A Dalmine, in un giardino che ometto di dire dove ubicato per rispettare la privacy, c'era uno ciliegio gigantesco. Grossi frutti amaranto pendevano da questa enorme pianta invitando noi ragazzini come le sirene di Omero. Passavamo pedalando ipnotizzati e attratti dal grave carico pendente della pianta che ogni giorno si incurvava sempre di più sul peso enorme dei suoi stessi frutti.
Non si può dire che non ci avesse provato nessuno a chiedere al proprietario di prenderne una manciata, il quale però era burbero e scorbutico come un rottweiler con l'orchite, e non permetteva a nessuno di avvicinarsi a quel miracolo della natura. Essendo il mastino stesso incredibilmente disinteressato al frutto della sua gigantesca pianta la quale non faceva altro che sganciare a terra frutti enormi, succosi e zuccherini destinati a marcire o alla meglio a venir mangiati dai merli. Condizione insopportabile. Cadevano a terra facendo un sordo "Splat", quasi da pesca matura. Era un suono pari ad una pugnalata al cuore per qualsiasi giovincello che avesse provato almeno una volta le dolcezze di quel mostro fruttifero. A peggiorare le cose c'erano le ciliegie vendute al mercato del Giovedì o quelle che raramente arrivavano nei negozi del quartiere, le quali a confronto con quelle angurie rosse che crescevano sulla pianta del mastino, sembravano acidi semi di chissà quale pianta esotico-tropicale.
Le leggende sulle ciliegie di quella pianta rasentavano il paranormale. Si narrava di frutti grossi come pesche e croccanti al punto che nel mangiare tali frutti i semi in essi contenuti, segnale inequivocabile che il pantagruelico pasto era finito tutto nello stomaco, erano scomparsi quasi del tutto.
Fu così che la frustrazione raggiunse il suo culmine. Bisognava agire. L'oratorio fu la sede della prima riunione carbonara del gruppo d'assalto. Il piano prevedeva un diabolico attacco al tramonto. Obbiettivo: mangiare l'intero raccolto in una sera!
Il mastino era uso nell'andare a dormire ad orari piuttosto gallineschi, e d'estate significava avere la pianta praticamente incustodita nelle fasi immediatamente antecedenti il crepuscolo, il che consentiva a qualche "dolce" ladruncolo di arrampicarsi sulla pianta in sicurezza e al chiaro. Poi, con il calare della sera, essendo già all'altezza adeguata, mangiarsi in santa pace l'intera pianta.
Tutto fu organizzato nel minimo dettaglio. Al calar del sole, la luce del bagno del mastino si doveva accendere, poi spegnere, poi accendere quella della camera da letto, poi spegnere, bisognava aspettare 10 minuti, e il caratteristico russare (la finestra era aperta) era il segnale per l'assalto. Basisti del colpo erano alcuni non-partecipanti per evidenti limiti di età (16-17 anni) i quali avevano agito rocambolescamente negli anni precedenti e conoscevano il campo di battaglia.
Furono diligentemente distribuiti i ruoli e le gerarchie. Non meno di 40 ragazzi fra gli 8 e i 13 anni erano coinvolti nell'attacco frontale. La discussione dei ruoli causò alcune animate discussioni che finirono ovviamente con delle litigate furibonde con orecchie rosse e guancie in fiamme. Poi, una volta ristabilito l'ordine, si stabilì la data dell'assalto. Il Mastino sarebbe andato a dormire fra le 8 e le 9 di sera, sicuramente il martedì. Non che si sapesse il motivo del martedi in particolare, ma tutti si fidarono di quello che dicevano i veterani.
Insomma, vestiti scuri, se possibile e tanta pazienza.
Nella fase iniziale tutto si svolse come da copione. Luce accesa in bagno, luce spenta. Luce accesa in camera, luce spenta. Russare profondo. Via.
I primi a salire, silenziosissimi e veloci come il ghepardo furono i tre fratelli Bordin (NdB: nome di fantasia, molto meglio delle X dell'autore), i quali essendo magri e agili arrivarono laddove i rami erano più ricchi di succosi frutti. Subito dopo fu il turno di Mario e Robertino, addetti alla parte medio-alta della pianta, e in seguito, con audaci movenze pari solo a certi artisti del circo, fu il turno della terza linea di raccolta, formata da alcuni dei più dotati fisicamente ma meno agili. Il loro compito era quello di portare con il massimo del silenzio possibile una trentina di sacchetti bianchi a marchio "Vegé" in blu, meticolosamente raccolti nella settimana antecedente il colpo a tutti i componenti della banda.
I tre fratelli Bordin in cima alla pianta avrebbero ricevuto i sacchetti una volta messa in sicurezza e assestata la loro postazione di assalto, riempiendoli con il tesoro e passandoli, una volta pieni, alle postazioni più in basso. Ai piedi della pianta c'erano a questo punto alcune staffette che maschiamente avrebbero dovuto recuperare i sacchetti trabordanti il maltolto, staffettando verso la rete di recinzione ove un nutrito gruppo di ciclisti in erba avrebbero dovuto portare il bottino in un luogo sicuro convenuto precedentemente.
Insomma, tutto si svolse come nei piani almeno fino alla prima parte.
Il Mario probabilmente era soggetto ad una forma di colite che lo affliggeva già in tenera età, ed era suo uso emettere delle violente sonorità per le quali si era reso famoso ben oltre i confini del quartiere, facendosi soprannominare da tutti "Rombo di tuono". Nemmeno in questa occasione mancò di esibirsi in tale performance, e fu l'inizio della Caporetto dei ciliegiai dalminesi. Una piccola parentesi: alcuni amici con i quali sono ancora in contatto oggi, asseriscono che Mario, letteralmente scomparso alcuni anni dopo, non solo era soggetto attivo in questa singolare disciplina musicale, ma ne era vittima in quanto per una misteriosa malattia ereditaria era praticamente costretto ad abbandonarsi alla performance ogni qualvolta si fosse presentata, diciamo così, l'occasione. Una bomba ad orologieria, praticamente. Si mormora che sia partito per l'India, dove tale pratica non è soggetta a tabù come da noi, ma anzi, è usanza comune. Chi lo sa.
Immaginatevi perciò, nel silenzio operativo, un boato di Mario mentre tutta la truppa era schierata nelle postazioni di combattimento. La pianta ebbe un fremito improvviso. Ognuno dei combattenti ora lottava per trattenere le risate che si facevano largo prepotentemente oltre ogni ragione. Il prezzo da pagare sarebbe stato altissimo, se il Rottweiler si fosse svegliato.
Mario pensò bene di dare nuovo slancio alle sue ragioni con un'altra bordata di potenza inusitata. Ormai due dei tre fratelli in cima alla pianta erano partiti a ridere cercando di trattenersi il più possibile, e gli altri ragazzi sui rami di mezzo non erano molto lontani dall'esplosione. Qualcuno di quelli a terra si indignò per quello che stava accadendo sibilando: "Mario! Mòchela docà!". Lui rispose con un "pota..." e con un'altra botta che causò il tracollo definitivo. Luce accesa in camera. Segnale d'allarme. "Via via!!"
Tutti i presenti ai piedi della pianta riuscirono a dileguarsi, mentre gli scalatori rimasero appollaiati sulla pianta in attesa che le acque si calmassero. Ma il rottweiler fece la sua comparsa in giardino. "Tò èst! Ti ho visto! Cognòse tò pàder! Ghèl dighe! Tà ederèt!" (Conosco tuo padre, glielo dirò, vedrai!) urlava nel buio il mastino.
Poi, una volta verificata l'integrità della rete di recinzione, non senza aver pronunciato dei sonori porconi destinati a farsi sentire nei dintorni, sicuro di essere ascoltato, il mastino se ne tornò verso l'ingresso di casa. Ma a questo punto accadde l'inpensabile: da una delle postazioni mediane il povero Robertino, che insieme agli altri 10 o 11 e con la complicità del didietro di Mario sulla pianta aveva mantenuto il più rigoroso silenzio, persè l'appiglio e rovinò a terra proprio davanti ai piedi del mastino.
Costui, sorpreso dalla caduta di una ciliegia di così importanti dimensioni, non ci mise troppo tempo a scoprire che la massa informe che stava ai suoi piedi era il cucciolo di un essere umano, e nemmeno tanto carino.
Accertatosi prima di tutto che il poveretto caduto dall'alto non si fosse fatto male più di tanto (era balzato in piedi come una molla subito dopo aver toccato il suolo, a riprova della sua natura gommosa), il mastino prese le notevoli orecchie del malcapitato così come si afferra un'otre carico d'acqua, e sollevandolo di peso lo portò oltre il cancello d'ingresso, calciandolo fuori quasi fosse un pallone da rugby verso la porta avversaria. Robertino, che a dispetto del nome aveva una massa adiposa in costante crescita, si ritrovò a galleggiare a mezz'aria per alcuni istanti, per poi ricadere poco distante. Era la sua seconda esperienza di volo in meno di 10 minuti.
A questo punto il mastino aveva realizzato che la sua pianta contava più abitanti di Guzzanica. Disse, con voce ferma: "Egnì zò..." (venite giù). "Egnì zò PORCO .....!!" Silenzio. Si diede inizio così ad una breve trattativa.
"Me egne zò, però te ta ma lasèt indà!" (Io scendo, ma tu mi lasci andare!)
"Te cumincia e ègn zò!" (Tu comincia a scendere!)
"No me ègne mia zò perché te ta ma pìchet. Me stò ché" (No, io non scendo perché tu mi picchi. Io sto qui.)
Insomma, la cosa andò avanti fino ad un certo punto, quando il mastino si rese conto che la massa presente sull'albero avrebbe avuto la meglio sulla sua voglia di prenderli a scarpate uno per uno.
"Alura, pudì tirale zò, se ùlif. MA GHI TEMP DES MINUCC!!" (Allora, potete tirarle giù [le ciliegie] se volete, ma avete dieci minuti di tempo!)
Fu così che al punto di raduno, dove si stavano facendo le ipotesi più funeree sulla fine dei poveri soldati rimasti sulla pianta, abbattuti al pari della "piccola vedetta lombarda", lo stupore fu immenso nel veder arrivare il gruppo degli scalatori con ben 4 sacchetti del "Vegè" pieni di succulente ciliegie.
Il povero Robertino era corso a casa dolorante, con il 45 abbondante del mastino stampato sul didietro, un grosso livido sulla coscia destra e le orecchie in fiamme.
Fu un'estate straordinaria, come tante altre estati straordinarie e primavere ricche di profumi e di gente che ride, o come gli inverni dove il freddo ti tiene incollato al termosifone o alla stufa, o quegli autunni dove non vedi altro che le castagne che scoppiano una-si-e-una-no, una si, e una no. Bastava tagliarle, o chiedere a mio nonno. Lui le cuoceva senza tagliarle e senza farle scoppiare. Mah.
Chissà dove siete finiti tutti voi, bambini del ciliegio...
(Da un racconto di Aldo Villagrossi, pubblicazione autorizzata dall'autore).