponibile.

Se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.

2015/11/03

Piove, governo ladro...


L'eterna storia del potere, sordo alla sofferenza dei più deboli sin dalla più remota antichità, ha collegato un dono di Dio quale è la pioggia all’indebito arricchimento dei potenti.
Già quasi 5.000 anni fa, al  tempo della quarta dinastia dell’antico regno egiziano, il Faraone Cheope, descritto da Erodoto come un tiranno che, avido di denaro per i suoi lussi, avrebbe schiavizzato il suo popolo per erigere il proprio monumento funebre (la famosa piramide maggiore), aveva collegato direttamente l’ammontare delle tasse alle precipitazioni che determinavano le esondazioni del Nilo, il cui limo rendeva il terreno agricolo più fertile da dare due raccolti all’anno.
Nell’antica Roma i magistrati venivano pagati con grano, vino e olio. I soldati ricevevano parte di queste derrate con l’aggiunta, secondo un peso prestabilito,  di sacchi di sale (da cui la parola salario) proveniente dalle saline del Mar Adriatico attraverso la Via Salaria. Se nei giorni di paga pioveva, il sale si impregnava d’acqua con la conseguenza che pesando di più ne veniva distribuito di meno. Per questo i soldati imprecavano contro il sistema che in pratica era un arricchimento indebito dell’Erario, coniando, secondo la leggenda, come prima forma di protesta nei confronti del potere, l’espressione: piove, governo ladro!

Nel Medio Evo e nel Rinascimento la tassazione, che contava una miriade di gabelle, fu estesa alla raccolta di acqua piovana in cisterne, alimentate da grondaie e scolatoi dei palazzi nobiliari, sicché ai poveri non era consentito nemmeno di poter godere di un dono gratuito del cielo.

In tempi più vicini, dopo l’effimero regno d’Italia di Napoleone, quando il Lombardo-Veneto era sotto il dominio austriaco, il Governo di Vienna, introducendo una specie di IRPEF ante litteram, aveva reso le tasse rigidamente proporzionali al raccolto per cui ai contadini non veniva dato scampo: un’annata piovosa significava inevitabilmente un raccolto più abbondante con conseguente aumento delle tasse. 

All’arrivo delle piogge gli agricoltori si affrettavano a nascondere le poche derrate di riserva ed a imprecare: piove, governo ladro! E il granduca di Toscana, ricordando l’esperienza dei romani sull’importanza capitale del sale, mise una tassa aggiuntiva sulla sua produzione dando luogo alla nascita del monopolio di Stato, estinto in Italia solo 100 anni dopo con legge del 1966. Poiché la pesa veniva effettuata sempre nei giorni di pioggia, che aumentava il peso del sale, ai produttori non restava che ribellarsi con la stessa espressione di scherno ed ingiuria.

Ma tale forma di protesta ebbe anche una connotazione politica quando i mazziniani avevano predisposto, nel 1861 a Torino, una dimostrazione antimonarchica. Il giorno fissato ci fu un tremendo temporale, che colpì la città senza alcun preallarme e la manifestazione abortì. Di qui il Pasquino, rivista satirica dell’epoca, pubblicò una vignetta che ritraeva tre manifestanti inzuppati d’acqua che urlavano polemicamente: piove, governo ladro!

Non solo il governo ruba, non solo loro sono ladri, che poi a ben guardare sguazzano in un ambiente chhe di furti grrandi e piccoli ha sempre vissuto, anche il popolo si è attrezzato, per non sembrare inferiore a chi mlo comanda. Ho raccolto dunque delle testimonianze di vittime di furti e borseggi, a Milano. Mi è bastato mandare un messaggio ai miei contatti Facebook per incassare una quantità inaspettata di racconti (dall’aperitivo al dolce, come vedrete) a formare una sorta di storytelling e volenterosa narrazione collettiva – accenti diversi: ansioso, ironico, spaventato, post trauma – che testimonia non soltanto la considerevole diffusione del reato ma il generico timore che, nel tempo della crisi economica, qualcosa di molto spiacevole stia acquistando potenza nell’ombra pronto a colpirci alle spalle. “Mi ha fatto bene parlarne”, mi hanno poi scritto in molti.

L’aperitivo al bookshop

“La mia fiducia negli altri mi faceva credere che durante un evento, in orario aperitivo, nella libreria a Milano dove lavoro, non sarebbe mai potuto succedere niente di male. Per di più in uno spazio molto piccolo dove tutti ci conosciamo. E invece. La mia borsa si trovava in un angolo, proprio sotto la mia scrivania. Ad un certo punto, in mezzo ad un pubblico di giovani, noto una coppia di circa 55-60 anni. Italiani. Hanno ascoltato per intero il talk, sbadigliando e poi, al momento dell’aperitivo, la donna ha cominciato a stazionare nei pressi della scrivania, dov’era allestita parte del buffet. È bastato allontanarmi un attimo e la borsa è sparita. Insieme al mio iPad, all’iPhone, alle chiavi della macchina e a quelle di casa. Sulle prime non riesci neppure a crederci. Grazie alla tracciabilità dello smartphone siamo riusciti a individuare il tragitto del telefono (dunque della borsa). Così sono partiti in scooter un paio di amici, che per un po’ hanno inseguito il tram 14 che taglia tutta la città fino al Giambellino. Ma alla fine le tracce si sono perse. Insieme alla mia fiducia negli altri. Non c’è crisi che tenga. Almeno per quella sera”. (Barbara)

L’aperitivo2

“Stavo facendo l’aperitivo quando mi sono accorta, con la coda dell’occhio, della presenza abbastanza famigliare di un vecchio eroinomane che bazzica da sempre la zona di Ticinese. L’ho intravisto, alle mie spalle, armeggiare intorno al portapacchi della vespa, dove tengo la borsa che uso per il pane. Al che mi sono girata e gli ho detto “Scusa, ma che cazzo stai facendo?”, e lui mi ha risposto “Minchia, sto cercando di rubare una borsa…”. Alla fine, per farsi perdonare, mi ha messo al polso un bracciale fatto da lui con le linguette di metallo delle lattine. E mi ha chiesto scusa. Se lo rivedo gliela regalo la borsa”. (Ilaria)

I surgelati

“Allora, 
un po’ di tempo fa, una sera torno nella mia casa di via Paolo Sarpi, all’interno di un classico complesso di ringhiera. Infilo la chiave, apro la porta e trovo tutto sottosopra.
 Capisco che è entrato qualcuno e che senz’altro si sarà portato via qualcosa. Conclusione: sparito il mio MacBook, e fino a qui sconfortante, angosciante, ma tutto nella norma, ma con mia grande stupore scopro che mancano anche una mia vecchia giacca di velluto, una confezione di assorbenti, una bottiglia di Cillit Bang e un chilo di surgelati”. (Giulia)

Ciprì e Maresco

“A me e Silvia hanno fottuto due bici nel giro di una settimana. Non per strada, ma dentro il cortile di casa. Una cosa molto brutta, che ti fa sentire vulnerabile. Siamo sicure, infatti, che siano stati i portinai, che nella tradizione delle vecchie portinerie milanesi sono due pensionati di origini meridionali, ma nel nostro caso molto scorbutici, e mezzi analfabeti. Sembrano gli attori di Ciprì e Maresco. Abitano nel nostro stesso palazzo e da quando se n’è andato il portinaio, quello vero, sono stati cooptati per fare un mezzo servizio di portineria. L’amministratore di condominio li paga una miseria: 5 euro l’ora. Ragion per cui non si considerano portinai a tutti gli effetti, non hanno quel tipo di codice di comportamento professionale, e quando c’è qualche problema non si sentono in dovere di risolverlo. Siamo convinte che le bici le abbiano prese loro. In qualche modo, anche se sono solo due biciclette, mi sembra che la situazione un po’ c’entri con la crisi, no?”
(Linda)

La paranoia

“Abito in una casa di ringhiera, con la tipica porta doppia, una di legno e quella più interna con la cornice e il vetro. Un giorno mi è successa una cosa strana. Sono tornata a casa e la porta era aperta. Mi sono spaventata, ma poi ho realizzato che nessuno era entrato, che dentro non mancava niente. Probabilmente avevo dimenticato di chiudere. Strano. Forse, inconsciamente, volevo vedere se fosse possibile fidarsi”. (Sarah)

La paranoia2

“Qualche mese fa ho ricevuto una somma di denaro, qualche migliaio di euro, per un lavoro realizzato in Germania. Sono arrivati in contanti. In quelle settimane lo spread saliva come un’onda e ci si chiedeva se l’Italia sarebbe sopravvissuta. Molti commentatori dicevano che se l’Italia avesse ceduto, come una diga, si sarebbe portata a fondo l’unità monetaria europea, che le banche avrebbero bloccato tutti i conti correnti per riconvertire gli euro in nuova moneta e che ci sarebbero stati dei prelievi forzosi. Ho deciso allora di portare a casa i contanti. Se i soldi erano al sicuro dalla voracità delle banche, erano però esposti al rischio dei ladri. Vivo in una casa di ringhiera dei primi del ‘900 e per mio gusto ho deciso di restaurare l’ingresso, senza sostituirlo, che però resta molto fragile e precario. Dovevo cercare un nascondiglio. Ho iniziato a vagare per casa con la mazzetta di pezzi da 50. Ho provato ad immedesimarmi nella testa di un ladro. Erano perciò da escludere il materasso, il cassetto dell’armadio, le pagine dei libri, il barattolo nel mobile della dispensa. Mi è venuto in mente di mettere le banconote dentro la tasca interna di una giacca appesa nell’armadio o di avvolgerle attorno ad un rotolo di carta igienica. Ho immaginato anche il ladro che, esasperato per non aver trovato niente, andava in bagno e iniziava a pulirsi con le mie banconote da 50. Alla fine ho messo i soldi in una busta, ho aperto il frigo, poi il cassetto della verdura e, appena sotto le carote e le cipolle, ho nascosto il tesoretto. Ogni volta che avevo bisogno di contanti provavo un vivo piacere nel prelevare le banconote fresche dal frigo. Nel frattempo l’Italia non è naufragata e il mio tesoretto, prelievo dopo prelievo, si è estinto”. (Giovanni)

I fidanzati

“Niente, sono seduto nel vagone della metropolitana e accanto a me ci sono seduti un ragazzo, probabilmente di origini maghrebine, vestito da classico tamarro milanese, e una ragazzina, che gli sta seduta sulle ginocchia. Due fidanzatini. Lui puzza un po’ di alcol, ma ho la sensazione che un po’ finga di essere ubriaco. Nel frattempo mi si appoggia contro e sento spingere in un punto. Appena si alzano metto la mano in tasca e sento che il portafoglio non c’è. Probabilmente me l’aveva sfilato approfittando del fatto che stavo leggendo e che quindi avevo le braccia e le mani sollevate dal corpo. Non volevo reagire, per non passare per quello che pensa male, e invece, poi, succede qualcosa dentro di me e inizio ad urlare. Lui fa finta di niente, mentre la ragazzina si dilegua. Spiego a tutti che cos’è successo, agli altri viaggiatori, e lui, di fronte a me, nega, finché dico ‘chiamate la polizia’ e lo prendo per la giacca. Alla fine mi restituisce il portafoglio, poi alla fermata esce dal vagone, si gira e sputa sul vetro mentre la gente dentro lo insulta. Quella sera stavo raggiungendo a cena un’amica, in zona Wagner. Sono arrivato a casa sua sconvolto e con la scena del vagone che non se ne andava dalla testa. Per fortuna c’erano altre persone, sennò credo che avrei avuto paura a reagire così.
 Ah, come testimone, invece, di recente ho visto un tentato furto di cellulare, sempre in metro, e un furto di borsa su un treno notturno tra Milano e Verona, un treno che prendo spesso e che adesso, sinceramente, mi mette un po’ d’ansia :)” (Davide)

La Milano bene

“Ho uno zio della Milano bene che giusto una settimana fa si trovava in macchina, quando un paio di persone gli hanno fatto cenno di scendere, come se avessero bisogno del suo aiuto. A quel punto mio zio è sceso e quelli gli sono saltati al polso per prendergli il Rolex. Mio zio ha reagito, c’è stata una colluttazione, ma i due sono comunque riusciti a rubargli l’orologio e a scappare. Questa cosa me l’ha raccontata mia zia, in realtà, confidandomi che da tempo non gira più per strada con collane, anelli o altre cose vistose addosso”. (Elisa)

Il rock’n’roll

Status del 9 maggio scorso sulla pagina Facebook della band ‘Fast animals and slow kids': “Ciao amici, oggi è un giorno particolare. Uno di quei giorni che non ce la fai ad essere carico. Uno di quei giorni che non ce la fai a dirti che 8 ore di furgone alla fine si fanno tranquille e che dormire per terra fortifica lo spirito […] Oggi è il giorno che ti hanno sfondato il furgone e ti hanno rubato TUTTI gli strumenti. E’ un vero e proprio lutto […] Se potete, amici, condividete la lista degli strumenti rubati qua sotto. Forse non servirà a una mazza, anzi, non servirà e basta, però sarà comunque un modo per starci vicini”. Segue una lunghissima lista di strumenti, dalla Gibson Les Paul al microfono 1xSubkick. Il post viene condiviso 2600 volte e quattro giorni dopo, il 13 maggio, forse anche grazie al passaparola, gli strumenti vengono intercettati e restituiti. “Non sappiamo come dirvi GRAZIE. Una cosa però è certa: Giovedì saremo a Roma al Circolo degli Artisti. Immaginate solo un secondo che cazzo succederà su quel palco. Su quel palco con le nostre chitarre”.

Il rapporto con mio padre

“Il mio fidanzato era stato trasferito a Londra, dopo il primo crollo dei subprime. Lavorava nella city e io per gran parte dell’inverno ero stata da lui, a Londra. Poi il fidanzato decide di mollarmi e io mi ritrovo a casa dei miei a perdere chili, a fumare 25 sigarette al giorno e a piangere. Giugno è l’apice di questa valle di lacrime. Una mattina mio padre trova la tapparella della cucina alzata e il suo marsupio nel balcone. Dà la colpa a me. È da quando sono piccola che se la piglia con me per qualunque cosa, ed è per questo che ho così tanti problemi di autostima. Mio padre mi chiede se per caso avevo deciso di lanciare il suo marsupio sul balcone quella notte. Poi noto che la portafinestra della cucina è forzata e gli dico di controllare il portafogli. Mancano bancomat, carta di credito e il foglio dove teneva appuntati i codici pin. Ho la tentazione di sputargli addosso tutta la mia rabbia, ma lascio perdere. In pratica: sono saliti sul balcone con una corda, hanno forzato la tapparella, hanno cercato e trovato il portafogli, mentre dormivamo, e poi hanno prelevato 500 e 500”. (Giovanna)

30 euro, 113

“Qualche settimana fa tornavo a casa dalla discoteca. Per strada una prostituta mi viene incontro, con fare da travestito, e inizia a mettermi le mani proprio lì. Io la scanso, divertito, e me ne vado. Qualche metro dopo mi accorgo che mi aveva sfilato 30 euro dalla tasca. Torno indietro, forte della presenza di Giuseppe, il mio fidanzato – da solo non sarei mai tornato – e l’affronto porgendo il palmo della mano e dicendole solo: 30 euro. Lei farfuglia qualcosa e io ribadisco, palmo steso: 30 euro. Così ancora per un paio di volte: 30 euro, 30 euro. Lei non molla allora prendo il cellulare: 113. ‘Buonasera sono in viale Abruzzi e sono appena stato derubato da una prostituta’, ed ecco che lei mi riconsegna le banconote, tutte accartocciate”. (Francesco)

Agosto

“Siamo fuori Milano da qualche mese. 
Alle 22.30 di un venerdì arriviamo in stazione centrale e alle 22.40 siamo già a casa. Fa caldo e ci addormentiamo con fatica. Mi sveglio ad intervalli di mezz’ora, per tutta la notte. 
La mattina dopo usciamo per pranzo alle 13.30 e torniamo alle 15. 
Sulla porta troviamo un buco grosso come un melone e una casa che non è più la nostra.
 Faccio una corsa dal quinto all’ottavo piano. Non so perché. Rientro in casa e cerco di capire dove posso sedermi per non svenire. Mentre Ettore controlla che cosa manca, io chiamo la polizia.
 Il poliziotto m’invita ad andare in commissariato ma io insisto perché vengano a casa. È il 4 agosto.
 Arrivano in due, molto svogliati. Dopo un po’ mi passano un foglio con scritto ‘constatazione di avvenuto furto’ e poi il biglietto da visita di un fabbro, suo amico, aperto 24 ore su 24. Ettore si ricorda delle telecamere di un ristorante puntate sul portone di casa. Andiamo e chiediamo se sia possibile vedere le immagini. A quel punto ci guardiamo ore e ore di film con gente che passa, tossisce, telefona, litiga, ride. Finché non arrivano due ragazze bionde. Potrebbero essere due mie amiche, due spagnole in Erasmus, due laureande in Lettere. Oppure due ladre. Entrano. Passa un’ora e arriviamo noi. Ci vediamo nel film. Entriamo. Altri 4 minuti ed escono le due bionde con i testa i miei occhiali da sole e le nostre valigie. Pazzesco. Scarichiamo il video su una chiavetta e ci precipitiamo in commissariato, fiduciosi. Ma il poliziotto dice di non sapere che cosa sia una usb e che comunque non potranno farci granché con il filmato. Così impariamo una lezione e cioè che il mestiere del ladro è abbastanza facile e molto remunerativo”. (Valeria)

E per finire il dolce…

“Non ho subito furti, però rubacchio. Te lo scrivo non come confessione, ma come materiale per il tuo articolo, essendo un under 30 precaria che soffre quotidianamente la crisi. Dove rubo:
 al supermercato, ma non m’intasco niente, peso frutta e verdura sulla bilancia, poi aggiungo altre mele, pesche, zucchine, quello che mi serve, e solo a quel punto chiudo il sacchetto. Per cui pago meno di quel che dichiaro sulla bilancia. E spesa dopo spesa il risparmio diventa palpabile. Zucchero e carta igienica li rubo nei bar.
 Guadagno circa 40 euro al giorno, quindi al lavoro cerco di rubare cinque euro al giorno, per arrotondare a 45, e con quei soldi mi compro le sigarette (nello stesso posto in cui lavoro). 
Sempre nei bar ho rubato le tazzine, i cucchiaini e i bicchieri che ora uso a casa. 
Rimango comunque a disposizione per qualsiasi studio/testimonianza su crisi e soprattutto su gestione del risparmio, che meticolosamente documento nel file Excel che tengo salvato sul desktop sotto la dicitura ‘ECONOMIA DOMESTICA’” (Giulia).


2015/06/21

Uscita dall'euro senza caduta libera


Naturalmente tutti si chiedono cosa accadrebbe qualora fra la Grecia e la zona euro non si riuscisse a trovare un accordo per l’ennesimo salvataggio.

Chiarisco subito che l’ennesimo salvataggio non potrebbe essere che temporaneo, poiché, ammesso e non concesso che i greci accettino di prendere qualche misura di carattere economico (aumento Iva? ritocco pensioni?) in cambio dell’erogazione di un nuovo prestito, finché saranno costretti a utilizzare la moneta unica, non avrebbero comunque nessuna possibilità di veder risollevarsi la propria economia, quindi, esauriti quei fondi, saremmo ancora punto e a capo.
Ritengo che, a questo punto, tutti abbiano capito che è il concetto di moneta unica che non può funzionare, in quanto produce danni in funzione a quanto sono impari le economie dei Paesi che lo utilizzano.

Il famoso “effetto domino” si verificherebbe NON perché esiste la speculazione finanziaria, ma perché verrebbe sancito, senza possibilità di appello, ciò che vado dicendo da tempo, ossia: “uno Stato, una moneta”.
La cosiddetta “speculazione”, infatti, non è un’arma attraverso la quale si cerca di distruggere un sistema che funziona, ma la conseguenza più evidente del fatto che quel sistema NON funziona.

Il problema rimane però gigantesco perché abbiamo costruito una cosa talmente titanica che ora abbiamo persino paura a demolirla, alcuni, anche fra coloro che hanno posizioni molto critiche nei confronti dell’euro si chiedono se debba essere usata “la dinamite” oppure il sistema dell’euro debba essere smontato “pezzo per pezzo”.
In altre parole si ha il timore che ritornare di colpo alle monete nazionali possa comportare uno shock talmente forte all’economia europea da farla sprofondare in una crisi senza precedenti.

Non sono di questa opinione!

Naturalmente la demolizione dell’euro dovrà avvenire in maniera “controllata”, ma ciò non comporterebbe alcun trauma per l’economia del Vecchio Continente, sarebbe solo necessario stabilire delle norme comuni da rispettare e, così come siamo entrati nell’euro … ne usciamo.
Perché, cari lettori, ricordiamo tutti cosa ci hanno ripetuto i media in maniera ossessiva nel momento in cui è entrato l’euro nelle nostre tasche, ci dicevano in continuazione, come un mantra, che “non sarebbe cambiato nulla”. Sarebbe stato tutto estremamente semplice, ciò che prima era espresso in lire sarebbe solo stato ridenominato in euro attraverso un cambio fisso un po’ strano per la verità, 1 euro = 1936,27 lire.

E in effetti è stato tutto molto semplice, e anche le persone anziane non hanno avuto bisogno dei “convertitori” (qualcuno di voi ne ha ancora in casa?), è stato tutto molto facile.
Ebbene la fine dell’euro e il ritorno alle monete nazionali sarebbe ancora molto, ma molto più semplice, perché ogni Stato riconvertirebbe la propria moneta con un cambio alla pari!

E’ semplicissimo!
Un cambio alla pari!
Cioè la nuova lira italiana? Pari a un euro
Il nuovo marco tedesco? Pari a un euro
Il nuovo franco francese? Pari a un euro
La nuova dracma? Pari a un euro

Cosicché se una persona oggi ha uno stipendio di 1.200 euro in Italia diventerebbero 1.200 nuove lire, in Germania 1.200 nuovi marchi, in Grecia 1.200 nuove dracme e così via!!!

Semplice? Semplicissimo!!!

E al momento della riapertura dei mercati valutari “il mercato” unico arbitro imparziale e inappellabile determinerà i cambi fra le nuove valute europee.
Ci vorrà 1,30 nuova lira per avere 1 nuovo marco? Bene!
Basteranno 0,70 nuove lire per avere 1 nuova dracma? Bene!
Ma quello che deve essere chiaro è che questo meccanismo non ci renderà più ricchi o più poveri rispetto alla situazione attuale!

In altre parole: non è che poiché ci vorranno 1,30 nuove lire per avere 1 nuovo marco tedesco allora noi siamo diventati più poveri e i tedeschi più ricchi, perché è già così adesso!!!

Se il mercato determinerà un cambio nuova lira/nuovo marco pari a 1,30 significa che OGGI ritiene che la Germania sia mediamente più ricca dell’Italia del 30%.
Il sistema dei cambi, se naturalmente lasciato funzionare, E’ UN SISTEMA REGOLATORE!!!
E questo è un concetto da comprendere! Assolutamente!
Il fatto che l’Italia avrà una moneta che varrà il 30% in meno di quella tedesca NON CI RENDE PIU’ POVERI!!! Anzi, ci dà un vantaggio! Perché le merci che produciamo saranno più competitive rispetto a quelle prodotte in Germania, e, di conseguenza, questo aiuterà la nostra economia!

Migliorerà la nostra economia e peggiorerà quella tedesca? Se accadrà, anche questo lo vedremo dal mercato valutario perché il cambio nuova lira nuovo marco varierà, magari diventando 1,25 oppure 1,20.
I cambi fra le nuove monete europee varieranno di secondo in secondo come oggi accade fra euro e dollaro o qualsiasi altra moneta, basterà lasciar fare al mercato e tutto sarà regolato in maniera naturale.

Semplice?
Semplicissimo!!!




Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro

2015/06/18

L'Italia deve morire

L’Italia era una grande potenza scomoda per gli altri stati del nord, dovevamo morire e così è stato. Ecco chi sono i ”sabotatori”che ci hanno portato a questo, la VERA storia d’Italia che tutti nascondono passando per i nostri capi di stato, Cia, Bilderberg, BR, Britannia ecc.
Questo il video dell'intervista di Byoblu a Nino Galloni. Guardatelo e scaricatelo sul vostro computer, prima o poi qualcuno lo farà sparire.



Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa». Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. 

Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questaEuropa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gliUsa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

2015/06/14

Default Grecia, ci siamo!


Dopo il primo significativo confronto tra l’Eurogruppo e la Grecia, dopo il secondo in cui si prospettarono altri 6 mesi di proroga, dopo gli ultimi incontri che invece di avvicinare, allontanano le parti ecco che l’accordo appare ancora lontano quasi impossibile. Al momento Atene appare la sola tra le parti a offrire concretamente una certa malleabilità: «Il fatto che abbiamo un mandato non ci dà certo il diritto di fare tutto ciò che vogliamo -ha spiegato Varoufakis ai giornalisti all’uscita dal summit- ma ci dà quello di essere ascoltati», aggiungendo che «la Grecia non accetterà mai di stare in questo programma -la Troika- semplicemente perché per noi questo programma è stato catastrofico». Il ministro dell’economia greco ha accennato anche alle quantomeno incaute e approssimative notizie trapelate a fine anno su un’eventuale ripresa greca: «Le voci che l’economia greca sarebbe stata in ripresa nell’ultima parte del 2014 -continua Varoufakis- sono fortemente esagerate» perché «l’aumento del Pil reale è solo un miraggio. In realtà il Pil nominale, ossia i guadagni in euro, è diminuito» comportando l’innalzamento di quello reale: «l’unica ragione per cui il Pil reale è schizzato è perché i prezzi sono precipitati. Questo non è un segnale di ripresa, al contrario è un segnale di forte deflazione».

Insomma l’idea è quella di due parti ancora molto lontane ma vogliose di provare a capirsi. La durezza con cui alcuni vertici del gruppo Ue -Djisselbloem e Schaeuble su tutti- trattano le istanze di Atene appaiono più che altro come l’ultimo disperato tentativo di preservare un sistema che con sempre più totale evidenza sta mostrando le sue crepe a tutti, dopo un buon quinquennio di totale intoccabilità.

Basterebbe a esempio notare la scomparsa degli spot progresso che ti invitavano a parlare d’Europa, perché «di Europa si deve parlare», o meglio: fino a poco tempo fa ne dovevamo parlare tutti in piazza, ora se ne parla in concertazione riservata tra quattro mura. Questione mutata in pochi mesi.

L’assioma che invece è emerso sul territorio nazionale è quello secondo cui di Europa si può anche temporaneamente smettere, ma almeno «di Grecia si deve parlare», laddove poco importa conoscere nel dettaglio, ma è sufficiente metabolizzare l’assunto che i greci hanno il debito così vertiginoso perché “si sono mangiati tutto” e quindi “devono pagare”. Insomma, nonostante le premesse il dibattito non è molto lungo, tant’è che di solito si esaurisce con un grafico 2004-2010 in cui si evidenzia il debito pubblico e si conclude rapidamente con una richiesta di riscatto generica, perché i ladri sono stati “i greci”, chi ha falsificato i bilanci sono stati “i greci”, chi ci deve sei soldi sono “i greci”. Ma “i greci” chi?

Questa effettivamente è una specifica che non viene mai e poi mai affrontata, né da chi indica l’Ellade come origine di tutti i mali finanziari dell’Eurozona, né da chi difende la posizione di Atene attribuendole il ruolo di possibile via di fuga dalla palude fangosa dell’immobilismo economico e politico. La faccenda su cui nessuno credo possa dubitare è la dissennata gestione della cosa pubblica da parte dei precedenti governi greci -nel periodo che va dal 2002 al 2013- e in fondo è lì che vanno a puntare le accuse di chi sta dalla parte dell’intransigenza “troikiana”. In questo processo però il passaggio che manca è inquadrare il contesto in cui hanno operato i precedenti governi, troppo spesso denominati impropriamente come “Governo Centrale”, quasi per appiattire il tutto.

Prendiamo Costas Simitis, premier del paese dal 1996 al 2004 e leader del Pasok. Descrivendo il Πανελλήνιο Σοσιαλιστικό Κίνημα -Panellinio Sosialistiko Kinima, letteralmente Movimento Socialista Panellenico- possiamo inquadrarlo come un partito di estrazione liberale e socialdemocratica, improntato principalmente sulla dinastia Papandreou – prima il padre Georgios, poi il figlio Andreas, poi il nipote George. Provando invece a cercare un parallelismo comunque difficile con il nostro paese, ci limiteremo all’ampia definizione di “centro-sinistra”.

Simitis -che ha formato i suoi studi all’Università di Marburg, in Germania- divenne premier nel 1996 sostituendo proprio Andreas Papandreou, le cui precarie condizioni di salute si aggravarono a tal punto da portarlo alla morte in tre mesi. Al contrario di quel che si può pensare, Simitis -appartenente all’ala “modernizzatrice” e filoeuropeista del Pasok- non era il cavallo vincente del premier uscente: Papandreou aveva infatti indicato come suo successore Akis Tsohatzopoulos, che però venne superato da Simitis durante la riunione speciale di partito, avvenuta il 18 gennaio di quell’anno. Nel frattempo Papandreou rimase comunque presidente di partito fino alla morte, il 23 giugno 1996. Fu a quel punto che Simitis riuscì a ottenere anche la massima carica, il tutto dopo aver superato nuovamente Tsohatzopoulos durante l’assemblea -che noi potremmo chiamare “primarie interne”- del 30 giugno. Decisivo fu appunto il supporto delle nuove e incombenti politiche comunitarie, di cui Simitis era fervente sostenitore.

Simitis guidò il PASOK a vincere le elezioni anticipate del settembre 1996, anno in cui la sinistra nella sua versione post-muro provocò illusioni e disillusioni abbastanza diffuse, anche dalle nostre parti. Scrive Antonio Ferrari del Corriere della Sera alla vigilia del voto, il 19 settembre 1996:

L’uomo della svolta può essere il premier uscente Costas Simitis, 60 anni ben portati, un professore di economia che, pur avendo raccolto l’ingombrante eredità politica del prestigioso Andreas Papandreu, è in realtà il suo contrario. Incapace di retorica, metodico, poco incline al populismo. Simitis ha vinto la prima scommessa, sostituendo al timone del governo il vecchio leader malato. Ha vinto la seconda, guadagnandosi la presidenza del Pasok dopo la morte del patriarca. Avrebbe potuto vivere di rendita fino all’ottobre ’97, scadenza naturale della legislatura. Ha preferito invece rischiare subito la terza scommessa, chiedendo la legittimazione popolare e 4 anni di tempo per portare la Grecia alla laurea europea. Proprio questa determinazione, in un Paese facile alle emozioni, rischia di diventare il suo limite.

Certo, fa effetto sentir parlare di “laurea europea”, oggi. La laurea si sa vive nello stesso campo semantico del successo e del premio, della ricompensa, del riconoscimento e dell’incasso. Noi dopo vent’anni di laurea siamo costretti a parlare di debito, deflazione, fallimenti e bocciature. A ogni modo Simitis non solo vinse nel 1996, ma riuscì a confermarsi anche nel 2000.

L’esecutivo Simitis fu sicuramente il governo ellenico decisivo per l’accelerazione di Atene in direzione Bruxelles. L’opera politica di Eksynchronismos -“modernizzazione”- si impose su un vastissimo raggio di aree -dalle infrastrutture alla riforma del lavoro- attuando opere di investimento e di privatizzazione.

Interessante l’analisi del concetto Eksynchronismos offerta da Kostas Stafylakis, 38enne artista e intellettuale ateniese, esperto d’arte, filosofo e ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche e Storia dell’Università di Atene:

Nel corso degli ultimi 15 anni lo slogan politico più dibattuto e controverso nella società greca è stato quello di “modernizzazione” (eksynchronismos). Il contesto sociale, politico e culturale del suo riemergere nella vita pubblica greca nel 1990 è attualmente sottoposto a studio rigoroso e analisi da parte della maggioranza degli approcci analitici nelle discipline accademiche. Qualsiasi definizione conclusiva del termine “modernizzazione” sembra essere rischioso, in quanto gli effetti complessivi dei processi che il termine descrive non possono essere ridotti al ritratto corrente o recente economica e di sviluppo della Grecia. Sotto la prima somministrazione del primo ministro Costas Simitis (1996-2000), la Grecia ha aderito all’Unione economica e monetaria europea e sperimentato un boom nella costruzione di infrastrutture pubbliche, una razionalizzazione della sua amministrazione, un inedito abbassamento dell’inflazione e una stabilizzazione della politica degli affari esteri. Lo slogan “modernizzazione” è diventato un efficace punto nodale ideologico ridefinire tutte le divisioni culturali, economici e politici nella società greca.

Dunque è grazie a Simitis che la Grecia entra nell’Unione monetaria, posizione consolidata grazie al doppio mandato sancito nelle successive elezioni dell’aprile 2000. Scrive sempre Ferrari e sempre sul Corsera, proprio in quel periodo, era il giorno 10:

«Qualunque cosa succeda, la Grecia entrerà nell’euro». Yannis Stournaras, 43 anni, architetto del piano che ha consentito a Atene di adeguarsi, con una maratona quasi trionfale, ai parametri di Maastricht, raccogliendo complimenti a Bruxelles e a Lisbona (che ha la presidenza di turno dell’Unione europea), non ha dubbi. Nonostante il suo cuore dica ovviamente Pasok, e nonostante – nelle ore in cui è ancora incerto l’esito del voto – partecipi con passione alle operazioni di spoglio delle schede, è uno che può essere comunque soddisfatto. Il compito che gli era stato affidato è stato brillantemente eseguito. Persino gli europei più critici nei confronti della Grecia, Olanda in testa, sono stati costretti a riconoscere che Atene ha compiuto il suo dovere. Stournaras, studi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, professore di macroeconomia all’Università di Atene, da sette anni consigliere economico del primo ministro, è appena rientrato dal Portogallo, dove ha partecipato a una nuova riunione comunitaria, in vista del vertice di giugno che ratificherà l’ingresso della Grecia in Eurolandia. Ieri mattina è andato a votare, in un seggio di Kyfissia, circoscrizione borghese a nord della capitale, e è rientrato a casa, preparandosi alla lunga notte di attesa, davanti alla tv. «Il risultato elettorale, qualunque esso sia, non potrà cambiare nulla di quanto abbiamo raggiunto. Il processo di convergenza è quasi concluso e ormai è irreversibile – racconta il giovane professore al Corriere della Sera -. Mancano ancora, prima dell’annuncio, due o tre incontri con la Commissione europea e la Banca centrale, ma ormai quel che si doveva fare è stato fatto. Tutti i parametri fissati sono stati raggiunti. L’inflazione è attorno al 2,5 per cento, la crescita si avvicina al 4 per cento. Un dato, quest’ ultimo, che ci colloca subito dietro l’Irlanda. L’ingresso della Grecia in Eurolandia è ormai sicuro, a partire dal 1° gennaio 2001».

Yannis Stournaras era allora membro della commissione economica e monetaria dell’Unione europea, ma lo ritroveremo più tardi come Ministro delle Finanze dell’esecutivo Samaras, a testimonianza del fatto che negli ultimi vent’anni il valzer dei politici greci sia stato estremamente esclusivo, riservando la partecipazione alla grande giostra di incarichi a nomi che si ripetono e si rincorrono. Come appunto Akis Tsohatzopoulos, formatosi anch’egli in un’università tedesca -quella di Monaco di Baviera- dapprima avversario interno di Simitis per la presidenza del PASOK e battuto con 86 voti a 75, e in seguito nominato dallo stesso Simitis prima Ministro della Difesa -fino al 2001- e poi Ministro per lo Sviluppo Economico dal 2001 al 2004.

Questo fu il periodo della famosa falsificazione di bilancio emersa successivamente a seguito della denuncia presentata dall’esecutivo successivo al doppio mandato Simitis, quello dell’altro riesumato eccellente Kostantinos Karamanlis, leader dell’opposizione di centro-destra di Nea Dimokratia. In seguito all’inchiesta sull’operato dell’esecutivo Simitis emersero a carico del ministro Tsohatzopoulos varie inchieste giudiziarie: evasione fiscale, riciclaggio di denaro, corruzione.

Nel maggio del 2010 emersero rivelazioni su una costosissima casa -1.100.000 euro- acquistata dalla moglie di Tsohatzopoulos da una società off shore con sede negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi l’ex ministro entrò nel registro di altre due torbide vicende, su cui emerge lo scandalo Siemens. A seguito di indagini avviate nel 2008 venne alla luce un abnorme giro di tangenti tra politici e dirigenti pubblici greci, con l’implicazione di grosse società come la OTE -il maggior gestore di telecomunicazioni sul suolo ellenico- e l’azienda tedesca Siemens, per la fornitura di materiali e servizi allo Stato greco. Scrive l’ANSA il 10 giugno del 2010:

Il direttore esecutivo della Siemens greca, Dionisio Dendrinos, è stato arrestato nell’ambito di un caso di corruzione che sta facendo tremare la politica greca. L’arresto di Dendrinos, avvenuto ieri sera, fa seguito a quello di altri due dirigenti della società e a un mandato d’arresto internazionale contro Mikhalis Crithoforakos, presidente della filiale greca della Siemens, che avrebbe pagato per anni tangenti per ottenere contratti e appalti. Un mandato d’arresto è stato spiccato anche contro il dirigente finanziario della Siemens, Christos Karavellas, mentre indagati sono anche membri della sua famiglia. Sia Crithoforakos che Karavellas si troverebbero in Germania. L’inchiesta della magistratura riguarda tangenti che sarebbero state pagate dall’impresa tedesca a politici greci nel corso di diversi anni e in particolare per i sistemi di sicurezza delle Olimpiadi del 2004. Lo scandalo coinvolgerebbe sia esponenti del partito socialista di opposizione Pasok, quando era al governo, che dell’attuale partito di maggioranza del premier Costas Karamanlis (ND). Il Pasok ha chiesto un’indagine parlamentare sul caso Siemens, respinta da Karamanlis che vuole prima attendere la fine dell’inchiesta giudiziaria.

La responsabilità è solo da attribuire ai politici greci, o da condividere con il colosso tedesco? Di certo anche da queste parti abbiamo avuto un’esperienza simile negli anni Settanta con lo scandalo Lockheed in cui vennero coinvolti ministri della difesa e illustri cariche istituzionali. In fondo anche in Italia abbiamo fatto i conti con la “modernizzazione”. Nella bufera Siemens finì il PASOK, ma non venne risparmiata neanche la coalizione di centro-destra del successivo premier Karamanlis, quella che contestava appunto quella falsificazione del bilancio pubblico con cui Berlino ora tenta di inchiodare Atene sulla questione debito.

Durante un’intervista rilasciata lo scorso novembre, Alekos Alavanos, leader politico di Piano B, presente nella coalizione di Syriza, così dichiara:

Atene fa parte della zona euro dal 2002. Ma, in realtà nel paese circolano due monete perché la Grecia aveva avuto la maggiore inflazione della zona euro. L’euro di un italiano ha un potere d’acquisto diverso rispetto a un greco. La seconda valuta è l’euro europeo, vicino all’euro tedesco per le transazioni finanziarie internazionali. Con nessun riferimento però concreto ai fondamentali del paese. Da quest’immagine possiamo capire come una delle radici più importanti della crisi è la mancanza di competitività. Gli stereotipi della corruzione sono fuori controllo, clientelismo, arretratezza, ma corruzione in Grecia in greco moderno è “Siemens”. E c’è un politico greco, uno dei leader del Pasok e ministro della Difesa, accusato di aver preso tangenti dalla Germania per sottomarini, aerei e tutto quello che. Se il problema delle due valute non viene risolto, la Grecia non può uscire dalla crisi.

Insomma, il disavanzo greco è stato provocato dai greci. Ma quali greci? I politici greci, i corrotti. Dalla Siemens. Azienda tedesca. Riformuliamo: il disavanzo greco è stato provocato dai politici greci. E dai tedeschi. Scrive Marco Cobianchi su Panorama, è lo scorso 4 luglio: Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari.

E ancora: Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l’affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euro che inizia una decina d’anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All’inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all’arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal.

Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l’accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall’affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti”a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane.

Niente da dire, quella tra Grecia e Germania è una storia che si snoda dalla notte dei tempi, tuttavia, nonostante aziende tedesche abbiano notevolmente contribuito con il benestare di politici greci filoeuropeisti a dilapidare casse statali per 11 anni e 3 diversi premier, appare strano come allo stato attuale delle cose non solo venga scaricata ogni tipo di responsabilità “al popolo greco”, ma non si riconoscono neanche quelle gravi responsabilità esterne che dovrebbero portare a una politica decisamente più indulgente nei confronti di Atene.

Torniamo però indietro. Dopo il secondo governo Simitis, in cui la Grecia sottoscrisse formalmente la sua entrata nell’Unione europea grazie agli accordi firmati nel 2000, nel 2004 la guida del paese passò appunto alla coalizione di centro-destra guidata da Nea Dimokratia del premier Karamanlis. Come già accennato, durante questa legislatura emerse la questione dei dati truccati, ma emersero col tempo altre situazioni che non risparmiarono nemmeno questo esecutivo. Scrive Vittorio Da Rold su ilSole24Ore, è il gennaio del 2008 e della grave crisi ancora si sente solo l’odore:

Si allarga lo scandalo «Zachopoulos» in Grecia che sta facendo tremare il Governo Karamanlis di centro-destra con le ultime rivelazioni di un reporter Aris Spinos ai magistrati dell’esistenza di una importante conversazione di «eccezionale interesse politico» in un Dvd finora segreto. Si tratta di una storia di corruzione e ricatti nei palazzi del potere, due tentativi di suicidio e video osé: una intricata vicenda che da giorni tiene le prima pagine dei media greci e che ha già fortemente danneggiato l’immagine del Governo del premier Costas Karamanlis perché il protagonista è un suo stretto collaboratore da almeno 10 anni. Lo scandalo vede coinvolto Christos Zachopoulos, 54 anni e fino al 19 dicembre potente segretario generale del ministero della cultura di cui gestiva le finanze e i fondi Ue, e la sua ex-segretaria, Evi Tsekou, 34 anni. La storia ha inizio il 19 dicembre quando, adducendo motivi di salute, Zachopoulos misteriosamente si dimette. Ma la sera del giorno dopo si getta dal quarto piano del palazzo dove abita, nel centrale quartiere ateniese di Kolonnaki. Il funzionario è tuttora in gravi condizioni in ospedale e da allora non è in grado di parlare. La stampa greca si getta sul caso e indaga sui motivi del tentato suicidio che, in un primo tempo, vari giornali indicano nell’ampia disponibilità che Zachopoulos aveva dei fondi del ministero.

Dopo Karamanlis venne George Papandreou, la guida si sposto di qualche millimetro, da destra a sinistra, ma la situazione reale non cambiò molto, almeno quella interna alle istituzioni, perché in fondo quella esterna iniziò a precipitare trascinando il paese nel baratro. Neanche durante questa legislatura ci fu un’esenzione dagli scandali – anche se nella maggior parte dei casi bisogna aspettare quel galantuomo del tempo,che prima o poi arriva sempre a chiarire qualche punto oscuro, costringendoti a trasformare il passato remoto in presente, e viceversa. In questi giorni si parla infatti di Swissleaks e delle dichiarazioni presenti nel libro di Falciani, che stanno facendo tremare mezza Europa. Scrive Maria Antonietta Calabrò, lo scorso 10 febbraio sul Corriere della Sera:

Tra i clienti d’oro, Falciani nel libro fa i nomi di due persone, eminenti esponenti di due Paesi del «fronte Sud» della Ue: Spagna e Grecia. Dice: «L’uomo più ricco della Spagna, Emilio Botin del Banco Santander (di cui è stato proprietario fino alla morte, avvenuta il 10 settembre 2014), era uno dei clienti della Hsbc di Ginevra». Poi aggiunge un altro cognome e un altro conto importante, quello della madre dell’ex primo ministro greco George Papandreou, che «aveva un conto di 500 milioni di euro». Il fatto è che la lista degli «uomini d’oro» della Hsbc — in possesso di alcuni Paesi già da alcuni anni — sarebbe stata usata, secondo l’ex impiegato Falciani, per imporre politiche di austerity a altri Paesi. Questo, secondo lui, almeno il caso della Grecia. Falciani ricorda Papandreou e parla di «pressione e di ricatto». Rivelazioni destinate a deflagrare a poche ore dall’Eurogruppo che domani deciderà il destino del Paese guidato da Alexis Tsipras. «Nel 2011 la guida delle negoziazioni con la troika sul salvataggio della Grecia fu affidata a Sarkozy (l’ex presidente francese, ndr), che aveva quella lista e, conoscendone i nomi, poteva fare pressione su Papandreou», scrive Falciani.

Insomma la Troika usata come un’imposizione tramite ricatto, manco fossimo nella Roma della Banda della Magliana. Affermazioni queste tutte da verificare, anche se Sarkozy non è certo stato il politico migliore che l’Eurozona abbia avuto nella sua storia, e in fondo l’attuale crisi libica è lì a confermarlo ulteriormente.

Proseguendo il breve viaggio low cost attraverso il “disavanzo pubblico del Governo Centrale greco”, arriviamo agli anni in cui la morsa della povertà si fa davvero feroce, in cui il nazismo di Alba Dorata prende sempre più piede, e in cui Antonis Samaras tra le speranze di tutta l’Europa che conta vinse le elezioni del 2012, trovandosi a governare il paese nell’apice della crisi e senza la maggioranza assoluta, ma con il costante appoggio di Berlino. Berlino con cui Samaras concordò un secondo piano di assistenza, dopo il fallimento del primo. In realtà i tentativi di formare il nuovo esecutivo furono faticosi, tant’è che il primo non andò a buon fine. Al secondo tentativo si formò il governo “di coalizione” tra Pasok e Nea Dimokratia -ricorda qualcosa di famigliare- che si impegna a rispettare i patti con la Troika. Angela Merkel andò direttamente a Atene a mostrare il suo sostegno -ultima visita in Grecia-, mentre in piazza i manifestanti protestavano, e Syriza decise di non partecipare alla coalizione, venendo accusata di non preoccuparsi per la sorte del paese

Scrive sempre Vittorio da Rold e sempre su ilSole24Ore, ma nel 2012:

Da segnalare che il Pasok, intanto, non sceglierà nessun deputato o proprio ex ministro per ricoprire incarichi nel prossimo governo, hanno riferito questa mattina i media greci, spiegando che il gruppo paralmentare socialista ha accettato la linea proposta di Venizelos. Questa mattina alcuni esponenti socialisti avevano contestato la proposta. Il partito ha anche accettato di sostenere tecnocrati per gli incarichi ministeriali, come l’ex ministro degli Interni Tassos Giannitsis e il ministro dello Sviluppo, Yiannis Stournaras.

Ed ecco qui che ricompare Stournaras, accusato nello scorso gennaio da Tsipras di essere “dipendente da Schaeuble”. Stournaras è il polivalente ex ministro per lo Sviluppo, ex ministro delle Finanze e attuale Governatore della banca centrale greca, chiamato in sostituzione di un altro eccellentissimo dell’Ellade, George Provopoulos, al quale si imputano non poche responsabilità durante il suo mandato di Governatore, durato dal 2008 al 2014. Il New York Times ha scritto che pochi uomini come lui sono stati capaci di accentrare così tanto potere nel proprio paese. I giornalisti Nikolas Leontopoulos e Pavlos Zafiropoulos, scrivendo nel 2012 a proposito dello scandalo “Proton Bank” in cui è coinvolto l’uomo d’affari Laurentis Lavrentiadis, così analizzano il ruolo di Provopoulos:

Se lo scandalo Proton Bank è stato scioccante per alcuni, è ragionevole obiettare che non avrebbe dovuto invece essere una sorpresa per il signor Provopoulos. Questo perché quando la commissione competente del Consiglio superiore sotto il signor Provopoulos ha approvato l’acquisto di Proton Bank dal sig Lavrentiadis da Piraeus Bank, all’inizio del 2010, è filato tutto liscio nonostante le numerose gravi bandiere rosse che erano state sollevate dai controllori del consiglio superiore circa le finanze del sig Lavrentiadis e rapporti d’affari. Bandiere rosse che alcuni hanno sostenuto (compresi i pubblici ministeri) inseriscono la decisione del sig Provopoulos in un’accezione penale, dato il ruolo del Consiglio Superiore nella supervisione del sistema bancario greco – e come tale dovrebbe essere ulteriormente approfondito.

Stephen Grey di Reuters, in un articolo del gennaio 2012:

La presunta generosità di Proton si è verificata nel momento in cui il sistema finanziario della Grecia doveva essere sotto il microscopio europeo.Funzionari greci ritengono che la banca ha emesso più di 664.000.000 € di nuovi prestiti alle società collegate a Lavrentiadis nel 2010. A quel tempo, le banche del paese cominciavano a cimentarsi con una crisi del debito che stava seriamente minacciando la stessa sopravvivenza della zona euro.[...]“Si può pensare a questo paese come un grande lago oscuro”, ha detto Tasos Telloglou, un presentatore televisivo e giornalista senior per il quotidiano greco Kathimerini. “Lì sono sepolti molti vecchie auto e spazzatura e anche alcuni corpi. Ora l’acqua si sta ritirando, è possibile vedere ciò che è stato nascosto per tanto tempo.”

In ogni modo, ce ne sarebbe da cercare, tra questi detriti lasciati in dote dal tempo, prima di arrivare al debito greco. Ce ne sarebbe da approfondire, prima di capire che i greci intesi come popolo, quelli che chiudono i negozi e che fanno la fame tra rabbia e speranza, non hanno mangiato poi così tanto. Gli hanno mangiato sulla testa, quello sì. Chi? I politici greci incaricati di accelerare l’entrata nell’Unione monetaria, i banchieri incaricati di salvaguardare i propri interessi, le multinazionali di servizi tedesche, le costrizioni d’approvvigionamento bellico, i funzionari pubblici e privati legati a doppio filo col Governo Centrale, quello greco di denominazione impropria, e quello europeo di denominazione calzante.

Intanto siamo arrivati al 2015 e al governo Tsipras, l’unico esecutivo con nessun legame evidente con la centralità dell’Eurozona, l’unico esecutivo che rifiuta la Troika sì, ma non rifiuta di pagare. Chiede semplicemente di calcolare nuovamente, settando nuovi parametri e tentando di ridisegnare un progetto macchiato da varie responsabilità condivise. Dall’altra parte per ora nessuna ammissione, nessun cedimento, nessun passo indietro nel riconoscere errori. Si guardano i detriti ma si fa finta di niente, perché “la Grecia deve rispettare i patti”, che patti non sembrano. La stampa lo chiama un “muro contro muro”, la realtà ci dice che qui il muro è uno solo, neanche tanto solido come un tempo, che gioca a fare il ruolo del comandante, mentre le truppe non sembrano più troppo convinte. Eppure un’alternativa ci sarebbe, e passa attraverso l’ascolto. Una virtù troppo spesso sottovalutata, in questa Europa dall’imperativo preponderante. Intanto l’attuale ministro delle finanze Varoufakis, in un pezzo pubblicato in concomitanza con il secondo incontro tra Grecia e Ue e uscito sul New York Times del 16 febbraio, si discosta dalle recenti notizie che vedrebbero l’esecutivo Tsipras calarsi armonicamente nella cosidetta “teoria dei giochi”, quel tanto avvezzo modo di concertare in cui le trattative prendono le sembianze di un gioco di ruolo:

Il problema della teoria dei giochi -scrive Varoufakis-, come ho sempre tentato di spiegare ai miei studenti, è che essa considera le motivazioni dei giocatori come un dato prestabilito a priori. Se si sta pensando a una partita di poker o di blackjack questa assunzione non è particolarmente problematica. Ma nell’attuale negoziato tra la Grecia e i suoi partners il punto centrale è esattamente quello di costruire delle nuove motivazioni. Si tratta di costruire una nuova mentalità che vada oltre le divisioni nazionali, che sostituisca una prospettiva pan-europea alla dicotomia creditore-debitore, in grado di porre il bene comune Europa al di sopra di politiche futili e di dogmi di comprovata tossicità se resi universali e una logica del “noi” a sostituire quella del “loro”.

Loro chi? I greci?

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Testo tratto da una libera interpretazione di uno scritto di Nicola Mente.