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2015/06/20

Russia nemica?


Per Obama il leader russo Putin è il nemico numero 1 e in Europa sta crescendo la tensione a livello militare tra NATO e Russia. Certo Putin non è un santo, ci mancherebbe altro, ma siamo così sicuri che la posizione USA sia corretta? 

Dopo l’11 settembre mi sembra che gli americani in politica estera le abbiano sbagliate quasi tutte: abbattendo Saddam hanno destabilizzato tutta la regione, volendo distruggere Assad in Siria hanno rinforzato l’ISIS, scegliendo una linea pro-Iran rischiano di creare altri guai, tolto di mezzo Gheddafi (con l’aiuto francese) si sono creati i presupposti degli sbarchi attuali di centinaia di migliaia di disperati mentre in Afghanistan, Iraq, Medio Oriente, Africa centrale la situazione è tragica. La mania americana di mostrare i muscoli porta regolarmente a situazioni senza uscita.

In compenso gli USA coccolano nazioni – come l’Arabia Saudita – assolutiste e cieche che, magari temendoli, di fatto aiutano e finanziano i fondamentalisti islamici in un generale tripudio del commercio delle armi.
L’Europa balbetta, incapace di avere una propria gestione delle crisi e un esempio lo è ora la questione dell’Ucraina dove Putin qualche ragione ce l’ha visto che in fondo l’est ucraino è russo per lingua, tradizioni, storia, religione. 
Non capisco perché l’Italia non debba fare anche i propri conti proprio nei rapporti con la Russia e sarei più cauto a sposare le tesi americane in politica estera (il rispetto dei diritti umani violati da Putin è un’altra cosa) perché alla fine da una crisi sarà proprio l’Europa a rimetterci, non gli USA, e tutti abbiamo da perderci se all’est scoppiasse l’ennesimo conflitto europeo...

Se poi a tutto questo aggiungiamo il discorso della NATO ecco che tutto prende un colore diverso, allora possiamo anche valutare positivamente lo staccarci dall'Europa economica (l'UE) e unirci ai BRICS e vivere decisamente meglio.


La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai Paesi del Golfo controllati da loro. Tutti i Paesi europei sono danneggiati da questa politica e la Russia viene spinta a integrarsi con la Cina.
È venuto il momento di domandarci perché dobbiamo continuare a fare parte di una organizzazione che ci reca solo danno. La Russia per noi non è un nemico, ma un amico, appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l'integralismo islamico che invece gli americani hanno favorito con la loro politica in Afghanistan, in Irak e in Siria. È stata la Nato ad abbattere Gheddafi dando la Libia in mano agli islamisti e inondando l'Italia di immigrati. E non dimentichiamo che il presidente Obama voleva bombardare l'esercito di Assad aiutando le forze che hanno poi creato il califfato.
Oggi la Nato dovrebbe essere riorganizzata con nuovi scopi e con nuovi membri. E per prima cosa dovrebbe farne parte la Russia, per costituire un fronte comune contro l'integralismo islamico e la immensa potenza militare che fra poco sprigionerà la Cina. Oggi la Nato, che guarda a nemici del passato, dovrebbe pensare al futuro. Magari facendo anche qualcosa per il presente: per esempio mettere fine alle emigrazioni nel Mediterraneo da essa stessa provocate.

Pensierino della sera....

Ecco un discorso che Solzenicyn – il dissidente sovietico a lungo incarcerato sotto il regime comunista - tenne come prolusione ad incontro accademico tanti anni fa: credo sia utile una sua lettura per qualche riflessione: 

....Il declino del coraggio é la caratteristica più sorprendente che un osservatore può oggi riscontrare in Occidente. Il mondo occidentale ha perso il suo coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente, in ogni paese, in ogni governo, in ogni partito politico e, naturalmente, nell'ambito delle Nazioni Unite. Il declino del coraggio é particolarmente evidente tra le élites intellettuali, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell'intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. 

Funzionari politici e classi intellettuali presentano questa caratteristica, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni, e ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sulla debolezza e sulla vigliaccheria. E questo declino del coraggio, a volte raggiunge quella che potrebbe essere definita come una mancanza di carattere, sottolineata quasi con ironia da occasionali scoppi di audacia e di rigidità da parte degli stessi funzionari politici quando trattano con governi deboli, con paesi privi di sostegno o con correnti perdenti che chiaramente non saranno in grado di offrire alcuna resistenza. 

Si hanno invece silenzio e paralisi quando si tratta di affrontare governi potenti e forze minacciose, con aggressori e terroristi internazionali. E’ necessario sottolineare che fin dai tempi antichi il declino del coraggio è stato considerato il primo sintomo della fine..."

2015/06/18

L'Italia deve morire

L’Italia era una grande potenza scomoda per gli altri stati del nord, dovevamo morire e così è stato. Ecco chi sono i ”sabotatori”che ci hanno portato a questo, la VERA storia d’Italia che tutti nascondono passando per i nostri capi di stato, Cia, Bilderberg, BR, Britannia ecc.
Questo il video dell'intervista di Byoblu a Nino Galloni. Guardatelo e scaricatelo sul vostro computer, prima o poi qualcuno lo farà sparire.



Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa». Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. 

Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questaEuropa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gliUsa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

2015/06/14

Default Grecia, ci siamo!


Dopo il primo significativo confronto tra l’Eurogruppo e la Grecia, dopo il secondo in cui si prospettarono altri 6 mesi di proroga, dopo gli ultimi incontri che invece di avvicinare, allontanano le parti ecco che l’accordo appare ancora lontano quasi impossibile. Al momento Atene appare la sola tra le parti a offrire concretamente una certa malleabilità: «Il fatto che abbiamo un mandato non ci dà certo il diritto di fare tutto ciò che vogliamo -ha spiegato Varoufakis ai giornalisti all’uscita dal summit- ma ci dà quello di essere ascoltati», aggiungendo che «la Grecia non accetterà mai di stare in questo programma -la Troika- semplicemente perché per noi questo programma è stato catastrofico». Il ministro dell’economia greco ha accennato anche alle quantomeno incaute e approssimative notizie trapelate a fine anno su un’eventuale ripresa greca: «Le voci che l’economia greca sarebbe stata in ripresa nell’ultima parte del 2014 -continua Varoufakis- sono fortemente esagerate» perché «l’aumento del Pil reale è solo un miraggio. In realtà il Pil nominale, ossia i guadagni in euro, è diminuito» comportando l’innalzamento di quello reale: «l’unica ragione per cui il Pil reale è schizzato è perché i prezzi sono precipitati. Questo non è un segnale di ripresa, al contrario è un segnale di forte deflazione».

Insomma l’idea è quella di due parti ancora molto lontane ma vogliose di provare a capirsi. La durezza con cui alcuni vertici del gruppo Ue -Djisselbloem e Schaeuble su tutti- trattano le istanze di Atene appaiono più che altro come l’ultimo disperato tentativo di preservare un sistema che con sempre più totale evidenza sta mostrando le sue crepe a tutti, dopo un buon quinquennio di totale intoccabilità.

Basterebbe a esempio notare la scomparsa degli spot progresso che ti invitavano a parlare d’Europa, perché «di Europa si deve parlare», o meglio: fino a poco tempo fa ne dovevamo parlare tutti in piazza, ora se ne parla in concertazione riservata tra quattro mura. Questione mutata in pochi mesi.

L’assioma che invece è emerso sul territorio nazionale è quello secondo cui di Europa si può anche temporaneamente smettere, ma almeno «di Grecia si deve parlare», laddove poco importa conoscere nel dettaglio, ma è sufficiente metabolizzare l’assunto che i greci hanno il debito così vertiginoso perché “si sono mangiati tutto” e quindi “devono pagare”. Insomma, nonostante le premesse il dibattito non è molto lungo, tant’è che di solito si esaurisce con un grafico 2004-2010 in cui si evidenzia il debito pubblico e si conclude rapidamente con una richiesta di riscatto generica, perché i ladri sono stati “i greci”, chi ha falsificato i bilanci sono stati “i greci”, chi ci deve sei soldi sono “i greci”. Ma “i greci” chi?

Questa effettivamente è una specifica che non viene mai e poi mai affrontata, né da chi indica l’Ellade come origine di tutti i mali finanziari dell’Eurozona, né da chi difende la posizione di Atene attribuendole il ruolo di possibile via di fuga dalla palude fangosa dell’immobilismo economico e politico. La faccenda su cui nessuno credo possa dubitare è la dissennata gestione della cosa pubblica da parte dei precedenti governi greci -nel periodo che va dal 2002 al 2013- e in fondo è lì che vanno a puntare le accuse di chi sta dalla parte dell’intransigenza “troikiana”. In questo processo però il passaggio che manca è inquadrare il contesto in cui hanno operato i precedenti governi, troppo spesso denominati impropriamente come “Governo Centrale”, quasi per appiattire il tutto.

Prendiamo Costas Simitis, premier del paese dal 1996 al 2004 e leader del Pasok. Descrivendo il Πανελλήνιο Σοσιαλιστικό Κίνημα -Panellinio Sosialistiko Kinima, letteralmente Movimento Socialista Panellenico- possiamo inquadrarlo come un partito di estrazione liberale e socialdemocratica, improntato principalmente sulla dinastia Papandreou – prima il padre Georgios, poi il figlio Andreas, poi il nipote George. Provando invece a cercare un parallelismo comunque difficile con il nostro paese, ci limiteremo all’ampia definizione di “centro-sinistra”.

Simitis -che ha formato i suoi studi all’Università di Marburg, in Germania- divenne premier nel 1996 sostituendo proprio Andreas Papandreou, le cui precarie condizioni di salute si aggravarono a tal punto da portarlo alla morte in tre mesi. Al contrario di quel che si può pensare, Simitis -appartenente all’ala “modernizzatrice” e filoeuropeista del Pasok- non era il cavallo vincente del premier uscente: Papandreou aveva infatti indicato come suo successore Akis Tsohatzopoulos, che però venne superato da Simitis durante la riunione speciale di partito, avvenuta il 18 gennaio di quell’anno. Nel frattempo Papandreou rimase comunque presidente di partito fino alla morte, il 23 giugno 1996. Fu a quel punto che Simitis riuscì a ottenere anche la massima carica, il tutto dopo aver superato nuovamente Tsohatzopoulos durante l’assemblea -che noi potremmo chiamare “primarie interne”- del 30 giugno. Decisivo fu appunto il supporto delle nuove e incombenti politiche comunitarie, di cui Simitis era fervente sostenitore.

Simitis guidò il PASOK a vincere le elezioni anticipate del settembre 1996, anno in cui la sinistra nella sua versione post-muro provocò illusioni e disillusioni abbastanza diffuse, anche dalle nostre parti. Scrive Antonio Ferrari del Corriere della Sera alla vigilia del voto, il 19 settembre 1996:

L’uomo della svolta può essere il premier uscente Costas Simitis, 60 anni ben portati, un professore di economia che, pur avendo raccolto l’ingombrante eredità politica del prestigioso Andreas Papandreu, è in realtà il suo contrario. Incapace di retorica, metodico, poco incline al populismo. Simitis ha vinto la prima scommessa, sostituendo al timone del governo il vecchio leader malato. Ha vinto la seconda, guadagnandosi la presidenza del Pasok dopo la morte del patriarca. Avrebbe potuto vivere di rendita fino all’ottobre ’97, scadenza naturale della legislatura. Ha preferito invece rischiare subito la terza scommessa, chiedendo la legittimazione popolare e 4 anni di tempo per portare la Grecia alla laurea europea. Proprio questa determinazione, in un Paese facile alle emozioni, rischia di diventare il suo limite.

Certo, fa effetto sentir parlare di “laurea europea”, oggi. La laurea si sa vive nello stesso campo semantico del successo e del premio, della ricompensa, del riconoscimento e dell’incasso. Noi dopo vent’anni di laurea siamo costretti a parlare di debito, deflazione, fallimenti e bocciature. A ogni modo Simitis non solo vinse nel 1996, ma riuscì a confermarsi anche nel 2000.

L’esecutivo Simitis fu sicuramente il governo ellenico decisivo per l’accelerazione di Atene in direzione Bruxelles. L’opera politica di Eksynchronismos -“modernizzazione”- si impose su un vastissimo raggio di aree -dalle infrastrutture alla riforma del lavoro- attuando opere di investimento e di privatizzazione.

Interessante l’analisi del concetto Eksynchronismos offerta da Kostas Stafylakis, 38enne artista e intellettuale ateniese, esperto d’arte, filosofo e ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche e Storia dell’Università di Atene:

Nel corso degli ultimi 15 anni lo slogan politico più dibattuto e controverso nella società greca è stato quello di “modernizzazione” (eksynchronismos). Il contesto sociale, politico e culturale del suo riemergere nella vita pubblica greca nel 1990 è attualmente sottoposto a studio rigoroso e analisi da parte della maggioranza degli approcci analitici nelle discipline accademiche. Qualsiasi definizione conclusiva del termine “modernizzazione” sembra essere rischioso, in quanto gli effetti complessivi dei processi che il termine descrive non possono essere ridotti al ritratto corrente o recente economica e di sviluppo della Grecia. Sotto la prima somministrazione del primo ministro Costas Simitis (1996-2000), la Grecia ha aderito all’Unione economica e monetaria europea e sperimentato un boom nella costruzione di infrastrutture pubbliche, una razionalizzazione della sua amministrazione, un inedito abbassamento dell’inflazione e una stabilizzazione della politica degli affari esteri. Lo slogan “modernizzazione” è diventato un efficace punto nodale ideologico ridefinire tutte le divisioni culturali, economici e politici nella società greca.

Dunque è grazie a Simitis che la Grecia entra nell’Unione monetaria, posizione consolidata grazie al doppio mandato sancito nelle successive elezioni dell’aprile 2000. Scrive sempre Ferrari e sempre sul Corsera, proprio in quel periodo, era il giorno 10:

«Qualunque cosa succeda, la Grecia entrerà nell’euro». Yannis Stournaras, 43 anni, architetto del piano che ha consentito a Atene di adeguarsi, con una maratona quasi trionfale, ai parametri di Maastricht, raccogliendo complimenti a Bruxelles e a Lisbona (che ha la presidenza di turno dell’Unione europea), non ha dubbi. Nonostante il suo cuore dica ovviamente Pasok, e nonostante – nelle ore in cui è ancora incerto l’esito del voto – partecipi con passione alle operazioni di spoglio delle schede, è uno che può essere comunque soddisfatto. Il compito che gli era stato affidato è stato brillantemente eseguito. Persino gli europei più critici nei confronti della Grecia, Olanda in testa, sono stati costretti a riconoscere che Atene ha compiuto il suo dovere. Stournaras, studi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, professore di macroeconomia all’Università di Atene, da sette anni consigliere economico del primo ministro, è appena rientrato dal Portogallo, dove ha partecipato a una nuova riunione comunitaria, in vista del vertice di giugno che ratificherà l’ingresso della Grecia in Eurolandia. Ieri mattina è andato a votare, in un seggio di Kyfissia, circoscrizione borghese a nord della capitale, e è rientrato a casa, preparandosi alla lunga notte di attesa, davanti alla tv. «Il risultato elettorale, qualunque esso sia, non potrà cambiare nulla di quanto abbiamo raggiunto. Il processo di convergenza è quasi concluso e ormai è irreversibile – racconta il giovane professore al Corriere della Sera -. Mancano ancora, prima dell’annuncio, due o tre incontri con la Commissione europea e la Banca centrale, ma ormai quel che si doveva fare è stato fatto. Tutti i parametri fissati sono stati raggiunti. L’inflazione è attorno al 2,5 per cento, la crescita si avvicina al 4 per cento. Un dato, quest’ ultimo, che ci colloca subito dietro l’Irlanda. L’ingresso della Grecia in Eurolandia è ormai sicuro, a partire dal 1° gennaio 2001».

Yannis Stournaras era allora membro della commissione economica e monetaria dell’Unione europea, ma lo ritroveremo più tardi come Ministro delle Finanze dell’esecutivo Samaras, a testimonianza del fatto che negli ultimi vent’anni il valzer dei politici greci sia stato estremamente esclusivo, riservando la partecipazione alla grande giostra di incarichi a nomi che si ripetono e si rincorrono. Come appunto Akis Tsohatzopoulos, formatosi anch’egli in un’università tedesca -quella di Monaco di Baviera- dapprima avversario interno di Simitis per la presidenza del PASOK e battuto con 86 voti a 75, e in seguito nominato dallo stesso Simitis prima Ministro della Difesa -fino al 2001- e poi Ministro per lo Sviluppo Economico dal 2001 al 2004.

Questo fu il periodo della famosa falsificazione di bilancio emersa successivamente a seguito della denuncia presentata dall’esecutivo successivo al doppio mandato Simitis, quello dell’altro riesumato eccellente Kostantinos Karamanlis, leader dell’opposizione di centro-destra di Nea Dimokratia. In seguito all’inchiesta sull’operato dell’esecutivo Simitis emersero a carico del ministro Tsohatzopoulos varie inchieste giudiziarie: evasione fiscale, riciclaggio di denaro, corruzione.

Nel maggio del 2010 emersero rivelazioni su una costosissima casa -1.100.000 euro- acquistata dalla moglie di Tsohatzopoulos da una società off shore con sede negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi l’ex ministro entrò nel registro di altre due torbide vicende, su cui emerge lo scandalo Siemens. A seguito di indagini avviate nel 2008 venne alla luce un abnorme giro di tangenti tra politici e dirigenti pubblici greci, con l’implicazione di grosse società come la OTE -il maggior gestore di telecomunicazioni sul suolo ellenico- e l’azienda tedesca Siemens, per la fornitura di materiali e servizi allo Stato greco. Scrive l’ANSA il 10 giugno del 2010:

Il direttore esecutivo della Siemens greca, Dionisio Dendrinos, è stato arrestato nell’ambito di un caso di corruzione che sta facendo tremare la politica greca. L’arresto di Dendrinos, avvenuto ieri sera, fa seguito a quello di altri due dirigenti della società e a un mandato d’arresto internazionale contro Mikhalis Crithoforakos, presidente della filiale greca della Siemens, che avrebbe pagato per anni tangenti per ottenere contratti e appalti. Un mandato d’arresto è stato spiccato anche contro il dirigente finanziario della Siemens, Christos Karavellas, mentre indagati sono anche membri della sua famiglia. Sia Crithoforakos che Karavellas si troverebbero in Germania. L’inchiesta della magistratura riguarda tangenti che sarebbero state pagate dall’impresa tedesca a politici greci nel corso di diversi anni e in particolare per i sistemi di sicurezza delle Olimpiadi del 2004. Lo scandalo coinvolgerebbe sia esponenti del partito socialista di opposizione Pasok, quando era al governo, che dell’attuale partito di maggioranza del premier Costas Karamanlis (ND). Il Pasok ha chiesto un’indagine parlamentare sul caso Siemens, respinta da Karamanlis che vuole prima attendere la fine dell’inchiesta giudiziaria.

La responsabilità è solo da attribuire ai politici greci, o da condividere con il colosso tedesco? Di certo anche da queste parti abbiamo avuto un’esperienza simile negli anni Settanta con lo scandalo Lockheed in cui vennero coinvolti ministri della difesa e illustri cariche istituzionali. In fondo anche in Italia abbiamo fatto i conti con la “modernizzazione”. Nella bufera Siemens finì il PASOK, ma non venne risparmiata neanche la coalizione di centro-destra del successivo premier Karamanlis, quella che contestava appunto quella falsificazione del bilancio pubblico con cui Berlino ora tenta di inchiodare Atene sulla questione debito.

Durante un’intervista rilasciata lo scorso novembre, Alekos Alavanos, leader politico di Piano B, presente nella coalizione di Syriza, così dichiara:

Atene fa parte della zona euro dal 2002. Ma, in realtà nel paese circolano due monete perché la Grecia aveva avuto la maggiore inflazione della zona euro. L’euro di un italiano ha un potere d’acquisto diverso rispetto a un greco. La seconda valuta è l’euro europeo, vicino all’euro tedesco per le transazioni finanziarie internazionali. Con nessun riferimento però concreto ai fondamentali del paese. Da quest’immagine possiamo capire come una delle radici più importanti della crisi è la mancanza di competitività. Gli stereotipi della corruzione sono fuori controllo, clientelismo, arretratezza, ma corruzione in Grecia in greco moderno è “Siemens”. E c’è un politico greco, uno dei leader del Pasok e ministro della Difesa, accusato di aver preso tangenti dalla Germania per sottomarini, aerei e tutto quello che. Se il problema delle due valute non viene risolto, la Grecia non può uscire dalla crisi.

Insomma, il disavanzo greco è stato provocato dai greci. Ma quali greci? I politici greci, i corrotti. Dalla Siemens. Azienda tedesca. Riformuliamo: il disavanzo greco è stato provocato dai politici greci. E dai tedeschi. Scrive Marco Cobianchi su Panorama, è lo scorso 4 luglio: Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari.

E ancora: Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l’affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euro che inizia una decina d’anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All’inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all’arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal.

Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l’accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall’affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti”a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane.

Niente da dire, quella tra Grecia e Germania è una storia che si snoda dalla notte dei tempi, tuttavia, nonostante aziende tedesche abbiano notevolmente contribuito con il benestare di politici greci filoeuropeisti a dilapidare casse statali per 11 anni e 3 diversi premier, appare strano come allo stato attuale delle cose non solo venga scaricata ogni tipo di responsabilità “al popolo greco”, ma non si riconoscono neanche quelle gravi responsabilità esterne che dovrebbero portare a una politica decisamente più indulgente nei confronti di Atene.

Torniamo però indietro. Dopo il secondo governo Simitis, in cui la Grecia sottoscrisse formalmente la sua entrata nell’Unione europea grazie agli accordi firmati nel 2000, nel 2004 la guida del paese passò appunto alla coalizione di centro-destra guidata da Nea Dimokratia del premier Karamanlis. Come già accennato, durante questa legislatura emerse la questione dei dati truccati, ma emersero col tempo altre situazioni che non risparmiarono nemmeno questo esecutivo. Scrive Vittorio Da Rold su ilSole24Ore, è il gennaio del 2008 e della grave crisi ancora si sente solo l’odore:

Si allarga lo scandalo «Zachopoulos» in Grecia che sta facendo tremare il Governo Karamanlis di centro-destra con le ultime rivelazioni di un reporter Aris Spinos ai magistrati dell’esistenza di una importante conversazione di «eccezionale interesse politico» in un Dvd finora segreto. Si tratta di una storia di corruzione e ricatti nei palazzi del potere, due tentativi di suicidio e video osé: una intricata vicenda che da giorni tiene le prima pagine dei media greci e che ha già fortemente danneggiato l’immagine del Governo del premier Costas Karamanlis perché il protagonista è un suo stretto collaboratore da almeno 10 anni. Lo scandalo vede coinvolto Christos Zachopoulos, 54 anni e fino al 19 dicembre potente segretario generale del ministero della cultura di cui gestiva le finanze e i fondi Ue, e la sua ex-segretaria, Evi Tsekou, 34 anni. La storia ha inizio il 19 dicembre quando, adducendo motivi di salute, Zachopoulos misteriosamente si dimette. Ma la sera del giorno dopo si getta dal quarto piano del palazzo dove abita, nel centrale quartiere ateniese di Kolonnaki. Il funzionario è tuttora in gravi condizioni in ospedale e da allora non è in grado di parlare. La stampa greca si getta sul caso e indaga sui motivi del tentato suicidio che, in un primo tempo, vari giornali indicano nell’ampia disponibilità che Zachopoulos aveva dei fondi del ministero.

Dopo Karamanlis venne George Papandreou, la guida si sposto di qualche millimetro, da destra a sinistra, ma la situazione reale non cambiò molto, almeno quella interna alle istituzioni, perché in fondo quella esterna iniziò a precipitare trascinando il paese nel baratro. Neanche durante questa legislatura ci fu un’esenzione dagli scandali – anche se nella maggior parte dei casi bisogna aspettare quel galantuomo del tempo,che prima o poi arriva sempre a chiarire qualche punto oscuro, costringendoti a trasformare il passato remoto in presente, e viceversa. In questi giorni si parla infatti di Swissleaks e delle dichiarazioni presenti nel libro di Falciani, che stanno facendo tremare mezza Europa. Scrive Maria Antonietta Calabrò, lo scorso 10 febbraio sul Corriere della Sera:

Tra i clienti d’oro, Falciani nel libro fa i nomi di due persone, eminenti esponenti di due Paesi del «fronte Sud» della Ue: Spagna e Grecia. Dice: «L’uomo più ricco della Spagna, Emilio Botin del Banco Santander (di cui è stato proprietario fino alla morte, avvenuta il 10 settembre 2014), era uno dei clienti della Hsbc di Ginevra». Poi aggiunge un altro cognome e un altro conto importante, quello della madre dell’ex primo ministro greco George Papandreou, che «aveva un conto di 500 milioni di euro». Il fatto è che la lista degli «uomini d’oro» della Hsbc — in possesso di alcuni Paesi già da alcuni anni — sarebbe stata usata, secondo l’ex impiegato Falciani, per imporre politiche di austerity a altri Paesi. Questo, secondo lui, almeno il caso della Grecia. Falciani ricorda Papandreou e parla di «pressione e di ricatto». Rivelazioni destinate a deflagrare a poche ore dall’Eurogruppo che domani deciderà il destino del Paese guidato da Alexis Tsipras. «Nel 2011 la guida delle negoziazioni con la troika sul salvataggio della Grecia fu affidata a Sarkozy (l’ex presidente francese, ndr), che aveva quella lista e, conoscendone i nomi, poteva fare pressione su Papandreou», scrive Falciani.

Insomma la Troika usata come un’imposizione tramite ricatto, manco fossimo nella Roma della Banda della Magliana. Affermazioni queste tutte da verificare, anche se Sarkozy non è certo stato il politico migliore che l’Eurozona abbia avuto nella sua storia, e in fondo l’attuale crisi libica è lì a confermarlo ulteriormente.

Proseguendo il breve viaggio low cost attraverso il “disavanzo pubblico del Governo Centrale greco”, arriviamo agli anni in cui la morsa della povertà si fa davvero feroce, in cui il nazismo di Alba Dorata prende sempre più piede, e in cui Antonis Samaras tra le speranze di tutta l’Europa che conta vinse le elezioni del 2012, trovandosi a governare il paese nell’apice della crisi e senza la maggioranza assoluta, ma con il costante appoggio di Berlino. Berlino con cui Samaras concordò un secondo piano di assistenza, dopo il fallimento del primo. In realtà i tentativi di formare il nuovo esecutivo furono faticosi, tant’è che il primo non andò a buon fine. Al secondo tentativo si formò il governo “di coalizione” tra Pasok e Nea Dimokratia -ricorda qualcosa di famigliare- che si impegna a rispettare i patti con la Troika. Angela Merkel andò direttamente a Atene a mostrare il suo sostegno -ultima visita in Grecia-, mentre in piazza i manifestanti protestavano, e Syriza decise di non partecipare alla coalizione, venendo accusata di non preoccuparsi per la sorte del paese

Scrive sempre Vittorio da Rold e sempre su ilSole24Ore, ma nel 2012:

Da segnalare che il Pasok, intanto, non sceglierà nessun deputato o proprio ex ministro per ricoprire incarichi nel prossimo governo, hanno riferito questa mattina i media greci, spiegando che il gruppo paralmentare socialista ha accettato la linea proposta di Venizelos. Questa mattina alcuni esponenti socialisti avevano contestato la proposta. Il partito ha anche accettato di sostenere tecnocrati per gli incarichi ministeriali, come l’ex ministro degli Interni Tassos Giannitsis e il ministro dello Sviluppo, Yiannis Stournaras.

Ed ecco qui che ricompare Stournaras, accusato nello scorso gennaio da Tsipras di essere “dipendente da Schaeuble”. Stournaras è il polivalente ex ministro per lo Sviluppo, ex ministro delle Finanze e attuale Governatore della banca centrale greca, chiamato in sostituzione di un altro eccellentissimo dell’Ellade, George Provopoulos, al quale si imputano non poche responsabilità durante il suo mandato di Governatore, durato dal 2008 al 2014. Il New York Times ha scritto che pochi uomini come lui sono stati capaci di accentrare così tanto potere nel proprio paese. I giornalisti Nikolas Leontopoulos e Pavlos Zafiropoulos, scrivendo nel 2012 a proposito dello scandalo “Proton Bank” in cui è coinvolto l’uomo d’affari Laurentis Lavrentiadis, così analizzano il ruolo di Provopoulos:

Se lo scandalo Proton Bank è stato scioccante per alcuni, è ragionevole obiettare che non avrebbe dovuto invece essere una sorpresa per il signor Provopoulos. Questo perché quando la commissione competente del Consiglio superiore sotto il signor Provopoulos ha approvato l’acquisto di Proton Bank dal sig Lavrentiadis da Piraeus Bank, all’inizio del 2010, è filato tutto liscio nonostante le numerose gravi bandiere rosse che erano state sollevate dai controllori del consiglio superiore circa le finanze del sig Lavrentiadis e rapporti d’affari. Bandiere rosse che alcuni hanno sostenuto (compresi i pubblici ministeri) inseriscono la decisione del sig Provopoulos in un’accezione penale, dato il ruolo del Consiglio Superiore nella supervisione del sistema bancario greco – e come tale dovrebbe essere ulteriormente approfondito.

Stephen Grey di Reuters, in un articolo del gennaio 2012:

La presunta generosità di Proton si è verificata nel momento in cui il sistema finanziario della Grecia doveva essere sotto il microscopio europeo.Funzionari greci ritengono che la banca ha emesso più di 664.000.000 € di nuovi prestiti alle società collegate a Lavrentiadis nel 2010. A quel tempo, le banche del paese cominciavano a cimentarsi con una crisi del debito che stava seriamente minacciando la stessa sopravvivenza della zona euro.[...]“Si può pensare a questo paese come un grande lago oscuro”, ha detto Tasos Telloglou, un presentatore televisivo e giornalista senior per il quotidiano greco Kathimerini. “Lì sono sepolti molti vecchie auto e spazzatura e anche alcuni corpi. Ora l’acqua si sta ritirando, è possibile vedere ciò che è stato nascosto per tanto tempo.”

In ogni modo, ce ne sarebbe da cercare, tra questi detriti lasciati in dote dal tempo, prima di arrivare al debito greco. Ce ne sarebbe da approfondire, prima di capire che i greci intesi come popolo, quelli che chiudono i negozi e che fanno la fame tra rabbia e speranza, non hanno mangiato poi così tanto. Gli hanno mangiato sulla testa, quello sì. Chi? I politici greci incaricati di accelerare l’entrata nell’Unione monetaria, i banchieri incaricati di salvaguardare i propri interessi, le multinazionali di servizi tedesche, le costrizioni d’approvvigionamento bellico, i funzionari pubblici e privati legati a doppio filo col Governo Centrale, quello greco di denominazione impropria, e quello europeo di denominazione calzante.

Intanto siamo arrivati al 2015 e al governo Tsipras, l’unico esecutivo con nessun legame evidente con la centralità dell’Eurozona, l’unico esecutivo che rifiuta la Troika sì, ma non rifiuta di pagare. Chiede semplicemente di calcolare nuovamente, settando nuovi parametri e tentando di ridisegnare un progetto macchiato da varie responsabilità condivise. Dall’altra parte per ora nessuna ammissione, nessun cedimento, nessun passo indietro nel riconoscere errori. Si guardano i detriti ma si fa finta di niente, perché “la Grecia deve rispettare i patti”, che patti non sembrano. La stampa lo chiama un “muro contro muro”, la realtà ci dice che qui il muro è uno solo, neanche tanto solido come un tempo, che gioca a fare il ruolo del comandante, mentre le truppe non sembrano più troppo convinte. Eppure un’alternativa ci sarebbe, e passa attraverso l’ascolto. Una virtù troppo spesso sottovalutata, in questa Europa dall’imperativo preponderante. Intanto l’attuale ministro delle finanze Varoufakis, in un pezzo pubblicato in concomitanza con il secondo incontro tra Grecia e Ue e uscito sul New York Times del 16 febbraio, si discosta dalle recenti notizie che vedrebbero l’esecutivo Tsipras calarsi armonicamente nella cosidetta “teoria dei giochi”, quel tanto avvezzo modo di concertare in cui le trattative prendono le sembianze di un gioco di ruolo:

Il problema della teoria dei giochi -scrive Varoufakis-, come ho sempre tentato di spiegare ai miei studenti, è che essa considera le motivazioni dei giocatori come un dato prestabilito a priori. Se si sta pensando a una partita di poker o di blackjack questa assunzione non è particolarmente problematica. Ma nell’attuale negoziato tra la Grecia e i suoi partners il punto centrale è esattamente quello di costruire delle nuove motivazioni. Si tratta di costruire una nuova mentalità che vada oltre le divisioni nazionali, che sostituisca una prospettiva pan-europea alla dicotomia creditore-debitore, in grado di porre il bene comune Europa al di sopra di politiche futili e di dogmi di comprovata tossicità se resi universali e una logica del “noi” a sostituire quella del “loro”.

Loro chi? I greci?

TAG: debito greco, grecia, default, papandreu, pasok, samaras, Sarkozy, Siemens, troika, Banche e Assicurazioni, economia sommersa, Euro e BCE, Politiche comunitarie

Testo tratto da una libera interpretazione di uno scritto di Nicola Mente.

2015/06/13

Migranti


Chi ha attraversato nei giorni scorsi i piazzali davanti alla stazione Centrale di Milano e di Roma Termini ha trovato lunghe file di persone incolonnate o distese per terra, sporcizia, tensione. Vedo, anche se da molto lontano, le immagini quotidiane in TV degli sbarchi e – sulla carta geografica – i punti sempre più vicini alla costa libica dove le navi europee intercettano i naviganti per fare poi la spola verso le nostre coste.

Prendo atto che purtroppo la questione dei profughi salvati in mare è finita nel tritacarne della politica: è ovvio, ma è un male perché so che queste tematiche sono importanti dal punto di vista elettorale, ma qui si parla soprattutto della vita di migliaia di persone.

Uomini, donne, bambini: se sono un cristiano minimamente coerente devo pensare prima di tutto alla dignità dei miei simili, all’aiuto disinteressato, alla solidarietà.

Questo aspetto per me è fondamentale e non negoziabile ma – partecipando a un consorzio civile – ho anche l’obbligo come persona responsabile di sottolineare il metodo assurdo di come si stia affrontando questa emergenza e i guai sempre più grandi che ne nascono per i preconcetti di molti ma anche per insipienza, demagogia, incapacità dimostrata da chi sarebbe tenuto a affrontarla. 

Perché il problema non sono tanto o solo quei 500, 1.000, 3.000 profughi che stanno sbarcando oggi (siamo arrivati a circa 10.000 la settimana) ma i 10.000 della settimana prossima e così via in una progressiva escalation. 

L’Italia intanto si sta facendo prendere in giro in Europa, è irrisa da tutti, non conta assolutamente nulla. Renzi e la Mogherini dimostrano tutta la loro pochezza internazionale senza dimostrare il coraggio di prendere decisioni strategiche (compresa la denuncia dei trattati UE, magari creando un asse con la Grecia, pure invasa dai profughi) sperando che passi in qualche modo un fenomeno che non passerà, ma anzi peggiorerà perché si autoalimenta proprio per nostra irresponsabilità.

Da mesi si dice che 1,000,000 di potenziali migranti stanno arrivando e non si è fatto NULLA, anzi, si è irriso chi denunciava questo stato di cose! 

Da mesi si sottolinea il mostruoso business dei mercanti di carne umana ma non si è fatto NULLA, come non si riesce a capire che un conto è l’emergenza umanitaria di intervento e un altro la programmazione e la strategia su cosa fare (e “far fare”) poi a queste persone. 

Chi è sbarcato un anno fa è ancora lì, a vivere (male) di sussidi e non ha avuto uno sbocco di vita, uno straccio di opportunità per essere messo alla prova.

Mischiati onesti e delinquenti decine di migliaia di uomini e donne restano inutili con le mani in mano, è facile poi cadere nel peggio. Forse che si sono sveltite le pratiche per utilizzi specifici di manodopera, per inserimenti? Provate a verificare le difficoltà che incontra un privato o una amministrazione pubblica che solo volesse utilizzare queste persone per qualche lavoretto (che peraltro poi mancherà a qualcun altro).

Diciamocelo chiaro: il governo sperava – come in passato - di rifilare il problema a altri e infatti fino a qualche tempo fa il fenomeno in parte si svuotava da sé perché migliaia di migranti sparivano come un fiume carsico oltre frontiera, ma da quando la Francia, la Svizzera, l’Austria di fatto respingono quasi tutti il tubo collettore italiano (e quello greco) si è intasato e la gran parte dei migranti non sparisce più, quindi ce li troviamo e ce li troveremo tutti in casa con problemi progressivi e catastrofici.

Da una parte non bisogna umanamente negare l’aiuto, ma è evidente che oltre un certo limite le strutture di accoglienza non possono più bastare, a parte gli sciacallaggi, la malavita e tutto quel mondo che vive sopra queste emergenze strafottendosene del valore delle persone. Su questo fronte, per esempio, servirebbero decisioni drastiche di condanna e di pene immediate: le avete viste?

Ha senso così continuare a non intervenire in Libia bloccando le partenze per ripescare la gente poco più al largo con gioiosa soddisfazione delle organizzazioni scafiste che hanno rapporti e basi anche in Italia? Ha senso non distruggere (vuoti) i natanti sulle coste libiche pur sapendo che verranno presto utilizzati? 

Il tam-tam che gira in tutta l’Africa dice che chi arriva in Italia è a posto, quindi è durissima riuscire a partire ma può essere la fortuna della vita…avanti quindi e il fiume si ingrossa.

Ci rendiamo conto poi che, per bene che vada, l’Europa assorbirà solo migranti “politicamente corretti” ovvero gente che scappa per motivi politici, ma che sul totale sono una piccola minoranza? E gli altri cosa fanno e dove andranno una volta sbarcati? 

Eppure il fenomeno è stato per mesi minimizzato e irriso e si parla ancora di demagogia antiaccoglienza accusando Zaia o Maroni quando si rischia invece soprattutto la demagogia contraria (ma a parole, poi pochi di chi discetta di aiuti apre davvero la porta di casa sua) che scarica sugli altri i problemi di una nazione dove l’opinione pubblica è sempre più esasperata.

La settimana scorsa in Lussemburgo (commentato da nessuno) si è tenuto un referendum su cosa fare su questa materia e l’80% dei cittadini ha risposto “no” a qualsivoglia nuova accoglienza. Da noi ci sarebbe un risultato molto diverso? Non credo, e certo i contrari non sarebbero tutti leghisti.

E’ deludente e insensata la politica di un governo che salva tutti e poi tutti abbandona, che non ha il coraggio di bloccare le partenze e non sa imporre all’Europa senso di responsabilità. 

Il metro con cui si tratta il problema sottolinea tutte le contraddizioni, i limiti, la superficialità della politica italiana ma soprattutto – obiettivamente – di questo governo.

Io, cittadino che voglio accogliere, devo aiutare, devo comprendere, ho anche il diritto di pretendere che queste cose vengano gestite meglio e non solo con le circolari prefettizie, anche perché il reato di immigrazione clandestina c’era ma è stato tolto scrivendo le premesse di quanto sta accadendo. 

Non solo: i numeri qualche anno fa erano molto inferiori eppure non si è lavorato per ridurre gli afflussi e oggi si usano gli stessi metri di valutazione e tempi ancora più lunghi per i riconoscimenti degli asili “veri” davanti a situazioni ben più diverse e caotiche. 

E quello che fa più ribrezzo è vedere poi il ghigno di chi specula sul fenomeno, chi si fa pagare per i trasporti, gli scafisti che restano impuniti, chi lucra e ruba sul business sul profugo.

Il fenomeno va quindi gestito meglio, non è possibile continuare così e chi è incapace di prendere decisioni deve essere inchiodato alle proprie responsabilità dall’opinione pubblica: è il primo passo per prendere atto della realtà.

2015/06/08

Crisi Greca


Ci sono molto modi per illustrare la crisi finanziaria greca. Uno sarebbe spiegare chiaramente alla gente che per i “tagli” già apportati al bilancio della sanità ellenica in pratica non si fanno più trapianti, non si possono più pagare ai cittadini - e ormai da molti mesi - i farmaci salvavita, i cocktail chemioterapici, spesso neppure gli interventi sanitari d’urgenza. Vale di più la pelle delle persone o il debito pubblico?

Questa Europa ha fatto dell’economia (malata) il suo idolo e del pareggio di bilancio il suo feticcio ma non riesce più a dare risposte ai cittadini e infatti non conta per l’Unione il migrare più o meno legale di centinaia di migliaia di persone. 

Soldi, soldi, soldi: contano solo i soldi perché quel 3% massimo di deficit di bilancio è un mostro ineffabile, uno spauracchio inumano. 

Quei limiti non erano pensati per un continente sostanzialmente in recessione e comunque che arretra rispetto al resto del mondo. L’Euro non riesce a armonizzare economie differenti o lo sta facendo in modo sbagliato. 

Il diritto alla salute di un banchiere europeo che può curarsi in una ottima clinica è diversa da quella di un cittadino greco che non può sopravvivere? 

Ma dove è finita l’Europa dei Popoli, delle idee, del progresso sociale illuminato? Non era questo tipo di Europa che sta alla base della Carta costituzionale europea e poi qualcuno si lamenta che crescano gli “Euroscettici”!