Foto di Roberto Boccaccino |
Potevano scendere a dorso di mulo verso il mare con i sacchi carichi di zolfo e ritornare a casa con il sale. Oppure potevano arrampicarsi sulle montagne, seguire controcorrente il corso del fiume e approvvigionarsi in cima. Possedere un mezzo di trasporto, in quel caso lo "scecco" - asino in siciliano - faceva la differenza fra un morto di fame e un benestante.
Un tempo quella polvere bianca era come l'oro, era moneta di scambio, duemila anni fa i soldati romani venivano pagati con quella. Le parole hanno sempre una loro storia e "salario" deriva proprio da sale.
Anche quel fiume che attraversa la Sicilia nel suo cuore più profondo porta un nome che racconta il territorio: Salso, salato. Passa dentro canyon da brividi di bellezza dalle parti di Capodarso, trasporta se stesso sporco di sale e poi di zolfo, le caverne che abitavano le montagne al centro dell'isola.
Più su, un agglomerato di case dove vivevano gli schiavi delle "pirere", le miniere, era tanto arsa e piena di vulcanelli da prendersi il nome di Terrapelata.
Ma quella in alto in alto, a Petralia tra le vette delle Madonie palermitane, era quasi irraggiungibile e sembrava una cattedrale. Poi c'erano e ci sono ancora le altre due, a Realmonte e a Racalmuto, dall'altra parte, nella provincia agrigentina. Realmonte che in Canada è Montreal, in Messico Monterrey, a Palermo semplicemente Monreale.
Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, ulivi e viti in superficie, un grande teatro sotterraneo fatto di sale. Ce n'era un'altra ancora di miniera di salgemma, a Pasquasia, fra Enna e Caltanissetta. Diventata famosa ma non per le sue naturali sculture abbaglianti ma per vicende di mafia - sub appalti e caporalato - e per voci ricorrenti che la davano scelta come pattumiera di scorie radioattive provenienti da mezza Italia.
La Sicilia e il sale. Le gallerie di Petralia e i mulini a vento di Mozia, le collinette bianche davanti all'isola di Favignana, mare e montagna. Il sopra e il sotto. Ma è soprattutto il sopra che nasconde segreti di milioni e milioni di anni fa, almeno cinque. Il Mediterraneo che si tramuta all'improvviso, la salinità delle sue acque che cambiano, i sollevamenti tettonici provocati dalla placca calabra e da quella africana, le erosioni, i terremoti: ecco da dove è uscita la meraviglia del sale di Petralia.
È unico in tutta Europa, un capolavoro a 1100 metri di altezza. Quaranta e passa chilometri di cunicoli, un labirinto, viscere, ignoto, l'odore della terra in fondo alla terra, percorso stregato. Ancora oggi con dentro i suoi "perforatori" che hanno il compito di fare i buchi nei fianchi della montagna, con i "fochini" che poi devono caricare l'esplosivo e metterlo abilmente nei fori, con i "disgaggiatori" che si mettono lì a scrollare pazientemente le parti di sale che neanche la dinamite riesce a buttare giù, con i "palisti" che riempiono con i loro bulldozer il sale sui camion in attesa fuori dalla miniera.
Non ci sono più "scecchi" e bisacce, né selle e speroni. Ma ruspe, autoarticolati, giganteschi vagoni. Il miglioramento, l'evoluzione, la tecnologia. Resta il prodigio delle figure e delle forme, le polveri, il bianco che acceca. Resiste un po' di tradizione nella lingua. I siciliani non dimenticano mai il senso delle parole.
Si diceva una volta e si dice ancora oggi: botta di sale. È una sorta di macumba isolana, un maleficio ma che ormai è di poco conto ma trae origini da un'espressione più cruda e violenta. Originariamente era una vera maledizione: botta di sangue, cioè augurare tutto il male possibile a qualcuno e in qualche caso la morte sul colpo. Addolcita nel corso dei decenni, botta di sale - una sostanza tutto sommato innocua e bella da vedere - viene tutt'ora utilizzata al posto di "accidenti" o "mannaggia". O qualche volta anche per auto-colpevolizzarsi. Botta di sale, ma cosa ho fatto?