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2014/05/06

Diaspora della destra

Ho “rubato” il titolo ad un ottimo articolo di Ernesto Galli Della Loggia che sul “fondo” del 24 aprile del Corriere della Sera descrive in termini corretti la cocente sconfitta che la Destra italiana ha auto-costruito in questi anni e verrà temo confermata dal voto europeo. 

La realtà è nota quanto amara: incapaci di andare d’accordo, vittime dei personalismi di troppi capetti, senza una guida politica decente, schierati pro o contro Berlusconi, contemporaneamente al governo e all’opposizione la Destra si è sciolta e si presenta in ordine sparso.

Un bilancio fallimentare e per cominciare bisognerebbe avere tutti il coraggio di ammetterlo, anche perché chi ha scelto una delle varie forze politiche che oggi si dicono di destra (o di centro-destra) per prima cosa sembra divertirsi a accusare il prossimo con poca o nessuna autocritica.

C’è chi è andato nel Nuovo Centro Destra (sempre più centro e sempre meno destra), chi è rimasto con un Berlusconi che è sempre più ombra di sé stesso, chi è approdato a “Fratelli d’Italia” - che ha pro-tempore ereditato il simbolo di AN – che è sul filo di raggiungere o meno quel 4% che permetterebbe la presenza a Strasburgo, poi gruppi e gruppetti vari e infine c’è la Lega che per alcuni versi si sta dimostrando la più coerente di tutti, anche se rifugge dall’autocollocarsi a destra.

Un caos, insomma, senza che emerga un punto di riferimento, un leader, una volontà e capacità di aggregazione che si apra – soprattutto – ai nuovi scenari che nel mondo si riconoscono vicini ad un modo di intendere l’economia, la socialità, l’Europa in termini che solo non molti anni fa prima il MSI-DN e poi Alleanza Nazionale rivendicavano come proprio DNA. 

Amaramente la mia generazione deve ammettere il proprio fallimento: agli inizi degli anni ’90 eravamo orgogliosi della nostra diversità e rivendicavamo un ruolo di pulizia, trasparenza, decisione, alternativa a un centro-sinistra egemone e pasticcione, corrotto e corruttore. 

Alla prova dei fatti il contatto logico e consequenziale con Berlusconi ci ha sì fatto andare al governo, ma ci ha fatto perdere i contenuti e l’anima e alla fine - se pur qualche “furbo” è più o meno sopravvissuto - certo abbiamo distrutto il nostro mondo e lo abbiamo anche tradito. 

Ai diversi livelli ciascuno se la vede con la propria coscienza, ma è evidente che non basta dirsi “ma io ero, sono stato e sono diverso” perché alla fine la mediocrità ha vinto e nel complesso abbiamo tolto al popolo italiano una speranza di rinnovamento che era, è indispensabile. 

Un discorso che ormai va anche letto in chiave storica come il ventennio di Gianfranco Fini che nel bene e nel male (e ci torneremo) ci ha fatti crescere e poi ci ha distrutti o – meglio – ci siamo voluti fare distruggere.

Oggi per certi versi è addirittura di destra perfino Matteo Renzi come lo fu per un attimo Craxi, lo è Grillo che a tratti sembra il Bossi degli inizi. Renzi propone cose scontate ma in fondo simili a quelle vendite dal Berlusconi “prima maniera” che però poi si arenò per la strada. 

E’ vero che il Cavaliere e il suo governo fu subito contrastato al parossismo dai media e della magistratura ma è anche vero che queste sono giustificazioni e – come giustamente scrive Galli Della Loggia . “la funzione di Berlusconi si è esaurita nel vincere” e infatti non ha concretizzato quello scatto richiesto e offerto all’Italia al suo debutto. 

Renzi è oggi per me un personaggio pieno di chiacchiere e demagogia, pulitino pulitino e demagogo di piazza anche senza una piazza, ma che è anche visto come una novità in alternativa a quell'altro che tuona vendette e pulizie dalle piazze, quel Grillo ex-comico che non fa ridere ma pensare e tutto sommato potrebbe anche aver ragione e vincere, diventare dunque una speranza per moltissime persone deluse da tutti gli altri protagonisti della politica italiana dei tempi di crisi.

Peraltro mi chiedo perché molte delle cose e riforme sostenute oggi da Renzi non si siano fatte quando la destra era al governo perché potevano (e dovevano) essere “riforme di destra”. 
Ma il punto centrale dell’articolo sul Corriere conferma una verità: la destra ha tanti elettori ma poca gente di qualità che si occupi veramente della vita pubblica, che affronti la politica come missione e disinteressatamente, che creda nello Stato e non ne approfitti, che non abbia paura di essere eletta e accetti la sfida e non sia “nominato”. 

Tra l’altro questa sembra essere una ossessione di Berlusconi che vuole solo intorno fedelissimi (e fedelissime) purchè gli sorridano. 
L’inciucio con Renzi sulla nuova legge elettorale è una prova. 
Non far crescere i migliori è un limite pesante in politica a livello centrale e ancora di più in periferia, dove una volta c’era lo “screening” obbligato delle preferenze. Questa mancanza obiettiva di classe dirigente capace l’ho sempre notata.

Che la probabile prossima sconfitta elettorale alle “Europee” serva almeno a far riflettere, a capire che bisogna faticosamente cercare di rimettere insieme i cocci ma affidandosi a persone giovani e credibili soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Forse – in vista del voto del 25 maggio – il primo “collante” potrebbe essere quello di approfondire il tema di un’Europa che è diventata solo quella dei mercati e non più dei popoli, dove i banchieri comandano e non più le nazioni, dove la Germania ricca è egemone e il Mediterraneo povera periferia dell’impero. 

Eppure senza riforme l’Euro così non funziona più, senza trasparenza vince il grigio della burocrazia e della rassegnazione, altro che rilancio italiano! E’ troppo difficile ritornare a chiedere onestà, spirito e orgoglio nazionale, autonomia economica, lotta alla mafia dei vari privilegi, drastica riduzione dei costi della politica, volontariato solidale, semplificazioni e responsabilità, mani più libere per chi vuole investire, rilancio delle infrastrutture, valore del territorio e delle proprie radici, tutela sociale prima di tutto per gli italiani, una politica per l’immigrazione controllata? 

Eccolo qui il programma semplice della Destra, senza “se” e senza “ma”, ma chi alza la mano per crederci? (e condividerlo).

Nota: Come mia abitudine, ricevo un testo con la richiesta di pubblicarlo. Ho apportato solo piccole variazioni atte a una migliore comprensione per il lettore. Ho eliminato inoltre riferimenti specifici a persone (non i personaggi pubblici) che probabilmente non gradiscono vedere il proprio nome pubblicato.SB
Disclaimer: I concetti espressi in questo articolo sono le opinioni dell'autore dell'articolo e non rispecchiano necessariamente il punto di vista di 'Più alto e più oltre'.

fonte MZ

2014/04/30

Ayrton Senna, la leggenda della Formula 1 - Tribute

Vent’anni fa, il primo maggio del 1994, morì a Imola Ayrton Senna, uno dei piloti più amati della Formula 1. Un grande uomo, non solo in pista, dove oltre a essere grande era anche un combattente, ma nella vita.

Ayrton Senna è rimasto nella memoria di tutti appassionati e non solo, anche in quella della gente che di F1 non conosceva nulla, per il grande talento e la capacità di emozionare, con gare sempre al limite (e a volte anche oltre), oltre che per la sua grande umanità, non sempre così facile da trovare in un ambiente come la Formula 1. Se dobbiamo però prendere solo alcune delle sue qualità principali, quelle rimaste più impresse, parliamo della sua abilità di guidare in condizioni estreme e quella capacità di saper sfruttare l’ultimo giro utile nelle qualifiche, per strappare la pole position ai rivali.

I suoi numeri strepitosi rendono solo in parte il suo feeling con quel giro secco, per partire davanti a tutti nella gara del giorno dopo, ma vale comunque la pena di citarli: 65 pole position conquistate in 162 gare, cioè una ogni 2 o 3 gran premi. Una media mostruosa, diventata ancora più incredibile se consideriamo solo gli anni in cui aveva una macchina competitiva per il titolo (41 in quattro anni tra il 1988 ed il 1991). E proprio partendo davanti a tutti ha salutato il mondo terreno: tre pole nelle prime tre gare del 1994, seppur senza mai riuscire a terminare la gara.

La domenica, invece, Senna si esaltava se pioveva o, ancor meglio, diluviava. Mentre tutti gli avversari rallentavano o andavano fuori pista, lui macinava giri veloci e sorpassi, quasi come se l’asfalto fosse bagnato solo per gli altri. Le sue prime vittorie sono arrivate tutte con gli ombrelli aperti: la prima grande gara a Montecarlo 1984, il primo successo in Portogallo l’anno successivo ed il primo titolo mondiale a Suzuka 1988. Non è certo un caso, così come non lo è essere stato nominato il "mago della pioggia".

Ayrton Senna il campione. Quarantuno sigilli, poi il brusco stop. La carriera di Ayrton Senna in Formula 1 inizia nel 1984, ma dovrà aspettare un anno prima di salire sul gradino più alto del podio, all’Estoril, in Portogallo. Da allora, una marcia inarrestabile che lo porterà a dominare praticamente ovunque. Avrebbe infranto molti più record di quanti non abbia fatto nella sua carriera, Ayrton Senna. Tra il brasiliano e la conquista di tutte le classifiche si intromise però il destino. 

Ayrton diceva che con il Cielo aveva un rapporto speciale, un'amicizia consolidata, una fede incrollabile: ''Nessuno mi può separare dall'Amore di Dio''. Lui, che qualche tratto divino l'aveva nei lineamenti, nei gesti e soprattutto nell'enorme talento, se ne andò un pomeriggio di 20 anni fa facendo la cosa che, dopo Dio, amava di più: la velocità. Andando al massimo. A 300 all'ora.

Bisogna che qualcuno lo dica chi fosse davvero Ayrton Senna. Che possono saperne i ragazzi d'oggi, vent'anni fa non erano ancora nati! Il mondo al tempo di internet brucia in fretta i suoi protagonisti. Un'ora fa è il vecchio, ieri è il passato. E’ un modo diverso, quello del terzo millennio, di approcciare la storia. Tutto è così immediato, e l'istante dopo qualcosa distrae già l'attenzione. C'è altro da vedere. Vivere nella velocità è un dovere. Ecco, qui tra voi e lui c'è una somiglianza che forse vi aiuta a capire chi fosse in realtà questo gentiluomo brasiliano. Amava la velocità, si diceva. Viveva per lei. Morì, per lei.

Era l'1 maggio del 1994. Festa dei lavoratori. Forse fu l'unico giorno della sua vita, oltre che l'ultimo, in cui andò a lavorare contro voglia. Presagio di quello che sarebbe accaduto alle 14:17 di 20 anni fa? Forse (il Cielo gli era vicino, si diceva), ma soprattutto era quello che era accaduto nei giorni precedenti in quel maledetto fin di settimana imolese che lo turbava.

Lui era il miglior pilota in circolazione, da poco approdato alla corte di Frank Williams, dopo i trionfi e i tre mondiali conquistati con la McLaren. Nel frattempo una diavoleria ingegneristica che teneva le monoposto incollate al suolo, quali erano le sospensioni attive, era stata abolita, circostanza che purtroppo avrebbe giocato un ruolo, assieme a troppe altre, sul suo destino terreno. Lui era il più forte e sicuramente il più veloce in pista. Nelle prime tre gare di quell’anno fatale non a caso partì sempre dalla pole position, di cui era il recordman, 65 in carriera.

Eppure già in Brasile, al debutto, e nel prosieguo, in Giappone, non era riuscito ad arrivare alla bandiera a scacchi, vittima di piccoli e se vogliamo banali incidenti di percorso che avrebbero dovuto avvisarlo che c'era qualcosa nel mezzo che non andava a dovere. Primo al traguardo in entrambe quelle gare arrivò un certo Michael Schumacher, su Benetton. Che effetto fa pensare che, vent'anni dopo la scomparsa di Ayrton, il kaiser tedesco sia in un limbo di incoscienza per danni cerebrali analoghi, anche se non fatali, a quelli che uccisero il tre volte campione sette giri dopo il via del Gp di San Marino. Qualche astuzia tra i paletti del regolamento rendeva velocissima la macchina di Michael, ma soprattutto lui arrivava in fondo. La Williams no.

C'era qualcosa che disturbava la guida pulita (Ayrton resta l’eroe di sempre del giro perfetto) del miglior pilota della storia. Di certo, il nostro non sopportava di subire da quello sprezzante tedesco. E poi c'era qualcosa nella progettazione della sua macchina che non andava. Non c’era spazio a sufficienza, per le mani guantate, tra scocca e volante, le nocche sfregavano sul metallo che le circondava. I tecnici e i meccanici della scuderia fresarono quella parte del telaio, per dare maggiore agio alle manovre del pilota. Ma non bastava, forse fresarono il supporto sbagliato, forse fu quell'azione riparatrice la responsabile di quel cedimento strutturale del supporto che reggeva il volante, forse furono solo dettagli di un grande disegno che era stato scritto da qualche parte e doveva solo avverarsi.

Agli ingegneri, categoria sempre osannata a torto o ragione, venne in mente una soluzione stile uovo di Colombo. Segarono il piantone dello sterzo e saldarono una sezione di pochi centimetri, tra i due monconi separati, di spessore più ridotto nel giunto in cui l’asta si appoggiava, l’intero sistema sterzante sarebbe potuto scendere verso il basso di qualche millimetro, per dare maggiore agio alle mani di Ayrton.

Questo empirismo da officina ebbe un ruolo nel destino del campione brasiliano. Non c’erano più le sospensioni intelligenti, gli asfalti che fino a un anno prima risultavano lisci come un biliardo si rivelarono quell’anno per le nuove e meno sofisticate sospensioni un po' meno confortevoli, almeno il fondo del Circuito del Santerno. Dove prima le macchine passavano come sui binari, ecco che all’improvviso pareva di correre una sorta di rally. Pieni di dossi e di avvallamenti, di rugosità, i circuiti ’94. Le monoposto ballavano sull’asfalto come fosse un’esibizione di tip-tap. Troppo, evidentemente troppo, per l’indebolito piantone della Williams su cui Ayrton scaricava la forza delle sue mani per le curve e le correzioni di rotta.

E poi… Ci sono troppi poi in questa storia, eccolo, un ennesimo poi: i regolamenti erano meno sofisticati di oggi, le vie di fuga per ridurre le conseguenze di fuoripista erano meno lunghe, i muri erano di cemento e non protetti da schermi di gomma, e i prati in alcuni casi non erano in salita com’è logico ma a volte in discesa, con conseguente perdita di contatto col suolo e un devastante effetto planante. Così era quella al Tamburello di triste memoria.

E come un presagio di morte, l’uomo che sussurrava al Cielo aveva fatto triste tesoro dell’incidente a Roland Ratzenberger, in cui uno schianto su un muro costò la vita allo sfortunato pilota austriaco nel sabato di qualifica.

Nulla sarebbe più stato come prima. Prima di Senna. Dopo Senna. E non è un caso che dopo Ayrton, in pista, non sia più morto nessuno. Cambiò tutto, a partite dai regolamenti e dai crash test. Lui amava la velocità, i milioni di appassionati che lo compiangono come nessuno odiano che la velocità e un banale guasto meccanico abbiano privato il mondo del suo immenso talento. 

Oggi è tutto più sicuro. Almeno quel sacrificio non fu del tutto vano.
















Pensiero della sera: Se fosse sopravvissuto al terribile incidente di Imola, oggi Ayrton Senna avrebbe 54 anni.
Sicuramente si sarebbe ritirato molto prima di Schumacher, forse già dopo aver vinto almeno due mondiali con la Ferrari. Se avesse firmato lui con la Ferrari, non ci sarebbe andato Schumacher che di mondiali con la Ferrari ne ha vinti 5. Avremmo tutti preferito che Ayrton restasse in vita e continuasse a correre per la sua e nostra gioia e chissenefrega dei mondiali di Schumacher.
Purtroppo è andata diversamente e, francamente, non mi sento di gioire per qualche mondiale in più!

Condannato a una morte di sofferenza



Era doveroso affrontare questo argomento che ha sempre attirato critiche e commenti al vetriolo, ora piu' che mai dopo la tremenda esecuzione effettuata ieri, 29 Aprile, in Oklahoma, Stati Uniti. Lui, il condannato alla fine ha esalato l’ultimo respiro dopo atroci sofferenze, forse a causa della rottura della vena in cui gli è stato iniettato il mix letale di veleni. I testimoni raccontano di aver assistito a una scena raccapricciante. Era stato condannato alla pena capitale perché accusato di omicidio. Alla fine un infarto ha posto fine al supplizio uccidendolo. 

La vecchia storia dell'occhio per occhio che, abbiamo visto ormai da oltre un secolo, non funziona affatto come deterrente. Morire a un certo punto del nostro cammino verso la vecchiaia, fa parte del gioco, se di gioco si tratta perche' vivere e' bello e vivere si vorrebbe per sempre. Perche' vorremmo lasciare una traccia dietro di noi in modo da essere ricordati dai posteri e alla fine vivere almeno nel ricordo della gente. 

In alcuni paesi del mondo ancora si fucila, si decapita, si impicca o si uccide con l’iniezione letale; Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran, Somalia, ma anche in Giappone, negli Stati Uniti. Ogni volta su risvegliano amaramente i più vergognosi tra i ricordi della barbarie per qualunque civiltà che sia riuscita a liberarsi del fantasma della pena capitale. Amnesty International si batte senza condizioni contro la pena di morte, ritenendola giustamente una punizione crudele, disumana e degradante superata, abolita nella legge o nella pratica da più della metà dei paesi nel mondo. Contro la pena di morte perche' essa viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione. 

Non parlo di numeri, anche se a volte costituiscono i soli dati certi, ma non è escluso che ogni anno siano ancora più elevati, i numeri tuttavia servono solo come alibi, liberano le coscienze, potrebbero essere di piu', meno male che sono di meno. Che modo barbaro di giudicare. Ogni vita, fosse anche un solo condannato a morte in un anno, rappresenta una sconfitta, l'uomo che uccide l'uomo, senza vergogna, senza pentimento, armato da uno Stato giudice. L'uomo che si erge a giudice estremo della vita altrui senza che ne sia il creatore. Solo chi la genera potrebbe, in ultima analisi, deciderne per la soppressione. Si tratta naturalmente di un concetto border line. 

Non posso tuttavia fare a meno di riflettere, sulla disumanità della pena capitale. E’ come se tutte le volte la scena di un condannato che esala l'ultimo respiro contaminasse anche le nostre coscienze, ci rendesse tutti un po’ più simili all’assassino. E’ da qui, io credo, che nasce il rifiuto della pena di morte, chiunque ne sia la vittima e quali che siano le sue colpe. Quando invochiamo l’abolizione, lo facciamo non tanto in nome della pietà per i colpevoli, quanto per un senso di rispetto di noi stessi e dei nostri valori. Non è mai stato provato che la pena capitale svolga una particolare azione deterrente, non è mai stato provato che l'uomo tende a rinunciare al crimine per evitare di finire sul patibolo anzi, a leggere certe storie di condannati alla pena capitale viene da pensare che sia davvero l'opposto. 

Una sfida dunque? 

Nella tradizione cristiana l’uomo non è padrone della propria vita, quindi non può cedere allo Stato di cui fa parte come cittadino la facoltà di ucciderlo anche se ha commesso un delitto. La pena di morte è quindi in contrasto col patto sociale. Rousseau aveva già mostrato che tale contrasto non sussiste; ma, quel che più conta, l’argomento presuppone l’intera e gigantesca costruzione filosofico-teologica elaborata dalla tradizione occidentale, che già l’illuminismo, pur appartenendole, incomincia a mettere in crisi. Si può allora sostenere che la pena di morte è meno temibile, per il delinquente, della reclusione a vita. E dunque questa è la posta in palio, il rischio oppure il regalo per finire presto le sofferenze? Se la morte non è la pena più temuta da chi compie il massimo dei delitti, cioè l’omicidio, ne viene che la morte è una delle pene che sono più adatte a punire i delitti minori? A questo punto, infatti, non si può replicare che no, che la pena di morte non deve essere mai inflitta altrimenti si cadrebbe nell'inganno di giudicare per punire le intenzioni e non già i delitti?

L'uccisione del colpevole non è la via per ricostruire la giustizia e riconciliare la società c'è semmai il rischio, direi la prova inconfutabile, che al contrario si alimenti lo spirito di vendetta e si semini nuova violenza.

Sono questi i termini della sfida?

Il Beccaria, nella sua ormai famosa opera "Dei delitti e delle pene" scrive:

Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.

Per concludere, appare sempre più evidente come gli Stati che ancora condannano a morte siano sempre meno e sempre più isolati dalla comunità internazionale: ciò, purtroppo, non ha impedito ai Governi di tali Stati di continuare e, talvolta, incrementare ancor più il ricorso a questa estrema forma di inciviltà inutile e violenta.