La grande fuga da New York
Un vero newyorkese pensa che New York sia l’unica città al mondo dove si può vivere sosteneva in un’intervista al “Village Voice” Milton Glaser, lo storico graphic designer che ha contribuito a costruire l’immagine della città, fondando il New York Magazine nel 1968 e inventandosi nove anni più tardi il logo “I♥NY”. Eppure, nonostante quella promessa di amore eterno, l’elevato costo della vita sta mettendo a dura prova l’attaccamento dei newyorkesi alla loro città, provocando la fuga della classe media e di artisti, musicisti e creativi che per decenni hanno rappresentato l’essenza della metropoli. New York non era solo una città. Era un’idea infinitamente romantica, il misterioso legame che teneva insieme tutto: amore, denaro e potere, il sogno stesso luminoso e deperibile, scriveva Joan Didion in un meraviglioso saggio intitolato “Addio città incantata” (il titolo originale è “Goodbye to all that”), pubblicato sul Saturday Evening Post. Era il 1967 e la scrittrice californiana provava a spiegare perché aveva deciso di lasciare New York, a 29 anni. Parte di ciò che voglio raccontarvi riguarda cosa significa essere giovani a New York, come sei mesi possano trasformarsi in otto anni con l’ingannevole facilità di una dissolvenza in un film, spiegava, le fontane del Seagram Building che sfumano in fiocchi di neve, io che entro da una porta girevole a vent’anni e ne esco parecchio più vecchia, e su una strada diversa. Ma soprattutto voglio spiegare sia a voi che a me stessa, forse, strada facendo, perché non vivo più a New York.
Un vero newyorkese pensa che New York sia l’unica città al mondo dove si può vivere sosteneva in un’intervista al “Village Voice” Milton Glaser, lo storico graphic designer che ha contribuito a costruire l’immagine della città, fondando il New York Magazine nel 1968 e inventandosi nove anni più tardi il logo “I♥NY”. Eppure, nonostante quella promessa di amore eterno, l’elevato costo della vita sta mettendo a dura prova l’attaccamento dei newyorkesi alla loro città, provocando la fuga della classe media e di artisti, musicisti e creativi che per decenni hanno rappresentato l’essenza della metropoli. New York non era solo una città. Era un’idea infinitamente romantica, il misterioso legame che teneva insieme tutto: amore, denaro e potere, il sogno stesso luminoso e deperibile, scriveva Joan Didion in un meraviglioso saggio intitolato “Addio città incantata” (il titolo originale è “Goodbye to all that”), pubblicato sul Saturday Evening Post. Era il 1967 e la scrittrice californiana provava a spiegare perché aveva deciso di lasciare New York, a 29 anni. Parte di ciò che voglio raccontarvi riguarda cosa significa essere giovani a New York, come sei mesi possano trasformarsi in otto anni con l’ingannevole facilità di una dissolvenza in un film, spiegava, le fontane del Seagram Building che sfumano in fiocchi di neve, io che entro da una porta girevole a vent’anni e ne esco parecchio più vecchia, e su una strada diversa. Ma soprattutto voglio spiegare sia a voi che a me stessa, forse, strada facendo, perché non vivo più a New York.
Il libro di Sari Botton è uscito lo scorso ottobre. |
Già allora Joan Didion riteneva che New York fosse una città "adatta solo ai molto ricchi e ai molto poveri", ma soprattutto una città per giovanissimi. Ispirata dal saggio della grande giornalista e saggista americana, la scrittrice Sari Botton ha raccontato la sua storia di newyorkese in fuga degli anni Duemila in “Goodbye to all that. Writers on loving and leaving New York”: dopo aver vissuto per anni in città, nel 2005 Botton è stata costretta a trasferirsi a Hudson, paesino a nord di New York, lungo il corso dell’omonimo fiume. L’affitto del suo loft su Avenue B, ad Alphabet City, era triplicato improvvisamente arrivando a 6.600 dollari al mese, divenendo preda di un famoso attore. Non c’è solo l’esperienza di Botton nel libro: la scrittrice ha chiesto a ventotto colleghe americane di raccontare le ragioni del loro addio a una città segnata da una profonda crisi economica e sociale, dove il reddito medio familiare si attesta intorno ai 50.000 dollari.
Molte persone non possono più permettersi di vivere a New York, e io sono una di loro, ha spiegato Sari Botton al Corriere della Sera dopo la presentazione del suo libro da Strand, storica libreria di Union Square. Certo, non tutti se ne stanno andando, questa resta la città più popolosa d’America – ha continuato – ma i creativi, ormai, non possono più permettersi di vivere in una metropoli dove gli affitti si impennano mentre case editrici e librerie chiudono.
Perché andarsene da New York?
E’ arrivato il momento di andarsene, ha confermato Christine Sun Kim, sound artist californiana di origine coreana, residente a New York da undici anni. Di fatto vivo qui, ma posso dire di essere andata via lo scorso giugno, quando ho lasciato il lavoro per concentrarmi sull’arte. Christine, che ha esposto le sue installazioni al MoMa e al Whitney Museum, si divide fra Berlino e l’appartamento di un’amica a Bushwick, uno dei quartieri periferici di Brooklyn.
Quando la mia professione sarà rispettata come quelle di Wall Street, allora gli affitti non saranno più un problema, ha sottolineato. Il tema è stato affrontato anche da David Byrne, leader dei Talking Heads, leggendario gruppo new wave formatosi a metà degli anni Settanta nei bar dell’East Village, citato come fonte d’ispirazione da Paolo Sorrentino durante la notte degli Oscar. Byrne, che rientra nell’1% di popolazione più ricca di New York, ha denunciato sul “Creative Time Reports” la diseguaglianza dilagante che starebbe spingendo verso mete più ospitali ed economiche la linfa vitale rappresentata dagli artisti. Anche negli anni Settanta sapevamo che non sarebbe stato facile, ha ricordato il musicista scozzese residente a New York da quarant’anni, ma allora c’erano affitti economici, sebbene in loft senza acqua calda e riscaldamento. L’eccitazione di essere a New York faceva dimenticare le difficoltà.
Bank Street, illustrazione di James Gulliver Hancock, “All the buildings in New York” |
Quanto costa la vita a New York?
La città descritta da Byrne assomiglia a quella teorizzata dal neosindaco di NYC Bill de Blasio, il quale – durante la campagna elettorale – ha preso in prestito da Charles Dickens il concetto di “A tale of two cities”: una città dei ricchi e una dei poveri. A New York abitano circa 400.000 milionari, mentre quasi metà dei nostri vicini vive attorno o al di sotto della soglia di povertà, scriveva sul suo sito la scorsa primavera. La nostra classe media non si sta solamente riducendo – avvertiva – ma sta rischiando di scomparire del tutto. Così, soprattutto grazie allo spauracchio di una crescente diseguaglianza, lo scorso 5 novembre, il partito democratico ha riconquistato New York dopo vent’anni di amministrazione di Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg, il repubblicano divenuto indipendente rimasto a City Hall per tre mandati, che è stato accusato di aver lavorato solo per i ricchi di Wall Street.
Oggi a New York il divario fra ricchi e poveri è il maggiore di tutti gli Stati Uniti: l’1 per cento più facoltoso guadagna il 45 per cento del reddito totale della città. Nel 2011, i contribuenti newyorkesi che incassavano oltre 10 milioni di dollari erano 1.041, mentre in 120 superavano i 50 milioni. Il 18 per cento delle tasse erano pagate da un piccolo gruppo di 1.200 contribuenti, ha specificato Ronnie Lowenstein, direttore dell’Independent Budget Office cittadino. Per risolvere la crisi delle abitazioni (il 30 per cento dei cittadini spende più di metà del proprio reddito per l’affitto), de Blasio ha intenzione di costruire nuovi edifici alla portata di tutti e di proteggere i diritti degli affittuari. Il suo piano, inoltre, prevede la creazione di circa 50.000 nuove unità abitative a basso costo nei prossimi dieci anni, arrivando a 200.000 su 3,3 milioni di unità abitative totali, gran parte delle quali molto più costose degli standard nazionali.
Quanto costa l’affitto a New York?
Secondo lo “State of New York City’s Housing and Neighborhoods”, il rapporto pubblicato nel 2012 dal Furman Center della New York University, fra il 2007 e il 2011 gli affitti sono aumentati nonostante i prezzi delle case siano calati, con la grande maggioranza della città che si dichiara moderatamente o duramente gravata. Il coefficiente Gini – che deve il nome a uno statistico italiano della prima metà del Novecento, Corrado Gini, ed è uno strumento universalmente riconosciuto per misurare la diseguaglianza – si conferma il peggiore fra tutte le grandi città degli Stati Uniti. Quello che sta succedendo a New York è il risultato di principi economici di base, ha spiegato al Corriere della Sera Ingrid Gould Ellen, codirettrice del Furman Center della New York University, dipartimento che studia il settore immobiliare e le politiche urbane. La grande domanda per vivere in città, unita a una limitata disponibilità di terra su cui costruire, ha fatto aumentare i prezzi degli affitti. Considerando che due terzi dei newyorkesi vivono in affitto, è preoccupante vedere che i prezzi sono aumentati molto in tutta la città e non sono più abbordabili per gli inquilini. La crisi economico-finanziaria del 2007 ha fatto il resto: mentre i prezzi di vendita delle case calavano infatti del 20 per cento, gli affitti sono aumentati dell’8,6 per cento e i costi mediani mensili per un appartamento sono passati da 1.096 dollari a 1.191 dollari. Nello stesso periodo, il reddito familiare mediano in città calava del 6,8 per cento, passando da 54.127 a 50.433 dollari all’anno. Il continuo aumento dei prezzi e l’impatto degli affitti potrebbe non solo far fuggire la classe media, puntualizza Gould Ellen, ma scoraggiarla dal venire a New York in primo luogo.
C’è un mercato del tutto nuovo per il terreno urbano, sottolinea la sociologa Saskia Sassen, che ha appena pubblicato un libro sull’argomento, “Expulsions”. Si compra sotto forma di edifici ed è divenuto un ottimo investimento. A New York gli spazi sono acquistati da ricchi forestieri che raramente ci vivono. Lo stesso accade a Londra, a Hong Kong e in un’altra ventina di città, specifica Sassen, docente della Columbia University. I dati sembrano darle ragione. Nel 2001 i newyorkesi che guadagnavano oltre un milione di dollari erano 11.700, dieci anno dopo erano 20.412. Nell’arco dello stesso decennio sono aumentati anche i poveri, passati da 1,6 milioni nel 2000 a 1,7 milioni nel 2012: il 21,2 per cento dei cittadini vive oggi al di sotto della soglia di povertà. Secondo un rapporto della National Low Income Housing Coalition, un impiegato a salario minimo – che guadagna quindi 7,25 dollari all’ora – dovrebbe lavorare 139 ore a settimana, invece delle quaranta previste dalla legge, per potersi permettere l’affitto di un bilocale in città.
Non sono i poveri ad andarsene, hanno troppi benefit nel restare a New York e difficilmente si muovono, ha raccontato Joel Kotkin, professore di sviluppo urbano alla Chapman University, in California, newyorkese di nascita. La vera migrazione è quella della classe media, in particolare delle famiglie. Per Kotkin, a far aumentare i prezzi sono stati due fattori: le politiche della Federal Reserve, la banca centrale americana, volte ad aiutare i ricchi (per lo più concentrati nella capitale finanziaria) e l’arrivo degli investitori internazionali. Bloomberg non era solamente il sindaco dei ricchi, ma ne incarnava le visioni e i valori, ha affermato. Per quanto riguarda de Blasio, invece, la sua descrizione della città è corretta, ma non la prescrizione. Per limitare la diseguaglianza bisognerebbe creare e mantenere lavori per la middle class in città.
Se Manhattan fosse una nazione, scrive il New Yorker, il gap fra il 20 per cento più ricco e il 20 per cento più povero sarebbe in linea con quello di Paesi come Sierra Leone, Namibia o Lesotho. Eppure, nonostante tutto, New York resta un’attrazione per molti. Fra il 2010 e il 2012 la popolazione della città è aumentata del 2 per cento (161.500 unità), grazie soprattutto alla migrazione internazionale. Oggi gli abitanti di New York sono 8,3 milioni, e una ragione ci deve pur essere.
Ditemi una ragione per restare a New York!