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2013/09/10

Ricordando l'11/9



Sono già passati 12 anni dall'11 settembre 2001, ma sono sicuro che, come me, molti di voi ricorderanno perfettamente cosa stavano facendo quel giorno quando arrivò la notizia dell'attacco alle Torri Gemelle. 
Quel giorno avevo viaggiato in aereo, rientravo dal Kuwait, sulla strada dell’aeroporto diretto a casa mi telefona un amico e mi informa dell’attentato. Sgomento, rabbia forse, prostrazione. Rendersi conto di non essere affatto utili, eppoi ore davanti a quello schermo che s’appiattisce sempre di più mentre snocciola, minuto per minuto tutto l’orrore. 

Niente a New York è come dodici anni fa. Dopo Giuliani è arrivato Bloomberg. Ha piazzato le seggiole su Broadway giù fino a Times Square trasformando il centro del mondo in una paciosa piazza di paese. Sulla vecchia ferrovia sopraelevata High Line, che serviva dal 1934 i 250 mattatoi urbani, c'è un giardino pensile che ingentilisce le putrelle del secolo di ferro, il Novecento, con i fiori selvatici e l'erba aromatica di un XXI secolo appena sbocciato. I taxi si pagano quasi solo con la carta di credito così almeno sono salvi dalle rapine quotidiane a loro danno (i tassisti italiani dovrebbero imparare), il drin drin di un carillon e la mancia è saldata, occhio però che siamo nel dopo crisi e se sforate anche di pochi centesimi il vostro conto, la banca vi piazza 34 dollari di multa, un tassì, un cinema e un caffè fuori budget cento euro. La città è cambiata velocemente.

Gli scolari dell'asilo e della prima elementare non erano ancora nati l'11 settembre del 2001, quando i commandos di al Qaeda, secondo la strategia salafita di Osama bin Laden, colpirono e distrussero le Twin Towers a Manhattan, danneggiarono il Pentagono a Washington e invano provarono a colpire la Casa Bianca, o il Congresso, con un aereo abbattutosi poi in Pennsylvania.

Il mondo è così cambiato che i ragazzini delle scuole, accompagnati da mamma e papà commossi, quando toccherà loro studiarlo al liceo resteranno sbalorditi. La breve solidarietà svanì presto, nelle rigidità ideologiche dei falchi intellettuali di Bush e del suo vice, il duro Cheney, sporcata dalla difesa della tortura del giurista John Yoo e degenerata poi nel carcere di Abu Ghraib. Ma con che fretta si sono smarrite la posticce supremazie morali contro gli yankee, Chirac sostituito da Sarkozy l'Américain e poi Hollande il servo del popolo solo a parole che bastona i ricchi ma non distribuisce ai poveri. Un mancato Robin Hood che perde un punto al giorno nei sondaggi e difficilmente resisterà per un secondo mandato. La cancelliera Merkel nuovo fuhrer europeo che non disdegna alleanze anche con Putin, basta che apra i rubinetti del petrolio, i cinesi intenti a sostenere dittatori dalla Birmania al Sudan, le Nazioni Unite paralizzate dalla burocrazia di Ban Ki Moon e con antisemiti, oppressori e tiranni a spartirsi poltrone. E nel mezzo la Siria che aspetta la mannaia americana.

Oggi come sempre in questi dodici anni i passanti si fermeranno a ricordare i caduti, civili, militari, poliziotti e pompieri e le guerre che da quella strage son venute, in Afghanistan prima e Iraq poi con i loro morti, americani, alleati, iracheni e delle varie tribù afghane. Si prega nelle chiese, nelle sinagoghe e nelle moschee. Si prega nelle scuole, dove ci sono studenti nati in 50 paesi diversi a cui, forse, l’11/9 non ricorda nulla se non tanto rumore e noiosi servizi in tv.

Osama voleva battere non gli Stati Uniti ma la globalizzazione, un mondo tollerante dove fedi e culture possano coesistere nello scambio economico, come aveva previsto il saggio scozzese Adam Smith. Che gli americani infedeli gestissero la propria società a piacimento era per lui ok, come scrisse nel suoi manifesti, peccato per lui che i suoi nemici son stati più furbi, o forse qualcuno ha considerato la taglia sulla sua testa più interessante di una dottrina distruttiva anche se impostata nel rispetto della religione. Bisogna pur mangiare mi si dirà. Osama o non Osama i dollari fanno gola a tutti. L'attacco orrendo di dodici anni fa serviva a intimidire il nemico, persuaderlo a ritirarsi nei propri confini e lasciare la regola della sharia imporsi nell'area dell'antico Califfato. Era la stessa strategia dei giapponesi a Pearl Harbor, non battere gli americani che sapevano troppo più forti, convincerli a lasciare il Pacifico all'impero del Sol Levante.

È passato Bush con la sua guerra al terrorismo, il presidente Barack Obama è stato accolto ovunque con sollievo e simpatia. Ma se l'Iraq è meno prima linea grazie alla strategia del generale Petraeus, clonata su quella vincente degli inglesi in Malesia dal 1948 al 1960 e dei boliviani e Cia contro il Che Guevara nel 1967, l'Afghanistan è guerra di lunga durata. I militari sanno che le tribù talebane non si possono tutte battere e occorre vincere sulle irriducibili e accordarsi con le moderate. La paura dello studioso di Harvard, Graham Allison, è che il prossimo attacco di al Qaeda sia nucleare, magari con materiale «sporco» contrabbandato dal Pakistan. E viene da tremare: se negli Usa tanto forte è stato il contraccolpo dell'11 settembre, come reagirebbe una qualunque delle nostre democrazie a un attacco nucleare? Il dodici settembre 2001 all'accademia militare di West Point una delle più raziocinanti docenti ammoniva i cadetti con un grafico sulla lavagna: più sicurezza implica meno libertà.

Di questi timori New York oggi non dà segno. Meno male direbbe qualcuno. Bloomberg si prepara a lasciare lo scranno, chi subentrerà avrà una pesante eredità sulle spalle, New York non dimentica in fretta, dodici anni dopo sono ancora tutti li a ricordare, qualche lacrima e tanto dolore per chi non è più tra noi.

Ricordo e non sopporto. Non sopporto che in un giorno come questo di ricorrenze si debba sempre tornare a quella valanga di articoli pubblicati, sembra che per un giorno tutti si rattristino e invitino gli altri a ricordare ciò che è successo, ma passate le 24 ore torna tutto nel dimenticatoio. E non sopporto neppure le frasi introduttive come quella con cui io stesso ho iniato questo articolo. Credevo non avrei mai scritto un post sull'11 settembre, ma la visione di alcuni video e link che ancora spopolano sui social networks come facebook mi ha spinto a farlo. A scrivere il mio pensiero per ricordare perché certa disinformazione gratuita mi fa rabbia. 
Purtroppo quel giorno terribile è già così lontano che molti giovani non lo ricordano ed è facile dar retta a chi dice sciocchezze se non si è informati.
C'è chi vi dirà che è impossibile che un pilota dilettante riesca a colpire con così tanta precisione un edificio; c'è chi vi dirà che non erano aerei, ma missili; improvvisandosi esperti fisici vi insegneranno che un aereo non può volare a 900km/h così a bassa quota; ipotizzeranno che le Torri siano crollate perchè demolite dall'interno con degli esplosivi; vi nomineranno una sostanza chiamata "termite"; c'è chi sosterrà che il foro del pentagono è troppo piccolo per esser stato fatto da un aereo; vi parleranno di video nascosti, video mancanti, che sono stati fatti sparire; tireranno in ballo la CIA e i governi, il cattivo Bush e il povero Bin Laden "che viveva nelle grotte e adesso riposa in fondo all’oceano in un sacco di nylon"; si pavoneggeranno di non credere alla "versione ufficiale" mentre voi, stupidi, ve la bevete senza accorgervi di niente; e alla fine vi incanteranno con lunghe liste di "autorità" ed "esperti" che non si lasciano infinocchiare da quello che ci hanno raccontato i giornali perché loro vogliono scoprire la verità sull'11 settembre.

Beh, è tutto falso, tutte bufale, tutte sciocchezze, falsità, palesi incongruenze, baggianate, leggende inventate di sana pianta ignorando i fatti.

L’11 Settembre 2001 Al Qaeda si impossessò di quattro aerei con l’intenzione di colpire i simboli degli Stati Uniti d’America. Questa è la verità, tutto il resto son solo chiacchiere.

Noi non dimenticheremo mai.

2013/09/08

La crisi va pagata da chi l'ha provocata!


Ogni opinione va rispettata, per carità, ma smettetela di dire che il problema sono i politici: lo sono senz'altro, ma li avete eletti voi. È inutile che mi rispondiate "ma dove lo troviamo un Roosevelt in Italia oggi". Vincoliamo i candidati ai programmi, leggiamoli, discutiamoli, prendiamoci la nostra parte di responsabilità. 

La gran parte degli italiani per 20 anni ha votato per Berlusconi o contro Berlusconi. Ma che cavolo di programma sarebbe? La denuncia delle storture e delle ingiustizie è una cosa, il vittimismo tutt'altra. Tra la ricca contessa e il povero in canna stiamo tutti dalla parte del povero in canna, salvo il fatto che non vorremmo mai essere come lui, e salvo rare eccezioni non facciamo nulla per aiutarlo. 

È super-doveroso far pagare una patrimoniale alla contessa e a tutti i ricconi. Ma è indispensabile sapere poi che fare con il ricavato. Se no i soldi vanno a finti precari pubblici, opere inutili, o peggio dove ordina Bruxelles. Governare davvero: è questa la sfida dopo 20 anni. Mettere a fuoco le riforme giuste, i tagli necessari, senza farsi piegare da lobby, corporazioni e comitati No-qualcosa. 

Esempi? 

Detassare completamente le assunzioni di giovani e i primi tre anni di salari, a patto di non licenziare per far loro posto. Puntellare l'occupazione degli over 50 con incentivi al mantenimento del lavoro. Dismettere tutte le proprietà non strategiche dello stato e delle autonomie. Imporre la pratica del miglior prezzo per tutte le spese del settore pubblico, a partire dalla sanità regionale. 

Vincolare le banche all'erogazione di mutui agevolati per la casa ai lavoratori dipendenti, gli unici che sicuramente pagano le tasse grazie al prelievo in busta. Lanciare il settore di valorizzazione a fini turistici delle belle arti, cofinanziata da enti di ricezione e compagnie di viaggi, occupando solo laureati nelle discipline dedicate. Confrontiamoci su fatti, idee, dati. Contrastiamo il vittimismo del declino e della decrescita più o meno felice. Possiamo, anzi dobbiamo farcela. O se no piangiamoci ancora un po' addosso.

2013/08/29

Il petrolio Siriano


Il petrolio è la vera ragione della guerra, o meglio del presunto attacco, presunto perché ancora non esistono certezze anche per merito della Russia e Cina che hanno posto il veto all'ONU. 
Riusciranno nel loro intento?

In tutta questa storia l'Italia soffre, ha sofferto e soffrirà perché dalla Siria importavamo petrolio e esportavamo il nostro meglio della nostra industria del lusso. Tutto finito, tutto svanito. Ecco il vero motivo per cui il Ministro Bonino rema contro e con ragione. 

Il 15 novembre 2011 l'Unione Europea vieta ai paesi membri di acquistare, importare o trasportare greggio e prodotti petroliferi siriani. Prima dell'embargo importavamo metà del petrolio di Damasco, vendevamo lusso, alimenti e vincevamo appalti per trivellazioni. Con la caduta di Assad ne subentreranno altri. In prima linea inglesi, francesi e americani.


La principale vittima di quel primo embargo è l'Italia. Fino a quel momento la metà dei 110.521 barili di petrolio esportati giornalmente dalla Siria viaggiavano verso i porti italiani e venivano raffinati da Eni, Saras e Italiana Energia e Servizi Spa. A quei 55mila barili di greggio giornalieri si aggiungono prodotti bituminosi e altri derivati per un valore di circa 1,04 miliardi all'anno. Grazie a quel diktat Ue impostoci durante la transizione Berlusconi-Monti, cioè all'apice della crisi italiana, le nostre aziende sono costrette a un costoso riposizionamento. Un riposizionamento ancor più doloroso visto che i prodotti siriani rimpiazzavano i buchi di approvvigionamento frutto della crisi libica.


Il peggio arriva a giugno 2012 quando il governo Monti accetta le nuove sanzioni Ue che impongono di azzerare i rapporti economici e diplomatici con Damasco. Con quella capitolazione l'Italia rinuncia ad un interscambio commerciale da 2,3 miliardi di euro, equamente divisi tra importazioni (1,13 miliardi di euro) ed esportazioni (1,16 miliardi di euro). E rinuncia pure al ruolo di principale partner economico europeo e di terzo partner mondiale (dopo Cina e Arabia Saudita) acquisito grazie agli accordi bilaterali siglati da Bashar Assad e Silvio Berlusconi nel vertice del 20 febbraio 2002. Grazie a quegli accordi l'Italia giocava un ruolo da protagonista nell'estrazione del petrolio e delle materie prime e garantiva alle proprie aziende ruoli di primo piano nella realizzazione di infrastrutture collegate.


La Saipem, per esempio, prevedeva di chiudere nel 2012 una commessa da 94 milioni di euro per la realizzazione degli impianti del pozzo petrolifero di Khurbet East. In Siria però il «made in Italy» spazzava ben oltre gli idrocarburi. Nel 2010 i prodotti alimentari garantivano alle nostre aziende un fatturato da 13 milioni di euro. E altri 5 milioni e mezzo di euro entravano grazie alle esportazioni di abbigliamento. Un intervento e un cambio di regime oltre a far svanire definitivamente quelle entrate ci precluderanno anche eventuali compartecipazioni in un settore energetico tutto da sviluppare. Davanti alle coste siriane arriva una porzione del cosiddetto Bacino del Levante un giacimento di gas esteso sotto le acque di Siria, Israele e Libano considerato - grazie ai suoi 3,4 trilioni di metri cubici di gas e ad oltre 1,7 miliardi di barili di petrolio - una delle più importanti riserve del mondo. A prenderseli, a guerra fatta, ci penseranno la Bp inglese e la Total francese oltre al Qatar, la Turchia, l'Arabia Saudita e gli altri paesi che foraggiano con armi e munizioni le fazioni della rivolta islamista.

La difficile partita dell'Italia non si ferma però alle porte di Damasco. L'intervento in Siria con tutta probabilità trascinerà alla guerra civile anche il Libano, un altro partner fondamentale per la nostra economia. Grazie a una costante crescita delle esportazioni salite nel 2012 ad 1,83 miliardi di dollari l'Italia è diventata il terzo partner commerciale del paese dei Cedri dopo Stati Uniti e Cina superando di un bel po' Francia e Germania. 

Ma la guerra a Damasco rischia di coinvolgere anche Iran e Russia mettendo in crisi altri due mercati fondamentali per i nostri scambi commerciali e trascinando l'Italia al definitivo tracollo. 

Che sia una lunga strada per dichiarare guerra all'Italia?