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2013/07/08

Ambizioni pericolose!

L'illusione di sentirsi indispensabili, la certezza di non aver raggiunto gli obiettivi dei propri genitori, quale inganno quella vita! 

L’ispirazione per scrivere questo articolo mi è venuta a seguito di un increscioso fatto di cronaca. In Francia, a Grenoble è morto un ragazzo di dodici anni, più che una promessa italiana del free climbing, sport affascinante per uomini (e donne) duri, allenati, forgiati, pronti a tutto e con un coraggio da leoni.
Il ragazzo, leggo su un quotidiano, ha perso la vita a seguito di una caduta da un’altezza di venti metri mentre si allenava su una parete verticale utilizzando, pare, attrezzature non sue. Non entro nell’argomento specifico, l’analisi delle colpe e responsabilità di chi ha causato la morte di un giovane uomo all’inizio di una lunga vita non mi compete, e ogni riferimento all’evento finisce qui. Mi duole tuttavia ricordare che, dove non arriva il caso, a volte arriva l’ambizione parentale a creare scompensi nella vita dei nostri figli.

Non è mai facile prospettare una vita di successo per i figli, tutti i genitori lo vorrebbero, per questo spesso assistiamo a proiezioni, spezzoni inediti di film della loro vita dove credono di vederli realizzati e soddisfatti secondo il loro personale metro e quasi mai immedesimandosi nei desideri dei figli.
Mi si dirà che è parte del gioco della vita, che i genitori, purtroppo, non sempre riescono a realizzarsi e vedono nella progenie la continuazione di loro stessi, una continuazione che raggiunge quegli stessi obiettivi mancati magari per un soffio. Quegli stessi genitori non appena hanno un figlio, e badate non importa se maschio o femmina, ecco che  tendono a investire molti dei loro desideri sui figli, mettendo così una seria ipoteca al loro destino, io non credo al destino, non sono fatalista ma, sono sicuro, ognuno ha segnato dentro il proprio DNA un percorso, non dettagliato, nemmeno una strada, una guida, che molto probabilmente seguirà nel corso della propria vita inconsciamente, fino a realizzare quello per cui era nato. Non fraintendetemi. Chi nasce con la predisposizione per la musica, diventerà probabilmente un musicista, e lo stesso sarà per chi è predisposto al canto, alla pittura, all’arte in genere. Ma se quell’individuo lo si condiziona a seguire le ambizioni parentali, magari per creare un tennista, ecco che avremo prodotto un insoddisfatto per il resto della sua vita, anche se essere un tennista gli procurerà soldi e fama.

Quando si "aspetta un figlio" è inevitabile che i genitori comincino a pensarlo e a immaginarlo, appoggiando su di lui anche quelle idee che riguardano le caratteristiche fisiche e psicologiche che vengono considerate positive dai genitori, al punto che vorrebbero possederle loro stessi. In questo modo si soddisfano due principi fondamentali: il primo riguarda il desiderio che il figlio somigli a loro, magari non a entrambi, almeno a uno di loro attingendo a piene mani a tutte le caratteristiche positive del genitore maggiormente prestazionale, in alcuni casi addirittura i genitori sperano che il nascituro abbia migliori caratteristiche e potenzialità e, di conseguenza, sia in grado di superarli nella vita. Psicologicamente parlando questo è del tutto normale nella fase di gestazione, è capitato anche a me, anzi, esistono scuole di pensiero che giudicano positivo questo approccio in quanto sembrerebbe garantire Ia creazione del collegamento tra madre e figlio e tra il mondo esterno e il bambino. Essere fantasticati indica infatti il sentirsi importanti ed amati ancora prima di essere visti e questo è fondamentale poiché apporta senza dubbio Ia sensazione di partecipazione che andrà a creare il pacchetto sicurezza e serenità; come se vi fossero più possibilità di accedere al mondo quando si è confortati dall'essere desiderati ed amati ancor prima di nascere.

Arriviamo dunque al tema trattato in questo scritto, vale a dire i genitori che non accettano un figlio che abbia attitudini diverse da quello che si aspettano e hanno coltivato nella loro testa. Capita di trovare genitori che aspettano figli che, per loro sfortuna, sono gia candidati a diventare medico o insegnante, sportivi in determinate categorie e questo senza che II genitore abbia Ia minima consapevolezza del danno che arrecherà al proprio figlio. Certamente esiste la buona fede, nessun genitore in effetti vuole il male dalla progenie, semmai cerca di evidenziare, si spera, alcune caratteristiche che sono già proprie, le si coltiva con speranza, si spingono i figli a seguire in qualche caso le orme paterne, iniziando da giovanissimi, rubando tempo al gioco e divertimento, magari allo studio, alle amicizie, alla socializzazione, per diventare infine una macchina da soldi, per vincere, prevalere rispetto ai coetanei e non solo loro. A che pro?
Il genitore in questo modo si convince di poter spianare Ia strada ai figli, annullando le loro vocazioni, dirottando le risorse che essi possiedono, investendo il loro tempo alla ricerca della soddisfazione non già propria ma del genitore più accanito a raggiugere i propri obiettivi dimenticandosi di quelli dei figli. 

Succede così, chi non ha avuto Ia possibilità di studiare, spera che il proprio figlio completi gli studi e si augura possa riscattare questa sua mancanza, macchia; e lo stesso discorso potremmo applicarlo alle velleità artistiche che soddisfino il proprio desiderio insoddisfatto; chi voleva fare sport non vede l'ora che il figlio cresca un minimo per poterlo avviare nell’attività sportiva che tanto si ama e quindi lo plasma in modo preciso ignorando decisamente caratteristiche del figlio che, invece, potrebbero esprimersi al meglio in altri ambiti.
In particolare è sempre il primo figlio, di questi tempi anche unico per scelta, perché un fratello o una sorella potrebbero distrarre le risorse, vedi tempo e quattrini, affetto, predisposizione, determinazione, socializzazione. Allora meglio uno che focalizzi su di se tutte le risorse e aspettative parentali. Meglio se è maschio, ma succede anche quando è femmina, per incarnare il massimo delle proiezioni parentali candidandosi quasi sempre, senza saperlo, a sentirsi infelice e non realizzato. 

Sarebbe fondamentale provare a cogliere, comprendere, sviluppare l'autorealizzazione, quella che è sempre presente nella nostra mente, all’ultimo scalino di quella scala virtuale che rappresenta la scala dei valori di ogni individuo, strettamente dipendente dalla vocazione che, invece, può essere collocata un gradino più in basso. La vocazione si basa su precise risorse che si rivelano nei primi anni di vita, non sono sempre evidenti, si manifestano occasionalmente, bisogna essere capaci di coglierle, di conservarle, di raffinarle e opportunamente svilupparle, possono veramente diventare capacità in grado di riempire Ia vita di una persona.

Parlo di un esempio. Mio figlio. Fin dal primo anno di vita ha avuto una venerazione per i cavalli, non è casuale, attorno a casa mia, in particolare d’estate, qualsiasi spazio aperto si riempie di cavalli, maneggi all’aria aperta per felici possessori di quadrupedi per lunghe cavalcate nella brughiera, nei boschi, nelle vallate. Attorno ai due anni innamoramento da dinosauri, possiede una collezione degna di un paleontologo, gioca con essi, li conosce uno per uno. Se all’inizio potevo pensare a una carriera nell’ambito equestre ecco che nemmeno un anno dopo potrei pensare a una vita da paleontologo? Magari studiando in prestigiose università americane a stretto contatto con chi ha trasformato la propria vita in scienziato? E che dire della passione per internet? A tre anni era in grado di cercare sul fido iPad le application adatte alle proprie necessità di gioco. Tre anni signori, qualcuno già potrebbe immaginare un novello Bill Gates, ricco da far paura, magari insoddisfatto nonostante tutto?

Troppo presto. I bambini sono volubili, quello che può piacere oggi domani è superato, focalizzarsi su una caratteristica dimenticando volontariamente tutte le altre sarebbe deleterio, potrebbe creargli insoddisfazioni tali da accompagnarlo per tutta la vita. Ecco, come genitore ho considerato fondamentale evitare di mettere addosso a mio figlio aspettative irrealistiche. Sto cercando di propormi come un vero e proprio educatore, resto a guardare quello che spontaneamente mio figlio mostrerà di preferire, dove eccellerà e a quel punto mi occuperò di aiutarlo a coltivare le sue preferenze per renderle evidenti.

Se i genitori non si pongono in questi termini, vale a dire individuare le loro attitudini, i figli non verranno lasciati liberi e faticheranno ad esprimere ciò che hanno dentro, anzi, spesso soffocheranno le lore reali potenzialità per abbracciare capacità che in realtà non gli appartengono, solo per dare soddisfazione al proprio genitore. Ricordiamoci che i figli si specchiano in noi, spesso seguono i nostri desideri con l’idea di soddisfarci, di renderci felici e, troppo spesso, travalicano questa attitudine, dimenticandosi della propria vita, di quella che hanno davanti, che non conoscono perché non possiedono l’esperienza che, invece, i genitori dovrebbero avere e trasmettere ai figli in maniera neutrale. In questa modo, certi genitori forgeranno inevitabilmente il destino dei loro figli manipolando Ia loro natura, plasmando e costruendo qualcosa che in realtà non esiste e di conseguenza, sarà forzato. 

Quando vi sono queste situazioni i figli si trovano poi a provare sensi di inadeguatezza, non solo, quasi sempre finiscono poi per non trovarsi assolutamente bene nell'ambiente lavorativo in modo tale da arrivare un giorno a lasciare e rientrare nella loro vocazione. E' proprio da queste situazioni che nascono grandi difficoltà e percezioni di non essere all'altezza e di non valere, poiché non vengono utilizzate risorse proprie ma attingendo a un bagaglio che non gli appartiene, obbligandosi a faticare il doppio per sviluppare qualità che non possiedono e che richiederanno anni di Iavoro sempre con Ia sensazione di essere fuori posto.

Ecco che nascono situazioni dove l’individuo non si riconosce nel vestito che gli è stato cucito addosso, e ovviamente, non della propria misura. Tutto questo sembra facile da ottenere fin quando è il genitore mentore a tirare le fila, a governare la crescita del bambino secondo i propri voleri e, come ben sappiamo, in questo il genitore ha gioco facile, il figlio ha il desiderio prioritario di essere accettato rispetto a qualunque altro. Si mostrerà disponibile a essere manipolato, per accontentare i genitori, per non deluderli. II vero problema è che, a quel punto, il bambino si trasformerà, medicherà, amputerà e falserà le emozioni, sentimenti e pensieri nel tentativo di essere come i genitori desiderano. 

Questi problemi nascono dalle eccessive ambizioni che il genitore ripone sui figli, dai quali si aspetta quasi un risarcimento sociale per qualcosa che non ha potuto intraprendere o che non è riuscito a essere lui stesso a suo tempo. E' questo il caso dei bambini che hanno già un destino segnato ancor prima della nascita e che, fin dall'infanzia si troveranno pressati da genitori che puntano troppo sulle prestazioni, investendo il tempo in modo esagerato, mostrando delusione quando i figli sbagliano, quando non rispondono nel modo desiderato.

In una società che sta diventando sempre piu aggressiva in cui l'unica cosa importante è il successo, accompagnato dal denaro e dall'immagine, molti genitori spingono i loro figli a diventare qualcuno, mostrando acutamente Ia disillusione se poi questi non sono all'altezza o se sono troppo poco competitivi, se non sono ambiziosi. In questi casi i figli avvertono pienamente di dover riempire un profondo vuoto parentale che, a sua volta, li svuoterà completamente lasciandoli perennemente insoddisfatti alla perenne ricerca di compensazioni.

È umano sognare che i propri figli raggiungano gli obiettivi che non siamo stati capaci noi stessi di raggiungere, non lo è affatto pretendere che questa accada nella realtà premendo sull'acceleratore affinchè essi gratifichino appieno le ambizioni degli adulti. Occorre ricordare che il bambino deve poter sempre restare nella dimensione del gioco, e mantenere un rapporto chiaro con il divertimento e con Ia spontaneità. Rubare questi anni preziosi significa creare dei futuri infelici che si sentiranno privati di una parte importantissima della vita e che non riusciranno a trovare cio che veramente avrebbero voluto. I figli tendono per natura a compiacere gli altri, proprio perche hanno Ia necessità di piacere e di essere amati; se tuttavia predomina questa parte, non se ne faranno nulla dei successi, perche non sapranno apprezzarli in quanta verranno visti come ciò che li rende infelici e diversi dagli altri. E perderanno in un labirinto di sogni il desiderio del raggiungimento di una realizzazione personale.

Permettete ai vostri figli di crescere, di giocare, di essere liberi di scegliere. Sarà questo un dono prezioso che servirà a plasmare la loro futura personalità, sviluppare Ia fantasia, crescere la creatività e Ia fiducia nel mondo. 

La vita va vissuta al meglio delle proprie aspettative, non quelle dei genitori, tantomeno quelle degli altri. I genitori in quanto educatori devono coltivare le caratteristiche dei propri figli, aiutandoli nelle scelte per un futuro che si adatti ai loro desideri, potranno guidarli, suggerire loro una strada migliore, fornire una mappa, indicare le scorciatoie quando sono positive, quando sono utili, mai imporre perché a guidare saranno sempre i nostri figli, è giusto così. 

2013/07/01

Il Sottile Piacere

Il sottile piacere di cui vado a trattare in questo mio faticoso esercizio è quello dell’essere e non apparire. C’è chi lo pone come un problema, essere o apparire, il grande Shakespeare lo riduceva a “essere o non essere” che voleva dire sostanzialmente che sei solo quando sei, e non sei, quindi sembri quando non sei. Questo confonde mi si dirà, ma se io intendo trasferire il tutto alle modalità dell’animo e la voglia di fare apparire queste in modo diverso dalla verità con lo scopo di affermarsi nella società, ecco che allora cogliereste al volo un modo di pensare comune che è dato dall’eguaglianza “io sono = ciò che ho”.

La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi è destinata a scoprire l'illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita. La vita di un uomo è immediatamente ciò che è, che può anche sembrare, quindi un’apparenza se l’osservatore non è l’uomo stesso ma un esterno, inteso come occhio. Quello che io sono lo conosco solo io, potrei anche allargare la conoscenza di me stesso a chi mi sta vicino, ma anche in questo caso potrebbe essere relativo, per cui, torniamo al problema iniziale: essere e non apparire, un sottile piacere di sembrare quello che che non si è per assomigliare a un modello esistenziale che attira ma che non convince, o che convince ma non attira che poi non è. In altre parole l’uomo rifiutando ogni impegno continuato, cerca l’attimo fuggente della propria realizzazione all’insegna della novità e dell’avventura, avventura dello scoprire quello che potrebbe essere e non necessariamente quello che è poiché si suppone lo conosca già .

Siamo dunque tutti esteti, secondo il principio dell’esistenza di Kierkgaard il quale suddivideva l’esistenza in stadi tra i quali appunto “lo stadio estetico”. L’esteta, cioè chi appare senza essere, si propone di trasformare la propria vita in un’opera d’arte bandendo la noia, la monotonia e il ripetersi di eventi con poco o scarso interesse dove invece possano trionfare le emozioni forti. E qui torniamo all’apparire invece che all’essere, sarebbe come dipingere di rosso una Fiat cinquecento e dire a tutti che a dispetto di quello che vedono si tratta di una Ferrari?  No, tuttavia al di là dell’apparenza gioiosa e brillante, la vita “estetica” o meglio l’apparenza, è destinata alla noia nonchè al fallimento esistenziale. Perché questo? Sempre Kierkgaard dice, anzi afferma, ci prova, che vivendo attimo per attimo quindi evitando a uno a uno i pesi di scelte impegnative (ergo scegliendo di non scegliere) si finisce per rinunciare a una identità identificabile come propria e per cui si finisce per avvertire un senso di vuoto nella propria esistenza. Quindi meglio essere che apparire?

Dovendo scegliere preferisco esistere, quindi essere. Essere me stesso in ogni dove, anche quando scrivo che poi è il mio essere come mi vedono i lettori, se volessi semplicemente apparire sarebbe sufficiente copiare a piene mani un testo da qualche autore sconosciuto e venderlo per mio, il risultato esteriore potrebbe essere lo stesso anche se la sostanza cambia. Un esempio calzante potrebbe essere di quello che presenta un manoscritto a un editore per la pubblicazione e questi gli risponde che Il suo manoscritto è sia bello che originale, ma le parti belle non sono originali, e quelle originali non sono belle. Allora scegliere non è una semplice manifestazione della personalità ma costituisce la personalità stessa. Questo momento Kierkgaard lo chiama “stadio etico”, cioè il momento nel quale l’uomo scegliendo di scegliere, ossia prendendo una responsabilità della propria libertà, si impegna in un determinato compito. Questo stadio implica al posto della ricerca dell’eccezionalità dell’uomo comune, la scelta della ricerca della normalità e della semplicità. 

L’esistenza dell’avere insieme a quella dell’essere costituiscono le due forme potenziali della natura umana, che per spinta biologica della sopravvivenza preponderante rispetto a ogni altra forma esistenziale semplice o complessa possa sembrare più propensa alla modalità dell’avere. Se parla di disperazione come rapporto dell’uomo con se stesso allora vuol dire  che se l’io vuol essere se stesso non giungerà mai all’equilibrio; al contrario se non vuol essere se stesso urta anche qui in un’impossibilità di fondo. Ovunque si possa guardare quindi ci si imbatterà nella disperazione perché  diventa il vivere  senza l’io interiore, quindi artefando il supremo segreto stesso della vita umana. 

Sono e perciò esisto ma se non sono alla fine cosa resta di me stesso? L’apparenza?  Verrebbe da dire che la negazione del tentativo umano di rendersi autosufficiente diventa una fuga da tutto quello che rappresenta se stessi, quindi evadere dal proprio io per immedesimarsi in un altro io, nel modello a cui si vorrebbe assomigliare senza essere. Materia da psicoanalisti specializzati in deviazioni della personalità. E tralasciamo la filosofia, questa troverà da se la soluzione anche attaccandosi alla ricerca di quella disperata fede in se stessi che manca all’esteta impegnato com’è a apparire invece che essere che, alla fine sarebbe anche più semplice. L’uomo per non essere egoista deve ritenersi non autosufficiente, ma dipendente da altri e compiere scelte responsabili in relazione a chi sta peggio, quindi deve personificarsi non come amico ma come unità dell’essere. Voler sembrare autentici, essere, in un mondo virtuale può sembrare un paradosso, tuttavia la consapevolezza della propria umanità non si cancella in ognuno di noi per cui siamo ancora qui a permetterci queste riflessioni esistenziali. Non è facile, in un mondo confuso, riuscire ad essere chiari e la semplicità non è una prerogativa umana.

Per fortuna vivere non è una sequenza di "in" e "off" anche se questo a volte vuol dire crisi e sofferenza. Siamo umani e pertanto soffriamo di delusioni e dolori, fallimenti e frustrazioni inevitabili nella loro periodicità, verrebbe da pensare anche quando si vorrebbe evitarli. In qualche momento della vita, potremmo cercare o credere o illuderci che tutto possa essere migliore. Anche se non tutto e non completamente. Lo sappiamo che la vita è dura, siamo fortunati e comprendiamo che non è terribile o tremenda, anzi che la vita sia bella nonostante tutto lo vanno dicendo da migliaia di anni tutti i saggi e anche chi saggio non è. Ma dire che è semplicemente dura e difficile sarebbe un eccesso, la vita è vita comunque la si prenda e sta a noi comportarci affinché possa sembrare di essere differente. Questo per dire che essere è difficile perché richiama la nostra complessità, ma proprio per questo è anche una scommessa che attira la nostra consapevolezza; è parte della nostra umanità.

2013/06/25

60 e non per tutti

Quando su Facebook un amico compie gli anni, in genere gli "propino" la storiella della Terra che ha completato il giro attorno al sole. Parafrasando, quel giro diventa il cammino da noi percorso intorno alla nostra stella. Colei che ci da vita. Il nostro viaggio ogni anno ha un inizio e un termine, un attimo di sosta e si riparte per il viaggio successivo che altro non è che la ripetizione del precedente che sarà comunque uguale a quelli che verranno. Tutti uguali, tutti attorno al Sole, l'unica vera certezza nelle nostre vite, simili ma non uguali, percorriamo lo stesso virtuale cammino attorno al sole per ritrovarci tutti assieme un anno piu' vecchi.
È il destino dell'umanità, mio, tuo, nostro, vostro.

Eccomi qui. Ho 60 anni ma non mi sento vecchio, amo la vita e quello che riesce a darmi, mi piace la l’aria, l’acqua, il cielo e le nuvole, le verdi distese e quelle imbiancate di neve, una bella nuotata in piscina, lunghe passeggiate. Un figlio ringiovanisce, d'un colpo mi toglie dieci anni all'anagrafe. Mi sento giovane dentro e fuori. E poco importa che, proprio oggi ho dovuto sottopormi a un doloroso intervento dentale, oggi rimane un giorno speciale da dividere con chi mi vuole bene: la mia famiglia e gli amici più cari.

Buon compleanno Sergio, cento di questi giorni.