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2020/04/01

Gli illusi e le supercazzole europeiste (di Elio Crovetto).


Parlare con il ‘senno del poi’ per quanto non sia il mio sport preferito, permette di poter commentare oggettivamente gli eventi sulla base di fatti e comportamenti avvenuti e consuntivati, pertanto, quando necessario, è utile praticarlo.
Ed è da questo presupposto che stamane riflettevo sull’Europa, ma attenzione, non sull’Europa di oggi, quella dell’emergenza Covid per intenderci, ma sull’Europa ante-Covid, quella che fino a soli due mesi fa discuteva temi comunitari fino a quel momento prioritari quali politiche economiche e Patto di Stabilità, gestione del fenomeno immigrazione, riflessioni post-Brexit, ecc.

Su quell’Europa discutibile - ed infatti discussa - molte persone tra le quali molti amici, hanno sempre ribadito l’idea Europeista auspicando - in riferimento agli aspetti più contraddittori delle politiche adottate – il miglioramento dell’Europa, la necessità di lavorare per dare peso ai pensieri ed alle necessità di paesi oggi secondari, tra cui il nostro, nell’ambito dell’attuale assetto politico e decisionale Europeo ad evidente trazione nord-europea, guidato di fatto da un solo paese leader, la Germania, da una corte di paesetti tirapiedi (Olanda, Finlandia, Estonia ecc.) e da una Francia a corrente alternata che - in funzione delle proprie convenienze – sceglie tema per tema. La Gran Bretagna aveva invece già salutato tutti e lasciato il tavolo.

Tutto questo fervore Europeista e migliorista credo nella ovvia e genuina convinzione che ciò non fosse una mera utopia, ma un obiettivo concreto e realizzabile, che passava – necessariamente – per una supposta consapevolezza dei paesi leader della necessità di un cambiamento e – soprattutto - per la loro disponibilità allo stesso.

Ipotesi queste peraltro non campate in aria, evincibili tutto sommato da un vento, o meglio, una brezza leggera che sembrava soffiare in direzione diversa dopo clamorosi ed oggettivi fallimenti come la Brexit o la gestione della crisi Immigrazione, un vento fatto dalle diverse dichiarazioni più o meno ufficiali, dalle interviste, dalle asserzioni di solidarietà, dai tanti bla bla che puntualmente spuntavano da Bruxelles e riempivano tv, giornali e social ad ogni acuirsi di crisi.
Ma come si dice “Dal dire al fare c’è di mezzo il mare” e difatti, fino a Marzo 2020, sono rimaste solo parole, ricche di spirito Europeista, di fratellanza blustellata, di tante speranze, ma sempre e solo parole.


Poi è arrivato il Covid-19.

Come uno tsunami poderoso, annunciato ma largamente sottovalutato, è entrato a gamba tesa in Europa, falcidiando in pochissime settimane i sistemi sanitari e le economie dei paesi EU, ed in particolare ha colpito di più i paesi meno virtuosi, i poveracci insomma.
Ha ingenerato una crisi umanitaria/sanitaria/economica senza precedenti, la cui portata è incommensurabilmente più grande di tutte le altre fino ad ora affrontate dall’Europa, una crisi che – proprio in virtù della sua portata e della veemenza - non ammette tentennamenti né tanto meno ammette errori.

Quello che per il teatrino Europeo proprio non ci voleva: una crisi anti-supercazzole.
Eggià, il Covid-19 non lo si vince con le dichiarazioni, parole o promesse, ma lo si vince con i “fatti”, e al contempo non lo si può vincere un domani più o meno lontano, ahimè lo si deve vincere “ieri”.
Ecco qui che cade la maschera, in questo caso né chirurgica né FFP3 (quelle se le sono tenute ben strette), cade invece la maschera dell’ipocrisia Europea, dell’Europa che comanda, con il Covid-19 le parole si sciolgono come neve al sole di Agosto e rimangono solo i fatti. Ed i fatti li conosciamo tutti, non serve nemmeno ripeterli.

Ma non voglio scendere nel merito delle iniziative “comunitarie” di gestione del Covid, sulle quali credo di aver espresso più che palesemente la mia opinione, come detto all’inizio voglio rivolgermi agli illusi Europeisti, a chi aveva davvero creduto alle supercazzole che sono state raccontate dopo la Brexit, dopo la crisi Immigratoria ecc, li invito ad uscire dal torpore e a guardare i fatti, a riconoscere CHI SONO i nostri interlocutori in Europa e quello che realmente FANNO e non le supercazzole che ci raccontano per farci contenti.

Se non fosse arrivato il Covid-19 chissà per quanti anni ancora vi avrebbero illuso.
Una propaganda fatta così bene che sono arrivati al punto di farvi teorizzare che è grazie all’Unione Europea se da 75 anni non ci sono guerre in Europa… peccato che l’UE esista solo dagli ultimi 27 e - in particolare - esiste solo da 19 come unità monetaria e che all’interno di questo periodo, in nome del rigore fiscale, ha inginocchiato senza pietà paesi come la Grecia (paese cavia in questo senso, ed i prossimi siamo noi) e dato fiato al ritorno degli estremismi e sovranismi come mai accaduto nei precedenti 50 anni ante UE.

Una propaganda pacifista strombazzata da quegli stessi pulpiti che nella prima metà del secolo scorso (e non parlo di duemila anni fa) hanno causato due guerre mondiali e 92 milioni di morti, di cui 6 milioni nelle camere a gas.

Cari amici illusi e necessariamente disilludendi, mi ricordate tristemente la scena iniziale del film “SOBIBOR”, nella quale gli ebrei venivano fatti scendere da un elegante treno passeggeri ed accolti dai nazisti nel campo di sterminio con tanto di corteo di accoglienza, sorrisi e musica, per poi venire suddivisi con ragionevoli motivazioni tra quelli che sapevano lavorare legno e metalli e gli altri, dopodichè, questi ultimi, e sempre con ragionevoli parole, venivano convinti a lasciare cose e vestiti per fare una bella doccia, proposta accolta a braccia aperte dagli inconsapevoli ed illusi protagonisti.

Una doccia senza ritorno però.

Cari i miei amici illusi e disilludendi vostro malgrado, la storia insegna a capire CHI E' IL VOSTRO INTERLOCUTORE, anche in quel caso è cominciata con le parole e sorrisi, la deportazione con i carri bestiame, i “Güterwagen”, è avvenuta solo dopo.

La diversità svedese


Amo il sole della primavera italiana. Perciò avevo accettato di partecipare a tre festival letterari: Milano a marzo, Venezia ad aprile, e poi Udine verso l’estate. Invece sono finito qui, in isolamento volontario, su un’isola nell’arcipelago di Stoccolma. Non perché debba, ma perché voglio. Ho una bella scorta di legna, e posso andare a far la spesa all’emporio come al solito. Certo, oggi sta nevicando, ma la primavera arriverà anche qui.

Tutti stanno facendo la stessa domanda: perché il governo svedese non combatte la pandemia di coronavirus come fanno gli altri? Perché non introduce restrizioni e controlli? Quasi tutti i ragazzi continuano ad andare a scuola. Persino gli asili sono aperti. Possiamo ancora viaggiare come ci pare, o andare al pub se ce ne viene voglia, e anche se il divieto di assembramenti, da un massimo di 500 persone, è stato di recente abbassato a 50, ci sono enormi differenze rispetto al resto d’Europa.
Saremo forse degli ingenui? Oppure questa bizzarra strategia è spiegabile in altri modi?

Lasciate che ci provi.

In fin dei conti, il modello svedese si basa sulla fiducia. In generale, gli svedesi hanno fiducia gli uni degli altri, e nelle istituzioni: seguiamo volentieri consigli e raccomandazioni, specialmente se il primo ministro, e magari anche il re, alzano la voce. Lavatevi le mani! Non spostatevi se non è indispensabile! Proteggete gli anziani! E fintanto che questa fiducia funziona, i divieti non sono necessari. Questa fiducia rappresenta un ingente capitale, proprio come le finanze dello Stato, in parte perché nel nostro Paese la corruzione è cosa rara. Anche qui c’è stata la deregolamentazione di alcuni mercati, ma lo Stato continua a essere stabile. Anche qui ci sono delle voci critiche che temono il collasso, ma per ora si va avanti.

Inoltre, le istituzioni svedesi godono di una peculiare indipendenza. Nel nostro assetto statale, di antica tradizione, un ministro non può mettersi a fare il bello e il cattivo tempo quando l’opinione del momento pretende le maniere forti. La responsabilità operativa appartiene alle istituzioni, e al momento è l’Istituto di salute pubblica a dirigere le danze. Un epidemiologo finora sconosciuto, un grigio impiegato statale in maglioncino, tiene quotidianamente una conferenza stampa per spiegare la situazione. Il governo segue a sua volta le raccomandazioni delle istituzioni.

Un direttore generale se possibile ancor più grigio non fa che ripetere che dobbiamo guadagnare tempo. Se tutti si ammalano contemporaneamente il sistema sanitario collasserà. Più o meno tutti recepiscono il messaggio. Rimane da scegliere una strategia opportuna per appiattire il grafico dei contagi. Finora la situazione è identica in ogni Paese; la differenza è che la Svezia preferisce la libertà di scelta alle costrizioni. Si valuta che sia la strada più efficace, soprattutto pensando alle prossime settimane. O mesi.

All’inizio dell’epidemia vi fu chi chiese di chiudere tutte le scuole, come negli altri Paesi. Ma l’Istituto di salute pubblica valutò che i pro, in termini di minori contagi, non avrebbero superato i contro, in termini di carenza di personale nelle strutture sanitarie. 
In Svezia non ci sono molte casalinghe; quasi tutti lavorano, uomini e donne, e queste ultime sono preponderanti nella sanità. Chiudendo le scuole, si è pensato, molte infermiere sarebbero rimaste a casa coi figli. Inoltre si è immaginato che i ragazzi si sarebbero incontrati comunque, scambiandosi il virus, anche con le scuole chiuse.

Gli studenti più grandi e gli universitari possono seguire le lezioni a distanza senza troppi problemi, così in quel caso si è deciso di chiudere. I pro superano i contro: semplice matematica, che la gente capisce.
Tempo, è tutta una questione di tempo. Alla fine della guerra fredda, quando i neoliberisti avevano il mondo in pugno, i depositi di emergenza svedesi vennero smantellati, dunque anche noi siamo a corto di dispositivi di protezione e di respiratori, non solo di personale sanitario. Ma anche in tal caso interviene la fiducia. Confidiamo semplicemente che l’industria svedese sappia riorganizzarsi rapidamente e produrre quel che manca. Ed è quel che sta succedendo proprio ora.

Che Viktor Orbán dichiari lo stato d’emergenza non sorprende, probabilmente stava aspettando un’occasione simile, e forse sarà necessario ricorrere a misure altrettanto draconiane anche in Francia, Spagna e Italia, ma per molti aspetti la Svezia è diversa. Certo, potremmo anche noi mettere tutta Stoccolma in quarantena e mandare l’esercito a presidiare le vie d’uscita, o fare come i tedeschi e vietare gli assembramenti di più di due persone, ma qui da noi lasciare libertà di scelta funziona meglio. I vaccini per le malattie infantili, per esempio, sono sempre stati volontari. 

Eppure la Svezia è in cima alla classifica: non perché dobbiamo, ma perché vogliamo.
Va anche detto che la Svezia è un Paese omogeneo, dominato da una nutrita classe media benestante, le cui virtù possono essere fatte risalire al proletariato secolarizzato del dopoguerra e a vari movimenti popolari più o meno puritani. Ovvio, anche noi dobbiamo gestire certi ricchi viziati che reputano la settimana bianca più importante di ogni forma di solidarietà e, negli ultimi tempi, un sottoproletariato d’importazione, extraeuropeo, tra cui la povertà e l’affollamento delle abitazioni favorisce il contagio, ma si tratta di fenomeni marginali.

Gli svedesi sono in vasta maggioranza disciplinati, e io sono uno di loro. Nessuno mi vieta di andare a trovare mia madre di 95 anni, che abita in una regione dove i contagi non hanno ancora raggiunto numeri significativi, ma siccome mi si raccomanda di evitare gli spostamenti non lo faccio. Quasi tutti fanno valutazioni simili. E i risultati si vedono. Sappiamo che il contrasto all’epidemia è un questione di equilibrio, tra salute ed economia, e ci fidiamo più di altri dei nostri burocrati.

Forse, mi viene da pensare, c’entra anche il fatto che la Svezia è uno Stato nazionale antichissimo. Lo so, nella nostra epoca il nazionalismo è un flagello, ma il fatto è che la Svezia esisteva già nel medioevo, e credo che le radici della fiducia affondino fin là. Che noi svedesi siamo ingenui perché ci siamo tenuti fuori dalle guerre mondiali del Novecento non mi convince. Le tradizioni vanno ben più indietro nel tempo.

Tra l’altro, siamo più patriottici che nazionalisti. 
È una distinzione importante. 

George Orwell ha scritto una volta, nel 1945, che il patriottismo nasce dall’amore per un certo luogo e per la vita che vi si conduce, ma che non cova mai dentro di sé il desiderio di imporre lo stesso stile di vita agli altri. Di conseguenza, il patriottismo è difensivo e pacifico. Il nazionalismo, invece, che è legato al desiderio di potere politico, può facilmente imboccare la via sbagliata.
Le cose stanno più o meno così. Facciamo quel che possiamo, a modo nostro, al tempo della peste.

Un anno fa mi trovavo sulle colline a Est di Firenze, ospite della Fondazione Santa Margherita di Donnini. Ci rimasi qualche settimana, scrivevo tutto il giorno e poi la sera cenavo, bevevo vino, ridevo e battibeccavo con scrittori italiani, canadesi, irlandesi, inglesi e colombiani. Di rado andavamo d’accordo, ma siamo diventati buoni amici. È così, esattamente così, che si fa politica. Spero di tornare presto. L’isolamento è temporaneo, credetemi.

Fonte: REP.
Traduzione di Andrea Berardini
Fredrik Sjöberg è biologo e scrittore, il suo ultimo libro “Mamma è matta, papà è ubriaco”. Ha pubblicato “L’arte della fuga” e “L’arte di collezionare mosche”

2020/03/30

Vergognosa Italia




Questa è la storia esemplare di un imprenditore italiano che per due settimane ha cercato di fornire allo Stato uno stock di 50 milioni di mascherine professionali (FFP2, FFP3 e Chirurgiche) e che alla fine, respinto dalla burocrazia, sfinito dai centralini telefonici, disorientato da funzionari incompetenti e impiegati pigri, alla fine, si è arreso. Lasciando in Cina un tesoro di 50 milioni di mascherine, abbandonato agli appetiti e alla rapacità del miglior offerente.
Questa storia comincia nella notte tra venerdì 13 marzo e sabato 14. Il nostro imprenditore si chiama Filippo Moroni, come dice lui parla un "indecente cinese" e da quattro anni fa la spola tra Shanghai e Shenzhen dove ha un'impresa locale che opera nell'elettronico e nel ramo delle apparecchiature dentali.

Quel giorno, l'Italia è già precipitata nel panico. Il Paese è chiuso per decreto da 48 ore, la gente è agli arresti domiciliari in casa, e per uscire sono raccomandati guanti di plastica e mascherine, i famosi Dpi (Dispositivi di protezione individuale) che però già non si trovano più da nessuna parte. Non nelle farmacie né tanto meno negli ospedali, dove gli operatori protestano a gran voce (e s'infettano, e si contaminano, e muoiono).

Dall'esperienza maturata vivendo in Cina, Moroni sa che un'"abbondanza controllata" di Dpi sarà l'elemento chiave dell'intera strategia di prevenzione. E soprattutto sa che, se non ci muove con assoluta tempestività, presto sarà impossibile trovarne sul mercato. In quel preciso, irripetibile, momento, invece, lo scenario internazionale è paradossalmente favorevole all'Italia e al soddisfacimento del suo bisogno primario: l'Occidente ancora non ha capito quanto grave sia la minaccia che pende sulla sua testa, Boris Johnson straparla di immunità di gregge, Trump la considera un'influenza stagionale e gli altri paesi pensano che la cosa riguardi solo Roma. Che dunque, mentre da un lato è isolata politicamente, quello stesso isolamento la pone nelle condizioni di essere l'unica a poter giustificare internamente ogni tipo di misura per accaparrarsi mascherine. Roma dunque si trova quindi sul mercato con una misura di vantaggio di due settimane sugli altri stati.

"La richiamiamo noi"

Così Moroni si muove: contatta i suoi referenti a Shenzhen e Hong Kong e comincia a cercare quanti più stock possibile. Nel giro di 48 ore trova il modo di consorziare 21 aziende locali in una rete capace di produrre a regime fino 2 milioni di mascherine al giorno e dopo una call di un paio d'ore raggiunge un accordo di massima per la fornitura di 50 milioni di pezzi certificati CE ad un costo che si rivelerà poi meno della metà della base d'asta indetta da Consip.
Il primo stock da due milioni è già disponibile nell'hangar vicino all'aeroporto, bisogna solamente mandare un aereo a prenderle. Tanto per dare un'idea delle proporzioni dell'operazione, il fabbisogno nazionale mensile di mascherine, in questa crisi, è stato stimato intorno ai 90 milioni.
L'imprenditore contatta dunque il suo naturale referente: la Protezione Civile. Lo fa via mail. E' sabato notte. 

La missiva viene mandata ad Angelo Borrelli e al suo staff. Ma nessuno risponde. Domenica 15 marzo, la mail viene inoltrata di nuovo, con i prezzi aggiornati: il mercato internazionale è di solito più sensibile ai segnali inviati dal mondo reale rispetto alla politica, e comincia a svegliarsi. Sale la domanda, salgono i prezzi.
Ma anche la seconda mail cade nel vuoto. Moroni si dà da fare, chiama direttamente la Protezione Civile. Dopo parecchi minuti di musichetta d'attesa, risponde un impiegato. Ho 50 milioni di mascherine al prezzo di costo, dice subito l'imprenditore. "Ah si, la richiamiamo noi". 

Non richiama nessuno. In serata, telefona di nuovo. Ancora niente.
Lunedì mattina di buon'ora dalla Cina contattano di nuovo l'imprenditore. Il mercato si sta agitando, i prezzi lievitano. Moroni legge i giornali con il solito drammatico bollettino, quello che abbiamo imparato a conoscere, con gli appelli sempre più disperati dei medici in corsia, "ci mandano alla guerra a mani nude, abbiamo bisogno di Dpi". Si innervosisce, manda la settima mail a otto destinatari diversi con la sua proposta, perché i prezzi ormai vengono aggiornati almeno due volte al giorno. Ma niente, un sasso in un pozzo.

"Con le mascherine stiamo a posto"

Il giorno dopo chiama ancora. Stavolta risponde Mario Ferrazzano, ufficio acquisti della Protezione Civile: "Ci scusi - dice - riceviamo miliardi di mail, mi faccia un sunto delle sue". Moroni spiega di nuovo di avere a disposizione 50 milioni di mascherine. Ferrazzano dice che però ci sono problemi per il pagamento, perché lo Stato non può pagare anticipatamente dall'Italia - come vorrebbero i cinesi - né può mandare qualcuno lì a pagare contestualmente, e quindi se Moroni vuole aiutare deve anticipare circa 25 milioni di dollari di tasca sua. E comunque, dice Ferrazzano, "con le mascherine stiamo abbastanza apposto, ne abbiamo trovate una trentina di milioni, un terzo FFP3, due terzi FFP2". L'Italia sguazzerebbe in un mare di mascherine, a sentire Ferrazzano. Per non parlare delle chirurgiche: "Quelle ormai le prendiamo solo in seconda battuta perché stiamo già a posto".

In realtà non è vero niente: come noto, ancora oggi, quasi quindici giorni dopo quella telefonata, la Protezione Civile brancola nel buio più totale, dipende dalle caritatevoli donazioni del ministero cinese e le uniche mascherine che girano sono le famigerate Montrasio, quelle fatte con il tessuto antipolvere per pulire i mobili che Fontana ha definito carta igienica e De Luca "le mascherine del coniglietto Bunny". Per una chirurgica marchiata CE, gli operatori sanitari di molte regioni pagherebbero oro.

E' tutto fermo per Invitalia

Moroni non si dà per vinto. Non è soddisfatto delle risposte di Ferrazzano, e non riuscendo a parlare con Borrelli, prova a contattare direttamente il neo commissario Domenico Arcuri, il quale però dice di non volersi assumere il rischio di procedere all'acquisto senza il consenso del Istituto Superiore di Sanità. "Le mascherine sono CE non c'è bisogno di nessun ok, solo del suo", insiste Moroni. 

Ma Arcuri ha deciso che la strada è la gara Consip e non si assume la responsabilità di procedere: "Non voglio andare in galera". La telefonata è drammatica: Moroni fa notare al commissario che i suoi poteri sono Straordinari proprio perché siamo in emergenza e ha il pieno potere di fare cose straordinarie, saltare la burocrazia e fare un bonifico per comprare le mascherine. Ma non c'è verso. Viene rimandato allo staff che poi passa "il problema" all'ufficio acquisti della Protezione Civile che cade dalle nuvole. E si ricomincia da capo.

E' ormai martedì, i prezzi continuano a salire. Usa e Brasile hanno mandato buyer in Cina con valigie piene di contanti per comprare cash mascherine, guanti, ventilatori per affrontare la pandemia che, ormai è chiaro, presto arriverà anche da loro. Moroni non se ne fa una ragione, tiene fermo lo stock a Shenzhen e insiste con la Protezione Civile. Risponde di nuovo Ferrazzano: "E' tutto fermo - dice infastidito - alla luce del decreto legge stanno definendo le nuove procedure con Invitalia... quindi niente... Se vuole mandi di nuovo la sua proposta, ma per adesso è tutto fermo. E' entrata Invitalia, stiamo attendendo istruzioni su come ci si muoverà. Aspettiamo un po'. C'è il commissario straordinario... I poteri adesso li ha lui. La questione è salita di livello".

Medium, Large, Extra Large

Ma l'imprenditore sa che non si può più aspettare. Mentre in Italia i medici muoiono in corsia, mentre la gente, pure vivendo ai domiciliari si infetta nei supermercati perché da settimane non si trova nulla per proteggersi o è costretta a riutilizzare la stessa mascherina, sul mercato i prezzi si impennano e in mancanza assoluta di offerte, gli speculatori invadono la scena. Se la strada della Protezione Civile è bloccata dal conflitto burocratico tra Borrelli e Arcuri, Moroni si rivolge altrove. 

Le prova tutte, scrive a Confindustria, alle Regioni Puglia, Lazio, Lombardia, alle Asl ma il nodo burocratico è talmente stretto che nessuno riesce a scioglierlo. Specifica in ogni sua email che opera "pro bono", senza alcuna commissione, e che il suo ruolo sarà solo quello di mediatore tra la Protezione Civile (che non può acquistare direttamente) e i cinesi, mettendo anche a disposizione la sua licenza export medicale indispensabile per sdoganare quei 7 Boeing interi di materiale. 

Alla fine, potrà contare qualcosa come 120 mail inviate. Tutte cadute nel vuoto. Le 
uniche risposte sono solo telefoniche: "Attendiamo direttive", "Ormai le abbiamo comprate", 
"Abbiamo aggiudicato la gara Consip", "Le stiamo spedendo", "Stanno arrivando".
Il giorno della resa definitiva è giovedì. Alla fine di una estenuante telefonata con una funzionaria della Regione Lazio, che prende tempo perché deve dirimere il problema dell'IVA sulle mascherine, Moroni chiede conferma sulla certificazione richiesta dagli uomini di Zingaretti: "che classe di protezione vi serve?" La risposta è spiazzante: "Guardi non lo so... ma mi faccia controllare se ho altre offerte. Ah, si, ecco... le classi di protezione sono tre: M, L, XL". Confondendo evidentemente il dato con la taglia.

"Qualcosa è andato storto"

Riagganciato il telefono, Moroni decide di arrendersi non prima però di aver raccontato alla stampa la sua vicenda. Repubblica ha potuto così consultare tutte le mail inviate nel corso dell'intera settimana, osservare i video della produzione cinese e dello stock in attesa a Shenzhen (che nel frattempo è stato comprato dal Brasile) e appuntare i resoconti delle molte telefonate intercorse. 

Poi ha contattato lo staff del commissario Arcuri per capire che cosa possa davvero essere accaduto e come mai la proposta dell'imprenditore non sia mai stata nemmeno presa seriamente in considerazione a fronte di una situazione disastrosa, con il bilancio dei medici morti in corsia in continuo aggiornamento.

In un primo momento la risposta è stata vaga: "Abbiamo passato le proposte all'ufficio contratti che ha valutato di non procedere". Di fronte alla richiesta di ulteriori chiarimenti è infine arrivata un'ammissione piuttosto grave: "Non abbiamo capito come sia potuto succedere, di solito queste cose passano attraverso le valutazioni di una commissione tecnica che deve valutare la proposta, ma non abbiamo trovato i verbali che riguardano questo caso.

Qualcosa deve essere andato storto.

Mi vergogno di questa Italia!

2020/03/27

Avancer par peur




C'est la stratégie mondialiste. La peur est visiblement la seule étant susceptible de faire accepter aux gens ce qu'ils n'accepteraient pas en temps normal. C'est comme ça qu'ils nous auront.

Une pandémie majeure ferait surgir la prise de conscience de la nécessité d'un altruisme, au moins intéressé.

L'Histoire nous apprend que l'humanité n'évolue significativement que lorsqu'elle a vraiment peur : elle met alors d'abord en place des mécanismes de défense ; parfois intolérables (des boucs émissaires et des totalitarismes) ; parfois futiles (de la distraction) ; parfois efficaces (des thérapeutiques, écartant si nécessaire tous les principes moraux antérieurs). Puis, une fois la crise passée, elle transforme ces mécanismes pour les rendre compatibles avec la liberté individuelle et les inscrire dans une politique de santé démocratique.

La pandémie qui commence pourrait déclencher une de ces peurs structurantes.

Si elle n'est pas plus grave que les deux précédentes frayeurs de ces quinze dernières années liées à un risque de pandémie (la crise de la vache folle en Grande-Bretagne et celle de la grippe aviaire en Chine), elle aura d'abord des conséquences économiques significatives (chute de l'activité des transports aériens, baisse du tourisme et du prix du pétrole); elle coûtera environ 2 millions de dollars par personne contaminée et fera baisser les marchés boursiers d'environ 15 %; son impact sera très bref (lors de l'épisode de la grippe aviaire, le taux de croissance chinois n'a baissé que pendant le deuxième trimestre de 2003, pour exploser à la hausse au troisième); elle aura aussi des conséquences en matière d'organisation (toujours en 2003, des mesures policières très rigoureuses ont été prises dans toute l'Asie; l'Organisation mondiale de la santé a mis en place des procédures d'alerte à l'échelle planétaire; et certains pays, en particulier la France et le Japon, ont constitué des réserves considérables de médicaments et de masques).

Si l'épidémie est un peu plus grave, ce qui est possible, puisqu'elle est transmissible par l'homme, elle aura des conséquences véritablement planétaires: économiques (les modèles laissent à penser que cela pourrait entraîner une perte de 3 trillions de dollars, soit une baisse de 5 % du PIB mondial) et politiques (en raison des risques de contagion, les pays du Nord auront intérêt à ce que ceux du Sud ne soient pas malades, et ils devront faire en sorte que les plus pauvres aient accès aux médicaments aujourd'hui stockés pour les seuls plus riches); une pandémie majeure fera alors surgir, mieux qu'aucun discours humanitaire ou écologique, la prise de conscience de la nécessité d'un altruisme, au moins intéressé.

Et, même si, comme il faut évidemment l'espérer, cette crise n'est pas très grave, il ne faudra pas oublier, comme pour la crise économique, d'en tirer les leçons, afin qu'avant la prochaine - inévitable - on mette en place des mécanismes de prévention et de contrôle, ainsi que des processus logistiques de distribution équitable des médicaments et de vaccins. On devra, pour cela, mettre en place une police mondiale, un stockage mondial et donc une fiscalité mondiale. On en viendra alors, beaucoup plus vite que ne l'aurait permis la seule raison économique, à mettre en place les bases d'un véritable gouvernement mondial. C'est d'ailleurs par l'hôpital qu'a commencé en France, au XVIIe siècle, la mise en place d'un véritable Etat.

En attendant, on pourrait au moins espérer la mise en oeuvre d'une véritable politique européenne sur le sujet. 

Mais, là encore, comme sur tant d'autres sujets, Bruxelles est muet.

2020/03/22

la vita difficile del COVID-19




Quanto sappiamo della sopravvivenza del coronavirus fuori dal corpo?
I virus hanno bisogno di abitare un organismo per sopravvivere e moltiplicarsi. Fuori dal corpo umano il coronavirus è destinato a morire. Ma quanto tempo fosse necessario a debellarlo fino a ieri era ignoto. Si sono fatte stime basate su altri virus, alcune eccessive (si è detto che potesse resistere 9 giorni). Ora è stato condotto il primo esperimento proprio con l’attuale coronavirus. Gli autori sono gli scienziati del laboratorio di virologia del National Institute of Allergy and Infectious Diseases: l’Istituto americano per le malattie infettive. I risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, una rivista scientifica, il 17 marzo.

Quali sono i risultati?
Il virus sopravvive nelle goccioline nell’aria fino a tre ore. Sulle superfici la sua durata dipende molto dal materiale. L’esperimento americano ne ha presi in considerazione quattro: il rame (durata massima di 4 ore), il cartone (durata massima 1 giorno), plastica e acciaio inossidabile (durata massima 3 giorni). Non è chiaro perché il virus trovi una superficie più ostile di un’altra e gli esperimenti sono stati condotti a temperatura e umidità ambiente. Se il clima è freddo e secco, la sopravvivenza tende ad aumentare. Il sole diretto riduce invece la contaminazione di un oggetto. Il tempo in cui la quantità di virus crolla comunque è molto rapida: su tutte le superfici si dimezza in poche ore. La diminuzione più rapida avviene nell’aria, dove la quantità di particelle si dimezza in circa un’ora.

Quali sono i consigli pratici che ne derivano?
Il dato che più richiama alla cautela è quello dell’aria, dove si pensava che il virus si dileguasse in tempi più rapidi (qualche minuto). «Dobbiamo fare attenzione agli ambienti chiusi», avverte Carlo Federico Perno, virologo dell’università di Milano. «La via di trasmissione attraverso il respiro resta molto più importante di quella attraverso gli oggetti. Siamo di fronte a un virus molto efficiente e rapido in termini di propagazione. Se una persona infetta respira per un certo tempo in un ambiente chiuso, l’aria se ne riempirà anche senza bisogno di tosse o starnuti. Sarebbe buona norma aprire spesso le finestre (e la primavera in arrivo aiuta), oltre a evitare luoghi dove il ricambio è scarso, come per esempio gli ascensori». I dati del New England Journal of Medicine sono stati registrati in laboratorio, in condizioni “artificiali” ed è difficile tradurli in consigli dettagliati in termini di metri o di minuti, per le stanze o gli ascensori di ciascuno di noi. «Chi deve restare a lungo in ambienti chiusi, affollati e poco ventilati, dovrebbe indossare la mascherina, che invece è inutile all’aria aperta» suggerisce Perno.

Quali sono i consigli per gli oggetti che tocchiamo?
«La via respiratoria resta in assoluto la più pericolosa per il contagio», non si stanca di ribadire Perno. Toccare una superficie contaminata e poi portare le mani al viso è una possibile via di contagio. «Ma la consideriamo meno frequente» conferma Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia. Il fatto che il virus sopravviva su un oggetto fino a tre giorni, poi, non vuol dire che l’oggetto sia contagioso per tre giorni. Alla fine, la quantità di virus che resta è fra mille e diecimila volte inferiore a quella iniziale: insufficiente per infettare. Per sapere dopo quanto tempo un oggetto smette di essere contagioso dovremmo conoscere la quantità di virus che vi era stata depositata all’inizio e la quantità di virus necessaria a far ammalare un individuo: variabili che restano ignote. «Questo virus ha pochissimi mesi di vita, molti dati semplicemente non li abbiamo mai misurati» fa notare Maga. «Il consiglio per evitare la contaminazione dagli oggetti - conferma Patrizia Laurenti, professoressa di Igiene all’università Cattolica di Roma e al Policlinico Gemelli - resta quello di lavarsi le mani».

Frutta e verdura cruda possono essere contagiose?
Il coronavirus si trasmette dalle vie respiratorie. Ma per precauzione, viste le incertezze cui siamo di fronte, può avere senso fare attenzione ai cibi crudi. «Lavare l’insalata tre volte, lasciandola a bagno alcuni minuti è sufficiente a eliminare i virus, che nell’acqua trovano un ambiente ostile», consiglia Maga. Dove si mangia e cucina, è utile tenere le superfici pulite, prima ancora che disinfettate. «Negli ambienti sporchi i microbi si nascondono meglio. I disinfettanti potrebbero non raggiungerli» dice Laurenti. Facendo la spesa, si rischia di toccare oggetti contaminati (in Cina nella fase più acuta si misero in quarantena perfino le banconote). Per evitare rischi, resta il consiglio di non toccarsi il viso e lavarsi le mani appena possibile.

fonte: Repubblica