<bgsound loop='infinite' src='https://soundcloud.com/sergio-balacco/misty'></bgsound>

pagine

Visualizzazione post con etichetta Inchieste. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Inchieste. Mostra tutti i post

2016/12/16

Luci e ombre di Christo


Non fatevi ingannare dal titolo, il Christo di cui qui si parla è l'artista americano di origini slave Christo Vladimirov Yavachev che ha ideato e costruito la FP Flowting Piers. L'analisi di Business Insider mette tutto sotto una lente e racconta fatti e misfatti di un'opera discussa. Leggiamolo insieme.

I veri conti del Floating Piers: rischia di guadagnarci solo Christo 

Il New York Times l’ha messa l’8 dicembre tra le tre opere più significative del 2016. Per il Governatore lombardo Roberto Maroni è stato «un successo mondiale», destinato a divenire «un modello per il Governo su come si devono gestire i grandi eventi». Per gli oltre 1,2 milioni di spettatori, un’installazione entrata nella storia, la dimostrazione tangibile di arte fruibile da tutti. È il Floating Piers (FP), il pontile galleggiante costruito dall’artista Christo Vladimirov Yavachev, che dal 18 giugno al 3 luglio scorso ha permesso di assaporare il “miracolo” di camminare sulle acque del Lago di Iseo dal paesino di Sulzano (Bs) a Montisola, l’isola lacustre più grande d’Italia.


Gian Vittorio Frau / AGF
Un’esperienza che molti hanno chiamato la “piccola Expo”, tessendone le lodi, pur sottolineandone le carenze organizzative. Buchi dovuti principalmente a una macchina “tarata” per accogliere 40.000 visitatori al giorno, ma che ha dovuto fronteggiarne più del doppio. Nonostante i disagi, l’evento è stato descritto come l’esempio di marketing territoriale che ha rilanciato la zona del Sebino a livello planetario; o come l’ennesima dimostrazione di come la cultura quadruplichi ogni euro speso. Molti hanno messo anche l’accento sull’intelligente sinergia delle istituzioni che, libere dalla burocrazia, hanno compiuto l’impresa. Insomma, FP è stato celebrato come un miracolo ottenuto senza sborsare un euro pubblico, visto che Christo se ne è accollato tutti i costi, circa 18 milioni di euro.

Il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni e i’ideatore del progetto
Christo Vladimirov Yavachev visitano l’installazione “The floating piers” sul Lago d’Iseo.
Elio Villa / AGF
A sei mesi di distanza, si può tentare un bilancio più distaccato, che consideri l’indotto creato, le ricadute future, l’organizzazione dell’evento per finire con le spese nella loro totalità. Si scopre così che non è tutto oro ciò che luccica e che i costi non sono stati solo a carico dell’artista. Anzi.

Iniziamo dai guadagni

Chi sicuramente non ci ha rimesso, è Christo stesso, il quale non solo rientrerà dei 18 milioni sborsati, ma vedrà crescere il proprio conto in banca. L’artista infatti, pur non accettando né commissioni, né sponsorizzazioni, né vendite di cataloghi, incasserà copiosamente dalla vendita dei bozzetti preparatori, soldi che saranno tassati negli Stati Uniti dove risiede e che quindi non produrranno ricchezza per lo Stato italiano. Per dare un’idea, un bozzetto di piccole dimensioni (34X56 cm) parte in media da circa 120 mila dollari, mentre uno di grande dimensioni arriva a 1,2 milioni di dollari. Se si considera che questi prezzi sono “figurativi”, visto che con la visibilità data da Floating Piers le quotazioni sono schizzate alle stelle e le trattative sono quasi tutte riservate, si comprende come per il Maestro le prospettive siano piuttosto rosee. Per lui i benefici sono già iniziati: novembre 2015, un suo bozzetto è stato battuto a New York a 334 mila dollari, con una base d’asta di “soli” 180 mila. A questi, poi, si devono aggiungere le opere per i “meno facoltosi”, come litografie e immagini fotografiche del progetto autografate dall’artista. Queste ultime – che possono avere una firma autografa o una semplice stampa – vanno dai 200 e ai 6 mila euro.
Alberto Nardi / AGF
Circa il comprensorio, invece, i conti sulla ricaduta economica li ha fatti la JFC di Rimini, l’unica società che abbia preparato uno lo studio “post evento”, sebbene nessuna amministrazione l’avesse commissionato… «The Floating Piers non può che essere considerato un grande successo», scrive nel rapporto Massimo Feruzzi, «capace di portare sul lago d’Iseo 808.900 persone che non vi erano mai state prima, sugli oltre 1,2 milioni di visitatori. Complessivamente le imprese del territorio hanno incassato in 16 giorni ben 88,1 milioni di euro: di questi, il 76,5%, pari a 67,4 milioni, sono stati fatturati grazie all’evento». A questa cifra va aggiunto il “value brand” che il Lago ha ottenuto grazie all’evento, valutato circa sette miliardi. Alla luce di questa analisi sarebbe dura sostenere che non sia stato un successo. Tuttavia: il brand value si riferisce al momento dell’evento, quando cioè il mondo intero cercava su internet Christo, Iseo, Sebino…, mentre non è mai stato ritenuto utile commissionare uno studio sullo stesso valore a sei mesi di distanza!

Circa i 67 milioni di valore aggiunto, un’analisi elaborata dal Comitato Territoriale di Confcommercio a tre settimane dall’evento, dimostra come da un punto di vista imprenditoriale il “miracolo Christo” abbia beneficato solo alcune aziende, mentre ne avrebbe danneggiato molte altre. Il volume di affari di quanti – bar, ristoranti e supermercati – si trovavano in prossimità dei punti di arrivo, è triplicato, mentre per gli operatori dell’accoglienza posizionati in luoghi più distanti, il fatturato è caduto anche del 70%. Non solo, il blocco totale della circolazione deciso dal prefetto di Brescia Valerio Valenti per fare fronte all’invasione dei visitatori, ha comportato la paralisi delle forniture e azzerato i guadagni nei giorni di saldi estivi. Anche sul fronte dei pernottamenti ci sono state luci ed ombre: mentre gli hotel registravano il tutto esaurito (e innalzavano i prezzi), i campeggi non hanno registrato variazioni sensibili.
Davide La Monaca / AGF
Ai mancati guadagni si deve poi aggiungere la beffa: in previsione dell’evento, molti comuni hanno ritoccato all’insù le tasse locali: come il canone per l’occupazione del suolo cresciuto in media del 38%. Aumenti si sono registrati, ha denunciato Legambiente, anche nelle tariffe della navigazione fluviale: con l’orario entrato in vigore il 18 aprile 2016, la Naviseo ha aumentato gli abbonamenti annuali per i non residenti del 30% (da 236 euro a 307 euro) e del 45% quelli mensili per studenti residenti (da 34,50 euro a 50 euro mensili). Ha inoltre abbracciato un sistema di tariffazione a tempo e non più a tratta, che per l’associazione è stato pensato apposta per costringere i turisti a pagare due tratte singole invece che una andata e un ritorno.

Chi ha sicuramente guadagnato sono stati i comuni interessati: Montisola, Sulzano e Iseo, che hanno visto crescere i loro saldi di bilancio. Tra tasse di soggiorno, trasferimenti dalla Regione, vendita dei biglietti delle navette, parcheggi e multe, gli incrementi sono stati sensibili. Sulzano ha chiuso con + 240 mila euro (25 mila solo di multe), cui si aggiungono i 150 mila bonificati dal Pirellone. A Iseo gli introiti per il Comune sono stati di 250 mila euro (180 mila dai parcheggi, 20 mila dagli autopark e 35 mila dai parchimetri), somma alla quale vanno aggiunte le contravvenzioni. Montisola invece avrebbe ricavato circa 450 mila euro, comprendendo anche i 150 mila euro della Regione. Le multe hanno aiutato anche i comuni non direttamente interessati dall’installazione, come Merone, che si è ritrovato con un +82 mila euro in cassa, grazie soprattutto ai 23.248 arrivati dai verbali.

Le note dolenti

Queste le note positive, ora veniamo alle note dolenti, cioè le spese. Sebbene l’intera operazione sia stata spacciata come a costo zero per il pubblico, in realtà il Pirellone già prima dell’apertura del FP aveva staccato numerosi assegni: 700 mila ai comuni per sostenere il marketing e il progetto; 535 mila per le spese della sanità; 150 mila per i contributi dei volontari della protezione civile; 400 mila per gli agenti della polizia locale provenienti da altre città come Milano; 218 mila per il potenziamento di Trenord. In totale la spesa è stata quantificata in tre milioni di euro.

Tutti fondi, come dichiarato dall’assessore regionale Parolini, decisi prima dell’evento, quando si preventiva un afflusso di circa 40 mila persone al giorno. In realtà l’affluenza quotidiana media è stata di 100 mila visitatori, il che ha determinato un’impennata delle spese. Parolini ha però negato costi aggiuntivi, tuttavia ancora non ci sono le cifre definitive. Per esempio la Regione ignora quanti soldi abbia incassato Trenord per il servizio, né ha saputo dire se i treni, che il prefetto di Brescia aveva soppresso per bloccare la fiumana di gente diretta al FP, siano stati comunque pagati alla società o scorporati dai costi.

Anche Prefettura e Provincia di Brescia hanno negato costi aggiuntivi, sostenendo che la sicurezza è stata effettuata con forze già presenti sul territorio. Tuttavia era stato lo stesso Prefetto Valenti a dire che oltre al contingente territoriale, sarebbero arrivati agenti di rinforzo da Roma: 20 uomini in più in servizio nei giorni feriali e 30 nei giorni festivi. Inoltre la macchina per garantire sicurezza e sanità è stata impressionante: sono stati creati due presidi permanenti di Carabinieri, Polizia, GdF e Forestale con funzioni antiterrorismo; erano operativi due elicotteri, due imbarcazioni della GdF, una motovedetta, due natanti e quattro acqua-scooter, 4 gommoni dei pompieri. Per la sanità, invece, erano in servizio permanente nove ambulanze, due automediche, due gommoni sanitari, due moto-soccorso, sei squadre appiedate. A tutto ciò si sono aggiunti anche i 360 volontari della Protezione civile bresciana e i 120 di quella bergamasca.




Xinhua/Photoshot / AGF

Per un evento del genere è il minimo che le istituzioni debbano fare, ma tale spiegamento ha avuto costi ancora oggi non quantificati. Sull’operazione, dopo un esposto del Codacons nell’agosto scorso, la Corte dei Conti lombarda ha aperto un fascicolo, ha richiesto tutti gli atti amministrativi e sta ancora indagando. A calcolare le spese occulte, ha provato Legambiente in uno studio commissionato per determinare i costi pubblici e quelli collettivi dell’opera (questi rilevati in base anche all’impatto che essa ha avuto sulla vita dei cittadini coinvolti). Per l’associazione, la stima totale arriverebbe a 33,3 milioni: 18 milioni a carico di Christo, 8 milioni a carico degli enti pubblici e 7,8 a carico della collettività. Per Legambiente, solo la mobilitazione delle forze di sicurezza sarebbe costata tre milioni, mentre lo smaltimento delle 900 tonnellate di rifiuti prodotti nei 16 giorni, 2,4 milioni. Per gli ambientalisti, insomma, il gioco non valeva la candela, come dimostra il fatto che per oltre 20 anni Christo ha proposto la passerella galleggiante in giro per il mondo e che nessun Paese abbia mai accettato. A parte l’Italia.

«Sono stati sovrastimati i benefici, mentre non sono stati calcolati costi pubblici, effetti ambientali e stress territoriale. Infatti senza una valutazione ambientale (esclusa incredibilmente dalla Conferenza di servizi) e della spesa pubblica, non è stato possibile effettuare una valutazione complessiva dell’evento. Alla luce del volume dell’investimento, 32 milioni circa tra pubblico e privato, c’è da chiedersi se in un “distretto” turistico come quello del Sebino gli investimenti fatti avranno un effettivo ritorno. La ricettività turistica è limitata e la propensione dell’area non è quella dell’Industria turistica, ma del turismo sostenibile», ha detto Dario Balotta, responsabile Trasporti di Legambiente.

Delle cifre riportate dall’associazione si può discutere, indiscutibile è invece il fatto che nessun ente abbia mai commissionato un’analisi costi/benefici prima di dare l’ok al progetto. Così come è indubbio che Arpa Lombardia non abbia richiesto una Valutazione di impatto ambientale né dell’opera né dell’evento in sé, perché “In quanto installazione artistica, e quindi opera di carattere temporaneo, “The Floating Piers” non è stata sottoposta né a VIA (valutazione di impatto ambientale) né a verifica di VIA”. L’agenzia per l’Ambiente ha solo richiesto “una relazione circa i possibili effetti sull’ambiente e le conseguenti misure da adottare”.

Ciò che invece l’Arpa ha preteso è stato il ritorno alla situazione “ante quo”, imponendo la rimozione dei 160 blocchi di calcestruzzo utilizzati come ancoraggio del pontile. Un’operazione che potrebbe aver fatto più male che bene al lago di Iseo. La rimozione per il professor Marco Pilotti, docente di Idraulica del dipartimento di Ingegneria civile dell’Università di Brescia e tra i massimi esperti del lago d’Iseo, ha sicuramente peggiorato la condizione ipolimnica (lo strato profondo) del lago. «Il recupero dei corpi morti, » dice, «ha certamente sollevato i sedimenti del fondale, dove è contenuta una quantità di fosforo 15 volte maggiore a quella presente nell’acqua immediatamente sovrastante, che già oggi è caratterizzata da valori preoccupanti di concentrazione». Dati precisi però non ci sono né ci saranno, perché mancano i fondi per una ricerca approfondita. Inoltre, nonostante l’immagine “green” che i responsabili hanno sempre cercato di dare all’opera, non è stata mai indicata la quantità di CO2 prodotta. A questo ha cercato di rispondere lo Studioaxs di Lucca, esperti in bioarchitettura, che ha valutato in 5617,7 Tonnellate le emissioni prodotte. Cifra enorme: per assorbirle servono circa 3745 alberi di grande dimensione che purificano per 50 anni consecutivi.

Concludendo: se FP, come dice Maroni, è stato l’esempio da replicare in futuro, molti aspetti devono essere migliorati. Le istituzioni prima di dare l’ok a un’operazione del genere dovrebbero avere chiaro quale sia il bilancio costi/benefici e pretendere un’analisi di impatto ambientale. Dovrebbero poi dare anche una chiara indicazione dei costi sostenuti e rendicontarli. Infine, dovrebbero preparare un progetto a lungo termine. Snellire la burocrazia è produttivo, ma “saltare” a piè pari i più elementari passaggi di valutazione è imperdonabile per chi è chiamato ad allocare fondi pubblici.

Nel caso di FP a oggi manca un progetto organico che capitalizzi il successo della passerella. L’opera ha sicuramente prodotto ricchezza momentanea e ha fatto conoscere il nome di Iseo nel mondo, ma questa era la parte facile. Già da settembre scorso si sarebbe dovuta iniziare un’azione di vero marketing territoriale, che partisse da Christo e investisse su tutto il territorio. «Come sindaci del comprensorio abbiamo fatto delle richieste alla Regione per un accordo di programma che preveda interventi su viabilità, ambiente e investimenti culturali», ha spiegato Paola Pezzotti, sindaco di Sulzano, «perché sappiamo che il difficile inizia ora. Siamo in attesa di risposta». Il Pirellone ancora non si è pronunciato, né ha indicato le opere da finanziare, nonostante Maroni lo avesse promesso con grande enfasi durante le celebrazioni post evento. Ora il tempo stringe e si rischia seriamente di perdere molti dei benefici del miracolo di Christo.

2016/12/01

Nonostante tutto!




Alle 3 e 27 del pomeriggio del 15 gennaio del 2009, a due minuti dal decollo, a circa 900 metri sopra la città di New York e a 7 chilometri dalla pista di atterraggio più vicina all'aeroporto La Guardia, l'Airbus A320-214 della US Airlines — volo 1549 — intercetta la traiettoria di uno stormo di oche canadesi. Le centra in pieno e il risultato dell'impatto è drammatico: entrambi i motori sono inutilizzabili. L'aereo, diretto a Charlotte, North Carolina, non ha più propulsione, rischia lo stallo. «Hit birds», comunica immediatamente il capitano Chesley Sullenberger, detto Sully, «Abbiamo perso spinta su entrambi i motori. Stiamo tornando verso LaGuardia». Al suo fianco ha il copilota, Jeff Skiles, in cabina, oltre alle 3 hostess, ci sono 150 passeggeri.

Quando Sully pronuncia quella frase sono passati pochi secondi dalla perdita dei motori e lui, che ha 59 anni, 40 anni di esperienza e circa 20mila ore di volo alle spalle, mentre ordina al copilota di prendere il manuale e avviare la procedura di emergenza per tentare di riavviare i motori e riprendere il controllo dell'aereo, non sa ancora cosa deve fare. L'Airbus che sta pilotando sta andando circa 350 km all'ora e, contando che non ha più i motori, ha appena raggiunto la massima altitudine a cui può arrivare.

Dalla torre di controllo del LaGuardia gli propongono due alternative. Per l'uomo della torre sono le uniche: o provare l'atterraggio di emergenza al LaGuardia, da dove è partito due minuti prima, o tentare la stessa manovra all'aeroporto di Teterboro. Ma mentre il controllore della torre dà a Sully le istruzioni per la prima manovra, intanto che il copilota capisce che la procedura di emergenza non gli permetterà di riaccendere i motori, Sully ha già deciso cosa fare. Risentendo ora la comunicazione, la voce del capitano risulta ferma e decisa, ma tutto sommato tranquilla. «We're gonna be in the Hudson», dice, «Stiamo andando nell'Hudson». Mentre in torre di controllo non ci vogliono credere, Sully prende il microfono di bordo e, con la stessa voce ferma e decisa, fa un annuncio in cabina: «Brace for impact». Prepararsi all'impatto.

Dopo 90 secondi l'Airbus galleggia alla deriva sull'Hudson. Sulle ali e dalle uscite di emergenza escono con ordine 155 persone, tutti sulle proprie gambe. L'ultimo a uscire è Chesley Sullenberger. E mentre tutti stanno già parlando di lui come di un eroe e di quello che è successo come un miracolo, una commissione di inchiesta comincia a indagare su Sully, l'uomo che non ha seguito le procedure.

È esattamente questo il punto in cui si inserisce Clint Eastwood, il momento in cui un uomo che fa il suo dovere e diventa suo malgrado un eroe agli occhi degli altri, viene messo in discussione, oltre che dall'autorità e dalla burocrazia, dalla propria coscienza, da se stesso. Eastwood è fatto così. È uno che, nelle sue storie, ama una cosa soprattutto: prendere un eroe, disinnescare la retorica che lo circonda, metterlo allo specchio e mettersi comodo a guardare cosa succede, cercando di vederci in controluce l'umanità. Lo ha fatto tante volte, l'ultima volta proprio con quel Chris Kyle al centro di American Sniper, e lo rifà ancora una volta con Sully.

La storia del volo 1549 della US Airways è una storia difficile da raccontare. Soprattutto se il tuo obiettivo è quello di evitare la retorica. Eppure Clint Eastwood ci riesce. E ci riesce usando la tecnica di sempre: lasciare la retorica alla storia e toglierla dal racconto; non usare il forcipe da commozione e quindi mostrare, senza spiegare.

Quello che interessa Eastwood, infatti, non sono i 200 secondi in cui si gioca tutta la partita, quelli in cui Sully e il copilota, mettendo in pratica una manovra praticamente inedita, riescono a fare atterrare un aereo di linea su un fiume portando a terra sani e salvi tutti i 150 passeggeri a bordo, più le tre assistenti di volo, più loro due. Quello che interessa a Eastwood è tutto quello che succede dopo, nei giorni seguenti — che nella realtà sono a qualche mese di distanza, ma che nel film, per esigenze narrative, sono stati spostate alle ore successive all'incidente — andando a parare su uno dei temi narrativamente più interessanti dell'ultimo secolo: il rapporto tra l'uomo e la macchina.

Nel film di Paolo Sorrentino Le conseguenze dell'amore, Toni Servillo nei panni di Titta Di Girolamo a un certo punto pronuncia una frase molto potente: «Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà, sarà un giorno sbagliato». Nel suo caso le macchine sono delle macchine conta soldi, e lui sta per truffare una banca svizzera. Ma la stessa frase, presa di peso e portata nella storia di Sully, mantiene tutto il suo senso.

Per la commissione di inchiesta sull'incidente, infatti, Sully non è un eroe. E non lo è perché non ha salvato 150 persone dalla morte, ma perché quelle stesse 150 persone le avrebbe messe in pericolo a causa della sua improvvida decisione di ignorare le procedure e agire d'istinto. Il tradimento della procedura per la creatività, ovvero la vittoria dell'istinto sulla ragione, per la struttura è un atto gravissimo, insopportabile, di lesa maestà contro la Struttura.

Per punire l'uomo e difendersi, la Struttura si affida alle macchine, schiera gli algoritmi e per sostenere le sue accuse porta al processo decine di simulazioni, sia al computer che con l'ausilio di piloti umani. Il responso è sempre lo stesso: calcolando tutti i parametri inseriti dall'accusa, quell'aereo poteva atterrare sia a LaGuardia che a Teterboro. Secondo le macchine, quindi, non solo Sully avrebbe agito con imprudenza. No, peggio, scambiandosi per un dio, Sully avrebbe messo in pericolo 154 vite solo per affermare egoisticamente la propria individualità ribellandosi alla certezza matematica delle procedure. Sully sembra spacciato, chi mai potrà battere un computer quando di parla di algoritmi e procedure?

La risposta è una sola, ed è l'unica variabile che le procedure non possono calcolare, quella variabile X che è poi quella che ha garantito al volo 1549 di non schiantarsi su New York. È il fattore umano, in questo caso il fattore Sully, che facendo ricorso alle proprie sensazioni, al proprio istinto e alla propria esperienza è riuscito dove nessuna macchina avrebbe potuto riuscire: ha fatto una scelta totalmente contraria a ogni tipo di procedura, ha affrontato una situazione che non si era mai presentata prima e ne uscito camminando sulle sue gambe e salvando 154 vite, più la sua.

Non è detto che Eastwood volesse passarci una morale raccontandoci questa storia. Ma se lo voleva fare, allora la morale è la seguente: l'epoca che stiamo vivendo ci sta portando a consegnare la nostra vita in mano a delle macchine, a degli algoritmi, a delle gelide procedure. Stiamo smettendo di avere fiducia negli uomini. E il giorno sbagliato si sta avvicinando. Per evitare che succeda, per resistere e non abdicare la nostra umanità abbiamo bisogno di ricordarci che non è vero, che le macchine, da sole, per quanto siano miliardi di volte più veloci del nostro cervello, non riusciranno a prendere il suo posto.

Nella filologia, ovvero la disciplina che studia l'origine dei manoscritti ricostruendone l'albero genealogico, esiste un metodo che si usa da metà Ottocento. Non è un metodo scientifico, ma come tutti i metodi basa la propria affidabilità sulla applicazione ferrea di una procedura, un algoritmo. Eppure, una macchina non sarà mai in grado di eseguirlo. Perché? Semplice, perchè c'è un punto dello schema delle procedure in cui l'incertezza davanti a un bivio è totale, in cui non abbiamo sufficienti indizi per scegliere con certezza tra A o B. Per uscirne c'è soltanto una procedura, l'unica che un computer non è in grado di capire e che porta l'affascinante nome latino di Divinatio. Cosa vuol dire? Semplice, che davanti al bivio che lo blocca, il filologo, come il pilota, deve scegliere da sé, ricorrendo alla propria esperienza, al proprio istinto, alle proprie sensazioni. Come Sully.

2016/01/29

A proposito di gender e famiglia


Non so voi, io la famiglia la vedo come nella fotografia in alto. Un padre (di sesso rigorosamente maschile), una madre (di sesso rigorosamente femminile) una nidiata di marmocchi, poi d'accordo, le famiglie moderne sono allargate e vanno doverosamente aggiunti almeno i nonni, qualche zio, i cugini vicini e magari anche quelli lontani che si rivedono una volta all'anno nelle feste comandate, ma sempre di famiglia parliamo. Lo so che sono vecchio ho delle idee che diventa difficile sradicare. Lasciate che resti nel mio brodo e pensatela come volete ma leggetevi il testo sotto, poi magari discutiamo.

Sarebbe opportuno che su di una questione seria come il riconoscimento delle coppie omosessuali e relativi diritti – comprese le eventuali adozioni – ci fosse una discussione seria, ponderata, che vada al di là degli schieramenti partitici. Credo che per inquadrare il problema dovremmo guardarci indietro e chiederci come mai oggi spesso ci lamentiamo di come la nostra società, la famiglia, la comunità sociale registri una terribile involuzione che si ripercuote sulla stabilità stessa del paese da tutti i punti di vista. 

Se andiamo alle origini di questa crisi strutturale scopriremo che alla base ci sono stati anche tutta una serie di atteggiamenti, mentalità, leggi, cedimenti, compromessi che poco alla volta hanno distrutto i principi stessi di una comunità umana e tutti ne possono vedere gli aspetti negativi. Se la droga diventa libera, se i diritti cancellano i doveri, se il senso di responsabilità diventa una presa in giro, se i genitori sono assenti e non sono da eempio, se la scuola spesso non è all’altezza, se le famiglie sono sfasciate, se il risparmio è disprezzato, se a vincere sono sempre i “furbi”, se ogni debolezza o vizio diventa “scelta personale di libertà”, se ci si ammazza per un telefonino e si dimenticano o si cancellano i doveri, alla fine non crolla solo un paese ma – come avviene – soprattutto si incrinano i rapporti tra le persone e le generazioni. 

Per questo la discussione sulle coppie omosessuali imporrebbe di riflettere non solo sui “diritti” dei singoli, ma sulle conseguenze generali che tutta una serie di scelte portano all’equilibrio sociale. Credo che debba essere garantito il diritto degli/delle omosessuali ad esprimere la propria personalità ed avere tutta una serie di diritti di coppia: diritti civili, fiscali, patrimoniali, pensionistici, ma non che le scelte di una minoranza condizionino una intera società. 

Se ognuno deve essere libero di pensarla e vivere come vuole, un conto è una scelta personale, un’altra condizionare con questa scelta persone estranee, come i figli potenzialmente adottati. Diciamocelo con franchezza: esiste oggi una lobby gay che di fatto controlla e condiziona l’informazione, lo spettacolo e anche la politica, per esempio è stato incredibile vedere come siano stati moltiplicati almeno per cinque il numero delle persone partecipanti alle manifestazioni gay di domenica scorsa, senza che nessuno avesse il coraggio di obiettare qualcosa... 

Era sbagliato criminalizzare, emarginare ed ironizzare ieri sugli omosessuali, ma oggi si ridicolizzano quelli che chi chiedono semplicemente la normalità di una società che - se è arrivata fin qui nel correre dei secoli - in fondo è solo perché c’è una differenza naturale tra uomo e donna. In questo senso non servono crociate religiose o anatemi, ma ricordare per esempio che ci sono migliaia di coppie “normali” che attendono per anni un bambino in adozione e di cui non si parla mai. 

Soprattutto ricordiamoci che le donne italiane generano 1,3 figli a testa mentre 2,1 sarebbe il minimo per mantenere la popolazione, eppure oggi Italia non si fa molto per difendere le famiglie, cominciando da quelle “normali”.  Guardate all’estero come si riempiono le culle con una tutela concreta della maternità e del lavoro, con aiuti per le scuole, gli inserimenti, gli asili-nido, i contributi fiscali, le detrazioni... in Italia siamo spaventosamente indietro. 

Perché allora si discute tanto di figli da fare adottare alle coppie gay e non si sveltiscono per cominciare le pratiche di adozione italiane ed internazionali, un “buco nero” con violenze inaudite verso aspiranti genitori e potenziali figli, affogate spesso in un mare di corruzione? C’è mai stato un dibattito consapevole in Italia su queste vergogne burocratiche di coppie che per anni e anni devono attendere senza neppure sapere se verrà loro assegnato o meno un figlio? 

E poi le questioni “scientifiche” dove si è partiti da aiutare la maternità ma per infilarsi poi in una spirale sempre più folle ed economicamente miniera d’oro per cliniche, medici e ricercatori. Anche qui le questioni si giocano sempre sui “diritti”, ma poi nascono e si moltiplicano situazioni sempre più irreali ed assurde: spermatozoi conservati per anni e impiantati nel ventre di no-mamme ma di uteri in affitto, selezione di geni e di genere, crescite in vitro, banche di seme e manipolazioni genetiche, con gente che va e viene dall’estero “perché là è un mio diritto riconosciuto”. 

Sullo sfondo – come sempre - il solito “dio-denaro” per cui se paghi ottieni e puoi, altrimenti aspetti. Per favore, fermiamoci.

2014/12/29

PINOCCHIO PATOLOGICO

Questo post è dedicato a qualcuno che sa di essere
un bugiardo cronico ma che non lo ammette.

Perché questo testo anche se sarebbe più corretto scrivere "per chi"?
Viviamo in un mondo di bugiardi, tutti imbrogliano il vicino, l'amico, il fratello, l'amante, la moglie, il marito, i figli e aggiungiamoci il collega, il partner, il capo, il direttore e la lista sarebbe infinita.

Limitiamoci pertanto a una sfera privata, rimaniamo nell'ambito dell'amicizia e consideriamo che, forse, la persona con la quale stiamo per concludere affari d'oro altro non è che un bugiardo patologico, capace di infinocchiare chiunque per suo unico vantaggio. Diffidate di persone come questo descritto, diffidate.

Chi è bugiardo patologico, affetto dalla cosidetta sindrome di pinocchio, manifesta un vero e proprio disagio psicologico, di cui tende a escluderne la gravità, fino ad arrivare a non riconoscerlo neanche. Ciò causa molta sofferenza a sé stesso ed agli altri.

Le principali caratteristiche del bugiardo patologico sono:

Mentono gratuitamente, anche se non è necessario
Sono impazienti
Sono manipolativi nei confronti degli altri
Sono seduttivi e disinibiti
Sono intolleranti alle critiche
Pretendono perché è tutto dovuto loro
Non provano nessun rimorso
Sono incapaci di relazioni affettive mature
Il comportamento di chi “subisce” un bugiardo psicologico prevede tre strategie in tre tempi diversi:

Non tollerare assolutamente le bugie, anzi bisogna smascherarle sistematicamente, affrontandone l'onere di farlo, senza nessuna indulgenza.
Chiedere al bugiardo patologico l'auto-riconoscimento del proprio stato patologico ed invitarlo a chiedere un aiuto esterno per combatterne cause e sintomatologia.
Nel caso che le prime due strategie non siano accettate, prendere in considerazione l'opportunità di “abbandonare” il bugiardo patologico. Spesso questa si rivela l'unica strategia efficace nei confronti di chi è affetto da Sindrome di Pinocchio. Infatti il bugiardo patologico non accetta di rimanere solo.
La sindrome di Pinocchio, all'interno delle problematiche e dipendenze affettive e relazionali, si manifesta attraverso il negare, anche di fronte all'evidenza, tradimenti ed inventare attorno a tali situazioni vere e propri castelli di bugie.

Il partner che accetta tale tipo di comportamento o tende ad essere indulgente verso lo stesso, deve seriamente interrogarsi sul perchè non pone in atto un proprio efficace comportamento di contrasto. Come già accennato prima il bugiardo patologico necessita della presenza dell'altro.

Dal punto di vista clinico il bugiardo patologico può essere affetto da disturbo istrionico di personalità che è caratterizzato da un tipico quadro pervasivo di emotività eccessiva, ricerca di attenzione, ed appaiono a prima vista attivi, interattivi e disinibiti.

Per essere diagnosticato come disturbo il DSM IV prevede che deve manifestarsi in una varietà di contesti con la presenza di almeno cinque dei seguenti sintomi:

la persona è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell'attenzione
l'interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante
manifesta un'espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale
costantemente utilizza l'aspetto fisico per attirare l'attenzione su di sé
lo stile dell'eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli
mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni
è suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze
considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente.

2014/08/30

Perché i media raccontano Israele in maniera sbagliata?



La storia di Israele

È rimasto qualcosa da dire su Israele e Gaza? I giornali di questa estate erano pieni di ben poco d’altro. I telespettatori vedono cumuli di macerie e pennacchi di fumo anche quando dormono. Un articolo rappresentativo, in un recente numero di The New Yorker, ha descritto gli eventi dell’estate dedicando una frase ciascuno agli orrori in Nigeria e Ucraina, quattro frasi alle follie genocide dell’ISIS e tutto il resto dell’articolo – trenta frasi – a Israele e Gaza.

Quando l’isteria si attenuerà, credo che gli eventi di Gaza non saranno ricordati dal mondo come particolarmente importanti. Persone sono rimaste uccise, la maggior parte delle quali palestinesi, tra cui molti innocenti inermi. Vorrei poter dire che la tragedia della loro morte, o la morte di soldati israeliani, cambierà qualcosa, che segnano un punto di svolta. Ma non è così. Questo round non è la prima delle guerre arabe con Israele e non sarà l’ultima. La campagna israeliana era poco diversa nella sua esecuzione da qualsiasi altra condotta da un esercito occidentale contro un nemico simile negli ultimi anni, fatta eccezione per la natura più immediata della minaccia alla popolazione del proprio paese e i maggiori sforzi, tuttavia futili, per evitare morti civili.

La durevole importanza della guerra di questa estate, credo, non sta nella guerra stessa. Si trova invece nel modo in cui la guerra è stata descritta e affrontata all’estero e il modo in cui questo ha messo a nudo la rinascita di un vecchio, contorto modello di pensiero e il suo sdoganamento dalla marginalità della narrativa prevalente in occidentale, e cioè un’ostile ossessione verso gli ebrei. La chiave per comprendere questa rinascita non si trova tra i webmaster jihadisti, i teorici della cospirazione, i cantinari o gli attivisti più radicali. È invece da trovare per prima tra le persone istruite e rispettabili che popolano l’industria delle notizie internazionali; persone perbene, molte di loro, alcune di loro miei ex colleghi.

Mentre la mania globale per le azioni israeliane può considerarsi garantita, essa è in realtà il risultato di decisioni prese da singoli esseri umani in posizioni di responsabilità, in questo caso i giornalisti e i redattori. Il mondo non reagisce agli eventi che si svolgono in questo paese, ma piuttosto alla descrizione di questi eventi da parte delle organizzazioni giornalistiche. La chiave per comprendere la strana natura della reazione si viene così a trovare nella pratica del giornalismo e in particolare in un malfunzionamento grave che si sta verificando in quella professione, la mia professione, qui in Israele.

In questo saggio cercherò di fornire alcuni strumenti per rendere il senso delle notizie da Israele. Ho acquistato questi strumenti da addetta ai lavori: Tra il 2006 e la fine del 2011 sono stato giornalista e redattore nell’ufficio di Gerusalemme dell’Associated Press, uno dei due principali fornitori di notizie del mondo. Ho vissuto in Israele dal 1995 e scrivo su di essa dal 1997.

Questo saggio non è un’indagine esaustiva sui peccati dei media internazionali, oppure una polemica conservatrice o una difesa delle politiche israeliane. (Io credo nell’importanza dei media “mainstream”, sono un liberal e rimango critico verso molte delle politiche del mio paese). Esso  prevederà necessariamente alcune generalizzazioni. Inizierò col delineare i tropi centrali della storia d’Israele secondo i media internazionali, una storia sulla quale ci sono sorprendentemente poche variazioni tra tutte le strutture informative di mainstream e una che è, come la stessa parola “storia” suggerisce, un costrutto narrativo che è in gran parte finzione. Quindi noterò il più ampio contesto storico in cui Israele è venuto in argomento e discuterò e spiegherò perché credo che questo sia motivo di preoccupazione non solo per le persone interessate alla questioni ebraiche. Cercherò di essere breve.

Quanto è importante la storia di Israele?

L’assunzione di personale è la migliore misura dell’importanza di una storia per una particolare organizzazione giornalistica. Quando ero corrispondente dell’AP, l’agenzia aveva più di 40 membri di staff che coprivano Israele e i territori palestinesi. Quello era significativamente più personale giornalistico di quello che l’AP aveva in Cina, in Russia o in India o in tutti i 50 paesi dell’Africa sub-sahariana sommati. È rimasto superiore al numero totale di degli inviati in tutti i paesi in cui le rivolte della “primavera araba” alla fine esplosero.

Per offrire un senso della scala: prima dello scoppio della guerra civile in Siria, la presenza del personale permanente di AP in tale paese era costituita da un singolo inviato approvato dal regime. I redattori della AP credevano, cioè, che l’importanza della Siria fosse meno di un quarantesimo di quella di Israele. Non sto focalizzandomi sull’AP – l’agenzia è totalmente rappresentativa, questo la rende utile come esempio. I grandi protagonisti del business del giornalismo praticano il groupthink e questi assetti di personale si sono propagati in tutto il  branco. I livelli di personale in Israele sono diminuiti un po’ dal momento in cui le rivolte arabe sono iniziate, ma rimangono alti. E quando in Israele divampa un conflitto, come è successo questa estate, i giornalisti sono spesso trasferiti da altri mortali conflitti. Israele ancora trionfa su quasi tutto il resto.

Il volume di copertura mediatica che ne risulta, anche quando succede ben poco, dà a questo conflitto una prominenza rispetto al quale il suo pedaggio in vite umane rimane assurdamente piccolo. In tutto del 2013, per esempio, il conflitto israelo-palestinese è costato 42 vite umane, cioè circa il tasso mensile di omicidi nella città di Chicago. Gerusalemme, di fama internazionale come città di conflitto, aveva un po’ meno morti violente pro capite, l’anno scorso, di Portland nell’Oregon., una delle città più tranquille d’America. Al contrario, in tre anni il conflitto siriano ha provocato una stima di 190.000 vite umane, cioè circa 70.000 più del numero di persone che siano mai morte a causa del conflitto arabo-israeliano da quando esso è iniziato un secolo fa.

Le organizzazioni di notizie hanno comunque deciso che questo conflitto è più importante, per esempio, delle più di 1.600 donne uccise in Pakistan lo scorso anno (271 dopo essere state stuprate e 193 delle quali bruciate vive), della cancellazione permanente del Tibet da parte del Partito Comunista Cinese, della carneficina in Congo (più di 5 milioni di morti a partire dal 2012) o nella Repubblica Centrafricana e delle guerre di droga in Messico (con un numero di morti tra il 2006 e il 2012 uguale a 60.000), per non parlare di conflitti nessuno ha mai sentito parlare negli angoli oscuri della dell’India o della Thailandia. Essi credono che Israele sia la storia più importante del mondo o giù di lì.

Cos’è importante della storia di Israele e cosa no.

Un giornalista che lavora nelle strutture della stampa internazionale qui impara subito che ciò che è davvero importante nella storia israelo-palestinese è Israele. Se si segue la copertura tradizionale, non troverete quasi nessuna analisi reale della società palestinese o delle ideologie o dei profili dei gruppi armati palestinesi o un indagine sul governo palestinese. I palestinesi non vengono presi esattamente sul serio come protagonisti del proprio destino. L’occidente ha deciso che i palestinesi dovrebbero desiderare uno stato a fianco di Israele, in modo tale che questa opinione viene loro attribuita come un fatto, non ostante chi abbia trascorso del tempo con i palestinesi reali capisca che le cose sono (comprensibilmente, a mio parere) più complicate. Chi sono e cosa vogliono, non è importante: la storia esige che essi esistano solo in quanto vittime passive della parte che conta davvero.

La corruzione, per esempio, è una preoccupazione pressante per molti palestinesi sotto il governo dell’Autorità palestinese, ma quando io e un altro giornalista abbiamo una volta suggerito un articolo sul tema, siamo stati informati dal capo ufficio che la corruzione palestinese “non era la storia”. (La corruzione in Israele la era, l’abbiamo coperta a lungo.)

Le azioni israeliane vengono analizzate e criticate e ogni difetto nella società israeliana è segnalato aggressivamente. In un periodo di sette settimane, dall’ 8 novembre al16 dicembre 2011, ho deciso di contare gli articoli provenienti dal nostro ufficio sui vari fallimenti morali della società israeliana – le proposte legislative per sopprimere i media, la crescente influenza degli ebrei ortodossi, gli avamposti non autorizzati, la segregazione di genere e così via. Ho contato 27 distinti articoli, una media di una storia ogni due giorni. In una stima molto conservativa, in queste stesse sette settimane il riscontro è stato superiore al numero totale delle storie significativamente critiche verso il governo e la società palestinese, inclusi gli islamisti totalitari di Hamas, che il nostro ufficio aveva pubblicato nei precedenti tre anni.

La Carta di Hamas, per esempio, non invoca solamente la distruzione di Israele ma anche l’assassinio degli ebrei e accusa gli ebrei di aver organizzato le rivoluzioni francese e russa e le due guerre mondiali; La Carta non è stata mai menzionata dalla stampa mentre ero all’AP, anche se Hamas aveva vinto le elezioni nazionali palestinesi ed era diventato uno dei protagonisti più importanti della regione. Per indicare il legame con gli eventi di questa estate: un osservatore potrebbe pensare che la decisione di Hamas negli ultimi anni di costruire una installazione militare sotto le infrastrutture civili di Gaza sarebbe stata ritenuta degno di nota, se non altro per ciò che significava circa il modo in cui il conflitto successivo sarebbe stato combattuto e il costo che implicava per le persone innocenti. Ma questo non è il caso. Le postazioni di Hamas non sono importanti di per sé e sono quindi state ignorate. Ciò che era importante era la decisione israeliana di attaccarle.

Si è molto discusso recentemente di come Hamas cerchi di intimidire i giornalisti. Qualsiasi inviato veterano qui sa che l’intimidazione è reale e l’ho vista in azione io stesso come redattore dell’ufficio stampa di AP. Durante i combattimenti 2008-2009 Gaza ho personalmente cancellato una notizia particolare, secondo la quale i combattenti di Hamas erano vestiti in borghese e i loro caduti venivano contabilizzati nelle statistiche come vittime civili, a causa di una minaccia verso la nostra inviata a Gaza. (La policy adottata era allora e rimane quella di non informare i lettori che la storia è censurata, a meno che la censura non sia israeliana. All’inizio di questo mese il redattore capo di Gerusalemme della AP aveva segnalato e presentato una storia sulle intimidazioni di Hamas, la storia è stata messa nel congelatore dai suoi superiori e non è stata pubblicata.)

Ma se i critici immaginano che i giornalisti chiedano a gran voce di coprire Hamas e siano ostacolati da teppisti e minacce, generalmente non è così. Ci sarebbero molti modi a basso rischio per segnalare le azioni di Hamas, se ce ne fosse la volontà: come editoriali da Israele oppure in forma anonima oppure citando fonti israeliane. I giornalisti sono pieni di risorse, quando vogliono.

Il fatto è che l’intimidazione Hamas è in gran parte fuori luogo perché sono le azioni dei palestinesi a essere fuori luogo: La maggior parte dei giornalisti a Gaza crede che il proprio compito sia  quello di documentare la violenza diretta da Israele contro i civili palestinesi. Questa è l’essenza della storia di Israele. Inoltre, i giornalisti sono in affanno per le scadenze e spesso a rischio e molti non parlano la lingua e hanno solo la più tenue delle prese su ciò che sta accadendo realmente attorno a loro. Essi dipendono dai colleghi palestinesi e da faccendieri che o temono Hamas oppure sostengono Hamas oppure entrambe le cose. I giornalisti non hanno bisogno che Hamas li costringa lontani da fatti che infanghino la semplice storia che sono stati inviati a raccontare.

Non è un caso che i pochi giornalisti che hanno documentato i combattenti di Hamas e i lanci di razzi in aree civili questa estate non provengano in genere, come ci si potrebbe aspettare, dai grandi organi di informazione permanentemente stanziati a Gaza. Erano per lo più giornalisti frammentari, periferici e occasionali, appena arrivati, un finlandese, un team indiano, pochi altri. Queste povere anime non avevano letto il promemoria.

Che altro non è importante?

Il fatto che gli israeliani poco tempo fa avessero eletto governi moderati che cercavano la riconciliazione con i palestinesi, e che sono stati compromessi dai palestinesi, è considerato poco importante e raramente menzionato. Queste lacune sono spesso non sviste, ma una questione di politica. All’inizio del 2009, per esempio, due miei colleghi avevano ottenuto informazioni sul primo ministro israeliano Ehud Olmert e sulla sua significativa offerta di pace verso l’Autorità palestinese, diversi mesi prima, che i palestinesi aveva ritenuto insufficiente. Questo non era stato ancora segnalato ed era, o avrebbe dovuto essere, una delle più grandi storie dell’anno. I giornalisti avevano ottenuto conferma da entrambi i lati e uno aveva anche visto una mappa, ma i capo redattori dell’ufficio hanno deciso di non pubblicare la storia.

Alcuni membri dello staff erano furiosi, ma non è servito. Il nostro racconto era che i palestinesi erano moderati e gli israeliani recalcitranti e sempre più estremisti. Segnalare l’offerta di Olmert – come scavare troppo in profondità Hamas – avrebbe fatto sembrare una sciocchezza quel racconto. Così siamo stati incaricati di ignorarla e così s’è fatto, per più di un anno e mezzo.

Questa decisione mi ha insegnato una lezione che dovrebbe essere chiara ai consumatori della storia di Israele: molte delle persone che decidono quello che leggerete e vedrete da qui vedono il loro ruolo non come esplicativo ma come politico. La copertura è un’arma da mettere a disposizione del lato che loro prediligono.

Come è contestualizzata la storia di Israele?

La storia di Israele è contestualizzata negli stessi termini in uso fin dai primi anni ’90, quelli della ricerca di una “soluzione dei due stati”. Viene ritenuto che il conflitto sia “israelo-palestinese”, il che significa che si tratta di un conflitto posto sul territorio che Israele controlla – lo 0,2 per cento del mondo arabo, in cui gli ebrei sono una maggioranza e gli arabi una minoranza. Il conflitto sarebbe ben più accuratamente descritto come “arabo-israeliano” oppure “arabo-ebraico”, cioè un conflitto tra i 6 milioni di ebrei di Israele e i 300 milioni di arabi nei paesi circostanti. (Forse “israelo-musulmano” sarebbe più esatto, prendendo in considerazione l’inimicizia di stati non arabi come l’Iran e la Turchia e, più in generale, di un miliardo di musulmani in tutto il mondo.) Questo è il conflitto che si è dispiegato in diverse forme per un secolo, prima che Israele esistesse, prima che Israele conquistasse i territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e prima ancora che il termine “palestinese” venisse mai utilizzato.

L’inquadratura “israelo-palestinese” permette agli ebrei, una piccola minoranza in Medio Oriente, di essere raffigurati come la parte forte. Essa comprende anche il presupposto implicito che se il problema palestinese fosse in qualche modo risolto, il conflitto finirebbe, anche se nessuna persona informata oggi riterrebbe ciò minimamente vero. Questa definizione permette anche di descrivere il progetto degli insediamenti israeliani, che credo sia un grave errore morale e strategico da parte di Israele, non come quello che è, uno dei sintomi più distruttivi del conflitto, ma piuttosto come la sua causa.

Un osservatore esperto del Medio Oriente non può evitare l’impressione che la regione sia un vulcano e che la lava sia l’Islam radicale, un’ideologia le cui diverse incarnazioni stanno ora plasmando questa parte del mondo. Israele è un piccolo villaggio sulle pendici del vulcano. Hamas è il rappresentante locale dell’Islam radicale ed è apertamente dedicato alla eradicazione della enclave minoritaria ebraica, in Israele, proprio come Hezbollah è il rappresentante dominante dell’Islam radicale in Libano, lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, i talebani in Afghanistan e Pakistan e così via.

Hamas non è, come si afferma liberalmente, parte dello sforzo di creare uno stato palestinese a fianco di Israele. Essa ha diversi obiettivi su cui è molto sincera e che sono simili a quelli dei gruppi qui sopra elencati. Dalla metà degli anni ’90, più di ogni altro protagonista, Hamas ha distrutto la sinistra israeliana, ha fatto vacillare gli israeliani moderati nei confronti di eventuali cessioni territoriali e sepolto le possibilità di un compromesso a due stati. Questo sarebbe un modo più preciso di inquadrare la storia.

Un osservatore potrebbe anche legittimamente inquadrare la storia attraverso la lente delle minoranze in Medio Oriente, che sono tutte sotto forte pressione da parte dell’Islam: quando le minoranze sono impotenti, il loro destino è quello degli Yazidi o dei cristiani del nord dell’Iraq, come abbiamo appena visto, quando sono armate e organizzate possono reagire e sopravvivere, come nel caso degli ebrei e (dobbiamo sperare) dei curdi.

Ci sono, in altre parole, molti modi diversi di vedere ciò che sta accadendo qui. Gerusalemme è a meno di un giorno di viaggio da Aleppo o da Baghdad e dovrebbe essere chiaro a tutti che la pace è piuttosto sfuggente in Medio Oriente, anche in luoghi dove gli ebrei sono totalmente assenti. Ma i giornalisti in genere non possono vedere la storia di Israele in relazione a qualsiasi altra cosa. Invece di descrivere Israele come uno dei villaggi adiacenti il vulcano, descrivono Israele come il vulcano.

La storia di Israele è incorniciata in modo tale da sembrare che non abbia nulla a che fare con gli eventi nelle vicinanze perché la “Israele” del giornalismo internazionale non esiste nello stesso universo geo-politico, come l’Iraq, la Siria, o l’Egitto. La storia di Israele non è una storia riguardo gli eventi attuali. Si tratta di qualcosa di diverso.

Il Vecchio Schermo Vuoto

Per secoli gli ebrei apolidi hanno svolto il ruolo del parafulmine per le cattiva volontà delle popolazioni maggioritarie. Erano il simbolo di tutte le cose che erano sbagliate. Volevi puntualizzare che l’avidità è un male? Gli ebrei erano avidi. La codardia? Gli ebrei erano codardi. Eri comunista? Gli ebrei erano capitalisti. Eri capitalista? In tal caso, gli ebrei erano comunisti. Il fallimento morale era il tratto essenziale dell’ebreo. Era il suo ruolo nella tradizione cristiana, l’unica ragione per la quale la società europea sapesse o si curasse di loro in prima battuta.

Come molti ebrei che sono cresciuti nel tardo 20° secolo nelle amichevoli città occidentali, mi congedai da tali idee derubricandole a febbrili memorie dei miei nonni. Una cosa che ho imparato, e non solo da questa estate, è che è stato stupido averlo fatto. Oggi le persone in Occidente tendono a credere che i mali della nostra epoca siano il razzismo, il colonialismo, e il militarismo. L’unico paese ebraico del mondo ha provocato meno danni rispetto alla maggior parte dei paesi della terra e anche maggior bene, eppure quando la gente va alla ricerca di un paese che simboleggi i peccati del nostro nuovo mondo dei sogni post-coloniali, post-militaristi e post-etnici, il paese prescelto è proprio questo.

Quando le persone con la responsabilità di spiegare il mondo al mondo, i giornalisti, coprono la guerra degli ebrei come maggiormente degna di attenzione rispetto a quelle di qualsiasi altro, quando si ritraggono gli ebrei di Israele come la parte ovviamente dalla parte del torto, quando si omettono tutte le possibili giustificazioni per le azioni degli ebrei e si nasconde il vero volto dei loro nemici, quello che si sta dicendo ai propri lettori – lo si intendono fare o meno – è che gli ebrei sono le persone peggiori sulla terra. Gli ebrei sono la simbolizzazione dei mali che alle persone civili viene insegnato, fin dalla più tenera età, ad aborrire. La rassegna stampa internazionale è diventata un’operetta morale che ha come protagonista un familiare dalla cattiva reputazione.

Alcuni lettori potrebbero ricordarsi che la Gran Bretagna ha partecipato all’invasione nel 2003 dell’Iraq, i cui effetti collaterali hanno ucciso più di tre volte il numero di persone mai rimaste uccise in tutto il conflitto arabo-israeliano; eppure in Gran Bretagna i manifestanti condannano furiosamente il militarismo ebraico. I bianchi di Londra e Parigi, i cui genitori non molto tempo fa erano loro stessi sventagliati da persone di pelle scura nei salotti di Rangoon o di Algeri, condannano il “colonialismo ebraico”. Americani che vivono in luoghi chiamati “Manhattan” o “Seattle” condannano gli ebrei per il trasferimento del popolo nativo di Palestina. Giornalisti russi condannano le brutali tattiche militari di Israele. Giornalisti belgi condannano la tratta degli africani in Israele. Quando Israele ha inaugurato un servizio di trasporto dedicato ai lavoratori palestinesi nella Cisgiordania occupata, pochi anni fa, i consumatori americani di notizie potevano leggere  di “segregazione sugli autobus” in Israele. Ci sono poi un sacco di persone in Europa, e non solo in Germania, che godono nell’udire gli ebrei accusati di genocidio.

Non è necessario essere un professore di storia, o uno psichiatra, per capire cosa sta succedendo. Avendo riabilitato se stessi, contro qualunque probabilità, in un minuscolo angolo della terra, i discendenti di gente senza potere, che era stata espulsa dell’Europa e del Medio Oriente islamico, sono diventati ciò che i loro nonni erano stati – la sputacchiera del mondo. Gli ebrei di Israele sono lo schermo su cui è diventato socialmente accettabile proiettare le cose che odi di te e del tuo paese. Lo strumento attraverso il quale viene eseguita questa proiezione psicologica è la stampa internazionale.

A chi importa se il mondo riceve una storia di Israele sbagliata?

Perché una voragine si è aperta qui tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui esse vengono descritte, le opinioni sono sbagliate, le politiche sono sbagliate e gli osservatori sono regolarmente resi ciechi agli eventi. Queste cose sono già successe. Negli anni che portarono alla dissoluzione del comunismo sovietico nel 1991, come l’esperto di cose russe Leon Aron ha scritto in un saggio per Foreign Policy nel 2011, “praticamente nessun esperto, studioso, funzionario o politico occidentale previde l’imminente crollo dell’Unione Sovietica”. L’impero stava marcendo da anni e i segni erano tutti lì, ma le persone che avrebbero dovuto avvedersene e raccontarlo fallirono e quando la superpotenza implose tutti ne furono sorpresi.

Venne il tempo della guerra civile spagnola: «All’inizio della mia vita avevo già notato che nessun evento sia mai riportato correttamente in un giornale, ma in Spagna, per la prima volta, ho osservato dei racconti sui giornali che non mostravano alcuna relazione con i fatti, nemmeno il rapporto che è implicata in una menzogna ordinaria. … Ho visto, infatti, una storia scritta non in termini di ciò che era accaduto, ma di ciò che avrebbe dovuto accadere secondo le varie ‘linee di partito’». Questo era George Orwell, scrivendone nel 1942.

Orwell non scese da un aereo in Catalogna, stando accanto a un cannone repubblicano e facendosi filmare mentre ripeteva con fiducia ciò che chiunque altro andava dicendo, descrivendo ciò che qualsiasi sciocco avrebbe potuto vedere: armi, macerie, corpi. Guardò al di là delle fantasie ideologiche dei suoi coetanei e sapeva che ciò che era importante non era necessariamente visibile. La Spagna, capì, aveva davvero poco a che fare con la Spagna, si trattava di uno scontro tra sistemi totalitari, tedesco e russo. Sapeva che era testimone di una minaccia per la civiltà europea, lo scrisse e aveva ragione.

Capire quello che è successo a Gaza questa estate significa comprendere Hezbollah in Libano, l’ascesa dei jihadisti sunniti in Siria e in Iraq e lunghi tentacoli dell’Iran. Richiede di cercare di capire perché paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita ora vedono se stessi come più vicini a Israele che a Hamas. Soprattutto, ci impone di comprendere ciò che è chiaro a quasi tutti in Medio Oriente: le forza in ascesa in questa parte del mondo non sono la democrazia e la modernità. È piuttosto una potente vena dell’Islam che assume forme diverse e talvolta contrastanti e che è disposta a impiegare una violenza estrema in una missione di unificazione della regione sotto il proprio controllo al fine di confrontarsi con l’Occidente. Coloro che colgono questo fatto saranno in grado di guardarsi intorno e di unire i puntini.

Israele non è un’idea, un simbolo del bene o del male o una cartina di tornasole per le chiacchiere in una cena liberal. Si tratta di un piccolo paese situato in una spaventosa parte del mondo che sta diventando sempre più paurosa. Va riportato criticamente come qualsiasi altro luogo e compreso in modo contestuale e proporzionato. Israele non è una delle storie più importanti del mondo e neanche del Medio Oriente; qualunque sia l’esito di questa regione nel prossimo decennio, esso avrà tanto a che fare con Israele quanto la seconda guerra mondiale ebbe a che fare con la Spagna. Israele è un puntino sulla mappa – un evento secondario a cui tocca il destino di farsi carico di un’insolita carica emotiva.

Molti in Occidente preferiscono chiaramente l’antico conforto dell’analisi delle carenze morali degli ebrei e la familiare sensazione di superiorità a cui questo li porta, piuttosto che confrontarsi con una realtà infelice e confusa. Essi possono così autoconvincersi che tutto questo sia solo un problema degli ebrei e che in effetti sia colpa degli ebrei. Ma i giornalisti si impegnano in queste fantasie al costo della propria credibilità e di quella della loro professione. Come Orwell ci direbbe, il mondo si intrattiene in fantasie a proprio rischio e pericolo.

By Matti Friedman fonte: http://www.rightsreporter.org/

2014/08/22

Sull'orlo del baratro


Quello che sta avvenendo in Iraq, a Gaza, nel Canale di Sicilia e in molti paesi del mondo - ma soprattutto in Africa e nelle nazioni islamiche - imporrebbe lunghe riflessioni. Siamo sull'orlo del baratro? 

- Credo che le responsabilità degli USA in questi ultimi anni nell’area mediorientale siano enormi per aver destabilizzato una situazione che era precaria, ma sostanzialmente stabile.

Saddam Hussein in Iraq era sicuramente un dittatore, ma non c’erano e non si erano preparate alternative credibili. La guerra a Saddam è partita anche per evidenti interessi petroliferi e mostrando false prove USA in sede ONU. Rappresentava Saddam l’allora ministro degli esteri Tareq Aziz (cristiano) poi condannato a morte dai “liberatori”, pena in questo momento “sospesa” solo per le pressioni europee. C’era quindi un cristiano ai vertici mentre oggi il paese è nel caos e crea nuova instabilità in tutta l’area, i cristiani fuggono o vengono massacrati, la tensione tra musulmani sciiti e sunniti è enorme e negli ultimi anni in Iraq migliaia di persone sono morte in reciproci attentati nel silenzio generale

- Se l’anno scorso non ci fosse stata una forte pressione diplomatica probabilmente gli USA avrebbero attaccato allo stesso modo Assad in Siria e oggi la situazione in quel paese sarebbe anche peggiore, intanto almeno le armi chimiche sono state distrutte.

- Anche l’Afghanistan collasserà poco dopo l’addio delle truppe alleate. Quindici anni di occupazione non hanno portato alcun progresso politico nel paese dove verrà applicata la shaira islamica che nel frattempo è stata adottata in molti paesi dell’Asia e dell’Africa.

- Ogni intervento nell’area (vedi la liquidazione di Gheddafi) ha peggiorato la situazione, esattamente come avvenne in Somalia: dare calci ai formicai diffonde formiche ovunque, non risolve i problemi. 

Perché avviene questo? Perché troppe volte si pensa che il concetto di democrazia occidentale sia applicabile in paesi dove non c’è questa cultura e invece la religione ha un ruolo per noi incomprensibile e fanatico. Se poi si vota “democraticamente” ovunque vincono gli estremisti islamici proprio perché numericamente sono tantissimi e raccolgono le maggioranze: i moderati che ragionano e vorrebbero il dialogo sono pochi. Alla fine (vedi Egitto) i regimi semi-democratici ma appoggiati dai militari danno purtroppo le maggiori garanzie di stabilità. 

- I presidenti USA (come i governi occidentali) seguono le logiche dei sondaggi elettorali e la volubilità della opinione pubblica, nessuno pianifica mai il “dopo” di un intervento militare con crisi che si incancreniscono nei decenni e non si risolvono mai. Scegliere i tempi di un raid o un ritiro di forze in base al proprio tornaconto elettorale è una follia, ma è nella logica del ritorno d’immagine di un leader politico. 

- I fondamentalisti islamici non hanno alcun rispetto per le persone e i civili: è vero che a Gaza i terroristi si nascondono negli ospedali e nelle scuole, è purtroppo la stessa logica della rappresaglia che durante ogni Resistenza (anche la nostra) caratterizzava ieri le bande partigiane comuniste e oggi quelle islamiche: più attentati e eccidi scatenano più rappresaglie che generano più odio, più danni collaterali per il nemico, più terrore e alla fine maggior controllo del territorio. Il metodo non cambia.

- Gli incrementi demografici arabi in tutto il Medio Oriente sono spaventosi. A Gaza, per esempio, “non c’è più posto” e vivono ammassate milioni di persone e di profughi: l’area è e sarebbe comunque una polveriera. Ovvio che in queste situazioni di tensione cresca la possibilità di reclutare nuovi adepti per le “guerre sante” da parte dei gruppi più estremi. 

- La storia dell’ultimo secolo sottolinea drammaticamente la cecità e l’ignoranza dell’Occidente nei confronti dell’Islam e della sua cultura dando spazio e argomenti agli estremisti che vivono sulla disperazione di decine di milioni di persone che non hanno più nulla da perdere

- L’Occidente e l’Europa sono oggetto di invasione islamica, logica conseguenza di quanto sopra e purtroppo tra i milioni di nuovi ingressi ci sono anche estremisti, fondamentalisti e terroristi che hanno facile presa su frange di immigrati che di solito in Europa stanno meglio che nel loro paese di origine, ma peggio dei cittadini locali. 

Nascono ghetti, sfruttamento, tensioni, invidie e a volte violenze, cresce il rischio di epidemie ma di questi aspetti non si vuole parlare. Come per il problema profughi vince il facile “buonismo”, la commozione del momento, ma non c’è alcuna strategia di intervento oltre al doveroso aspetto umanitario immediato e con la crisi economica i problemi si complicano.

- l’Europa è debolissima sia dal punto di vista militare che culturale, contraddittoria e distratta. Si riempie la bocca di demagogia e poi non si accorge (o non si vuole accorgere) della sua fragilità o semplicemente del fatto che sarà islamizzata da qui a poche generazioni: i numeri sono inequivocabili, le progressioni evidenti, ma si fa appunto finta di dimenticarli.

- l’Europa (e tanto meno l’Italia) non fa nulla per difendersi: non impone “filtri”, controlli, accetta tutto e tutti nel nome della “libertà” come le città antiche che venivano espugnate semplicemente perché a difendere le mura non c’era più nessuno o qualche traditore apriva le porte all’invasore. La storia sempre si ripete

CHE POTREMMO FARE?

- A livello europeo e italiano tentare di avere più coraggio “selezionando” gli arrivi e ad esempio sospendendo subito l’operazione “Mare Nostrum” che in nome della solidarietà incentiva l’arrivo di decine di migliaia di persone. 
I numeri recentemente diffusi dal ministro dell'interno parlano di oltre 100.000 profughi nel solo 2014 ma quasi la metà sono spariti nel nulla, non identificati e neppure accolti nei centri di accoglienza: la malavita ringrazia per questa fornitura di manodopera a basso costo.

- Queste persone vanno aiutate seriamente a casa loro, intercettate sulle spiagge prima della partenza, selezionate creando flussi programmati anziché addirittura incentivare il “liberi tutti”. A questo proposito si deve fare chiarezza su chi (la mafia?) sta guadagnando con questi flussi che sono diventati un vero e proprio business. E perché, dovendo fare una scelta, non si aiutano allora prima i cristiani che fuggono da Siria ed Iraq?

- Alcune situazioni come quella in Eritrea sottolinea l’abbandono europeo in aree che già erano di nostra influenza. Risolvere una situazione locale in quel piccolo paese avrebbe voluto dire decine di migliaia di profughi in meno, ma non si è fatto e non si fa assolutamente nulla. Tra l’altro l’Italia ne ha una responsabilità diretta, visto che l’Eritrea è stata una nostra colonia per un secolo, si parlava italiano e la nostra presenza era visibile e importante. 

- Dobbiamo pretendere scelte coerenti dai governanti, ma anche dalle comunità islamiche presenti in Europa. Bene ha fatto il ministro dell'interno a espellere un Iman estremista, ma quanti ce ne sono? Non ci sono state molte prese di posizione chiare e inequivocabili degli esponenti musulmani italiani o europei (e soprattutto seguite da atteggiamenti conseguenti) per quanto avviene in Iraq. Il loro silenzio sulle atrocità contro i cristiani in tutto il Medio oriente è inaccettabile. Questi atteggiamenti vanno pretesi (e verificati) dai media e dalla pubblica opinione, anche per sostenere quella gran parte di musulmani moderati che in Europa oggi hanno PAURA dei loro stessi “fratelli” estremisti, ma non sono né compresi né aiutati.

- Assolutamente NO all’ “Occhio per occhio, dente per dente” ma se si rispettano le convinzioni religiose e le tradizioni altrui quando si è in un altro paese, dobbiamo difendere le nostre in regime di reciprocità. Si possono fare mille azioni pratiche per ribadire la nostra identità religiosa e culturale nazionale, europea e occidentale. Ma non si vuole farlo! 

- Chiediamoci se Israele abbia davvero tutti i torti o se invece ci sia una precisa volontà di farlo apparire “aggressore” da chi vorrebbe distruggerlo. Se è indubbio che estremisti israeliani fomentano provocazioni ed occupazioni territoriali abusive la crisi recente a Gaza è stata preceduta da settimane di lanci di razzi contro Israele: il mondo non li ha fermati, si è limitato alle chiacchiere. 

- Impariamo a distinguere anche all’interno della politica araba e palestinese: ci sono moderati che vorrebbero il dialogo ed estremisti che lo distruggono. Isis ed Hamas sono un pericolo per tutti, anche e soprattutto per l’Europa e l’Occidente, ma si fa finta di niente. Eppure nel suo statuto Hamas afferma che «la terra della Palestina è una terra islamica» e prospetta la distruzione dello stato d’Israele e l’instaurazione di uno stato islamico palestinese su tutta la terra della ex Palestina mandataria (l’attuale Israele, la Cisgiordania e Gaza). 

Per i suoi militanti e sostenitori Hamas è un movimento di legittima resistenza, ma è nella lista nera delle organizzazioni terroristiche secondo Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone che pur dialogano con essa. Dov’è la nostra coerenza?

- L’unica pressione che l’Europa potrebbe fare – contando ancora qualcosa nel G8 - è quella economico-commerciale, ma oltre all’anima ci siamo già venduti le aziende, i marchi, i mercati. Il petrolio arabo è tuttora fondamentale e quindi nessuno parla di quanto avviene in Arabia Saudita e in alcuni Emirati sul rispetto dei diritti umani, la libertà religiosa, i diritti delle donne né accenna agli aiuti economici enormi quanto inconfessabili che proprio da questi paesi – e soprattutto dai sauditi - arrivano agli estremisti sunniti.  Anche su questo fronte comunicativo è tutta una desolante sconfitta, non c’è nessuna logica strategica. 
L’ultima è stata quella per Alitalia venduta a Etihad con lo slogan che “Alitalia adesso diventerà più sexy”! Idiozie, intanto abbiamo perso un’altra fetta di un potenziale valore strategico nazionale come per altre decine di aziende, marchi e imprese italiane svendute all’estero 

I latini ci ricordavano che “Se vuoi la pace, prepara la guerra” il che è drammatico e per un cristiano profondamente sbagliato , contro ogni nostro principio morale, ma è vero.

D'altronde “La pace non è un dono di DIO, ma un compromesso degli uomini” la si costruisce solo passo passo e sul rispetto reciproco, la fiducia, la comune responsabilità ma anche con la reciproca intesa e presa d’atto tra avversari che conoscono la forza l’uno dell’altro e questa forza funge da deterrente. Se come Occidente - ma soprattutto come Europa – su questi temi siamo deboli, divisi, incerti, l’avversario islamico continuerà nella sua lotta di espansione e moltiplicherà le sue pressioni sapendo di vincere perché conosce e quotidianamente verifica le ipocrisie e la debolezza dei suoi avversari.

Per questo, purtroppo, vincerà.