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2014/08/30

Perché i media raccontano Israele in maniera sbagliata?



La storia di Israele

È rimasto qualcosa da dire su Israele e Gaza? I giornali di questa estate erano pieni di ben poco d’altro. I telespettatori vedono cumuli di macerie e pennacchi di fumo anche quando dormono. Un articolo rappresentativo, in un recente numero di The New Yorker, ha descritto gli eventi dell’estate dedicando una frase ciascuno agli orrori in Nigeria e Ucraina, quattro frasi alle follie genocide dell’ISIS e tutto il resto dell’articolo – trenta frasi – a Israele e Gaza.

Quando l’isteria si attenuerà, credo che gli eventi di Gaza non saranno ricordati dal mondo come particolarmente importanti. Persone sono rimaste uccise, la maggior parte delle quali palestinesi, tra cui molti innocenti inermi. Vorrei poter dire che la tragedia della loro morte, o la morte di soldati israeliani, cambierà qualcosa, che segnano un punto di svolta. Ma non è così. Questo round non è la prima delle guerre arabe con Israele e non sarà l’ultima. La campagna israeliana era poco diversa nella sua esecuzione da qualsiasi altra condotta da un esercito occidentale contro un nemico simile negli ultimi anni, fatta eccezione per la natura più immediata della minaccia alla popolazione del proprio paese e i maggiori sforzi, tuttavia futili, per evitare morti civili.

La durevole importanza della guerra di questa estate, credo, non sta nella guerra stessa. Si trova invece nel modo in cui la guerra è stata descritta e affrontata all’estero e il modo in cui questo ha messo a nudo la rinascita di un vecchio, contorto modello di pensiero e il suo sdoganamento dalla marginalità della narrativa prevalente in occidentale, e cioè un’ostile ossessione verso gli ebrei. La chiave per comprendere questa rinascita non si trova tra i webmaster jihadisti, i teorici della cospirazione, i cantinari o gli attivisti più radicali. È invece da trovare per prima tra le persone istruite e rispettabili che popolano l’industria delle notizie internazionali; persone perbene, molte di loro, alcune di loro miei ex colleghi.

Mentre la mania globale per le azioni israeliane può considerarsi garantita, essa è in realtà il risultato di decisioni prese da singoli esseri umani in posizioni di responsabilità, in questo caso i giornalisti e i redattori. Il mondo non reagisce agli eventi che si svolgono in questo paese, ma piuttosto alla descrizione di questi eventi da parte delle organizzazioni giornalistiche. La chiave per comprendere la strana natura della reazione si viene così a trovare nella pratica del giornalismo e in particolare in un malfunzionamento grave che si sta verificando in quella professione, la mia professione, qui in Israele.

In questo saggio cercherò di fornire alcuni strumenti per rendere il senso delle notizie da Israele. Ho acquistato questi strumenti da addetta ai lavori: Tra il 2006 e la fine del 2011 sono stato giornalista e redattore nell’ufficio di Gerusalemme dell’Associated Press, uno dei due principali fornitori di notizie del mondo. Ho vissuto in Israele dal 1995 e scrivo su di essa dal 1997.

Questo saggio non è un’indagine esaustiva sui peccati dei media internazionali, oppure una polemica conservatrice o una difesa delle politiche israeliane. (Io credo nell’importanza dei media “mainstream”, sono un liberal e rimango critico verso molte delle politiche del mio paese). Esso  prevederà necessariamente alcune generalizzazioni. Inizierò col delineare i tropi centrali della storia d’Israele secondo i media internazionali, una storia sulla quale ci sono sorprendentemente poche variazioni tra tutte le strutture informative di mainstream e una che è, come la stessa parola “storia” suggerisce, un costrutto narrativo che è in gran parte finzione. Quindi noterò il più ampio contesto storico in cui Israele è venuto in argomento e discuterò e spiegherò perché credo che questo sia motivo di preoccupazione non solo per le persone interessate alla questioni ebraiche. Cercherò di essere breve.

Quanto è importante la storia di Israele?

L’assunzione di personale è la migliore misura dell’importanza di una storia per una particolare organizzazione giornalistica. Quando ero corrispondente dell’AP, l’agenzia aveva più di 40 membri di staff che coprivano Israele e i territori palestinesi. Quello era significativamente più personale giornalistico di quello che l’AP aveva in Cina, in Russia o in India o in tutti i 50 paesi dell’Africa sub-sahariana sommati. È rimasto superiore al numero totale di degli inviati in tutti i paesi in cui le rivolte della “primavera araba” alla fine esplosero.

Per offrire un senso della scala: prima dello scoppio della guerra civile in Siria, la presenza del personale permanente di AP in tale paese era costituita da un singolo inviato approvato dal regime. I redattori della AP credevano, cioè, che l’importanza della Siria fosse meno di un quarantesimo di quella di Israele. Non sto focalizzandomi sull’AP – l’agenzia è totalmente rappresentativa, questo la rende utile come esempio. I grandi protagonisti del business del giornalismo praticano il groupthink e questi assetti di personale si sono propagati in tutto il  branco. I livelli di personale in Israele sono diminuiti un po’ dal momento in cui le rivolte arabe sono iniziate, ma rimangono alti. E quando in Israele divampa un conflitto, come è successo questa estate, i giornalisti sono spesso trasferiti da altri mortali conflitti. Israele ancora trionfa su quasi tutto il resto.

Il volume di copertura mediatica che ne risulta, anche quando succede ben poco, dà a questo conflitto una prominenza rispetto al quale il suo pedaggio in vite umane rimane assurdamente piccolo. In tutto del 2013, per esempio, il conflitto israelo-palestinese è costato 42 vite umane, cioè circa il tasso mensile di omicidi nella città di Chicago. Gerusalemme, di fama internazionale come città di conflitto, aveva un po’ meno morti violente pro capite, l’anno scorso, di Portland nell’Oregon., una delle città più tranquille d’America. Al contrario, in tre anni il conflitto siriano ha provocato una stima di 190.000 vite umane, cioè circa 70.000 più del numero di persone che siano mai morte a causa del conflitto arabo-israeliano da quando esso è iniziato un secolo fa.

Le organizzazioni di notizie hanno comunque deciso che questo conflitto è più importante, per esempio, delle più di 1.600 donne uccise in Pakistan lo scorso anno (271 dopo essere state stuprate e 193 delle quali bruciate vive), della cancellazione permanente del Tibet da parte del Partito Comunista Cinese, della carneficina in Congo (più di 5 milioni di morti a partire dal 2012) o nella Repubblica Centrafricana e delle guerre di droga in Messico (con un numero di morti tra il 2006 e il 2012 uguale a 60.000), per non parlare di conflitti nessuno ha mai sentito parlare negli angoli oscuri della dell’India o della Thailandia. Essi credono che Israele sia la storia più importante del mondo o giù di lì.

Cos’è importante della storia di Israele e cosa no.

Un giornalista che lavora nelle strutture della stampa internazionale qui impara subito che ciò che è davvero importante nella storia israelo-palestinese è Israele. Se si segue la copertura tradizionale, non troverete quasi nessuna analisi reale della società palestinese o delle ideologie o dei profili dei gruppi armati palestinesi o un indagine sul governo palestinese. I palestinesi non vengono presi esattamente sul serio come protagonisti del proprio destino. L’occidente ha deciso che i palestinesi dovrebbero desiderare uno stato a fianco di Israele, in modo tale che questa opinione viene loro attribuita come un fatto, non ostante chi abbia trascorso del tempo con i palestinesi reali capisca che le cose sono (comprensibilmente, a mio parere) più complicate. Chi sono e cosa vogliono, non è importante: la storia esige che essi esistano solo in quanto vittime passive della parte che conta davvero.

La corruzione, per esempio, è una preoccupazione pressante per molti palestinesi sotto il governo dell’Autorità palestinese, ma quando io e un altro giornalista abbiamo una volta suggerito un articolo sul tema, siamo stati informati dal capo ufficio che la corruzione palestinese “non era la storia”. (La corruzione in Israele la era, l’abbiamo coperta a lungo.)

Le azioni israeliane vengono analizzate e criticate e ogni difetto nella società israeliana è segnalato aggressivamente. In un periodo di sette settimane, dall’ 8 novembre al16 dicembre 2011, ho deciso di contare gli articoli provenienti dal nostro ufficio sui vari fallimenti morali della società israeliana – le proposte legislative per sopprimere i media, la crescente influenza degli ebrei ortodossi, gli avamposti non autorizzati, la segregazione di genere e così via. Ho contato 27 distinti articoli, una media di una storia ogni due giorni. In una stima molto conservativa, in queste stesse sette settimane il riscontro è stato superiore al numero totale delle storie significativamente critiche verso il governo e la società palestinese, inclusi gli islamisti totalitari di Hamas, che il nostro ufficio aveva pubblicato nei precedenti tre anni.

La Carta di Hamas, per esempio, non invoca solamente la distruzione di Israele ma anche l’assassinio degli ebrei e accusa gli ebrei di aver organizzato le rivoluzioni francese e russa e le due guerre mondiali; La Carta non è stata mai menzionata dalla stampa mentre ero all’AP, anche se Hamas aveva vinto le elezioni nazionali palestinesi ed era diventato uno dei protagonisti più importanti della regione. Per indicare il legame con gli eventi di questa estate: un osservatore potrebbe pensare che la decisione di Hamas negli ultimi anni di costruire una installazione militare sotto le infrastrutture civili di Gaza sarebbe stata ritenuta degno di nota, se non altro per ciò che significava circa il modo in cui il conflitto successivo sarebbe stato combattuto e il costo che implicava per le persone innocenti. Ma questo non è il caso. Le postazioni di Hamas non sono importanti di per sé e sono quindi state ignorate. Ciò che era importante era la decisione israeliana di attaccarle.

Si è molto discusso recentemente di come Hamas cerchi di intimidire i giornalisti. Qualsiasi inviato veterano qui sa che l’intimidazione è reale e l’ho vista in azione io stesso come redattore dell’ufficio stampa di AP. Durante i combattimenti 2008-2009 Gaza ho personalmente cancellato una notizia particolare, secondo la quale i combattenti di Hamas erano vestiti in borghese e i loro caduti venivano contabilizzati nelle statistiche come vittime civili, a causa di una minaccia verso la nostra inviata a Gaza. (La policy adottata era allora e rimane quella di non informare i lettori che la storia è censurata, a meno che la censura non sia israeliana. All’inizio di questo mese il redattore capo di Gerusalemme della AP aveva segnalato e presentato una storia sulle intimidazioni di Hamas, la storia è stata messa nel congelatore dai suoi superiori e non è stata pubblicata.)

Ma se i critici immaginano che i giornalisti chiedano a gran voce di coprire Hamas e siano ostacolati da teppisti e minacce, generalmente non è così. Ci sarebbero molti modi a basso rischio per segnalare le azioni di Hamas, se ce ne fosse la volontà: come editoriali da Israele oppure in forma anonima oppure citando fonti israeliane. I giornalisti sono pieni di risorse, quando vogliono.

Il fatto è che l’intimidazione Hamas è in gran parte fuori luogo perché sono le azioni dei palestinesi a essere fuori luogo: La maggior parte dei giornalisti a Gaza crede che il proprio compito sia  quello di documentare la violenza diretta da Israele contro i civili palestinesi. Questa è l’essenza della storia di Israele. Inoltre, i giornalisti sono in affanno per le scadenze e spesso a rischio e molti non parlano la lingua e hanno solo la più tenue delle prese su ciò che sta accadendo realmente attorno a loro. Essi dipendono dai colleghi palestinesi e da faccendieri che o temono Hamas oppure sostengono Hamas oppure entrambe le cose. I giornalisti non hanno bisogno che Hamas li costringa lontani da fatti che infanghino la semplice storia che sono stati inviati a raccontare.

Non è un caso che i pochi giornalisti che hanno documentato i combattenti di Hamas e i lanci di razzi in aree civili questa estate non provengano in genere, come ci si potrebbe aspettare, dai grandi organi di informazione permanentemente stanziati a Gaza. Erano per lo più giornalisti frammentari, periferici e occasionali, appena arrivati, un finlandese, un team indiano, pochi altri. Queste povere anime non avevano letto il promemoria.

Che altro non è importante?

Il fatto che gli israeliani poco tempo fa avessero eletto governi moderati che cercavano la riconciliazione con i palestinesi, e che sono stati compromessi dai palestinesi, è considerato poco importante e raramente menzionato. Queste lacune sono spesso non sviste, ma una questione di politica. All’inizio del 2009, per esempio, due miei colleghi avevano ottenuto informazioni sul primo ministro israeliano Ehud Olmert e sulla sua significativa offerta di pace verso l’Autorità palestinese, diversi mesi prima, che i palestinesi aveva ritenuto insufficiente. Questo non era stato ancora segnalato ed era, o avrebbe dovuto essere, una delle più grandi storie dell’anno. I giornalisti avevano ottenuto conferma da entrambi i lati e uno aveva anche visto una mappa, ma i capo redattori dell’ufficio hanno deciso di non pubblicare la storia.

Alcuni membri dello staff erano furiosi, ma non è servito. Il nostro racconto era che i palestinesi erano moderati e gli israeliani recalcitranti e sempre più estremisti. Segnalare l’offerta di Olmert – come scavare troppo in profondità Hamas – avrebbe fatto sembrare una sciocchezza quel racconto. Così siamo stati incaricati di ignorarla e così s’è fatto, per più di un anno e mezzo.

Questa decisione mi ha insegnato una lezione che dovrebbe essere chiara ai consumatori della storia di Israele: molte delle persone che decidono quello che leggerete e vedrete da qui vedono il loro ruolo non come esplicativo ma come politico. La copertura è un’arma da mettere a disposizione del lato che loro prediligono.

Come è contestualizzata la storia di Israele?

La storia di Israele è contestualizzata negli stessi termini in uso fin dai primi anni ’90, quelli della ricerca di una “soluzione dei due stati”. Viene ritenuto che il conflitto sia “israelo-palestinese”, il che significa che si tratta di un conflitto posto sul territorio che Israele controlla – lo 0,2 per cento del mondo arabo, in cui gli ebrei sono una maggioranza e gli arabi una minoranza. Il conflitto sarebbe ben più accuratamente descritto come “arabo-israeliano” oppure “arabo-ebraico”, cioè un conflitto tra i 6 milioni di ebrei di Israele e i 300 milioni di arabi nei paesi circostanti. (Forse “israelo-musulmano” sarebbe più esatto, prendendo in considerazione l’inimicizia di stati non arabi come l’Iran e la Turchia e, più in generale, di un miliardo di musulmani in tutto il mondo.) Questo è il conflitto che si è dispiegato in diverse forme per un secolo, prima che Israele esistesse, prima che Israele conquistasse i territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e prima ancora che il termine “palestinese” venisse mai utilizzato.

L’inquadratura “israelo-palestinese” permette agli ebrei, una piccola minoranza in Medio Oriente, di essere raffigurati come la parte forte. Essa comprende anche il presupposto implicito che se il problema palestinese fosse in qualche modo risolto, il conflitto finirebbe, anche se nessuna persona informata oggi riterrebbe ciò minimamente vero. Questa definizione permette anche di descrivere il progetto degli insediamenti israeliani, che credo sia un grave errore morale e strategico da parte di Israele, non come quello che è, uno dei sintomi più distruttivi del conflitto, ma piuttosto come la sua causa.

Un osservatore esperto del Medio Oriente non può evitare l’impressione che la regione sia un vulcano e che la lava sia l’Islam radicale, un’ideologia le cui diverse incarnazioni stanno ora plasmando questa parte del mondo. Israele è un piccolo villaggio sulle pendici del vulcano. Hamas è il rappresentante locale dell’Islam radicale ed è apertamente dedicato alla eradicazione della enclave minoritaria ebraica, in Israele, proprio come Hezbollah è il rappresentante dominante dell’Islam radicale in Libano, lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, i talebani in Afghanistan e Pakistan e così via.

Hamas non è, come si afferma liberalmente, parte dello sforzo di creare uno stato palestinese a fianco di Israele. Essa ha diversi obiettivi su cui è molto sincera e che sono simili a quelli dei gruppi qui sopra elencati. Dalla metà degli anni ’90, più di ogni altro protagonista, Hamas ha distrutto la sinistra israeliana, ha fatto vacillare gli israeliani moderati nei confronti di eventuali cessioni territoriali e sepolto le possibilità di un compromesso a due stati. Questo sarebbe un modo più preciso di inquadrare la storia.

Un osservatore potrebbe anche legittimamente inquadrare la storia attraverso la lente delle minoranze in Medio Oriente, che sono tutte sotto forte pressione da parte dell’Islam: quando le minoranze sono impotenti, il loro destino è quello degli Yazidi o dei cristiani del nord dell’Iraq, come abbiamo appena visto, quando sono armate e organizzate possono reagire e sopravvivere, come nel caso degli ebrei e (dobbiamo sperare) dei curdi.

Ci sono, in altre parole, molti modi diversi di vedere ciò che sta accadendo qui. Gerusalemme è a meno di un giorno di viaggio da Aleppo o da Baghdad e dovrebbe essere chiaro a tutti che la pace è piuttosto sfuggente in Medio Oriente, anche in luoghi dove gli ebrei sono totalmente assenti. Ma i giornalisti in genere non possono vedere la storia di Israele in relazione a qualsiasi altra cosa. Invece di descrivere Israele come uno dei villaggi adiacenti il vulcano, descrivono Israele come il vulcano.

La storia di Israele è incorniciata in modo tale da sembrare che non abbia nulla a che fare con gli eventi nelle vicinanze perché la “Israele” del giornalismo internazionale non esiste nello stesso universo geo-politico, come l’Iraq, la Siria, o l’Egitto. La storia di Israele non è una storia riguardo gli eventi attuali. Si tratta di qualcosa di diverso.

Il Vecchio Schermo Vuoto

Per secoli gli ebrei apolidi hanno svolto il ruolo del parafulmine per le cattiva volontà delle popolazioni maggioritarie. Erano il simbolo di tutte le cose che erano sbagliate. Volevi puntualizzare che l’avidità è un male? Gli ebrei erano avidi. La codardia? Gli ebrei erano codardi. Eri comunista? Gli ebrei erano capitalisti. Eri capitalista? In tal caso, gli ebrei erano comunisti. Il fallimento morale era il tratto essenziale dell’ebreo. Era il suo ruolo nella tradizione cristiana, l’unica ragione per la quale la società europea sapesse o si curasse di loro in prima battuta.

Come molti ebrei che sono cresciuti nel tardo 20° secolo nelle amichevoli città occidentali, mi congedai da tali idee derubricandole a febbrili memorie dei miei nonni. Una cosa che ho imparato, e non solo da questa estate, è che è stato stupido averlo fatto. Oggi le persone in Occidente tendono a credere che i mali della nostra epoca siano il razzismo, il colonialismo, e il militarismo. L’unico paese ebraico del mondo ha provocato meno danni rispetto alla maggior parte dei paesi della terra e anche maggior bene, eppure quando la gente va alla ricerca di un paese che simboleggi i peccati del nostro nuovo mondo dei sogni post-coloniali, post-militaristi e post-etnici, il paese prescelto è proprio questo.

Quando le persone con la responsabilità di spiegare il mondo al mondo, i giornalisti, coprono la guerra degli ebrei come maggiormente degna di attenzione rispetto a quelle di qualsiasi altro, quando si ritraggono gli ebrei di Israele come la parte ovviamente dalla parte del torto, quando si omettono tutte le possibili giustificazioni per le azioni degli ebrei e si nasconde il vero volto dei loro nemici, quello che si sta dicendo ai propri lettori – lo si intendono fare o meno – è che gli ebrei sono le persone peggiori sulla terra. Gli ebrei sono la simbolizzazione dei mali che alle persone civili viene insegnato, fin dalla più tenera età, ad aborrire. La rassegna stampa internazionale è diventata un’operetta morale che ha come protagonista un familiare dalla cattiva reputazione.

Alcuni lettori potrebbero ricordarsi che la Gran Bretagna ha partecipato all’invasione nel 2003 dell’Iraq, i cui effetti collaterali hanno ucciso più di tre volte il numero di persone mai rimaste uccise in tutto il conflitto arabo-israeliano; eppure in Gran Bretagna i manifestanti condannano furiosamente il militarismo ebraico. I bianchi di Londra e Parigi, i cui genitori non molto tempo fa erano loro stessi sventagliati da persone di pelle scura nei salotti di Rangoon o di Algeri, condannano il “colonialismo ebraico”. Americani che vivono in luoghi chiamati “Manhattan” o “Seattle” condannano gli ebrei per il trasferimento del popolo nativo di Palestina. Giornalisti russi condannano le brutali tattiche militari di Israele. Giornalisti belgi condannano la tratta degli africani in Israele. Quando Israele ha inaugurato un servizio di trasporto dedicato ai lavoratori palestinesi nella Cisgiordania occupata, pochi anni fa, i consumatori americani di notizie potevano leggere  di “segregazione sugli autobus” in Israele. Ci sono poi un sacco di persone in Europa, e non solo in Germania, che godono nell’udire gli ebrei accusati di genocidio.

Non è necessario essere un professore di storia, o uno psichiatra, per capire cosa sta succedendo. Avendo riabilitato se stessi, contro qualunque probabilità, in un minuscolo angolo della terra, i discendenti di gente senza potere, che era stata espulsa dell’Europa e del Medio Oriente islamico, sono diventati ciò che i loro nonni erano stati – la sputacchiera del mondo. Gli ebrei di Israele sono lo schermo su cui è diventato socialmente accettabile proiettare le cose che odi di te e del tuo paese. Lo strumento attraverso il quale viene eseguita questa proiezione psicologica è la stampa internazionale.

A chi importa se il mondo riceve una storia di Israele sbagliata?

Perché una voragine si è aperta qui tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui esse vengono descritte, le opinioni sono sbagliate, le politiche sono sbagliate e gli osservatori sono regolarmente resi ciechi agli eventi. Queste cose sono già successe. Negli anni che portarono alla dissoluzione del comunismo sovietico nel 1991, come l’esperto di cose russe Leon Aron ha scritto in un saggio per Foreign Policy nel 2011, “praticamente nessun esperto, studioso, funzionario o politico occidentale previde l’imminente crollo dell’Unione Sovietica”. L’impero stava marcendo da anni e i segni erano tutti lì, ma le persone che avrebbero dovuto avvedersene e raccontarlo fallirono e quando la superpotenza implose tutti ne furono sorpresi.

Venne il tempo della guerra civile spagnola: «All’inizio della mia vita avevo già notato che nessun evento sia mai riportato correttamente in un giornale, ma in Spagna, per la prima volta, ho osservato dei racconti sui giornali che non mostravano alcuna relazione con i fatti, nemmeno il rapporto che è implicata in una menzogna ordinaria. … Ho visto, infatti, una storia scritta non in termini di ciò che era accaduto, ma di ciò che avrebbe dovuto accadere secondo le varie ‘linee di partito’». Questo era George Orwell, scrivendone nel 1942.

Orwell non scese da un aereo in Catalogna, stando accanto a un cannone repubblicano e facendosi filmare mentre ripeteva con fiducia ciò che chiunque altro andava dicendo, descrivendo ciò che qualsiasi sciocco avrebbe potuto vedere: armi, macerie, corpi. Guardò al di là delle fantasie ideologiche dei suoi coetanei e sapeva che ciò che era importante non era necessariamente visibile. La Spagna, capì, aveva davvero poco a che fare con la Spagna, si trattava di uno scontro tra sistemi totalitari, tedesco e russo. Sapeva che era testimone di una minaccia per la civiltà europea, lo scrisse e aveva ragione.

Capire quello che è successo a Gaza questa estate significa comprendere Hezbollah in Libano, l’ascesa dei jihadisti sunniti in Siria e in Iraq e lunghi tentacoli dell’Iran. Richiede di cercare di capire perché paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita ora vedono se stessi come più vicini a Israele che a Hamas. Soprattutto, ci impone di comprendere ciò che è chiaro a quasi tutti in Medio Oriente: le forza in ascesa in questa parte del mondo non sono la democrazia e la modernità. È piuttosto una potente vena dell’Islam che assume forme diverse e talvolta contrastanti e che è disposta a impiegare una violenza estrema in una missione di unificazione della regione sotto il proprio controllo al fine di confrontarsi con l’Occidente. Coloro che colgono questo fatto saranno in grado di guardarsi intorno e di unire i puntini.

Israele non è un’idea, un simbolo del bene o del male o una cartina di tornasole per le chiacchiere in una cena liberal. Si tratta di un piccolo paese situato in una spaventosa parte del mondo che sta diventando sempre più paurosa. Va riportato criticamente come qualsiasi altro luogo e compreso in modo contestuale e proporzionato. Israele non è una delle storie più importanti del mondo e neanche del Medio Oriente; qualunque sia l’esito di questa regione nel prossimo decennio, esso avrà tanto a che fare con Israele quanto la seconda guerra mondiale ebbe a che fare con la Spagna. Israele è un puntino sulla mappa – un evento secondario a cui tocca il destino di farsi carico di un’insolita carica emotiva.

Molti in Occidente preferiscono chiaramente l’antico conforto dell’analisi delle carenze morali degli ebrei e la familiare sensazione di superiorità a cui questo li porta, piuttosto che confrontarsi con una realtà infelice e confusa. Essi possono così autoconvincersi che tutto questo sia solo un problema degli ebrei e che in effetti sia colpa degli ebrei. Ma i giornalisti si impegnano in queste fantasie al costo della propria credibilità e di quella della loro professione. Come Orwell ci direbbe, il mondo si intrattiene in fantasie a proprio rischio e pericolo.

By Matti Friedman fonte: http://www.rightsreporter.org/

2014/08/14

Palestina: vero e falso

La questione palestinese attraverso una attenta analisi e un diverso punto di vista: quello reale, non costruito a tavolino.
Tutto quello che nessuno vi aveva mai detto!

Quanto si affronta la questione palestinese, c’è una cosa che è necessaria prima di tutto – sgombrare il campo dall’idea che ci troviamo di fronte a un problema di “autodeterminazione dei popoli”. La questione palestinese non è una questione di “autodeterminazione” e non ha niente a che fare, per esempio, con le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani, dei fiamminghi o degli scozzesi.
L’autodeterminazione, in effetti, rappresenta il diritto di una determinata comunità a autogestirsi all’interno di un ambito solitamente (ma non necessariamente) territoriale, al fine di perseguire un proprio sviluppo sociale, economico e culturale. E’ un concetto che implica dei rapporti pacifici e di tipo orizzontale con le altre comunità politiche e pertanto presuppone il riconoscimento del valore della diversità, della pluralità istituzionale e della convivenza.

La “causa palestinese” per come si è presentata fino a questo momento non è la rivendicazione pacifica e difensiva di una patria nazionale per il “popolo palestinese”, all’interno della quale si declini una statualità. Se l’obiettivo fosse stato questo, sarebbe stato già conseguito da tempo, e la quantità gigantesca di denaro che negli anni è stata iniettata a favore dei palestinesi dai paesi arabi, dall’Occidente e dallo stesso Israele sarebbe stata più che sufficiente per garantire la praticabilità economica del nuovo Stato e il graduale raggiungimento della completa autosufficienza. La causa palestinese, purtroppo è stata ben altro – è stata un progetto imperialista e aggressivo mirante alla “riconquista” dello Stato di Israele e, quindi, alla negazione dei valori fondamentali alla base del principio di autodeterminazione dei popoli, cioè la pacifica convivenza, il riconoscimento e il rispetto dell’”altro”.

Dopo il disimpegno israeliano da Gaza, i palestinesi non hanno utilizzato lo spazio politico apertosi nella Striscia per “autogovernarsi”, bensì hanno de facto organizzato la Striscia come base della guerriglia antiisraeliana. Ritenere che vi possa essere una legittimità nella riconquista violenta da parte dei palestinesi di terre che sono sotto l’amministrazione israeliana è sbagliato. Non ha senso parlare di ritornare ai confini di Oslo o del 1967 o del 1947, per il semplice motivo che non è ammissibile che i palestinesi continuino a pensare di poter scatenare guerre, perderle e poi pretendere che si faccia finta di nulla e si torni alla situazione ex ante.
E’ inevitabile che i palestinesi paghino il fatto di essere stati sempre dalla parte sbagliata (dalla parte dell’aggressore e dello sconfitto) in tutte le guerre. Incidentalmente giova ricordare che, anche prima dei conflitti araboisraeliani, la leadership palestinese si schierò apertamente con i Nazisti nella seconda guerra mondiale. Peraltro nel ventesimo secolo i palestinesi non sono certo gli unici a avere perso dei territori o a avere conosciuto esodi. Noi italiani ricordiamo certamente la perdita dell’Istria, di Fiume e di Zara e la fuga di tanti nostri connazionali da quelle terre. 

La Germania ha vissuto questa situazione molto più in grande, vedendosi sottratti tutti i territori a Est dell’Oder Neisse; dodici milioni (!) di tedeschi furono costretti a andarsene. E anche i confini della Polonia usciti dalla guerra avevano poco a che fare con quelli precedenti al conflitto, con milioni e milioni di polacchi che hanno dovuto trasferirsi.

Va detto, tra l’altro, che negli anni successivi alla proclamazione dello Stato di Israele, almeno 850.000 ebrei sono stati espulsi da paesi arabi nei quali le loro famiglie avevano vissuto per centinaia di anni. Nei fatti ci fu uno “scambio di popolazioni”, nel quale moltissimi ebrei hanno dovuto abbandonare tutto quello che avevano costruito in generazioni nei paesi arabi di origine – eppure questi profughi ebrei sembrano non rientrare mai nell’equazione politica. Un’altra fase storica che ha prodotto una grande quantità di rifugiati è stata il processo di decolonizzazione. Si pensi agli italiani di Libia, ai pieds noirs d’Algeria, alla diaspora rhodesiana, ai retornados portoghesi del Mozambico e dell’Angola o agli indo-olandesi. Si tratta, nel complesso, di milioni di persone, ma nessuna di queste comunità oggi rappresenta in alcun modo una questione politica. Il fatto è che tutti i rifugiati che il ventesimo secolo ha prodotto si sono sempre rapidamente integrati  nelle rispettive madri patrie o in paesi culturalmente omogenei e sono diventati elementi pienamente produttivi nelle loro “nuove società”.

Questi “immigrati invisibili” hanno fatto di necessità virtù e, armati di dignità e di etica del lavoro, hanno ricostruito un futuro per loro e per i loro figli. Noi non abbiamo stipato per settant’anni a Gorizia i profughi giuliani e dalmati educandoli alla guerra e all’odio contro gli slavi. Né i tedeschi lo hanno fatto con i rifugiati della Pomerania, della Slesia e della Prussia. Né i vari presidenti francesi hanno addestrato per cinquant’anni gli esuli algerini a preparare la riconquista di Algeri. Invece per i quasi venti anni in cui la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono stati sotto il controllo dell’Egitto e della Giordania, i rifugiati palestinesi sono rimasti in campi profughi, a crescere in numero e in disperazione.

Di fatto la “questione palestinese” è stata creata a tavolino per precisa scelta politica dai paesi arabi che, anziché integrare i profughi hanno scelto di conferire loro il ruolo di riserva permanente di guerriglia antisionista. Il crimine più grave che sia stato compiuto finora contro i palestinesi è quello di averli illusi che fosse possibile riportare indietro l’orologio della Storia e averli incoraggiati in questi decenni a sacrificare collettivamente la propria esistenza a una guerra infinita senza speranza alcuna.

In un certo senso i palestinesi hanno combattuto una guerra non loro perché i veri beneficiari della loro lotta sono stati i leader delle élites politiche dei vari paesi arabi che nella retorica filopalestinese trovavano a buon mercato una legittimazione del proprio potere presso le masse. Naturalmente, da un simile punto di vista, è del tutto irrilevante il fatto che la guerra non possa avere alcuno sbocco positivo per i palestinesi. Non serve affatto che sia vinta, basta che sia combattuta – e anzi più è dolorosa e luttuosa per gli stessi palestinesi, più genera un capitale politico per i suoi “stakeholders”.

Naturalmente il patimento accumulato dai palestinesi in decenni di guerra e di guerriglia è tale che praticamente ogni palestinese ritiene di avere forti ragioni personali per continuare la lotta. Se ci si arrendesse a questa logica tuttavia, il mondo intero vivrebbe in una guerra permanente. Ogni guerra, infatti, porta con sé come esito le ragioni potenziali per farne un’altra. Ogni guerra ci lascia con ingiustizie da riparare, innocenti da vendicare, martiri in nome dei quali combattere affinché non siano morti invano. Eppure a un certo punto l’odio deve piegarsi alla realtà.
Sia consentito, ancora, un paragone storico: dopo la prima guerra mondiale, Adolf Hitler prese il potere in Germania cavalcando da posizioni ultranazionaliste la frustrazione per la pace ingiusta, per le condizioni vessatorie imposte dal Trattato di Versailles. Fece leva sull’orgoglio e “revanchismo” per inquadrare la popolazione tedesca in un terribile progetto imperialista. 

Per riprendersi Danzica e il suo “corridoio”, scatenò una nuova guerra mondiale ancora più sanguinosa di quella precedente. La perse e quello che ne seguì non fu certo una pace più generosa per la Germania. Il paese uscì dalla guerra con terribili ferite economiche, politiche e morali. Il massacro di Dresda, la perdita a Oriente di regioni storiche, le vendette sovietiche sulla popolazione civile, l’occupazione da parte delle potenze vincitrici e così via. Quante buone ragioni ci sarebbero state perché i tedeschi alla prima occasione decidessero di dotarsi di un nuovo Hitler che li riscattasse dalla “punizione collettiva” che era stata inflitta loro?

Eppure, anziché dare un’altra possibilità al nazionalismo estremo, la Germania ha scelto le straordinarie opportunità di sviluppo economico e sociale offerte dalla pace – anche se questo, evidentemente, ha richiesto la capacità di elaborare il lutto della sconfitta ed intraprendere un percorso di autocritica storica e politica. La scelta di pace dei tedeschi ci sembra assolutamente ovvia e scontata; non ci parrebbe proprio concepibile una scelta diversa. Non potremmo immaginare che la gioventù tedesca anziché godersi e costruirsi la vita preferisse arruolarsi in una nuova guerra. Non potremmo immaginare che dei genitori anziché vedere i propri figli laureati e felicemente sposati, preferissero che si immolassero per riguadagnare Breslavia, Danzica o Königsberg. Chiunque di noi, anche trasversalmente all’appartenenza politica, lo riterrebbe non solo folle ma anche profondamente inumano.

Eppure troppi, anche in Occidente, sono disposti a giustificare che generazioni e generazioni di palestinesi siano coscritte a vita in una battaglia ideologica nazionalista. Da questo punto di vista, la migliore sintesi della questione israelo-palestinese è probabilmente quella che fu fatta da Golda Meir. “La pace sarà possibile solo il giorno in cui i palestinesi ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”. La pace sarà possibile solamente se per un padre di Gaza il fatto che suo figlio diventi un bravo avvocato, ingegnere, ristoratore, commerciante o idraulico, si sposi e viva tranquillo con la sua famiglia sarà più importante di conquistare Gerusalemme. La “questione palestinese”, in altre parole, sarà risolta solo quando i palestinesi si renderanno conto dello straordinario valore che avrebbe per loro il dividendo economico e sociale della pace.

Significherebbe la fine delle limitazioni alle attività economiche nei territori e al movimento delle persone e dei beni. Significherebbe la possibilità di attrarre investimenti economici che oggi sono fortemente ridotti a causa delle incertezze e dei rischi dello status quo, avviando così un importante sviluppo a livello industriale, agricolo, tecnologico e turistico. Ma se i palestinesi continueranno a preferire l’illusione della “vittoria” alle ragioni della pace, nessuna simpatia, vicinanza, comprensione, giustificazione, condiscendenza è possibile. Il messaggio che va mandato oggi deve essere inequivoco: è tempo che i palestinesi si arrendano alla pace. 

E alla storia. (qui)

2014/04/23

Hot Dog

Luckily I have not eaten dog in Hanoi. By a kind of basic disgust I avoid eating meat that I don't have the slightest idea of the origin, so I keep me well away from certain restaurants too cheap or those exhibiting live animals in cages just outside, means that sooner or later the hairy inhabitant of the cage ends up in the pot. The following article was suggested to me by a friend, is hilarious in some form for humans to read, not for dogs. I am against these practices that I consider barbaric. Indeed I am disgusted just thinking about it. 
If you like read it, otherwise change page, I'll understand. 
SB

Hey, you know what everyone does in Hanoi? Eats tons of dog. All the time. If you don't believe me, come here, get up early, and watch the salivating packs of humans gather at dawn to chase strays through the streets. Most of the time they don't even bother to kill the dog before they start tearing away at its flesh. If they do, it's because the kids aren't quite as adept at eating live prey as the adults are. And that's totally fine, these things take time—just like how, in this country, not all children are born with the ability to keep down jellied eels.

Dog eating in Vietnam isn't just a stereotype. It dates back thousands of years and seems to be a present from the Chinese. It’s mainly eaten in the North and is believed to bring good luck and male virility. Rather ominously, no one has been able to tell me precisely what breed is eaten since I moved here, which might explain the large number of “dognappings” that take place in Hanoi.

The streets are full of men sporting chipped teeth and NY Yankees caps, all urging you to try their restaurant’s tasty "thit chó." Others have portable stalls with the dead canines revolving on a spit. I've yet to work up the courage or become desensitized enough to take a trip down "Dog Street," which I imagine looks something like the Westminster Dog Show after a terrorist attack.

I know that eating dog is the norm here, much as it's the norm in the US to eat Big Macs. I love dogs and have been surrounded by them since I was a baby. But after a few weeks of speaking to locals, coworkers, and fellow Westerners, the barrier was starting to crumble. I wanted to feel like more than a tourist in Hanoi, and I saw no point in remaining a conscientious objector.

So, one Friday after a couple of Bia Hanois (beers), my American friend and I set off in search of canine cuisine. The search didn't take long. Within a couple of minutes, we were being led to the side of a central Hoan Kiem restaurant, where we found a live dog laid out on the table.

At least I thought it was still alive.

It was only as I neared the head that I realized something was amiss. As in missing. Half of its rib cage was missing. Out sprung an animated chef, dancing some kind of crazed knife dance with jazz hands. Evading this guy and working our way round to the head, I was amazed to see that all its teeth were present and it still looked lifelike—just with a slightly darker coat. I later discovered this is because there isn’t any preparation or oven basting. The dogs are just cooked whole with a blowtorch.


By now, the momentary machismo of ordering dog had been quickly supplanted by a strong feeling of dread. This wasn’t going to be a pleasant experience. As I eyed the mountain of cold, unappetizing dog carcass towering in front of me, my thoughts returned to poor Digby (my aunt's dog) and every other canine I’d stroked/cuddled in my life. Sorry, guys. I was about to betray all of you.

I reached hesitantly for my drink, but by now a dozen pairs of eyes were fixed on my trembling hand, willing it to grab the nearby chopsticks. Twenty-two years of Westernization was no match for this unbearable peer pressure I felt. It would be easy to draw this out, but ultimately what happened is that I succumbed, I shut my eyes and slipped a slimy piece of dog into my mouth.

The first thing that struck me was the sheer chewiness. Ten gabbers on MDMA couldn't work up the gum power between them to gnaw through a chunk of this stuff in less than two minutes. What had started as a harmless foray into local tradition had quickly become a living nightmare where I was choking on an Everlasting Gobstopper of guilt. Lassie, Sounder, my ex’s adorable puppy Boris, the Tatler dachshund, your boys took one hell of a beating.

While it was torture for my jaw, the taste wasn't nearly as bad—just unremarkable. The texture was awful though: semi hard wood glue peppered with pieces of reinforced concrete. The closest taste description I can muster is a disconcertingly vague hybrid of turkey and pork.

As if reading my mind, the waiter suggested adding some spice by mixing the meat with his “special sauce.” I was ready for any kind of flavor at this point. Then I found out his special sauce was fermented shrimp paste, which tasted like a medieval prostitute’s gusset. I immediately regretted my decision.

Having managed eight or nine chunks of the clammy canine flesh, I uncovered the cold sausages made of dog's blood below—“doggy black pudding” as our waiter excitedly exclaimed. One bite of this, and I was done. Absolutely, unequivocally, eternally fucking done.

I’d be lying through my teeth if I said I felt pride after trying dog, but what I felt wasn't exactly shame, either. Clearly it’s a taboo in the West, but it wasn't hard to remind myself how commonplace it is in Vietnam as soon as I walked out of the restaurant and was confronted with more delicious little doggies being pushed around on carts. 

The price, for anyone who’s interested, was only $10 for the two of us. They cost a lot more alive, which can probably be explained by the fact that they're a lot more fun climbing over your stomach than up through it and out of your mouth.


2013/01/15

Newtown


Qualcuno potrebbe chiedersi il motivo per cui ho intitolato questo mio nuovo articolo “Newtown”.
I più smaliziati penseranno che i motori di ricerca inseriranno questo blog quando il termine Newtown verrà digitato. I meno smaliziati, e spero siano la maggior parte, penseranno che io voglia evocare l’ultimo teatro di questa infinita serie di massacri e assurgerlo a totem per tutelare i nostri figli, una specie di mantello protettivo. Il mio pensiero è si evocativo ma forse anche più profondo. 

Newtown significa Città Nuova, evocativo di un nuovo mondo dove far crescere i nostri figli, di una nuova realtà dove anche gli esseri più indifesi possano vivere senza paura e angoscia che un pazzo scatenato possa porre fine alle loro vite anzitempo. Nuova vita dunque, nuova città, un nuovo mondo. Cerchiamo tutti la pace, la rincorriamo, ci aspettiamo che arrivi finalmente, aspiriamo succeda presto, l’attendiamo come un figlio, un figlio promesso ma quasi nessuno mette alla prova se stesso per perseguirla. La prova è sotto gli occhi di tutti. 

Riusciremo a cambiare questo nostro mondo? 

Il 14 dicembre dello scorso anno un ragazzo, pare soffrisse di una sindrome che provoca la compromissione delle interazioni sociali, ha rubato tre pistole e un fucile d’assalto alla madre, l’ha uccisa e poi con queste ha massacrato ventisei innocenti di cui venti bambini nella scuola elementare Sandy Hook di Newtown, Stati Uniti, dove il genitore insegnava come supplente, l’ultimo colpo l’ha riservato a se stesso per mettere fine alla propria (aggiungerei anche ignobile) esistenza. 

Questa è più o meno la notizia nuda e cruda come riportata dai mass media e dalle agenzie stampa di tutto il mondo. Una notizia di quelle che colpiscono, di quelle che quando le leggi ti vengono i brividi, la pelle d’oca, sbianchi in volto e guardi i tuoi figli, li senti e li vuoi sentire al sicuro, protetti e pensi che, bene o male, e anche con una punta di egoismo, sei fortunato perchè non è successo a te, non è successo a loro. Perchè si verificano questi episodi e apparentemente solo negli Stati Uniti? Tutti, e in particolare in Italia, a gridare allo scandalo, a condannare la libera vendita di armi, anche se è stabilito dal secondo emendamento della Costituzione, tutti a criticare le scelte, anche anacronistiche, di un popolo. In effetti il tempo dei cowboys e degli indiani è finito da un pezzo si dirà, gli uni e gli altri non combattono più nella prateria da almeno un centinaio d’anni. Se molti non sono d’accordo con questa libertà, perchè allora la vendita delle armi, anche di assalto o da guerra è permessa negli Stati Uniti? Perchè qualcuno non è capace di spiegare da dove venga fuori questo odio, questi giovani che sono disposti a sacrificare decine di vite in nome di una libertà che ormai sta stretta persino a chi fino a ieri vantava il diritto di vendita di queste armi?
Qualcuno mi sa spiegare perchè dovrei sentirmi sicuro a mandare mio figlio a scuola e scoprire che potrebbe anche essere ucciso da un ragazzo la cui pazzia omicida è scaturita da un banale litigio? 

Perchè? Ditemi perchè?

Il Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama ha detto che non ci sono parole abbastanza significative per commentare l’accaduto. Lo stesso Presidente Barack Obama ha poi diffuso un messaggio da cui traspare tutto il rispetto per il dolore di quei genitori ma che non aggiunge alcun apporto, supporto, comprensione a chi vorrebbe vietare la distribuzione libera o quasi di armi sul territorio degli Stati Uniti: 

"Sono troppe le tragedie simili che accadono ovunque nel Paese, dobbiamo riuscire a evitare che accadano. Abbiamo perso bambini innocenti e insegnanti che dedicavano la loro vita a costruire il futuro di questi bambini. Questo fine settimana io e Michelle facciamo quello che ogni genitore sta facendo, stare il più possibile vicini ai nostri figli e ricordare loro quanto li amiamo"

Evitare che accadano? Quante milioni di armi sono state più o meno vendute liberamente negli USA? E quanti credete le riconsegnerebbero se venisse emanata una legge che ne vieta l’uso se non addirittura il possesso? Nessuno! Nessuno vorrà rinunciare all’effimera sicurezza che il possesso di un’arma lascia credere e non ci potranno essere perchè al di là di una legislazione permissiva che in alcuni Stati americani consente l’acquisto facile di armi, restano questi omicidi senza significato, senza giustificazione. Poteva questa strage essere evitata? Vendere al supermercato armi d’assalto e da guerra come se fossero caramelle e bonbon deve essere considerato la normalità o, forse, diventa obbligatorio fermarsi un attimo a pensare se questo è realmente quello che vogliamo? Siamo sicuri che una legge appropriata sul controllo e la vendita di armi d’assalto, legge indubbiamente sacrosanta, avrebbe evitato la strage? 

Adam Lanza (sfortunatamente ha un cognome di origini italiane), di cui ancora oggi sappiamo ben poco, ha utilizzato due pistole automatiche, considerate due armi normalissime seppure sottoposte a un minimo di restrizione e con l’obbligo della registrazione e un fucile d’assalto, un Bushmaster XR-15, un’arma micidiale già in mano a un professionista, figuriamoci nelle mani di un ventenne.  Nemmeno una legge più restrittiva contro le armi, tutte le armi utilizzabili per difesa personale, peraltro non richiesta da nessuno (e forse necessaria), avrebbe fermato l’assassino. Primo perchè non ha comprato lui quelle armi, secondo perchè non c’erano mai state ragioni o solo sospetti per limitare la vendita delle pistole (e del fucile d’assalto) alla madre, perché quelle armi lui le ha sottratte a lei che le aveva regolarmente acquistate, dopo essersi sottoposta a tutti i controlli necessari e doverosamente registrate. 

Certo mi si dirà che non rappresenta la normalità che una madre tenesse in casa un vero arsenale di armi, oltre alle succitate tre pistole pare avesse alcuni fucili d’assalto, qualche carabina, munizioni sufficienti per tenere a bada l’attacco degli Indiani a Fort Apache. Pensare che una legge possa impedire queste abitudini, queste follie di tenere così tante e pericolose armi in casa, che possa fermare la violenza è un’illusione. Vietare tutte le armi è impossibile e purtroppo anche contro la Costituzione Americana. E diventa complesso anche cambiare la Costituzione, a parole sembra facile ma non lo è affatto. 

Ricordo che durante il dibattito presidenziale Obama-Romney, Obama a un certo punto disse di essere sempre favorevole al Secondo Emendamento (quello del diritto a portare armi) e semmai favorevole anche a una più attenta e puntuale restrizione delle armi da guerra e di assalto. E purtroppo queste armi sono responsabili sia dell’assalto di Adam Lanza ma anche di quello precedente, quell’assalto alla prima di un film in un cinema in un centro commerciale di Aurora vicino Denver in Colorado. James Holmes, un ex studente impazzito che poco dopo la mezzanotte aprì il fuoco sul pubblico assiepato alla prima dell’ultimo capitolo della saga di Batman, travestito da Joker sparò sugli spettatori utilizzando un fucile d’assalto e svariate altre armi, lasciando a terra quattordici morti fra i quali anche sei bambini e ferendone un’altra cinquantina.

E l’America cosa fa? Si interroga? Cerca una soluzione a queste stragi? Un metodo non già per fermare la vendita delle armi, lo sappiamo che sarebbe un primo passo che alla lunga porterà alla diminuzione di questi incresciosi episodi, ma non è la soluzione definitiva. La soluzione definitiva non esiste, e non esisterà mai finchè circoleranno armi sul territorio degli States, secondo le ultime stime negli Stati Uniti ci sono 88 armi ogni 100 abitanti, includendo quindi vecchi e bambini, infermi e carcerati il che da l’idea che le armi in circolazione siamo molte di più per individuo di quelle che possa essere obbiettivamente pensare. Generalizzare è un errore, nella civilissima Norvegia, dove il controllo sulle armi è severissimo, Anders Behring Breivik ha ucciso 77 giovani in due attacchi apparentemente senza ragione; in Scozia, di nuovo in presenza di leggi che restringono notevolmente il possesso di armi, se pensiamo che non le ha neanche la polizia, nel 1996 sono stati uccisi da un folle sedici  bambini tra i cinque e i sei anni in una sparatoria che ha molte similitudini con quella della scuola di Sandy Hook. Per cui siete proprio certi che la causa di queste tragedie sia la disponibilità di armi, e che i  problemi si risolverebbero con delle leggi che ne limitino fortemente il possesso? 

Guardate la tabella sotto, pensate che la violenza sia semplicemente una prerogativa degli USA? O forse dobbiamo interrogarci tutti e domandarci quali siano le vere ragioni di tanto odio, in particolare da parte dei giovani perchè, e forse molti non lo sanno, le stragi di questi ultimi vent’anni sono state compiute quasi sempre da giovani, disadattati, drogati, si dirà schizofrenici, malati, insoddisfatti, alla ricerca di un ideale, alla ricerca di se stessi e se non riescono a trovare le giuste risposte scoppiano, uccidono, massacrano.  

Leggiamole insieme le stragi di questi venti anni e ognuno pensi come preferisce:

20 luglio 2012, Aurora, un sobborgo di Denver, in Colorado, è solo il penultimo di una serie di fatti di sangue che da anni accadono negli Stati Uniti, soprattutto nelle scuole americane. 14 morti di cui sei bambini, l’autore, James Holmes, è un ex-studente con la fissazione delle armi, ha solo 24 anni.

2 aprile 2012, terrore in California: un ex studente entra in una classe della Oykos University, una piccola università cristiana di Oakland, e apre il fuoco sui suoi ex colleghi. Alla fine si contano sei morti e tre feriti.

27 febbraio 2012, orrore in Ohio: nell’affollatissima caffetteria della Chardon High School, vicino Cleveland, un ragazzo spara cinque colpi: il bilancio è tre morti.

8 dicembre 2011, massacro al Virginia Tech: il complesso, teatro del massacro 2007, torna sulle prime pagine e l’America rivive un incubo. La sparatoria causa due morti, un agente e il killer. Anche in questo caso si tratta di un giovane.

30 novembre 2010, Paura in Wisconsin: un adolescente prende in ostaggio 23 studenti e una insegnante in un liceo e poi si uccide. Si è temuta la strage ma nessuna vittima oltre l’adolescente.

14 febbraio 2008, Illinois University: un ex studente armato con due pistole ed un fucile irrompe in un’aula della Northern Illinois University ed apre il fuoco uccidendo cinque persone e ferendone una quindicina. Il killer poi si suicida.

17 aprile 2007, la strage peggiore: la tragedia al Virginia Tech: un giovane apre il fuoco in due diverse aree del grande complesso Virginia Tech e uccide due persone in un dormitorio e altre 30 in un edificio dove erano in corso le lezioni.

2 ottobre 2006, la strage di Amish: un uomo prende in ostaggio alcuni studenti della scuola di Nickel Mines, un villaggio Amish della contea di Lancaster (Pennsylvania, Usa), fa uscire i ragazzi e lega le ragazze con funi e manette. Poi uccide cinque giovani alunne e ne ferisce altre cinque, infine si suicida.

21 marzo 2005, terrore in una riserva indiana: un ragazzo di 16 anni uccide il guardiano e poi spara su compagni di scuola e insegnanti del liceo Red Lake High School, situato nella riserva indiana di Red Lake (Minnesota, Usa), uccidendo sei persone e ferendone 14 prima di suicidarsi. Le vittime appartenevano alla tribù Chippewa. Prima di compiere l’incursione nella scuola, il ragazzo aveva ucciso il nonno e la sua compagna.

16 gennaio 2002, Virginia: in una piccola università uno studente straniero bocciato uccide a colpi di pistola il rettore, un insegnante ed una studentessa.

20 aprile 1999, Columbine: due studenti della Columbine High School di Denver (Colorado, Usa) - Eric Harris, 18 anni, e Dylan Klebold, 17 - aprono il fuoco e uccidono 12 loro compagni ed un insegnante prima di togliersi la vita. Nelle settimane successive, nel corso dell’inchiesta, emerse la loro simpatia per le idee neonaziste.

Ieri 16 Gennaio 2012 il presidente degli USA Barack Obama, presentando alla Casa Bianca le misure per un maggior controllo sulle armi da fuoco, ha detto: "Abbiamo davanti una sfida complicata. Proteggere i nostri bambini non dovrebbe dividerci". In seguito ha anche annunciato che varerà ben 23 ordini esecutivi per imprimere subito un giro di vite sull'uso delle armi e sui controlli, anche per le persone con problemi mentali. E, al Congresso, ha detto: "Non possiamo più ritardare". Ha quindi firmato i decreti, che danno il via libera a una stretta senza precedenti sulle armi da fuoco negli States, circondato da bambini. L'immagine, trasmessa da tutte le principali tv, dà il senso della svolta voluta dall'inquilino della Casa Bianca.

Newtown, nuova città, nuova vita. Parliamo dell’Italia. Nel nostro paese la vendita delle armi è regolamentata da diverse leggi e disposizioni di legge, includendo anche quelle che derivano dall’appartenere all’Unione Europea. Fin qui nulla di strano, si sapeva già, quello che invece la maggior parte dei lettori non sa è che chiunque può acquistare un’arma anche se non in possesso del porto d’armi. Un passo indietro e spiego che s’intende per porto d’armi in Italia.

Intanto si tratta di una licenza, che poi viene comunemente detta "porto d'armi" che permette ai cittadini italiani che ne sono titolari di portare o trasportare un'arma al di fuori della propria abitazione. Dunque il porto d’armi non è una autorizzazione a acquistare e possedere un’arma ma serve soltanto a autorizzarne il trasporto fuori dalla propria abitazione, dal luogo dove si vive. Adam Lanza se fosse vissuto in Italia a questo punto avrebbe ucciso ugualmente 27 persone? Si e no. 

Adam Lanza sappiamo che sottrasse le pistole e il fucile, non si sa bene quanto ben custodite, alla madre la quale le aveva acquistate e poi regolarmente registrate come richiesto dalla legge. Avrebbe potuto commettere gli stessi omicidi anche in Italia, infatti è possibile richiedere alla Questura di residenza la licenza alla detenzione di armi, privilegio concesso al cittadino che ne fa richiesta e consente l'entrata in possesso di armi o cartucce per acquisto personale. Sia le pistole che il fucile, magari non quello di assalto ma con un fucile automatico. Non solo, la suddetta licenza permette l’acquisto e la detenzione di armi e munizioni e sembra sia anche possibile produrre istanze di rilascio con l'unico limite dal raggiungimento del limite di legge di tre armi comuni da sparo (tre pistole dunque, Adam Lanza avrebbe avuti le sue pistole per giocare alla guerra), sei armi sportive, otto armi artistiche o rare; inoltre nella licenza non vi sono restrizioni sul numero di fucili da caccia in possesso contemporaneo. 

Per la detenzione di cartucce, a prescindere dal quantitativo acquisito mediante nulla osta, i limiti sono quelli usuali di duecento cartucce per pistola o rivoltella. Se consideriamo che nel massacro di Newtown sono stati sparati un centinaio di colpi allora si capisce che in Italia Adam Lanza avrebbe probabilmente compiuto, esattamente e indisturbato, lo stesso gesto estremo, uccidendo madre, insegnanti e bambini come dall’altra parte dell’Oceano. 

Esattamente? 

Non proprio. Anche ponendo che Adam Lanza fosse in possesso delle pistole, anche supponendo che volesse usarle, intervengono quelle varianti che avrebbero sicuramente limitato i suoi intenti omicidi. Intanto la cultura. Da noi ben difficilmente potremo assistere a questo tipo di eventi commessi da giovani, anche perchè viene ancora considerato dalla pubblica morale un grave delitto il solo pensare di macchiarsi di tale disonorevole atto, senza alcuna giustificazione anche se si tenta di ricercare o di ribadire il proprio essere disadattato, e questo senza la ricerca del perdono, piuttosto della consacrazione a eroe di cartapesta buono solo per essere calpestato e deriso dai ragazzini. 

No, sciogliamo questo dubbi, in Italia non sarebbe successo semplicemente perchè la nostra cultura lo avrebbe impedito, e non solo quella, purtroppo. Come sarebbe a dire “purtroppo”, semmai bisognerebbe aggiungere un bel “meno male”. No, in Italia la libertà personale è solo teorica, non si limita alla sola regolamentazione dell'acquisto di un arma, scende in profondità e limita le intenzioni, i movimenti, il diritto di espressione di un individuo che non sia allineato al pensiero comune, le limitazioni imposte da varie leggi emesse nei secoli (valgono ancora leggi emesse all'inizio del secolo scorso perchè mai abrogate) fanno dell'Italiano un finto uomo libero. In effetti sei però libero di acquistare un’arma, di portarla al poligono, di sparare tutte le cartucce che vuoi ma, per esempio (come pare fosse abitudine di Nacy Lanza) non puoi farti accompagnare dai tuoi figli se minori, quindi Adam Lanza avrebbe, se fosse vissuto nella terra dei suoi avi, una possibilità in meno di diventare un feroce killer, un assassino di bambini. Purtroppo? Meno male che la legge una volta tanto interviene in nostro favore.

Tiriamo un profondo sospiro di sollievo alla notizia, le leggi ci sono e funzionano, in Italia certe stragi non possono avvenire, mandiamo con tranquillità i nostri figli a scuola perchè saranno al sicuro. 

Non voglio addentrarmi troppo in questo argomento legato alla sicurezza dell’ambiente scolastico italiano perchè, armi a parte ci sarebbe da parlarne per lungo tempo e non senza polemiche, ricordo solo impianti fatiscenti, mense inadeguate, insegnanti pedofili, il fenomeno del bullismo, la mancanza di insegnanti, il precariato nella scuola. Tutto questo resta un grosso problema per la scuola italiana e una fonte infinita di rischi. Resto quindi legato all’argomento armi e affronto la questione prendendo in considerazione altri argomenti che possano avvalorare il mio articolo. Abbiamo quindi visto che una strage in una scuola come quelle avvenute negli USA non sarebbe possibile in Italia, sia per impedimenti di carattere culturale, sia per impedimenti logistici. In effetti da noi le scuole diventano delle piccole fortezze, non dico che ci siano guardie armate agli ingressi ma accedere alle classi diventa difficile, magari solo considerando quelle recinzioni che limitano gli accessi che invece nel grande paese oltre l’oceano non esistono. Le stragi però si sono verificate anche nel nostro paese, anche in tempi moderatamente recenti. Come dimenticare quella di Erba dove Olindo e Rosa hanno massacrato con coltelli da cucina quattro esseri umani di cui uno era un bimbo? E il massacro di Novi Ligure? Parliamo di gente normale, non dimentichiamoci degli omicidi seriali di quello che viene chiamato anche da noi Unabomber, lo sconosciuto che da vent’anni mette in scaccoo Polizia e Carabinieri nel nordest, non dimentichiamoci il delitto di Cogne, quello di Garlasco, gli omicidi seriali di Michele Profeta e quelli di Gianfranco Stevanin e che dire delle bestie di Satana? E di Donato Bilancia il seriale delle prostitute in Liguria? E poi la pedofilia violenta, il mostro di Foligno, quello di Firenze dei compagni di merende del contadino Pacciani, un mistero ancora non completamente risolto. 

La lista sarebbe ancora lunga eppure dimentico intenzionalmente i delitti di mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, delle varie mafie come vengono additate in Italia, mafie che esistono e si sviluppano sfruttando le paure della gente, l’ignoranza, la vergogna, la mancanza di uno Stato veramente capace di ripulire il Paese dal marcio che ancora esiste. No, non conto quegli omicidi piccoli e grandi perchè allora dovrei aggiungere la strage di Capaci e quella di Palermo e tutte le altre di cui non voglio assolutamente parlare che aggiungono solo altre croci alle croci che già siamo costretti a impiantare nel terreno sulle bare di chi perde la vita perchè ammazzato da chi non doveva avere tra le mani un’arma, un’arma denunciata e registrata “regolarmente denunciata” come scrivono i giornali quasi a voler evidenziare che si trattava di persone normali, gente per bene, gente che ammazza per noia o per motivi futili, per un cane che piscia sull’angolo della casa o per un vaso di fiori annaffiato troppo spesso.

No, l’Italia non è meglio degli USA, difettiamo solo di assalti alle scuole, almeno in epoca recente, difettiamo di individui con personalità abbastanza contorte, con grandi schizofrenie, con disponibilità di armi e capacità oltre che di volontà di ferire i propri simili ma non pensiate che questo sia un pregio. Da noi l’omicidio in famiglia è diventato qualsi una normalità. Tutte le settimane leggo di qualcuno che ha perso la vita, ammazzato da un parente, dal genitore o da un fratello, dall’amico del cuore o dal fidanzato. E in questo diario di violenza e follia sono le donne a soffrire di più, vittime di una cultura che le mette ancora in secondo piano, che le annichilisce, le disonora, le riduce spesso allo stesso livello di una bestia. Credete non sia vero?    

Questa è la realtà signori. In Italia la vendita delle armi viene regolamentata, si tratta solo di un atto formale, ci vuole uccidere sa come procurarsi un’arma, chi vuole uccidere se ne frega dei regolamenti e delle proibizioni, se ha un’arma la usa e se non ne possiede una se la procura o al massimo usa un bel coltello, magari da cucina, con la lama seghettata. Nel 2010, ultimo anno di cui esistono stime aggiornate, in Italia i morti ammazzati sono stati quasi cinquecento di cui un centinaio scarso da addebitare a mafie e ambienti malavitosi, tutti gli altri derivano da ambienti famigliari, l’ambiente di lavoro, il circolo, compagni di scuola. 

L’Italia è seconda al mondo nell’export di armi leggere, un settore in grande spolvero, che al di là della crisi, conta oggi il doppio di fatturato rispetto al 2006; secondo il rapporto Small Arms Survey 2012, «il valore annuo dei trasferimenti legali di armi leggere e di piccolo calibro, compresi accessori, ricambi e munizioni supera gli 8,5 miliardi di dollari».



Fra i tanti insegnamenti di mio padre c'era anche il rispetto per gli altri, gli sono grato per avermelo detto.





2012/12/01

Cosa cambia per la Palestina oggi?



Ha vinto la Palestina, era ora. Pensate che il voto del Palazzo di Vetro abbia un valore solo simbolico, o potrebbe avere anche effetti concreti? Il punto di vista di Israele e indubbiamente la prossima e immediata reazione potrebbero condizionare i prossimi scenari in una guerra solo di nervi fra due entità con differente peso in una regione geografica abituata a clima caldo tutto l’anno e non soltanto per motivi geografici? 

Il riconoscimento ha diverse implicazioni pratiche che metteno in imbarazzo Israele e disturberanno il funzionamento delle diverse agenzie delle Nazioni Unite. Nonostante le premesse, le promesse e le paure e nemmeno a sorpresa Netanyahu non l’ha presa bene. Il primo ministro israeliano, oltre a ringraziare i paesi che si sono espressi contro appoggiando Israele in una guerra di nervi più che di armi ha annunciato la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. 

E ti pareva. Niente di nuovo all’orizzonte, lo scenario nella regione non cambia affatto e ne cambierà in un prossimo futuro perchè in effetti la Palestina non viene ammesso al club riservato dei Paesi membri ma solo come osservatore dell’ONU, guardare non parlare e probabilmente nuppure toccare la realtà anche se qualche volta riguarderà decisioni prese contro il proprio Paese. In concreto per la Palestina cambia veramente poco. 

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Ron Prosor aggiunge come corollario alle rimostranze Israeliane che “Abbas preferisce i simboli alla realtà. Preferisce volare a New York invece di venire a Gerusalemme per negoziare“ mentre Limes spiega perché l’ammissione all’ONU è una vittoria simbolica, ma non rappresenta una soluzione, la Palestina, non ha amici all’ONU, infatti se escludiamo la Bulgaria non può contare su Stati amici come Israele, non altrettanto importanti, ricordiamoci che  la gran parte del mondo arabo usa la questione palestinese come diversivo per distrarre la popolazione dai problemi di legittimità interni o per acquisire popolarità a buon mercato. 

E sempre la Palestina non è in grado di minacciare militarmente l’esistenza di Israele; sarebbe sufficiente andarsi a contare le vittime palestinesi in tutti i conflitti ufficiali e ufficiosi fra le due compagini per comprendere come la forza militare di Israele, vicino forse scomodo per il piccolo neonato Paese nello scacchiere mediorientale è costantemente superiore a quella palestinese, in grado di colpire obiettivi e mietere un numero di vite maggiore di quello delle vittime israeliane. 

Semmai la spaccatura tra le due maggiori fazioni del movimento palestinese, Fatah e Hamas, si è indubbiamente amplificata negli anni, giungendo dal 2006 ad assumere anche geograficamente il carattere di una spartizione, una Fatah “governa” a Ramallah, dove risiede il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen, e in tutta la Cisgiordania mentre Hamas ha il predominio sulla Striscia di Gaza. Piccole e insignificanti soddisfazioni per un Paese che invece dovrebbe cercare di unire le forze per avere maggiori possibilità di far valere la propria voce in un ambito dove gli appoggi sono in prevalenza americani nei confronti dell’unico Stato non islamico.

Con questo punto di vista e le suddette circostanze viene difficile pensare che il riconoscimento dell’Onu possa avere qualche effetto sulla soluzione della questione palestinese. Costruisce certamente un precedente, porterà a un isolamento di Israele nel breve periodo, probabilmente anche sotto il profilo diplomatico ma se questo porterà l’ANP a perdere i soldi delle tasse raccolti da Israele e probabilmente anche quegli aiuti occidentali che hanno permesso a Fatah di arricchirsi e istituzionalizzarsi al potere bisogna considerare che la Palestina dovrà inventarsi un nuovo sistema per finanziare la politica e il funzionamento dello Stato partendo da nuovi sistemi e azioni senza per questo disturbare più di tanto lo scomodo vicino. 

Perchè ora come ora la Palestina ha un minimo di riconoscimento in sede ONU e non può più permettersi di condurre campagne infinite di terrorismo senza la certezza di farla franca ancora una volta. Ora che esiste è obbligata a rispettare le stesse regole che Israele rispetta in seno alla stessa organizzazione mondiale di cui entrambe con diversi titoli fa nno parte. La Palestina potrebbe sfruttare il suo nuovo status per denunciare Israele al Tribunale penale internazionale o alla Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite è vero ma da adesso in poi anche Israele potrà fare altrettanto e la Palestina dovrà subirne le conseguenze e prendersi la propria fetta di responsabilità.

Sappiamo bene che gli argomenti di diritto internazionale non hanno particolare influenza sulle decisioni dello Stato ebraico. L’eventuale sospensione degli aiuti occidentali potrebbe avere effetti indesiderati per gli Usa e l’Europa, dovendo affrontare in casa propria il peso delle lobbies ebraiche che detengono il potere e la ricchezza di entrambe le regioni goepolitiche, inoltre si assisterebbe all’aumento della popolarità di Hamas, con maggiori ingerenze da parte di finanziatori con abiti differenti tendenti al bianco e religione non apprezzata in quell’ambito, non sicuramente dopo i fatti dell’11/9 ne in quelli recenti finanziari con recrudescenza dell’instabilità, aumento dell’indebitamento finanziario e esposizione nei confronti delle nuove potenza arabe importanti, Qatar in primis seguito a ruota da Abu Dhabi. 

Il riconoscimento ottenuto all’Onu rappresenta l;eredità di Abu Mazen al popolo palestinese ma non scuote le fondamenta della questione israelo-palestinese. 
La soluzione di questa passa per Washington e per le maggiori capitali mediorientali, non per il Palazzo di Vetro di New York. L’Europa infine non ha perso l’occasione di dimostrare la mancanza di una politica estera unitaria, la dimostrazione di una totale mancanza di coesione l’abbiamo sperimentata con nessun accordo preliminare, con posizioni contrarie della Germania e l’astensione di Londra, l’approvazione della Francia scontato e quello dell’Italia a sorpresa, l’Italia che ospita sul proprio territorio la maggiore comunità ebraica d’Europa. 

A qualcuno verrà sicuramente a memoria che ben tremila delegati affollano il parlamento di Bruxelles, a nessuno è venuto in mente che questo atteggiamento non piace ai cittadini che essi rappresentano che a tutti chiedono coesione e sicurezza, sicurezza messa in pericolo non già da un voto che forse aveva anche ragione di esistere, intendo con un risultato potivo per la Palestina, ma dalla partecipazione in ordine sparso delle delegazioni e l’espressione del voto ancora più inaspettato e inconcepibile. Evidente che l’Unione Europea non possiede quell’unità e quella volontà politica necessarie alla proiezione di una identità e di una personalità sulla scena mondiale. Il tempo in cui i Paesi europei avevano una visione comune sembra ormai lontanissimo.

E l’America? Dopo la vittoria di Obama e del pericolo immediato per tutta l’economia mondiale che essa rappresenta, dobbiamo evidentemente assistere a dei successi che non intaccano minimamente la granitica consapevolezza del gigante americano, sappiamo benissimo che per gli americani gli israeliani sono abitanti di un Paese lontano, loro sono semmai presi dalle vicende interne. E poco importa se al momento non hanno pensato al futuro dei loro figli, un futuro per altro richiamato proprio da Obama nel suo discorso di re-insediamento. 

Potrebbe essere un errore di campo fatale perché non c’è futuro per un mondo insicuro come quello disegnato da Obama in questi ultimi quattro anni questione araba compresa. Gli arabi, anzi il mondo islamico rappresenta la spina nel fianco di qualsiasi amministrazione americana degli ultimi 40 anni di storia, ricordiamoci di Monaco 1972. La vittoria di Obama rappresenta un pericolo per il mondo civile, e la decisione sulla Palestina pur con il voto contrario degli americani contribuirà a rendere ancora più insicuro il futuro di una regione abitata da quasi ventisei milioni di individui agitati da sentimento di odio nei confronti di un solo unico Paese e dei suoi alleati. 

Aleggia un’ombra sul futuro mondiale basta dare una occhiata alle agenzie arabe e persiane e alla loro malcelata soddisfazione. Non potevano sperare di meglio, anche i regimi islamici totalitari vecchi e nuovi (Iran, Egitto e Tunisia) sanno che non avranno nulla da temere da quel presidente neppure quando si astiene dal votare contro Israele e a favore della Palestina perchè alla fine a loro della Palestina non interessa poi molto. 

Cosa cambia ora in Medio Oriente? Dipende da alcune cose. La prima e forse più importante questione che risentirà di questa rielezione di Obama è la vicenda del nucleare iraniano. Se sono vere le voci che vogliono contatti diretti tra Iran e USA prepariamoci a un durissimo braccio di ferro tra Gerusalemme e Washington. Israele, come ha ribadito Netanyahu, non permetterà all’Iran di dotarsi di armi nucleari dietro al paravento dell’uso civile. Al contrario, Obama sembra credere alla favoletta del nucleare ad uso civile ed è tentato di trattare con gli Ayatollah. Un attacco israeliano alle centrai nucleari iraniane, già rinviato più volte e persino interrotto in una occasione, potrebbe scombinare i piani iraniani e americani. Lo vedremo presto, molto presto credo.

E per la Palestina riesploderanno le polemiche degli ultimi mesi in tutta la loro virulenza. C’è da giurare che Obama tornerà alla carica per spingere verso un accordo tra arabi e israeliani. Solo che l’accordo che vogliono gli arabi non è proprio un accordo nel vero senso della parola, che prevede due parti e due posizioni diverse, loro pretendono semplicemente di imporre a Israele le loro volontà. 

Ora però la questione potrebbe cambiare con Obama che ha quattro anni davanti a se con l’impossibilità di ricandidarsi probabilmente smetterà di essere “simpatico”. Potrebbe finalmente alzare la voce, e porre la questione sul piatto del contenzioso iraniano. Tenere buono Israele con l’Iran in cambio di un supporto per la questione palestinese. Il problema però è che per Israele la questione palestinese non è affatto di vitale importanza come invece lo è la vicenda del nucleare iraniano. 

Sappiamo che gli assetti geopolitici in Medio Oriente sono a rischio ogni giorno, non esistono accordi alla luce del sole, tutto avviene nelle stanze buie delle rispettive cancellerie e nei centri di controllo, l’ordine di colpire gli iraniani potrebbe partire in ogni momento mentre scrivo questo pezzo e cogliere impreparati tutti i Paesi coinvolti in un senso o nell’altro in questo scenario con un alto pericolo esplosivo. 

Guardiamo tutti a Obama  che sposta l’asse del proprio interesse verso Ankara con un’occhio al Cairo. Credo, anzi ne sono certo che altro non siano che goffi tentativi di accontentare quelle potenze e distrarre l’occhio attento della diplomazia non statunitense da altre e sottili questioni guarda caso tutte legate al petrolio e suoi derivati. Perchè diciamocelo seriamente, l’Unione Europea non ha ancora imparato la lezione e non ha diversificato le proprie fonti energetiche per rendersi indipendenti dal mondo arabo, in primo luogo l’Italia, che, con il voto a favore della Palestina ha evidenziato ancora il proprio interesse verso l’oro nero che, sempre per caso, è saldamente nelle mani di quelle stesse popolazioni a maggioranza mussulmana come i palestinesi. 

Cosa cambia per la Palestina oggi? Tutto e niente, dipende dai punti di vista. Di certo oggi il riconoscimento dello Stato di Palestina passa obbligatoriamente per il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico. Stiamo a vedere la prossima mossa di chi sarà e quali saranno i coinvolgimenti dei vari Paesi nello scacchiere internazionale. Forse contrariamente alla regola, in questo caso "Tutti i mali verranno per nuocere?"