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2015/06/27

Quando l'Europa.... il destino della Grecia


Gad Lerner è l'autore dell'articolo pubblicato sotto.
Per cui quando trovate scritto "ripubblico" in effetti è lui che ha ripubblicato sul suo blog l'articolo, o il saggio, in questione. Vorrei doverosamente aggiungere un appunto. L'autore non mi è mai piaciuto, troppo aggressivo per certi aspetti, troppo di parte per altri, significa che secondo il mio pensiero siamo di fronte a un opinionista economico ondivago, dipendente dal vento, quello che tira dove lui vorrebbe.

In questo articolo tuttavia si esprime al riguardo della Grecia e della situazione ormai insostenibile che si è venuta a creare, arbitro del nostro stesso destino futuro perché tutte le volte che qualche nostro politico si affretta a allontanare dall'Italia i funesti pericoli di contagio ecco che essi puntualmente si verificano. Guardatevi dunque la spalle, i prossimi siamo noi.

Ripubblico un mio articolo uscito su “Repubblica” il 5 novembre 2011 perché mi pare che l’establishment finanziario e politico europeo stia reagendo col medesimo fastidio, quattro anni dopo, all’idea che i cittadini greci possano decidere democraticamente il loro futuro. La differenza è che oggi c’è Tsipras al posto di Papandreou, e quindi il referendum convocato non verrà soppresso.

Fino a che punto le regole vigenti nell’economia mondiale sono tuttora compatibili con l’esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall’Ue.

Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un “lancio di dadi”. Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile “perdita di tempo”. Quanto alle reazioni dell’establishment di casa nostra, basti per tutti l’aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul “Corriere della Sera”, liquida il referendum indetto da Papandreou: “Scellerato”.

Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.

Per giustificare un tale ricorso allo stato d’eccezione che contemplerebbe la sospensione dell’esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all’opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all’aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un’arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.

Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l’Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell’Unione europea, o sobbarcarsi l’incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. E’ vero che se un’analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l’eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C’è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?

Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un’élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che “il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse”, e quindi “ogni altro interprete è peggiore”, allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l’attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l’acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l’autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli “euroburocrati”, salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.

Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un’economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull’ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell’inutile tentativo di boicottare i referendum sull’acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei “beni comuni”. Tutti scellerati?

Gad Lerner su Repubblica, Novembre 2011 e Gad Lerner Blog Giugno 2015.

L'articolo e' stato pubblicato sul sito internet di Gad Lerner. Per leggere l'originale cliccate sul nome.

Discorso di Piero Calamandrei sulla Scuola, 1950


Alla fine quello che Piero Calamandrei temeva si è verificato, si sta verificando. Precipitiamo in quel baratro in cui la nomenclatura di partito svuoterà di contenuti la nostra scuola per dare una formazione partito orientata ai nostri figli.
La colpa di tutto questo non è solo di Renzi e del Partito Democratico ma vostra, si cari cittadini, siete voi i colpevoli di questo sfascio, vi siete venduti l'anima al diavolo PD per 80 miseri euro che loro si sono ampiamente ripresi tagliando il tagliabile -in tema di privilegi ma anche di diritti- e tassandovi a dismisura. Adesso che c'è da fare?
Pedalare signori miei, oppure è arrivato nuovamente il tempo di liberare l'Italia dal gioco dei partiti, dal gioco della politica, dalle multinazionali, dall'Europa e da quell'Euro che ci sta massacrando tutti.
Il momento di dire basta è arrivato, rivoluzione e ghigliottina per tutti.




Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950

Cari colleghi,

Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l’art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà.

La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue.

La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società.

A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione.

Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni.

Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.

La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.

Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna di­scutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: (1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito.

Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla. E venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.

Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno .

Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito.

Poi, nella riforma, c’è la questione della parità. L’art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: “La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali”. Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità.

Però questa riforma mi dà l’impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c’era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c’è il cacciatore con il fucile spianato. È la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell’avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.

E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave. È il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. È il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.

2015/06/25

Happy Birthday


Yesterday was my birthday. The years pass (for now 62) and, with great serenity, you have to accept the passage of time as something inexorable and unavoidable. One thing, however, is certainly important to stay young at heart!

Life is virtually divided into three different periods: youth, maturity, old age.

Fulfill the years of his youth at the time, before the age of 30 is a holiday, it means that we are entering that part of the active life where everything is at hand if we are able to conquer, no ban.

Maturity is the time of the gains made, of the social level reached, the success - and it does not matter to have become rich or not, success is not necessarily rhymes with wealth- achievements and serenity acquired.

Old age is the decline, some to feel alive must face it with serenity, knowing how to live, ride the unavoidable passage of time and not think too much about the end of that will come along, because when you are older, we know that the time granted is less and less.

I received many good wishes from you, are many friends who have shown me their love, even people I know only virtually, through this space that is not there. Facebook has been able to get closer to people who were too far away to be able to share with them, and each other, portions of our lives, people who had not seen for years, for decades I have found here, and I speak of Barry​, Fabio​, Alex​, Vijay​, Alessandro​, Mirna​, Vivia​, Sastry​, Ashok​ and then I can't put myself to do list of all, know that having you here among my friends is a source of immense joy.

I'm just sorry for those who, perhaps too busy with work or family, forgot to greet me. Okay, friendship even if virtual, is sharing but also understanding.

I love you all, and thank you for your good wishes, many, many that I received from you. Simply: thank you!

Ieri era il mio compleanno. Gli anni passano (per ora sono 62) e, con grande serenita', bisogna accettare lo scorrere del tempo come qualcosa di inarrestabile e di ineluttabile. Una cosa, tuttavia, e' certamente importante: restare giovani dentro!
La vita e' divisa virtualmente in tre diversi periodi: la giovinezza, la maturita', la vecchiaia.

Compiere gli anni al tempo della giovinezza, prima dei 30 anni e' una festa, significa che stiamo entrando in quella parte di vita attiva dove tutto e' a portata di mano se saremo capaci di conquistarlo, nessun divieto. 

La maturita' e' il tempo delle conquiste fatte, di quel livello sociale raggiunto, del successo -e non importa essere diventati ricchi oppure no, il successo non necessariamente fa rima con ricchezza- degli obiettivi raggiunti e della serenita' acquisita. 

La vecchiaia rappresenta il declino, certo per sentirsi ancora vivi bisogna affrontarla con serenita', saperla vivere, cavalcare l'ineluttabile scorrere del tempo e non pensare troppo a quella fine che prima o poi arrivera', perche' quando si e' vecchi sappiamo che il tempo concessoci e' sempre meno.

Ho ricevuto da voi tanti auguri, sono molti gli amici che mi hanno dimostrato il loro affetto, anche di persone che conosco solo virtualmente, attraverso questo spazio che c'e' e non c'e'. Facebook e' stata capace di riavvicinarmi a persone che erano troppo lontane per poter condividere con loro e reciprocamente spezzoni della propria vita, persone che non vedevo da anni, da decine di anni le ho ritrovate qui, e parlo di Claudio​, Paolo​, Pietro​, Corrado​, Laura​, Giuseppe​, Giuseppe​, Mirella​, Alberto​, Luigi​, e ancora Luigi​, Antonio, Carlo, Marco, Andrea, Nhut​, Hien Ho, e poi non posso mettermi a fare la lista di tutti, sappiate che avervi qui fra i miei amici e' fonte di gioia immensa. 

Mi dispiace solo per quelli che, forse troppo occupati nel lavoro o famiglia, si sono dimenticati di farmi gli auguri. Va bene lo stesso, l'amicizia anche se virtuale, e' condivisione ma anche comprensione.

Vi voglio bene tutti, e vi ringrazio degli auguri, tanti, tantissimi che ho ricevuto da voi. Semplicemente: grazie!

2015/06/21

Uscita dall'euro senza caduta libera


Naturalmente tutti si chiedono cosa accadrebbe qualora fra la Grecia e la zona euro non si riuscisse a trovare un accordo per l’ennesimo salvataggio.

Chiarisco subito che l’ennesimo salvataggio non potrebbe essere che temporaneo, poiché, ammesso e non concesso che i greci accettino di prendere qualche misura di carattere economico (aumento Iva? ritocco pensioni?) in cambio dell’erogazione di un nuovo prestito, finché saranno costretti a utilizzare la moneta unica, non avrebbero comunque nessuna possibilità di veder risollevarsi la propria economia, quindi, esauriti quei fondi, saremmo ancora punto e a capo.
Ritengo che, a questo punto, tutti abbiano capito che è il concetto di moneta unica che non può funzionare, in quanto produce danni in funzione a quanto sono impari le economie dei Paesi che lo utilizzano.

Il famoso “effetto domino” si verificherebbe NON perché esiste la speculazione finanziaria, ma perché verrebbe sancito, senza possibilità di appello, ciò che vado dicendo da tempo, ossia: “uno Stato, una moneta”.
La cosiddetta “speculazione”, infatti, non è un’arma attraverso la quale si cerca di distruggere un sistema che funziona, ma la conseguenza più evidente del fatto che quel sistema NON funziona.

Il problema rimane però gigantesco perché abbiamo costruito una cosa talmente titanica che ora abbiamo persino paura a demolirla, alcuni, anche fra coloro che hanno posizioni molto critiche nei confronti dell’euro si chiedono se debba essere usata “la dinamite” oppure il sistema dell’euro debba essere smontato “pezzo per pezzo”.
In altre parole si ha il timore che ritornare di colpo alle monete nazionali possa comportare uno shock talmente forte all’economia europea da farla sprofondare in una crisi senza precedenti.

Non sono di questa opinione!

Naturalmente la demolizione dell’euro dovrà avvenire in maniera “controllata”, ma ciò non comporterebbe alcun trauma per l’economia del Vecchio Continente, sarebbe solo necessario stabilire delle norme comuni da rispettare e, così come siamo entrati nell’euro … ne usciamo.
Perché, cari lettori, ricordiamo tutti cosa ci hanno ripetuto i media in maniera ossessiva nel momento in cui è entrato l’euro nelle nostre tasche, ci dicevano in continuazione, come un mantra, che “non sarebbe cambiato nulla”. Sarebbe stato tutto estremamente semplice, ciò che prima era espresso in lire sarebbe solo stato ridenominato in euro attraverso un cambio fisso un po’ strano per la verità, 1 euro = 1936,27 lire.

E in effetti è stato tutto molto semplice, e anche le persone anziane non hanno avuto bisogno dei “convertitori” (qualcuno di voi ne ha ancora in casa?), è stato tutto molto facile.
Ebbene la fine dell’euro e il ritorno alle monete nazionali sarebbe ancora molto, ma molto più semplice, perché ogni Stato riconvertirebbe la propria moneta con un cambio alla pari!

E’ semplicissimo!
Un cambio alla pari!
Cioè la nuova lira italiana? Pari a un euro
Il nuovo marco tedesco? Pari a un euro
Il nuovo franco francese? Pari a un euro
La nuova dracma? Pari a un euro

Cosicché se una persona oggi ha uno stipendio di 1.200 euro in Italia diventerebbero 1.200 nuove lire, in Germania 1.200 nuovi marchi, in Grecia 1.200 nuove dracme e così via!!!

Semplice? Semplicissimo!!!

E al momento della riapertura dei mercati valutari “il mercato” unico arbitro imparziale e inappellabile determinerà i cambi fra le nuove valute europee.
Ci vorrà 1,30 nuova lira per avere 1 nuovo marco? Bene!
Basteranno 0,70 nuove lire per avere 1 nuova dracma? Bene!
Ma quello che deve essere chiaro è che questo meccanismo non ci renderà più ricchi o più poveri rispetto alla situazione attuale!

In altre parole: non è che poiché ci vorranno 1,30 nuove lire per avere 1 nuovo marco tedesco allora noi siamo diventati più poveri e i tedeschi più ricchi, perché è già così adesso!!!

Se il mercato determinerà un cambio nuova lira/nuovo marco pari a 1,30 significa che OGGI ritiene che la Germania sia mediamente più ricca dell’Italia del 30%.
Il sistema dei cambi, se naturalmente lasciato funzionare, E’ UN SISTEMA REGOLATORE!!!
E questo è un concetto da comprendere! Assolutamente!
Il fatto che l’Italia avrà una moneta che varrà il 30% in meno di quella tedesca NON CI RENDE PIU’ POVERI!!! Anzi, ci dà un vantaggio! Perché le merci che produciamo saranno più competitive rispetto a quelle prodotte in Germania, e, di conseguenza, questo aiuterà la nostra economia!

Migliorerà la nostra economia e peggiorerà quella tedesca? Se accadrà, anche questo lo vedremo dal mercato valutario perché il cambio nuova lira nuovo marco varierà, magari diventando 1,25 oppure 1,20.
I cambi fra le nuove monete europee varieranno di secondo in secondo come oggi accade fra euro e dollaro o qualsiasi altra moneta, basterà lasciar fare al mercato e tutto sarà regolato in maniera naturale.

Semplice?
Semplicissimo!!!




Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro

2015/06/20

Russia nemica?


Per Obama il leader russo Putin è il nemico numero 1 e in Europa sta crescendo la tensione a livello militare tra NATO e Russia. Certo Putin non è un santo, ci mancherebbe altro, ma siamo così sicuri che la posizione USA sia corretta? 

Dopo l’11 settembre mi sembra che gli americani in politica estera le abbiano sbagliate quasi tutte: abbattendo Saddam hanno destabilizzato tutta la regione, volendo distruggere Assad in Siria hanno rinforzato l’ISIS, scegliendo una linea pro-Iran rischiano di creare altri guai, tolto di mezzo Gheddafi (con l’aiuto francese) si sono creati i presupposti degli sbarchi attuali di centinaia di migliaia di disperati mentre in Afghanistan, Iraq, Medio Oriente, Africa centrale la situazione è tragica. La mania americana di mostrare i muscoli porta regolarmente a situazioni senza uscita.

In compenso gli USA coccolano nazioni – come l’Arabia Saudita – assolutiste e cieche che, magari temendoli, di fatto aiutano e finanziano i fondamentalisti islamici in un generale tripudio del commercio delle armi.
L’Europa balbetta, incapace di avere una propria gestione delle crisi e un esempio lo è ora la questione dell’Ucraina dove Putin qualche ragione ce l’ha visto che in fondo l’est ucraino è russo per lingua, tradizioni, storia, religione. 
Non capisco perché l’Italia non debba fare anche i propri conti proprio nei rapporti con la Russia e sarei più cauto a sposare le tesi americane in politica estera (il rispetto dei diritti umani violati da Putin è un’altra cosa) perché alla fine da una crisi sarà proprio l’Europa a rimetterci, non gli USA, e tutti abbiamo da perderci se all’est scoppiasse l’ennesimo conflitto europeo...

Se poi a tutto questo aggiungiamo il discorso della NATO ecco che tutto prende un colore diverso, allora possiamo anche valutare positivamente lo staccarci dall'Europa economica (l'UE) e unirci ai BRICS e vivere decisamente meglio.


La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai Paesi del Golfo controllati da loro. Tutti i Paesi europei sono danneggiati da questa politica e la Russia viene spinta a integrarsi con la Cina.
È venuto il momento di domandarci perché dobbiamo continuare a fare parte di una organizzazione che ci reca solo danno. La Russia per noi non è un nemico, ma un amico, appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l'integralismo islamico che invece gli americani hanno favorito con la loro politica in Afghanistan, in Irak e in Siria. È stata la Nato ad abbattere Gheddafi dando la Libia in mano agli islamisti e inondando l'Italia di immigrati. E non dimentichiamo che il presidente Obama voleva bombardare l'esercito di Assad aiutando le forze che hanno poi creato il califfato.
Oggi la Nato dovrebbe essere riorganizzata con nuovi scopi e con nuovi membri. E per prima cosa dovrebbe farne parte la Russia, per costituire un fronte comune contro l'integralismo islamico e la immensa potenza militare che fra poco sprigionerà la Cina. Oggi la Nato, che guarda a nemici del passato, dovrebbe pensare al futuro. Magari facendo anche qualcosa per il presente: per esempio mettere fine alle emigrazioni nel Mediterraneo da essa stessa provocate.

Pensierino della sera....

Ecco un discorso che Solzenicyn – il dissidente sovietico a lungo incarcerato sotto il regime comunista - tenne come prolusione ad incontro accademico tanti anni fa: credo sia utile una sua lettura per qualche riflessione: 

....Il declino del coraggio é la caratteristica più sorprendente che un osservatore può oggi riscontrare in Occidente. Il mondo occidentale ha perso il suo coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente, in ogni paese, in ogni governo, in ogni partito politico e, naturalmente, nell'ambito delle Nazioni Unite. Il declino del coraggio é particolarmente evidente tra le élites intellettuali, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell'intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. 

Funzionari politici e classi intellettuali presentano questa caratteristica, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni, e ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sulla debolezza e sulla vigliaccheria. E questo declino del coraggio, a volte raggiunge quella che potrebbe essere definita come una mancanza di carattere, sottolineata quasi con ironia da occasionali scoppi di audacia e di rigidità da parte degli stessi funzionari politici quando trattano con governi deboli, con paesi privi di sostegno o con correnti perdenti che chiaramente non saranno in grado di offrire alcuna resistenza. 

Si hanno invece silenzio e paralisi quando si tratta di affrontare governi potenti e forze minacciose, con aggressori e terroristi internazionali. E’ necessario sottolineare che fin dai tempi antichi il declino del coraggio è stato considerato il primo sintomo della fine..."

2015/06/18

L'Italia deve morire

L’Italia era una grande potenza scomoda per gli altri stati del nord, dovevamo morire e così è stato. Ecco chi sono i ”sabotatori”che ci hanno portato a questo, la VERA storia d’Italia che tutti nascondono passando per i nostri capi di stato, Cia, Bilderberg, BR, Britannia ecc.
Questo il video dell'intervista di Byoblu a Nino Galloni. Guardatelo e scaricatelo sul vostro computer, prima o poi qualcuno lo farà sparire.



Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa». Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. 

Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questaEuropa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gliUsa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

2015/06/14

Default Grecia, ci siamo!


Dopo il primo significativo confronto tra l’Eurogruppo e la Grecia, dopo il secondo in cui si prospettarono altri 6 mesi di proroga, dopo gli ultimi incontri che invece di avvicinare, allontanano le parti ecco che l’accordo appare ancora lontano quasi impossibile. Al momento Atene appare la sola tra le parti a offrire concretamente una certa malleabilità: «Il fatto che abbiamo un mandato non ci dà certo il diritto di fare tutto ciò che vogliamo -ha spiegato Varoufakis ai giornalisti all’uscita dal summit- ma ci dà quello di essere ascoltati», aggiungendo che «la Grecia non accetterà mai di stare in questo programma -la Troika- semplicemente perché per noi questo programma è stato catastrofico». Il ministro dell’economia greco ha accennato anche alle quantomeno incaute e approssimative notizie trapelate a fine anno su un’eventuale ripresa greca: «Le voci che l’economia greca sarebbe stata in ripresa nell’ultima parte del 2014 -continua Varoufakis- sono fortemente esagerate» perché «l’aumento del Pil reale è solo un miraggio. In realtà il Pil nominale, ossia i guadagni in euro, è diminuito» comportando l’innalzamento di quello reale: «l’unica ragione per cui il Pil reale è schizzato è perché i prezzi sono precipitati. Questo non è un segnale di ripresa, al contrario è un segnale di forte deflazione».

Insomma l’idea è quella di due parti ancora molto lontane ma vogliose di provare a capirsi. La durezza con cui alcuni vertici del gruppo Ue -Djisselbloem e Schaeuble su tutti- trattano le istanze di Atene appaiono più che altro come l’ultimo disperato tentativo di preservare un sistema che con sempre più totale evidenza sta mostrando le sue crepe a tutti, dopo un buon quinquennio di totale intoccabilità.

Basterebbe a esempio notare la scomparsa degli spot progresso che ti invitavano a parlare d’Europa, perché «di Europa si deve parlare», o meglio: fino a poco tempo fa ne dovevamo parlare tutti in piazza, ora se ne parla in concertazione riservata tra quattro mura. Questione mutata in pochi mesi.

L’assioma che invece è emerso sul territorio nazionale è quello secondo cui di Europa si può anche temporaneamente smettere, ma almeno «di Grecia si deve parlare», laddove poco importa conoscere nel dettaglio, ma è sufficiente metabolizzare l’assunto che i greci hanno il debito così vertiginoso perché “si sono mangiati tutto” e quindi “devono pagare”. Insomma, nonostante le premesse il dibattito non è molto lungo, tant’è che di solito si esaurisce con un grafico 2004-2010 in cui si evidenzia il debito pubblico e si conclude rapidamente con una richiesta di riscatto generica, perché i ladri sono stati “i greci”, chi ha falsificato i bilanci sono stati “i greci”, chi ci deve sei soldi sono “i greci”. Ma “i greci” chi?

Questa effettivamente è una specifica che non viene mai e poi mai affrontata, né da chi indica l’Ellade come origine di tutti i mali finanziari dell’Eurozona, né da chi difende la posizione di Atene attribuendole il ruolo di possibile via di fuga dalla palude fangosa dell’immobilismo economico e politico. La faccenda su cui nessuno credo possa dubitare è la dissennata gestione della cosa pubblica da parte dei precedenti governi greci -nel periodo che va dal 2002 al 2013- e in fondo è lì che vanno a puntare le accuse di chi sta dalla parte dell’intransigenza “troikiana”. In questo processo però il passaggio che manca è inquadrare il contesto in cui hanno operato i precedenti governi, troppo spesso denominati impropriamente come “Governo Centrale”, quasi per appiattire il tutto.

Prendiamo Costas Simitis, premier del paese dal 1996 al 2004 e leader del Pasok. Descrivendo il Πανελλήνιο Σοσιαλιστικό Κίνημα -Panellinio Sosialistiko Kinima, letteralmente Movimento Socialista Panellenico- possiamo inquadrarlo come un partito di estrazione liberale e socialdemocratica, improntato principalmente sulla dinastia Papandreou – prima il padre Georgios, poi il figlio Andreas, poi il nipote George. Provando invece a cercare un parallelismo comunque difficile con il nostro paese, ci limiteremo all’ampia definizione di “centro-sinistra”.

Simitis -che ha formato i suoi studi all’Università di Marburg, in Germania- divenne premier nel 1996 sostituendo proprio Andreas Papandreou, le cui precarie condizioni di salute si aggravarono a tal punto da portarlo alla morte in tre mesi. Al contrario di quel che si può pensare, Simitis -appartenente all’ala “modernizzatrice” e filoeuropeista del Pasok- non era il cavallo vincente del premier uscente: Papandreou aveva infatti indicato come suo successore Akis Tsohatzopoulos, che però venne superato da Simitis durante la riunione speciale di partito, avvenuta il 18 gennaio di quell’anno. Nel frattempo Papandreou rimase comunque presidente di partito fino alla morte, il 23 giugno 1996. Fu a quel punto che Simitis riuscì a ottenere anche la massima carica, il tutto dopo aver superato nuovamente Tsohatzopoulos durante l’assemblea -che noi potremmo chiamare “primarie interne”- del 30 giugno. Decisivo fu appunto il supporto delle nuove e incombenti politiche comunitarie, di cui Simitis era fervente sostenitore.

Simitis guidò il PASOK a vincere le elezioni anticipate del settembre 1996, anno in cui la sinistra nella sua versione post-muro provocò illusioni e disillusioni abbastanza diffuse, anche dalle nostre parti. Scrive Antonio Ferrari del Corriere della Sera alla vigilia del voto, il 19 settembre 1996:

L’uomo della svolta può essere il premier uscente Costas Simitis, 60 anni ben portati, un professore di economia che, pur avendo raccolto l’ingombrante eredità politica del prestigioso Andreas Papandreu, è in realtà il suo contrario. Incapace di retorica, metodico, poco incline al populismo. Simitis ha vinto la prima scommessa, sostituendo al timone del governo il vecchio leader malato. Ha vinto la seconda, guadagnandosi la presidenza del Pasok dopo la morte del patriarca. Avrebbe potuto vivere di rendita fino all’ottobre ’97, scadenza naturale della legislatura. Ha preferito invece rischiare subito la terza scommessa, chiedendo la legittimazione popolare e 4 anni di tempo per portare la Grecia alla laurea europea. Proprio questa determinazione, in un Paese facile alle emozioni, rischia di diventare il suo limite.

Certo, fa effetto sentir parlare di “laurea europea”, oggi. La laurea si sa vive nello stesso campo semantico del successo e del premio, della ricompensa, del riconoscimento e dell’incasso. Noi dopo vent’anni di laurea siamo costretti a parlare di debito, deflazione, fallimenti e bocciature. A ogni modo Simitis non solo vinse nel 1996, ma riuscì a confermarsi anche nel 2000.

L’esecutivo Simitis fu sicuramente il governo ellenico decisivo per l’accelerazione di Atene in direzione Bruxelles. L’opera politica di Eksynchronismos -“modernizzazione”- si impose su un vastissimo raggio di aree -dalle infrastrutture alla riforma del lavoro- attuando opere di investimento e di privatizzazione.

Interessante l’analisi del concetto Eksynchronismos offerta da Kostas Stafylakis, 38enne artista e intellettuale ateniese, esperto d’arte, filosofo e ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche e Storia dell’Università di Atene:

Nel corso degli ultimi 15 anni lo slogan politico più dibattuto e controverso nella società greca è stato quello di “modernizzazione” (eksynchronismos). Il contesto sociale, politico e culturale del suo riemergere nella vita pubblica greca nel 1990 è attualmente sottoposto a studio rigoroso e analisi da parte della maggioranza degli approcci analitici nelle discipline accademiche. Qualsiasi definizione conclusiva del termine “modernizzazione” sembra essere rischioso, in quanto gli effetti complessivi dei processi che il termine descrive non possono essere ridotti al ritratto corrente o recente economica e di sviluppo della Grecia. Sotto la prima somministrazione del primo ministro Costas Simitis (1996-2000), la Grecia ha aderito all’Unione economica e monetaria europea e sperimentato un boom nella costruzione di infrastrutture pubbliche, una razionalizzazione della sua amministrazione, un inedito abbassamento dell’inflazione e una stabilizzazione della politica degli affari esteri. Lo slogan “modernizzazione” è diventato un efficace punto nodale ideologico ridefinire tutte le divisioni culturali, economici e politici nella società greca.

Dunque è grazie a Simitis che la Grecia entra nell’Unione monetaria, posizione consolidata grazie al doppio mandato sancito nelle successive elezioni dell’aprile 2000. Scrive sempre Ferrari e sempre sul Corsera, proprio in quel periodo, era il giorno 10:

«Qualunque cosa succeda, la Grecia entrerà nell’euro». Yannis Stournaras, 43 anni, architetto del piano che ha consentito a Atene di adeguarsi, con una maratona quasi trionfale, ai parametri di Maastricht, raccogliendo complimenti a Bruxelles e a Lisbona (che ha la presidenza di turno dell’Unione europea), non ha dubbi. Nonostante il suo cuore dica ovviamente Pasok, e nonostante – nelle ore in cui è ancora incerto l’esito del voto – partecipi con passione alle operazioni di spoglio delle schede, è uno che può essere comunque soddisfatto. Il compito che gli era stato affidato è stato brillantemente eseguito. Persino gli europei più critici nei confronti della Grecia, Olanda in testa, sono stati costretti a riconoscere che Atene ha compiuto il suo dovere. Stournaras, studi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, professore di macroeconomia all’Università di Atene, da sette anni consigliere economico del primo ministro, è appena rientrato dal Portogallo, dove ha partecipato a una nuova riunione comunitaria, in vista del vertice di giugno che ratificherà l’ingresso della Grecia in Eurolandia. Ieri mattina è andato a votare, in un seggio di Kyfissia, circoscrizione borghese a nord della capitale, e è rientrato a casa, preparandosi alla lunga notte di attesa, davanti alla tv. «Il risultato elettorale, qualunque esso sia, non potrà cambiare nulla di quanto abbiamo raggiunto. Il processo di convergenza è quasi concluso e ormai è irreversibile – racconta il giovane professore al Corriere della Sera -. Mancano ancora, prima dell’annuncio, due o tre incontri con la Commissione europea e la Banca centrale, ma ormai quel che si doveva fare è stato fatto. Tutti i parametri fissati sono stati raggiunti. L’inflazione è attorno al 2,5 per cento, la crescita si avvicina al 4 per cento. Un dato, quest’ ultimo, che ci colloca subito dietro l’Irlanda. L’ingresso della Grecia in Eurolandia è ormai sicuro, a partire dal 1° gennaio 2001».

Yannis Stournaras era allora membro della commissione economica e monetaria dell’Unione europea, ma lo ritroveremo più tardi come Ministro delle Finanze dell’esecutivo Samaras, a testimonianza del fatto che negli ultimi vent’anni il valzer dei politici greci sia stato estremamente esclusivo, riservando la partecipazione alla grande giostra di incarichi a nomi che si ripetono e si rincorrono. Come appunto Akis Tsohatzopoulos, formatosi anch’egli in un’università tedesca -quella di Monaco di Baviera- dapprima avversario interno di Simitis per la presidenza del PASOK e battuto con 86 voti a 75, e in seguito nominato dallo stesso Simitis prima Ministro della Difesa -fino al 2001- e poi Ministro per lo Sviluppo Economico dal 2001 al 2004.

Questo fu il periodo della famosa falsificazione di bilancio emersa successivamente a seguito della denuncia presentata dall’esecutivo successivo al doppio mandato Simitis, quello dell’altro riesumato eccellente Kostantinos Karamanlis, leader dell’opposizione di centro-destra di Nea Dimokratia. In seguito all’inchiesta sull’operato dell’esecutivo Simitis emersero a carico del ministro Tsohatzopoulos varie inchieste giudiziarie: evasione fiscale, riciclaggio di denaro, corruzione.

Nel maggio del 2010 emersero rivelazioni su una costosissima casa -1.100.000 euro- acquistata dalla moglie di Tsohatzopoulos da una società off shore con sede negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi l’ex ministro entrò nel registro di altre due torbide vicende, su cui emerge lo scandalo Siemens. A seguito di indagini avviate nel 2008 venne alla luce un abnorme giro di tangenti tra politici e dirigenti pubblici greci, con l’implicazione di grosse società come la OTE -il maggior gestore di telecomunicazioni sul suolo ellenico- e l’azienda tedesca Siemens, per la fornitura di materiali e servizi allo Stato greco. Scrive l’ANSA il 10 giugno del 2010:

Il direttore esecutivo della Siemens greca, Dionisio Dendrinos, è stato arrestato nell’ambito di un caso di corruzione che sta facendo tremare la politica greca. L’arresto di Dendrinos, avvenuto ieri sera, fa seguito a quello di altri due dirigenti della società e a un mandato d’arresto internazionale contro Mikhalis Crithoforakos, presidente della filiale greca della Siemens, che avrebbe pagato per anni tangenti per ottenere contratti e appalti. Un mandato d’arresto è stato spiccato anche contro il dirigente finanziario della Siemens, Christos Karavellas, mentre indagati sono anche membri della sua famiglia. Sia Crithoforakos che Karavellas si troverebbero in Germania. L’inchiesta della magistratura riguarda tangenti che sarebbero state pagate dall’impresa tedesca a politici greci nel corso di diversi anni e in particolare per i sistemi di sicurezza delle Olimpiadi del 2004. Lo scandalo coinvolgerebbe sia esponenti del partito socialista di opposizione Pasok, quando era al governo, che dell’attuale partito di maggioranza del premier Costas Karamanlis (ND). Il Pasok ha chiesto un’indagine parlamentare sul caso Siemens, respinta da Karamanlis che vuole prima attendere la fine dell’inchiesta giudiziaria.

La responsabilità è solo da attribuire ai politici greci, o da condividere con il colosso tedesco? Di certo anche da queste parti abbiamo avuto un’esperienza simile negli anni Settanta con lo scandalo Lockheed in cui vennero coinvolti ministri della difesa e illustri cariche istituzionali. In fondo anche in Italia abbiamo fatto i conti con la “modernizzazione”. Nella bufera Siemens finì il PASOK, ma non venne risparmiata neanche la coalizione di centro-destra del successivo premier Karamanlis, quella che contestava appunto quella falsificazione del bilancio pubblico con cui Berlino ora tenta di inchiodare Atene sulla questione debito.

Durante un’intervista rilasciata lo scorso novembre, Alekos Alavanos, leader politico di Piano B, presente nella coalizione di Syriza, così dichiara:

Atene fa parte della zona euro dal 2002. Ma, in realtà nel paese circolano due monete perché la Grecia aveva avuto la maggiore inflazione della zona euro. L’euro di un italiano ha un potere d’acquisto diverso rispetto a un greco. La seconda valuta è l’euro europeo, vicino all’euro tedesco per le transazioni finanziarie internazionali. Con nessun riferimento però concreto ai fondamentali del paese. Da quest’immagine possiamo capire come una delle radici più importanti della crisi è la mancanza di competitività. Gli stereotipi della corruzione sono fuori controllo, clientelismo, arretratezza, ma corruzione in Grecia in greco moderno è “Siemens”. E c’è un politico greco, uno dei leader del Pasok e ministro della Difesa, accusato di aver preso tangenti dalla Germania per sottomarini, aerei e tutto quello che. Se il problema delle due valute non viene risolto, la Grecia non può uscire dalla crisi.

Insomma, il disavanzo greco è stato provocato dai greci. Ma quali greci? I politici greci, i corrotti. Dalla Siemens. Azienda tedesca. Riformuliamo: il disavanzo greco è stato provocato dai politici greci. E dai tedeschi. Scrive Marco Cobianchi su Panorama, è lo scorso 4 luglio: Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari.

E ancora: Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l’affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euro che inizia una decina d’anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All’inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all’arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal.

Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l’accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall’affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti”a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane.

Niente da dire, quella tra Grecia e Germania è una storia che si snoda dalla notte dei tempi, tuttavia, nonostante aziende tedesche abbiano notevolmente contribuito con il benestare di politici greci filoeuropeisti a dilapidare casse statali per 11 anni e 3 diversi premier, appare strano come allo stato attuale delle cose non solo venga scaricata ogni tipo di responsabilità “al popolo greco”, ma non si riconoscono neanche quelle gravi responsabilità esterne che dovrebbero portare a una politica decisamente più indulgente nei confronti di Atene.

Torniamo però indietro. Dopo il secondo governo Simitis, in cui la Grecia sottoscrisse formalmente la sua entrata nell’Unione europea grazie agli accordi firmati nel 2000, nel 2004 la guida del paese passò appunto alla coalizione di centro-destra guidata da Nea Dimokratia del premier Karamanlis. Come già accennato, durante questa legislatura emerse la questione dei dati truccati, ma emersero col tempo altre situazioni che non risparmiarono nemmeno questo esecutivo. Scrive Vittorio Da Rold su ilSole24Ore, è il gennaio del 2008 e della grave crisi ancora si sente solo l’odore:

Si allarga lo scandalo «Zachopoulos» in Grecia che sta facendo tremare il Governo Karamanlis di centro-destra con le ultime rivelazioni di un reporter Aris Spinos ai magistrati dell’esistenza di una importante conversazione di «eccezionale interesse politico» in un Dvd finora segreto. Si tratta di una storia di corruzione e ricatti nei palazzi del potere, due tentativi di suicidio e video osé: una intricata vicenda che da giorni tiene le prima pagine dei media greci e che ha già fortemente danneggiato l’immagine del Governo del premier Costas Karamanlis perché il protagonista è un suo stretto collaboratore da almeno 10 anni. Lo scandalo vede coinvolto Christos Zachopoulos, 54 anni e fino al 19 dicembre potente segretario generale del ministero della cultura di cui gestiva le finanze e i fondi Ue, e la sua ex-segretaria, Evi Tsekou, 34 anni. La storia ha inizio il 19 dicembre quando, adducendo motivi di salute, Zachopoulos misteriosamente si dimette. Ma la sera del giorno dopo si getta dal quarto piano del palazzo dove abita, nel centrale quartiere ateniese di Kolonnaki. Il funzionario è tuttora in gravi condizioni in ospedale e da allora non è in grado di parlare. La stampa greca si getta sul caso e indaga sui motivi del tentato suicidio che, in un primo tempo, vari giornali indicano nell’ampia disponibilità che Zachopoulos aveva dei fondi del ministero.

Dopo Karamanlis venne George Papandreou, la guida si sposto di qualche millimetro, da destra a sinistra, ma la situazione reale non cambiò molto, almeno quella interna alle istituzioni, perché in fondo quella esterna iniziò a precipitare trascinando il paese nel baratro. Neanche durante questa legislatura ci fu un’esenzione dagli scandali – anche se nella maggior parte dei casi bisogna aspettare quel galantuomo del tempo,che prima o poi arriva sempre a chiarire qualche punto oscuro, costringendoti a trasformare il passato remoto in presente, e viceversa. In questi giorni si parla infatti di Swissleaks e delle dichiarazioni presenti nel libro di Falciani, che stanno facendo tremare mezza Europa. Scrive Maria Antonietta Calabrò, lo scorso 10 febbraio sul Corriere della Sera:

Tra i clienti d’oro, Falciani nel libro fa i nomi di due persone, eminenti esponenti di due Paesi del «fronte Sud» della Ue: Spagna e Grecia. Dice: «L’uomo più ricco della Spagna, Emilio Botin del Banco Santander (di cui è stato proprietario fino alla morte, avvenuta il 10 settembre 2014), era uno dei clienti della Hsbc di Ginevra». Poi aggiunge un altro cognome e un altro conto importante, quello della madre dell’ex primo ministro greco George Papandreou, che «aveva un conto di 500 milioni di euro». Il fatto è che la lista degli «uomini d’oro» della Hsbc — in possesso di alcuni Paesi già da alcuni anni — sarebbe stata usata, secondo l’ex impiegato Falciani, per imporre politiche di austerity a altri Paesi. Questo, secondo lui, almeno il caso della Grecia. Falciani ricorda Papandreou e parla di «pressione e di ricatto». Rivelazioni destinate a deflagrare a poche ore dall’Eurogruppo che domani deciderà il destino del Paese guidato da Alexis Tsipras. «Nel 2011 la guida delle negoziazioni con la troika sul salvataggio della Grecia fu affidata a Sarkozy (l’ex presidente francese, ndr), che aveva quella lista e, conoscendone i nomi, poteva fare pressione su Papandreou», scrive Falciani.

Insomma la Troika usata come un’imposizione tramite ricatto, manco fossimo nella Roma della Banda della Magliana. Affermazioni queste tutte da verificare, anche se Sarkozy non è certo stato il politico migliore che l’Eurozona abbia avuto nella sua storia, e in fondo l’attuale crisi libica è lì a confermarlo ulteriormente.

Proseguendo il breve viaggio low cost attraverso il “disavanzo pubblico del Governo Centrale greco”, arriviamo agli anni in cui la morsa della povertà si fa davvero feroce, in cui il nazismo di Alba Dorata prende sempre più piede, e in cui Antonis Samaras tra le speranze di tutta l’Europa che conta vinse le elezioni del 2012, trovandosi a governare il paese nell’apice della crisi e senza la maggioranza assoluta, ma con il costante appoggio di Berlino. Berlino con cui Samaras concordò un secondo piano di assistenza, dopo il fallimento del primo. In realtà i tentativi di formare il nuovo esecutivo furono faticosi, tant’è che il primo non andò a buon fine. Al secondo tentativo si formò il governo “di coalizione” tra Pasok e Nea Dimokratia -ricorda qualcosa di famigliare- che si impegna a rispettare i patti con la Troika. Angela Merkel andò direttamente a Atene a mostrare il suo sostegno -ultima visita in Grecia-, mentre in piazza i manifestanti protestavano, e Syriza decise di non partecipare alla coalizione, venendo accusata di non preoccuparsi per la sorte del paese

Scrive sempre Vittorio da Rold e sempre su ilSole24Ore, ma nel 2012:

Da segnalare che il Pasok, intanto, non sceglierà nessun deputato o proprio ex ministro per ricoprire incarichi nel prossimo governo, hanno riferito questa mattina i media greci, spiegando che il gruppo paralmentare socialista ha accettato la linea proposta di Venizelos. Questa mattina alcuni esponenti socialisti avevano contestato la proposta. Il partito ha anche accettato di sostenere tecnocrati per gli incarichi ministeriali, come l’ex ministro degli Interni Tassos Giannitsis e il ministro dello Sviluppo, Yiannis Stournaras.

Ed ecco qui che ricompare Stournaras, accusato nello scorso gennaio da Tsipras di essere “dipendente da Schaeuble”. Stournaras è il polivalente ex ministro per lo Sviluppo, ex ministro delle Finanze e attuale Governatore della banca centrale greca, chiamato in sostituzione di un altro eccellentissimo dell’Ellade, George Provopoulos, al quale si imputano non poche responsabilità durante il suo mandato di Governatore, durato dal 2008 al 2014. Il New York Times ha scritto che pochi uomini come lui sono stati capaci di accentrare così tanto potere nel proprio paese. I giornalisti Nikolas Leontopoulos e Pavlos Zafiropoulos, scrivendo nel 2012 a proposito dello scandalo “Proton Bank” in cui è coinvolto l’uomo d’affari Laurentis Lavrentiadis, così analizzano il ruolo di Provopoulos:

Se lo scandalo Proton Bank è stato scioccante per alcuni, è ragionevole obiettare che non avrebbe dovuto invece essere una sorpresa per il signor Provopoulos. Questo perché quando la commissione competente del Consiglio superiore sotto il signor Provopoulos ha approvato l’acquisto di Proton Bank dal sig Lavrentiadis da Piraeus Bank, all’inizio del 2010, è filato tutto liscio nonostante le numerose gravi bandiere rosse che erano state sollevate dai controllori del consiglio superiore circa le finanze del sig Lavrentiadis e rapporti d’affari. Bandiere rosse che alcuni hanno sostenuto (compresi i pubblici ministeri) inseriscono la decisione del sig Provopoulos in un’accezione penale, dato il ruolo del Consiglio Superiore nella supervisione del sistema bancario greco – e come tale dovrebbe essere ulteriormente approfondito.

Stephen Grey di Reuters, in un articolo del gennaio 2012:

La presunta generosità di Proton si è verificata nel momento in cui il sistema finanziario della Grecia doveva essere sotto il microscopio europeo.Funzionari greci ritengono che la banca ha emesso più di 664.000.000 € di nuovi prestiti alle società collegate a Lavrentiadis nel 2010. A quel tempo, le banche del paese cominciavano a cimentarsi con una crisi del debito che stava seriamente minacciando la stessa sopravvivenza della zona euro.[...]“Si può pensare a questo paese come un grande lago oscuro”, ha detto Tasos Telloglou, un presentatore televisivo e giornalista senior per il quotidiano greco Kathimerini. “Lì sono sepolti molti vecchie auto e spazzatura e anche alcuni corpi. Ora l’acqua si sta ritirando, è possibile vedere ciò che è stato nascosto per tanto tempo.”

In ogni modo, ce ne sarebbe da cercare, tra questi detriti lasciati in dote dal tempo, prima di arrivare al debito greco. Ce ne sarebbe da approfondire, prima di capire che i greci intesi come popolo, quelli che chiudono i negozi e che fanno la fame tra rabbia e speranza, non hanno mangiato poi così tanto. Gli hanno mangiato sulla testa, quello sì. Chi? I politici greci incaricati di accelerare l’entrata nell’Unione monetaria, i banchieri incaricati di salvaguardare i propri interessi, le multinazionali di servizi tedesche, le costrizioni d’approvvigionamento bellico, i funzionari pubblici e privati legati a doppio filo col Governo Centrale, quello greco di denominazione impropria, e quello europeo di denominazione calzante.

Intanto siamo arrivati al 2015 e al governo Tsipras, l’unico esecutivo con nessun legame evidente con la centralità dell’Eurozona, l’unico esecutivo che rifiuta la Troika sì, ma non rifiuta di pagare. Chiede semplicemente di calcolare nuovamente, settando nuovi parametri e tentando di ridisegnare un progetto macchiato da varie responsabilità condivise. Dall’altra parte per ora nessuna ammissione, nessun cedimento, nessun passo indietro nel riconoscere errori. Si guardano i detriti ma si fa finta di niente, perché “la Grecia deve rispettare i patti”, che patti non sembrano. La stampa lo chiama un “muro contro muro”, la realtà ci dice che qui il muro è uno solo, neanche tanto solido come un tempo, che gioca a fare il ruolo del comandante, mentre le truppe non sembrano più troppo convinte. Eppure un’alternativa ci sarebbe, e passa attraverso l’ascolto. Una virtù troppo spesso sottovalutata, in questa Europa dall’imperativo preponderante. Intanto l’attuale ministro delle finanze Varoufakis, in un pezzo pubblicato in concomitanza con il secondo incontro tra Grecia e Ue e uscito sul New York Times del 16 febbraio, si discosta dalle recenti notizie che vedrebbero l’esecutivo Tsipras calarsi armonicamente nella cosidetta “teoria dei giochi”, quel tanto avvezzo modo di concertare in cui le trattative prendono le sembianze di un gioco di ruolo:

Il problema della teoria dei giochi -scrive Varoufakis-, come ho sempre tentato di spiegare ai miei studenti, è che essa considera le motivazioni dei giocatori come un dato prestabilito a priori. Se si sta pensando a una partita di poker o di blackjack questa assunzione non è particolarmente problematica. Ma nell’attuale negoziato tra la Grecia e i suoi partners il punto centrale è esattamente quello di costruire delle nuove motivazioni. Si tratta di costruire una nuova mentalità che vada oltre le divisioni nazionali, che sostituisca una prospettiva pan-europea alla dicotomia creditore-debitore, in grado di porre il bene comune Europa al di sopra di politiche futili e di dogmi di comprovata tossicità se resi universali e una logica del “noi” a sostituire quella del “loro”.

Loro chi? I greci?

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Testo tratto da una libera interpretazione di uno scritto di Nicola Mente.