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2013/02/05

Solitudine

Non mi piace stare da solo.

Io sono un estroverso. Non importa quanta socializzazione possa fare, mi sembra sempre di avere ancora spazio per gli altri. 

Questo è vero. Ma il tipo di solitudine di cui parlo qui è più orientata sullo "stare con me stesso". Evidente che io faccia del mio meglio per evitarlo. E comunque non sono del tutto sicuro del perché. Perché apprezzo lo stare con me stesso intendo dire. Una volta non ero così, quando ero giovane ero introverso, direi più che altro timido, timoroso delle interazioni con gli altri e in particolare con l’altro sesso. Non che non avessi provato a cercare di stabilire un serio rapporto di scambio con le ragazze, no di certo, piuttosto mi sentivo impreparato per affrontare un certo discorso. In seguito ho scavalcato la barricata e sono passato dall’altra parte. Da introverso son diventato estroverso. Mi piaceva stare con gli altri, scambiare informazioni, notizie, chiaccherare. In questo nei tempi recenti facebook ha contribuito molto a mantenere questo scambio continuo con gli amici, le persone che ho conosciuto in tempi recenti e conoscevo in passato, a riavvicinarmi a persone che non ricordavo quasi più.

Poi qualcosa è cambiato, ricordo di aver scritto qualcosa al proposito probabilmente un anno fa. Non che ricordi il giorno preciso, non ne sono certo. Deve essere stato quando ho iniziato a rendermi conto che stare qui in Vietnam solo come un cane, non dico fosse piacevole ma poteva accontentare i miei bisogni immediati, era la consapevolezza che in certe situazioni non si possa pretendere più di tanto dalla vita, se la vita non ti da quello che vorresti ricevere tu da lei. Dicevo che lo scorso anno, ho visto me stesso stranamente fare un cambiamento introspettivo. 

Caso in questione, è sabato sera, e io sono a casa da solo, non che fosse casa mia, diciamo nella casa che avevo in Vietnam fino allo scorso anno. Sono senza un piano. Non è per aver provato e fallito. Non ho mai avuto un piano se non era in programma qualcosa di specifico. Mai pensato di organizzare, tranne forse fugacemente, qualcosa che avrebbe potuto essere considerato utile per raggiungere questa o quella persona. Un amico lontano ma nemmeno troppo mi chiede se ho intenzione di spendere una settimana in sua compagnia, con la sua famiglia, tanto per cambiare aria. Lui al tempo viveva in Thailandia. Ecco che li ho pensato che fosse possibile, poi ha prevalso il voler rimanere da solo, durante una festa che non era la mia, una vacanza forzata in terra straniera, ecco adesso ricordo, la sensazione l’ho avuto durante il capodanno cinese che qui si chiama Tet. 

E così alla fine mi sono ritrovato a scrivere sul mio blog, per parlare con gli altri, forse a pensare di mettere a frutto questa capacità di comunicazione o forse solo per l’esigenza di comunicare a altri il mio pensiero. E non so come sto parlando con voi di solitudine, in una forma contorta e piuttosto ironica, perché so dove sto andando adesso, e nonostante tutto mi sembra essere sempre meno importante per me di quanto lo sia mai stato prima. Non sono sicuro di cosa possa significare. Sta diventando meglio lo "stare con me stesso", come ho commentato in precedenza? Non lo so. Sto ritornando a essere un introverso? Non lo so.

Ci sono pensieri frammentati e le loro connessioni. Ricordo mia madre quando parlava più o meno degli stessi argomenti con mio padre, parlavano di me ovviamente, e poi lei cercava di mettermi all’erta, ricordarmi che l’essere sempre introverso non aiuta nella vita, isola le persone, forse aveva ragione? Lei di tanto in tanto mi diceva: "Quando tuo padre e io ci siamo sposati, abbiamo avuto inizialmente tanti amici. Era normale voler stare insieme a loro regolarmente, tutte le volte che gli impegni reciproci lo permettevano. Ma nel corso degli anni lui ha iniziato a allontanarsi da loro, uno per uno si sono persi per strada, tuo padre decise che non erano buone amicizie per la famiglia, per i figli, per crescere e migliorare se stessi, decise che non voleva più essere amico con loro."

Prima di tutto, non sarebbe in alcun caso la valutazione di mia madre delle azioni di mio padre come un riflesso della realtà a cui intendo sottostante. Credo solo, osservo che siamo diventati meno inclini a stare insieme agli altri, e portati a restare soli con noi stessi, rinunciando a un certo tipo di vita che diventa dispendioso. la crisi esistenziale forse, ma anche le esigenze economiche che ci vengono imposte da questa crisi globale che porta a sceglierci di isolarci per risparmiare le risorse vitali per gli anni della pensione. Potrebbe anche essere così, non posso però dire altrettanto di mio padre, ognuno pensa come meglio crede e organizza di conseguenza la propria vita secondo dei sani principi. 

Lui probabilmente rivestì il suo risentimento verso determinate persone, col tempo se lasci correre gli amici, alcuni amici non tutti sia chiaro, si prendono molta confidenza, si appropriano del tuo essere. Tu gli concedi un dito e loro si prendono tutto il braccio, forse in questa condizione lui decise che doveva fare qualcosa perché si sentiva che era lui troppo buono nei loro confronti o magari erano loro incapaci di adeguarsi con il suo pensiero che cambiava col tempo. Ma forse era qualcosa di completamente diverso? Forse decise che non era abbastanza buono? Forse è andato attraverso i cambiamenti interni che gli fecero sentire meno necessario il contatto con le persone? Purtroppo non c’è più, Non potrei nemmeno chiederlo a lui. Ho però il sospetto che, nel caso fosse ancora qui con noi, mi avrebbe detto che non ricorda. 

Non sono sicuro che qualsiasi esperienza di mio padre è stata necessariamente rilevante per la mia vita. Cosa c'è di diverso rispetto a me? Ho deciso che le persone non sono abbastanza buone? Ho deciso che non sono io abbastanza buono? Mi piace forse coltivare il tempo da solo? Sto in un limbo decisionale per identificare quali connessioni voglio mantenere? Sto creando spazio per le cose nuove che non sono ancora arrivate?

Non lo so. Credo che tutto questo derivi dalla forzatura dell’essere solo, per giunta in terra straniera, in più lontano dai miei cari, dagli amici di sempre con l’unico contatto, effimero finché si vuole, di facebook e del mio blog che avvicina me agli amici, ai conoscenti a quelli che mi apprezzano anche se, in realtà io sono qui sempre solo e loro sono là ognuno, a casa propria con famiglie, cani e gatti e pure i pesci rossi. Cosa cerco io nella vita?

La solitudine? No, la solitudine no. Non mi piace restare da solo.

Allora che cerco?


2013/02/03

Amazing Grace

La vita è un susseguirsi di lezioni, che devono essere vissute per essere capite.
Una poesia oggi, per i miei affezionati lettori, di un autore a molti sconosciuto che ho trovato sul web.
Un inno alla vita se vogliamo e alla gioia.
Come sempre siate felici, ne vale la pena.







AMAZING GRACE

Amazing grace! (how sweet the sound)
That sav'd a wretch like me!
I once was lost, but now am found,
Was blind, but now I see.

'Twas grace that taught my heart to fear,
And grace my fears reliev'd;
How precious did that grace appear
The hour I first believ'd!

Thro' many dangers, toils, and snares,
I have already come;
'Tis grace hath brought me safe thus far,
And grace will lead me home.

The Lord has promis'd good to me,
His word my hope secures;
He will my shield and portion be
As long as life endures.

Yes, when this flesh and heart shall fail,
And mortal life shall cease;
I shall possess, within the veil,
A life of joy and peace.

The earth shall soon dissolve like snow,
The sun forbear to shine;
But God, who call'd me here below,
Will be forever mine.

- John Newton, Olney Hymns, 1779 -

2013/02/02

Giusto o Sbagliato?

"Preferisci avere ragione, o preferisci essere felice?"

Tale questione è rimasta nella mia mente per circa due decenni. Non ricordo se era un terapeuta, un manuale di auto-aiuto, o mia madre, che per primo me lo disse. Io mi sono sempre impegnato con gran valore per essere dalla parte giusta nella mia vita. Ma non sono sicuro che alla fine, tutto questo impegno mi abbia veramente portato dove volevo essere.

Tutti vogliono avere ragione. In alcune situazioni, c'è una risposta giusta e, piaccia o no, qualcuno è nel giusto e qualcuno non lo è. In altri casi, è puramente una questione di opinione. Ci sono casi in cui il costo di "essere sbagliato" è elevato (per esempio, "A che ora era la partenza del volo?"). Ci sono molti più casi in cui la conseguenza è trascurabile (per esempio, "In che anno è uscito quel film?")
Sembra che secondo come ci aggrappiamo al giusto e sbagliato, ha più a che fare con chi siamo veramente piuttosto dell'importanza della questione.
Ultimamente, ho iniziato a perseguire una strategia che pare dia anche buoni frutti, cioè "permettere a altri di aver ragione" e questo il più delle volte nelle discussioni a cui partecipo. 

Non perchè abbiano sempre ragione gli altri e io torto, no assolutamente, solo per dare a loro la sensazione di aver ricevuto una ragione che non gli compete pur sapendo di aver torto con la presunzione di ripristinare la verità. Non ci crederete ma la maggior parte di coloro che si prendeno la ragione pur avendo torto marcio, non ammette di aver torto, anzi gongolano con quella ragione ingiusta e ci vanno a nozze e magari rincarano anche la dose, calando il carico da quindici, cioè facendo notare ancora di più delle ragioni che in realtà non esistono. 

In realtà, io non sono sicuro che sia corretto questo mio atteggiamento. Diciamo che l’ho fatto più spesso recentemente di quanto l'ho fatto in passato, volevo vedere quanto l’essere umano sia capace di accettare la verità o la menzogna e saper distinguere le due situazioni e opporsi quando si crede di non essere nel giusto. La cosa più importante che ho notato è che nessuno vuole sentirsi dire di "aver sbagliato", ho ragione quindi  quando dico che tutti gli uomini sono opportunisti, il vecchio concetto de “l’occasione fa l’uomo ladro”. 

Però se io acconsento a cedere la ragione a altri, allora l'argomento di cui si discute, spesso, assume toni interessanti, procura risultati e opportunità per la costruzione di una giusta relazione, invece di costruire un muro di separazione, perchè alla fine unisce e non separa.

Anche se a volte ci si sente peggio perchè abbiamo dato la ragione al nostro interlocutore e ci siamo assunti tutta la colpa, ecco che alla fine il nostro stato d’animo migliora, perchè non abbiamo avuto un contrasto con la persona, un’accesa discussione sulle priorità, sulle colpe, sulle responsabilità. Penso quindi che sia perché stiamo spendendo il karma, per così dire. Se lasciamo correre, se lasciamo perdere di metterci a discutere per questioni che non si risolveranno mai e risolviamo tutto attraverso una nostra ammissione, giusta o sbagliata che sia, e soprattutto senza conflitti, ecco che si risparmia di emettere energia negativa, e con questa i radicali liberi che ci rovinano la salute. 

Ecco qui, e qual è la conseguenza? La questione più difficile è quella di sentirsi sempre a posto con la sensazione di essere “sbagliato” anche quando qualcuno vi dice: "Io credo di non sbagliarmi se ti dico che ......." Qualunque cosa sia, se non suona bene per voi, allora vorrete confutare. Ma questo è il loro punto di vista. È la loro verità. Non potete aver voi ragione su quello che altri pensano, ognuno ha la propria verità e ci sarebbe da discutere per sapere quale sia corretta e quale no ma ritorniamo all’inizio di questa storia, e poi non si finisce mai di discutere. 

Piuttosto che discutere o confutare, se voi solo ascoltaste prendendo in considerazione la validità delle parole altrui? Non vi cambia la vita se lo fate, le vostre certezze restano vostre, quando la conversazione finisce ognuno ritorna per la propria strada e ognuno ritorna a credere quello che sembrava giusto a se stesso, allora perchè discutere? È spaventoso a volte scoprire che è possibile evitare semplicemente un litigio appropriandosi temporaneamente di un torto fine a se stesso. Non è difficile perdere il controllo certe volte. E non è nemmeno facile mantenerlo.

Non c'è da stupirsi siamo così inclini a cercare di avere ragione, ma questo non paga, vale la pena perdere la serenità per un punto di vista?


2013/01/30

Gioventù bruciata?


Fabrizio Corona e non solo. 
Non prendetemi troppo sul serio in questa mia ennesima fatica letteraria, perchè serio non sarò. Un Corona in carcere fa notizia solo per quello che s’è lasciato alle spalle in tempi nemmeno tanto recenti piuttosto di quello che rappresenta oggi. Volevo invece fare un parallelo, il titolo ricorda una certa gioventù bruciata che ci riporta ai primi anni dopo la grande guerra. Un famoso film, un allora quasi sconosciuto attore diventato in seguito famoso per questa pellicola, un’altrettanta misteriosa morte in un incidente stradale dai contorni sfumati, un mistero che si ripete per gli altri protagonisti morti tutti in circostanze violente o sospette tanto da far pensare che il film potesse essere maledetto. Insomma ci sono tutti i numeri per farne una bella storia. Siccome sono curioso e leggo molto, ho scoperto delle similitudini fra la vita del protagonista attuale e quella di quello precedente. 

Così nella storia ci metto pure Flavio Briatore che tutti si ricorderanno chi è, magari per altri meriti e situazioni, per la moglie carina e un figlio dal nome eccentrico, comunque sia, i più non sanno che anche lui da giovane ha vissuto alla Corona, o alla James Dean o forse entrambi. Mr. Billionaire infatti nasce povero, come molti self made man del resto, ma possiede tanta ambizione, vuole arrivare dove altri non sono arrivati partendo dal suo livello.

Mettetevi comodi e leggiamola insieme, poi se non vi piace sapete dove trovarmi.

Dei tre personaggi di questa storia trasversale, l’unico che sicuramente nasce povero è Flavio Briatore, padre e madre infatti sono due maestri di scuola elementare e sappiamo come in Italia vengono trattati gli insegnanti. Onesti e dignitosi, ricchi solo nello spirito. Flavio però è ambizioso e vuole crescere e migliorare la propria condizione sociale già tracciata. Si diploma geometra con voti piuttosto bassi e comincia a frequentare ambienti e personaggi di dubbia fama e correttezza. Non si lascia irretire più di tanto, da quella piccola deliquenza resta ai margini, prende quello che basta per far carriera. Quindi lavora come istruttore di sci e gestore di ristoranti. Quando ne apre uno proprio lo chiama con il suo stesso soprannome, Tribüla, nome che deriva dalla innata capacità di superare gli ostacoli per ottenere ciò che vuole. Non durò molto nemmeno il ristorante, per non fallire fu costretto a chiudere.

Dopo aver fatto il piazzista di polizze assicurative a Saluzzo e dintorni, il nostro Briatore esordisce nel mondo dell'imprenditoria a Cuneo, collaborando con un finanziere locale e costruttore edile, Attilio Dutto, che aveva rilevato la Paramatti vernici, ex azienda di Michele Sindona. Il 21 marzo del 1979, Attilio Dutto viene assassinato a Cuneo con una bomba collegata all'accensione della sua auto. La verità su quel botto del 1979 non si è mai saputa, ma si dice che Dutto avesse pestato i piedi in Costa Azzurra a qualcuno di importante. Da questo momento, però, comincia l'escalation di Briatore.

Dalla base piemontese si trasferisce a Milano dove conosce Achille Caproni quello della Caproni Aeroplani, diventando consulente della CGI sua holding. La Paramatti nel frattempo acquistata da Caproni su consiglio del Briatore, fallisce clamorosamente insieme a diverse società del gruppo lasciando un buco di 14 miliardi di vecchie lire. Briatore fu in seguito accusato di essere a capo di quello che i giudici chiamarono “il gruppo di Milano”, un’organizzazione che aveva il delicato compito di agganciare clienti di fascia alta e di truffarli. L'attività si interruppe con una retata, una serie di arresti, un'inchiesta giudiziaria ed un paio di processi che coinvolsero tra gli altri Emilio Fede, assolto per insufficienza di prove.

A cadere nella rete furono alcuni nomi importanti. Briatore fu condannato in primo grado ad 1 anno e 6 mesi a Bergamo e a 3 anni a Milano ma non fece un solo giorno di carcere poiché si rifugiò per tempo a Saint Thomas, nelle Isole Vergini, per poi tornare in Italia dopo un'amnistia.

La vita di James Dean non fu altrettanto roccambolesca, la morte inaspettata si. In un tardo pomeriggio del 30 settembre 1955 sulla strada per Salinas in California, la Porsche Spider condotta dal giovane attore non poté evitare la collisione con un altro veicolo che, forse per una distrazione dell'autista, aveva invaso la corsia. L'impatto fu devastante: per James Dean non ci fu quasi più nulla da fare e l’auto era ridotta in pezzi. Alcune ore più tardi, tra lo sgomento generale, cominciò a diffondersi la notizia che il mito era morto. Aveva solo 24 anni.

James Dean era diventato un’icona di una certa gioventù suo malgrado, tanto da far nascere il mito che la cultura giovanile ha interiorizzato, ormai quasi inconsapevolmente, e la cui leggenda continua a perpetuarsi da più generazioni, senza peraltro veder diminuire il suo sottile fascino e la sua attualità. Non è facile trovare un altro personaggio che, al suo pari, ha influenzato tanto, e così a lungo, i comportamenti, il modo di vestire, le mitologie metropolitane dei giovani; al punto da potersi affermare che in ogni giovane c'è riposto qualcosa che appartiene a James Dean, prototipo di ogni teenager.

Una «Gioventù bruciata» che si spense quel 30 settembre. Così come si spegneva nel film. Storie di ribelli. James Dean, ribelle dalla sua vita faticosa. Dalla morte prematura della madre. Dal difficile rapporto con il padre. Ribelle senza causa. Come il titolo originale di quella pellicola di Nicholas Ray che ha fatto il giro del mondo. E ha lanciato quel giovane volto nell'immaginario collettivo. Senza confini. Proiettandolo sui miliardi di manifesti appese nelle camerette di adolescenti sognatrici. Un mito nato su un uomo che era un crocevia di opposti, apparentemente inconciliabili. Intimorito e arrogante. Scapestrato e riservato. Spaesato e audace. Come i bolidi che amava. Come le macchine che guidava.

Come la fiducia nel prossimo. Si dice che un attimo prima di quello schianto mortale, mentre il conducente dell'altra auto si apprestava a girare a sinistra tagliandogli la strada, Dean avesse confidato al meccanico seduto a fianco: «Ci vedrà... Quel ragazzo dovrà pur fermarsi». In "Gioventù bruciata", diventato presto un vero cult-movie, fanno la loro piena comparsa anche quelle tematiche che caratterialmente accompagnano, sin dalla più giovane età, la breve e turbolenta vita di James Dean: la competitività, la continua messa alla prova di se stessi, la fretta di vivere, la sfida alla morte. Come è noto, infatti, l'attore fu nel corso della propria vita un "ribelle" non certo meno che negli schermi cinematografici, conducendo una vita intensa, frenetica e spesso sregolata. E Corona?

Fabrizio Corona nasce in una famiglia di giornalisti, figlio di Vittorio e nipote di Puccio Corona. Il bisnonno era il compositore siciliano Gaetano Emanuel Calì. Origini non modeste come gli altri due protagonisti di questa storia. Fabrizio Corona però è assunto dalle cronache solo per le sue esperienze negative piuttosto che per quello che di buono ha realizzato. È lui il vero rappresentante di quella Gioventù Bruciata, un arrogante uomo d’affari, un mito al contrario, temuto e rispettato, scapestrato ma riservato, audace e contorto nelle proprie certezze, un uomo, un ragazzo, con tanta ambizione, e determinazione che l’hanno portato a amare donne desiderate da molti italiani e a gettarle via con esasperante stupidità dopo averle utilizzate e spremute per il proprio piacere. 

Perchè?

C’è di tutto nel passato di Corona, molto di quello desiderabile, molto più di quello che un coetaneo con pari ambizioni e capacità possa pensare di raggiungere, eppure a lui non è mai sembrato sufficiente, ha sempre rischiato per avere di più. Televisione, editoria, cinema, calcio sono mete ambite dai nostri giovani. Chi non vorrebbe entrare a far parte di un cast televisivo, iniziare una carriera nel piccolo schermo, chi, compreso il sottoscritto, non ha mai desiderato diventare uno scrittore famoso, scalare le classiche dei libri più venduti di sempre e le occasioni nel cinema, dalla parte dei protagonisti e nel calcio, non quello giocato ma pur sempre uno che conta, eppure...

Eppure Corona si è perso per strada tutto questo, rincorrendo soldi facili, belle donne, emozioni forti, avventure al limite della decenza e legalità e anche oltre. Estorsione, banconote false, bancarotta fraudolenta, agressione a pubblico ufficiale, corruzione, diffamazione a mezzo stampa, ricettazione, evasione fiscale, infrazioni gravi del codice della strada sono le sue performances più eclatanti, un’enormità verrebbe da pensare considerando che il Corona è nato solo 39 anni fa.

Giovane non lo è più, intendiamoci, vecchio non ancora, a 40 anni la vita può ancora sorriderci ma lui ha speso molto della propria credibilità quando era ancora poco più che ventenne. Una vita scapestrata, diversa da quella raccontata dalla madre, che pur come mamma di tale figliuolo non può che parlarne bene. Eppure nessuno come lui ha mai dimostrato tanta cattiveria, tanta rabbia, tanta presunzione e arroganza nei confronti di chi, e nonostante tutto, lo osannava e ama ancora. Gioventù bruciata? È sicuramente il caso di Fabrizio Corona, che ha bruciato tutto quello che aveva come eredità familiare, fatta non di danaro ma di rispetto, partecipazione, riconoscenza. Ha bruciato tutto quello di suo e probabilmente anche quello che la famiglia era riuscita a creare nei decenni di rapporto col pubblico, buttato tutto all’aria.

Se n’è parlato molto sui giornali di gossip, su quelli scandalistici, sui quotidiani e settimanali, nei talk show pomeridiani e serali, anche nei telegiornali. Se n’è parlato spesso come un mito da non prendere a esempio, di un bulletto di periferia troppo cresciuto che non si rende conto egli anni che passano.

Sicuramente Corona rappresenta in solido quella gioventù bruciata di mezzo secolo prima, ma non per questo può essere giustificato nei propri comportamenti. James Dean e Flavio Briatore ebbero una adoloscenza tribulata, dissapori e incomprensioni a livello familiare, qualche grosso dispiacere. Corona no, ha vissuto nell’agiatezza, in una famiglia stimata e considerata a tutti i livelli sociali per quello che aveva donato alla gente, per l’acutezza delle azioni e il rispetto per gli altri. 

Fabrizio Corona, è stato uno dei personaggi italiani più chiacchierato degli ultimi anni, criticato da molti per il suo carattere forte e poco incline al rispetto della legge, forse a torto ammirato e venerato da altri per la sua grande determinazione. Quello che mette Fabrizio nei guai è il carattere ribelle, da vero duro: attacca i magistrati dell’indagine, si fa cogliere al volante senza patente, viene trovato in possesso di banconote false. Insomma, se i guai non vanno da Corona, è Corona che se li cerca, motivo per cui diventa un pò il capro espiatorio delle indaginiin cui viene coinvolto.

Cosa c’è nel futuro di Corona? Sette anni di carcere quasi otto, condannato in via definitiva per l’estorsione a un calciatore, unico colpevole a causa di un sistema marcio nelle fondamenta che ha identificato lui come il responsabile perfetto, il colpevole da punire duramente, l’esempio da bandire. Sconterà la sua pena in carcere, probabilmente smetteranno di parlare di lui e quando uscirà di prigione, vecchio e incanutito, cambiato interiormente, speriamo non ci faccia più tornare alla memoria quella gioventù bruciata della quale lui è stato solo un cattivo esempio.

2013/01/29

La Redenzione di Mr. Armstrong

Ho avuto modo di leggere sul Wall Street Journal del 15 gennaio scorso un pezzo a proposito della decisione di Lance Armstrong di confessare le proprie colpe riguardanti il doping assunto in oltre un decennio di carriera ciclistica a livello agonistico. Questo pezzo era denominato "Dietro la decisione di Lance Armstrong di rivelare i retroscena", che attribuisce una citazione dell'atleta, e una risposta da un burocrate, che è decisamente interessante. 

In un incontro con Travis Tygart, il capo dell’Agenzia Anti-Doping degli Stati Uniti (Usada), Armstrong ha indicato se stesso dicendogli: "Tu non detieni le chiavi della mia redenzione. C'è una sola persona che detiene le chiavi della mia redenzione, e quello sono io.” La cosa più affascinante di questa citazione non è la sfacciataggine, no, bensì la natura, comune con altri atleti nelle stesse condizioni di Armstrong, del ritornello.
Tutti pensano che la loro redenzione, il proprio dichiararsi alla società e ottenere da questa il perdono, la classica pietra sopra ai vecchi peccati e da adesso in poi "vogliamoci bene", spetti unicamente a loro. O forse a altri tranne, forse, che a questo funzionario dell’anti-doping statunitense, tale Travis Tygart.

Dopo aver ascoltato in tv l’affermazione di Lance Armstrong, Tygart avrebbe risposto: "Queste sono tutte balle!" È evidente che non si risolvono così anni di presa in giro, di successi arrivati in seguito alla mistificazione, all’imbroglio, al doping, che ha sicuramente minato nel profondo la salute dell’atleta - e a ben guardare chissenefrega, l’ha voluto lui – bisogna aggiungere anche l’umiliazione per i rappresentanti delle istituzioni di controllo per non aver mai capito quello che si nascondeva sotto le mirabolanti prestazioni di un mingherlino, nemmeno troppo muscoloso, nemmeno tanto conosciuto, salito agli onori della cronaca per aver sbaragliato tutti sulle creste del Tour de France.

Tygart ha semplicemente chiamato balle, con evidente allusione a qualcosa d’altro ben più puzzolente, la dichiarazione di Armstrong che reclama la propria redenzione come frutto della propria volontà e forse anche frutto di un mero calcolo per continuare a guadagnare quattrini dai vecchi fans dimostrando loro un sincero pentimento, magari attraverso il desiderio di del ciclista di poter tornare a correre. Nessun riferimento ai fans, no di certo, nessun riferimento al perdono vero o presunto, sincero o falso che potrebbe anche non essere automaticamente espresso da quei tifosi che si sono sentiti presi in giro. Una reazione accurata, quella di Tygart, come accurata è stata quella dei milioni di telespettatori che hanno seguito l’outing di Armstrong ospite di Oprah. Evidente che il disegno è l’ottenimento del perdono, essere padroni del proprio destino assumerebbe quindi la convinzione di possedere le chiavi, di detenere le chiavi per la propria redenzione. Questa idea è totalmente sbagliata, balle, balle e solo balle.

Mi viene da pensare che Armstrong abbia creduto fino in fondo alla possibilità che, mettendo a nudo la sua anima (o, almeno, il contenuto del suo armadietto dei medicinali) a Oprah avrebbe portato alla propria redenzione. Questa idea è, nella peggiore delle ipotesi, decisamente cinica, una estremizzazione dell’evidenza del peccato tesa a sviluppare sentimenti di perdono, comprensione per il desiderio, umano, di primeggiare a ogni costo e, quindi, perdonabile in quanto l’uomo, la carne è debole, si può quindi ammettere la colpa per ottenere la redenzione di tutti i peccati, il doping è un peccato ma verso se stessi, il risultato del doping invece è un reato dimostrabile verso gli altri competitori e il pubblico. Quello stesso pubblico che a lui ha creduto come un uomo invincibile e provato dalla competizione.

Nella migliore delle ipotesi, Armstrong ha voluto farci credere che dichiararsi per quelle droghe che ha assunto in quindici anni di carriera ciclistica per essere sempre ai massimi livelli fosse non già frutto di una propria volontà ma il frutto di un sistema corrotto che spinge gli atleti a doparsi per avere i migliori risultati e primeggiare, altrimenti si resta indietro. E con questo ha voluto dimostrare, procurare la prova regina per la piena e totale redenzione?

Aha aha, rido di gusto, solo pensare che potesse essere creduto dai propri fans, delusi, affranti rende un’immagine di un piccolo uomo, freddo e calcolatore, attento solo al ritorno in termini economici che quell’outing potesse rappresentare. Così fan tutti? Probabile, ma gli altri non hanno vinto per sette volte quasi consecutive il Tour de France e quindi diventa evidente anche a un cieco che lui sapeva benissimo quello che faceva, e il bieco calcolo della supposta redenzione altro non è che un ulteriore sistema per pompare altri quattrini di chi lo compatisce, gli perdona gli errori e lo aiuta a redimersi totalmente. Un buffone, questo è realmente Lance Armstrong, un pagliaccio di corte che considera tutti al proprio servizio, buoni solo per foraggiare la propria infinita fame di potere e di quattrini.

Quando un cristiano parla di redenzione non si riferisce a un ritorno, a uno stato precedente allo stesso livello. Alcuni lo fanno, in realtà, ma questo modo di pensare, come sottolineato da alcuni famosi teologi della fede, non si identifica totalmente nella redenzione. Perchè la redenzione è una caduta, si cade e ci si rialza esattamente nel punto in cui si cade. Non si ritorna quello che eravamo prima ma siamo costretti a ricominciare tutto il cammino per arrivare in cima, alla redenzione totale. Questo è il dono, non si può avere noi stessi le chiavi. E meno male, anche perché quando un altro le tiene, il nostro dono è incommensurabilmente più prezioso.