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2014/09/13

Montezemolo uno, treno e quattrino (la spallata 2)

Tutti si saranno fatti un’idea, al di là delle prediche che da sempre impartisce a tutti, su quanto effettivamente “valga” (o meno) Luca Cordero di Montezemolo, ovvero un uomo che sicuramente si vende e si presenta bene, ma soprattutto “pro domo sua”. 
Non mi pare che l’azione di Montezemolo abbia mai portato a dei risultati eclatanti – né in politica né quando era presidente di Confindustria o in campo industriale  - ma sicuramente non chiude in perdita la sua corsa alla “Rossa” visto che la sua liquidazione è stata principesca trattandosi di 27 milioni di euro e dopo aver percepito alla Ferrari uno stipendio di circa 100.000 euro al mese. 

D'altronde Montezemolo - mentre presiedeva a Maranello - era comunque impegnatissimo e distratto da ben altro. 
Non è un caso che (sembra) andrà ora a fare il presidente della nuova Alitalia, anche perché è già vice-presidente di Unicredit (altro stipendio) banca a cui l’Alitalia deve un bel pacco di milioni di euro. Da questo punto di vista sembra proprio che i conflitti di interesse contino solo in politica.  

Intanto Montezemolo è impegnato anche con i suoi trenini di “Italo” e la “Montezemolo e Partners” che gestisce i fondi Charme, con indennizzi adeguati. 
“Uno, tri(e)no e quattrino” potrebbe essere il suo motto e tutti lo hanno capito anche perché, dopo tante promesse e false partenze, alla fine non è mai sceso in campo neppure in politica pur avendolo preannunciato molte volte: meglio pensare a rendite e patrimonio. 

In un aspetto però Montezemolo è bravo e non per nulla si occupa anche di treni: sa scendere alla svelta da quelli in corsa dopo essersi fatto pagare bene, così – se poi magari deragliano, come il partito di Monti – non è mai colpa sua.  

Se fossi il partner arabo di Alitalia, mi preoccuperei.

2014/09/12

Eutanasia, la dolce morte


"Sono relegata a letto, ho dolori fortissimi, le mie mani tremano. Non voglio aspettare di rimanere paralizzata del tutto. Questa non è vita". Sono le parole pronunciate da Damiana, 68 anni, malata di sclerosi multipla, nel video shock girato pochi giorni prima di morire, in una clinica in Svizzera, e diffuso per chiedere al Parlamento che riprenda il suo iter la proposta di legge sull'eutanasia.

Con l'aumento delle possibilità tecnologiche può accadere che si ecceda nell'uso di terapie in malati che non ne traggono giovamento. Vuoi perchè si tratta degli ultimi momenti della loro vita, vuoi perchè queste terapie possono portare ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa, se non addirittura ad una nuova patologia provocata da quella stessa terapia. Si parla, in tal caso, di "accanimento terapeutico". 

Ferma restando la liceità della sospensione di un intervento che si configura come accanimento terapeutico, è da sottolineare, però, come si faccia un uso strumentale di questo concetto al fine di favorire il diffondersi di una cultura eutanasica. Definita in modo suadente "dolce morte" l'eutanasia viene presentata come la via da perseguire per porre fine ad una sofferenza "insopportabile". Essa si traduce, di fatto, in un'anticipazione deliberata della morte. 

In nome della libertà individuale, si vuole annullare la fonte stessa della sua ragion d'essere, ovvero la vita, che è di per sè un bene indisponibile. Una riflessione sull' eutanasia richiede di analizzare anche le ragioni che possono motivare una richiesta in tal senso, decodificando la domanda. E' stato, infatti, messo in evidenza come la richiesta di eutanasia sia spesso motivata da ragioni psicologiche o psichiatriche transitorie o curabili e dalla inevitabile paura del dolore e della sofferenza. 

In questo senso, la ricostruzione dell'autostima e del senso di accettazione di sè o la cura di una sindrome depressiva portano frequentemente il malato a cambiare idea. Inoltre un'adeguata terapia antidolorifica e il sollecito accompagnamento del malato consentono di attenuare o rimuovere il dolore e di alleviare il senso di sofferenza, riducendo drasticamente la richiesta di eutanasia. Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte, invece, la medicina offre una sensazione di impotenza che prelude all'abbandono del malato e della sua famiglia alla solitudine.

La proposta dell'eutanasia, che non è assolutamente un atto medico, svela il suo vero volto: una scorciatoia per ridurre la spesa pubblica, un rifiuto dell'impegno umano e clinico a fianco del malato e una fuga di fronte alla paura della morte, del dolore e della sofferenza. Sta inoltre emergendo come, dietro la richiesta di eutanasia da parte di alcuni settori della società, vi sia anche una vera e propria "handifobia", ovvero la paura e il rifiuto della disabilità. Si impone così un modello culturale teso a rimuovere (negare) il dolore, la sofferenza, la morte, impedendo così di affrontarli in modo pienamente degno. Si sta sviluppando, per contro, un'idea di "qualità della vita" misurata su standard di efficienza, salute e forma fisica: una vita senza questo tipo di "qualità" non sarebbe degna di essere vissuta e può essere "oggetto" di libera scelta. 

Di conseguenza alcuni potrebbero avere più potere di altri sulla vita altrui, decidendo quando e come spegnerla. 

Il significato della vita e della morte 

La vita e la morte dell'uomo non si possono ridurre solamente al loro aspetto materiale. E questa la prima premessa di ogni discorso sull'eutanasia. Certo anche il corpo umano è soggetto al proprio ciclo biologico, come ogni altro essere vivente: viene alla luce, cresce, invecchia, muore. Tuttavia nell'uomo questi eventi non sono esclusivamente biologici, ma essenzialmente spirituali, nel senso che solo la persona umana (intelligente e libera) è in grado di assumere coscientemente e responsabilmente, senza subirle passivamente, sia la vita, sia la morte. Cosicché, propriamente parlando, solo dell'uomo si può dire che “vive” e che “muore”. Sta in ciò la sua grandezza. 

Ora, finché la morte era universalmente considerata un evento naturale, di cui erano fissate ineluttabilmente l'ora e le circostanze senza poterle mutare, “morire con dignità” voleva dire rassegnarsi a ciò che la natura aveva stabilito per ciascun mortale. In un simile contesto culturale, largamente condiviso, la condanna morale dell'eutanasia incontrava meno difficoltà: infatti, appariva chiaro che porre volutamente fine alla vita di un malato in fase terminale per non farlo soffrire, significava andare contro le leggi intangibili della natura, contro la dignità stessa dell'uomo. 

La questione di una possibile legittimazione dell'eutanasia cominciò invece a farsi strada, quando il progresso scientifico e tecnico giunse a fornire alla medicina strumenti in grado di contrastare il passo alla morte, riuscendo in taluni casi a ritardarla e in altri casi ad anticiparla in modo “dolce”, evitando le sofferenze e le umiliazioni dell'agonia. Nacquero così gli interrogativi nuovi che tuttora ci interpellano: fino a che punto si può e si deve resistere alla morte? È moralmente lecito “accanirsi” nel combatterla? Avendo la possibilità scientifica e tecnica di scegliere responsabilmente il momento più adatto e un modo “dolce” di morire, perché non farlo? Perché mai l'eutanasia dovrebbe essere un affronto alla natura? Infatti, l'uomo ha il compito morale di amministrare la natura e la sua stessa vita, perché egli non può disporne liberamente in modo che la morte avvenga in circostanze meno umilianti e più conformi alla “dignità” della persona? 

La ragione per la quale la Chiesa condanna con tanta forza l'eutanasia attiva è riposta nel significato stesso della vita, che dà senso anche alla morte. La persona umana è un assoluto, ha in sé valore di fine, la sua vita è quindi indisponibile in tutte le fasi del suo divenire, dalla concezione alla morte; la vita non può mai avere ragione di mezzo, non se ne può mai fare un uso strumentale. 

Questa concezione etica della esistenza umana non è esclusiva della visione cristiana, non è cioè di natura confessionale, ma appartiene a qualsiasi altra visione del mondo che consideri l'uomo il valore supremo e lo ponga al centro della vita sociale e del cosmo. La storia, del resto, dimostra che ogni qual volta la vita umana cessa di essere considerata il valore primo, l'uomo finisce col distruggere se stesso. La salute viene prima della vita? Allora si eliminano i malati fisici e mentali, gli handicappati, i neonati affetti da malformazioni. Il primo valore è la razza? Allora si giustificano i campi di sterminio e le pulizie etniche. Il primo valore non è la vita, ma il danaro? Allora si può uccidere per rubare o per impossessarsi di una eredità. 

Il diritto di “morire con dignità” 

Un'altra premessa al discorso sulla eutanasia è il diritto di “morire con dignità”. Che senso avrebbe – chiedono i sostenitori della “morte dolce” – accettare supinamente di terminare la propria vita in preda a sofferenze atroci e a umiliazioni indicibili? Non è forse la stessa grandezza dell'uomo a esigere che gli venga riconosciuto il diritto di morire con dignità? 

In questo ragionamento sono due gli aspetti da chiarire. Il primo è vedere in che senso esista un diritto di morire con dignità. Di per sé, non si può parlare di “diritto” di morire, in senso proprio, dato che la fine della vita è un evento ineluttabile, al quale – volenti o nolenti – nessuno si può sottrarre. Si deve invece parlare di un diritto di morire bene, serenamente, evitando cioè sofferenze inutili; esso coincide in pratica con il diritto di essere curato e assistito con tutti i mezzi ordinari disponibili, senza ricorrere a cure pericolose o troppo onerose e con l'esclusione di ogni “accanimento terapeutico”, che solo servirebbe a prolungare la vita in modo artificiale e penoso con danno del malato. 

L'altro aspetto da chiarire nel ragionamento di chi propugna il diritto alla eutanasia è collegato al primo: si tratta cioè di vedere in che misura il ricorso alla “morte dolce” sia effettivamente il modo di risolvere il problema della sofferenza umana. 

Il limite culturale di chi lo pensa è quello di considerare la sofferenza come una maledizione, una condizione umana priva di valore e inutile, quasi che “sofferenza” e “dignità” siano incompatibili, quasi che l'una escluda l'altra. È vero invece il contrario. La persona umana, finché vive, non perde mai la sua radicale dignità. Non la perde il delinquente, per quanto abbia compiuto i più orrendi delitti, e per questo rifiutiamo la pena di morte; non la perde l'infermo o il moribondo, per quanto sia degradato il suo stato di salute fisica o mentale, e per questo rifiutiamo l'eutanasia. 

Certo, la sofferenza è un male da combattere anche per chi ha la fede; tutti hanno il dovere di impegnarsi a guarire e a curare quanti sono afflitti da qualsiasi genere di infermità. Tuttavia, anche a prescindere dalla fede – nonostante sia più difficile comprenderlo –, il dolore ha un suo valore e, se non lo si può eliminare, lo si può però umanizzare. Quante volte la presenza in famiglia di un infermo o di un handicappato si trasforma in occasione di solidarietà e di amore, aiuta tutti a essere meno egoisti. Perciò, è assurdo pensare che il problema del dolore si risolva eliminando chi soffre. Sarebbe come se, per risolvere il problema della fame, si uccidessero gli affamati, anziché produrre di più e distribuire equamente i beni destinati a tutti. 

Analogamente, il problema della sofferenza non si risolve con l'eutanasia, ma eliminando le cause che inducono a chiederla. Occorre, da un lato, evitare l'accanimento terapeutico e, dall'altro, mettere in atto una “terapia del dolore” e “cure palliative” adeguate, favorendo nello stesso tempo forme di solidarietà e di accompagnamento, che aiutino gli infermi (soprattutto nella fase terminale) a superare il senso di disperazione che prende quando si vedono abbandonati e sono lasciati a soffrire in solitudine. 

Le implicazioni sociali dell'eutanasia 

Un terzo elemento, infine, del quale occorre tenere conto per fare un discorso serio sull'eutanasia, è dato dalle implicazioni sociali della “morte dolce”. Questa non va considerata come una questione meramente privata, che riguarda solo il singolo che vi fa ricorso, ma va valutata nella sua inevitabile ricaduta sociale. Infatti l'uomo non è mai una monade chiusa in se stessa. Il concetto stesso di persona dice essenzialmente relazione con l'altro. L'uomo è fatto per vivere in società. Nel momento che uno decide di non esistere più ferisce non solo se stesso, ma anche la società. 

In realtà, la logica effettiva dell'eutanasia è essenzialmente egoistica e individualistica e, in quanto tale, contraddice radicalmente la logica solidale e la fiducia reciproca su cui poggia ogni forma di convivenza. Appare quindi assurda la tesi sostenuta addirittura da un presidente onorario del Consiglio di Stato sulle pagine di un diffuso quotidiano nazionale: lo Stato – vi si legge – “non può proseguire nell'assumere come oggetto della tutela penale il mantenimento in vita di un soggetto distrutto dal dolore o completamente alterato nella sua personalità”; infatti, si spiega, in questo caso non solo il singolo ha perso l'interesse a conservare la sua vita, ma viene meno anche l'obbligo dello Stato a tutelare l'interesse della società a non essere privata di una vita, perché “si ha a che fare con una vita che non è più vita”. 

Si tratta di una tesi insostenibile. In base a quale criterio un soggetto può essere ritenuto “distrutto dal dolore”? Come può lo Stato determinare l'intensità della sofferenza che si richiede per legittimare l'eutanasia? Un esaurimento nervoso, un'umiliazione o lo scoraggiamento per un rovescio patito spesso sono in grado di “alterare completamente la personalità” non meno di un male incurabile in fase terminale; può bastare la completa alterazione prodotta dall'uno o dall'altro trauma doloroso per eliminare una persona “distrutta dal dolore”? E chi è autorizzato a decidere per il sì o per il no: il medico o anche un amico o un familiare? Chi garantisce che la “morte dolce” venga decisa effettivamente per porre fine a una sofferenza divenuta intollerabile e non per qualche altra ragione, magari per interessi inconfessabili? Soprattutto come dimostrare che sussiste il consenso esplicito e libero dell'interessato, quando non è più capace di esprimersi? Si tratta di interrogativi angosciosi, ai quali nessuno riuscirebbe mai a dare risposta, qualora l'eutanasia fosse legalizzata. In quest'ultima ipotesi, verrebbe minato alla base il rapporto di fiducia su cui poggiano i rapporti interpersonali, sia in famiglia sia nella società. 

Che fare allora?  

2014/08/30

Perché i media raccontano Israele in maniera sbagliata?



La storia di Israele

È rimasto qualcosa da dire su Israele e Gaza? I giornali di questa estate erano pieni di ben poco d’altro. I telespettatori vedono cumuli di macerie e pennacchi di fumo anche quando dormono. Un articolo rappresentativo, in un recente numero di The New Yorker, ha descritto gli eventi dell’estate dedicando una frase ciascuno agli orrori in Nigeria e Ucraina, quattro frasi alle follie genocide dell’ISIS e tutto il resto dell’articolo – trenta frasi – a Israele e Gaza.

Quando l’isteria si attenuerà, credo che gli eventi di Gaza non saranno ricordati dal mondo come particolarmente importanti. Persone sono rimaste uccise, la maggior parte delle quali palestinesi, tra cui molti innocenti inermi. Vorrei poter dire che la tragedia della loro morte, o la morte di soldati israeliani, cambierà qualcosa, che segnano un punto di svolta. Ma non è così. Questo round non è la prima delle guerre arabe con Israele e non sarà l’ultima. La campagna israeliana era poco diversa nella sua esecuzione da qualsiasi altra condotta da un esercito occidentale contro un nemico simile negli ultimi anni, fatta eccezione per la natura più immediata della minaccia alla popolazione del proprio paese e i maggiori sforzi, tuttavia futili, per evitare morti civili.

La durevole importanza della guerra di questa estate, credo, non sta nella guerra stessa. Si trova invece nel modo in cui la guerra è stata descritta e affrontata all’estero e il modo in cui questo ha messo a nudo la rinascita di un vecchio, contorto modello di pensiero e il suo sdoganamento dalla marginalità della narrativa prevalente in occidentale, e cioè un’ostile ossessione verso gli ebrei. La chiave per comprendere questa rinascita non si trova tra i webmaster jihadisti, i teorici della cospirazione, i cantinari o gli attivisti più radicali. È invece da trovare per prima tra le persone istruite e rispettabili che popolano l’industria delle notizie internazionali; persone perbene, molte di loro, alcune di loro miei ex colleghi.

Mentre la mania globale per le azioni israeliane può considerarsi garantita, essa è in realtà il risultato di decisioni prese da singoli esseri umani in posizioni di responsabilità, in questo caso i giornalisti e i redattori. Il mondo non reagisce agli eventi che si svolgono in questo paese, ma piuttosto alla descrizione di questi eventi da parte delle organizzazioni giornalistiche. La chiave per comprendere la strana natura della reazione si viene così a trovare nella pratica del giornalismo e in particolare in un malfunzionamento grave che si sta verificando in quella professione, la mia professione, qui in Israele.

In questo saggio cercherò di fornire alcuni strumenti per rendere il senso delle notizie da Israele. Ho acquistato questi strumenti da addetta ai lavori: Tra il 2006 e la fine del 2011 sono stato giornalista e redattore nell’ufficio di Gerusalemme dell’Associated Press, uno dei due principali fornitori di notizie del mondo. Ho vissuto in Israele dal 1995 e scrivo su di essa dal 1997.

Questo saggio non è un’indagine esaustiva sui peccati dei media internazionali, oppure una polemica conservatrice o una difesa delle politiche israeliane. (Io credo nell’importanza dei media “mainstream”, sono un liberal e rimango critico verso molte delle politiche del mio paese). Esso  prevederà necessariamente alcune generalizzazioni. Inizierò col delineare i tropi centrali della storia d’Israele secondo i media internazionali, una storia sulla quale ci sono sorprendentemente poche variazioni tra tutte le strutture informative di mainstream e una che è, come la stessa parola “storia” suggerisce, un costrutto narrativo che è in gran parte finzione. Quindi noterò il più ampio contesto storico in cui Israele è venuto in argomento e discuterò e spiegherò perché credo che questo sia motivo di preoccupazione non solo per le persone interessate alla questioni ebraiche. Cercherò di essere breve.

Quanto è importante la storia di Israele?

L’assunzione di personale è la migliore misura dell’importanza di una storia per una particolare organizzazione giornalistica. Quando ero corrispondente dell’AP, l’agenzia aveva più di 40 membri di staff che coprivano Israele e i territori palestinesi. Quello era significativamente più personale giornalistico di quello che l’AP aveva in Cina, in Russia o in India o in tutti i 50 paesi dell’Africa sub-sahariana sommati. È rimasto superiore al numero totale di degli inviati in tutti i paesi in cui le rivolte della “primavera araba” alla fine esplosero.

Per offrire un senso della scala: prima dello scoppio della guerra civile in Siria, la presenza del personale permanente di AP in tale paese era costituita da un singolo inviato approvato dal regime. I redattori della AP credevano, cioè, che l’importanza della Siria fosse meno di un quarantesimo di quella di Israele. Non sto focalizzandomi sull’AP – l’agenzia è totalmente rappresentativa, questo la rende utile come esempio. I grandi protagonisti del business del giornalismo praticano il groupthink e questi assetti di personale si sono propagati in tutto il  branco. I livelli di personale in Israele sono diminuiti un po’ dal momento in cui le rivolte arabe sono iniziate, ma rimangono alti. E quando in Israele divampa un conflitto, come è successo questa estate, i giornalisti sono spesso trasferiti da altri mortali conflitti. Israele ancora trionfa su quasi tutto il resto.

Il volume di copertura mediatica che ne risulta, anche quando succede ben poco, dà a questo conflitto una prominenza rispetto al quale il suo pedaggio in vite umane rimane assurdamente piccolo. In tutto del 2013, per esempio, il conflitto israelo-palestinese è costato 42 vite umane, cioè circa il tasso mensile di omicidi nella città di Chicago. Gerusalemme, di fama internazionale come città di conflitto, aveva un po’ meno morti violente pro capite, l’anno scorso, di Portland nell’Oregon., una delle città più tranquille d’America. Al contrario, in tre anni il conflitto siriano ha provocato una stima di 190.000 vite umane, cioè circa 70.000 più del numero di persone che siano mai morte a causa del conflitto arabo-israeliano da quando esso è iniziato un secolo fa.

Le organizzazioni di notizie hanno comunque deciso che questo conflitto è più importante, per esempio, delle più di 1.600 donne uccise in Pakistan lo scorso anno (271 dopo essere state stuprate e 193 delle quali bruciate vive), della cancellazione permanente del Tibet da parte del Partito Comunista Cinese, della carneficina in Congo (più di 5 milioni di morti a partire dal 2012) o nella Repubblica Centrafricana e delle guerre di droga in Messico (con un numero di morti tra il 2006 e il 2012 uguale a 60.000), per non parlare di conflitti nessuno ha mai sentito parlare negli angoli oscuri della dell’India o della Thailandia. Essi credono che Israele sia la storia più importante del mondo o giù di lì.

Cos’è importante della storia di Israele e cosa no.

Un giornalista che lavora nelle strutture della stampa internazionale qui impara subito che ciò che è davvero importante nella storia israelo-palestinese è Israele. Se si segue la copertura tradizionale, non troverete quasi nessuna analisi reale della società palestinese o delle ideologie o dei profili dei gruppi armati palestinesi o un indagine sul governo palestinese. I palestinesi non vengono presi esattamente sul serio come protagonisti del proprio destino. L’occidente ha deciso che i palestinesi dovrebbero desiderare uno stato a fianco di Israele, in modo tale che questa opinione viene loro attribuita come un fatto, non ostante chi abbia trascorso del tempo con i palestinesi reali capisca che le cose sono (comprensibilmente, a mio parere) più complicate. Chi sono e cosa vogliono, non è importante: la storia esige che essi esistano solo in quanto vittime passive della parte che conta davvero.

La corruzione, per esempio, è una preoccupazione pressante per molti palestinesi sotto il governo dell’Autorità palestinese, ma quando io e un altro giornalista abbiamo una volta suggerito un articolo sul tema, siamo stati informati dal capo ufficio che la corruzione palestinese “non era la storia”. (La corruzione in Israele la era, l’abbiamo coperta a lungo.)

Le azioni israeliane vengono analizzate e criticate e ogni difetto nella società israeliana è segnalato aggressivamente. In un periodo di sette settimane, dall’ 8 novembre al16 dicembre 2011, ho deciso di contare gli articoli provenienti dal nostro ufficio sui vari fallimenti morali della società israeliana – le proposte legislative per sopprimere i media, la crescente influenza degli ebrei ortodossi, gli avamposti non autorizzati, la segregazione di genere e così via. Ho contato 27 distinti articoli, una media di una storia ogni due giorni. In una stima molto conservativa, in queste stesse sette settimane il riscontro è stato superiore al numero totale delle storie significativamente critiche verso il governo e la società palestinese, inclusi gli islamisti totalitari di Hamas, che il nostro ufficio aveva pubblicato nei precedenti tre anni.

La Carta di Hamas, per esempio, non invoca solamente la distruzione di Israele ma anche l’assassinio degli ebrei e accusa gli ebrei di aver organizzato le rivoluzioni francese e russa e le due guerre mondiali; La Carta non è stata mai menzionata dalla stampa mentre ero all’AP, anche se Hamas aveva vinto le elezioni nazionali palestinesi ed era diventato uno dei protagonisti più importanti della regione. Per indicare il legame con gli eventi di questa estate: un osservatore potrebbe pensare che la decisione di Hamas negli ultimi anni di costruire una installazione militare sotto le infrastrutture civili di Gaza sarebbe stata ritenuta degno di nota, se non altro per ciò che significava circa il modo in cui il conflitto successivo sarebbe stato combattuto e il costo che implicava per le persone innocenti. Ma questo non è il caso. Le postazioni di Hamas non sono importanti di per sé e sono quindi state ignorate. Ciò che era importante era la decisione israeliana di attaccarle.

Si è molto discusso recentemente di come Hamas cerchi di intimidire i giornalisti. Qualsiasi inviato veterano qui sa che l’intimidazione è reale e l’ho vista in azione io stesso come redattore dell’ufficio stampa di AP. Durante i combattimenti 2008-2009 Gaza ho personalmente cancellato una notizia particolare, secondo la quale i combattenti di Hamas erano vestiti in borghese e i loro caduti venivano contabilizzati nelle statistiche come vittime civili, a causa di una minaccia verso la nostra inviata a Gaza. (La policy adottata era allora e rimane quella di non informare i lettori che la storia è censurata, a meno che la censura non sia israeliana. All’inizio di questo mese il redattore capo di Gerusalemme della AP aveva segnalato e presentato una storia sulle intimidazioni di Hamas, la storia è stata messa nel congelatore dai suoi superiori e non è stata pubblicata.)

Ma se i critici immaginano che i giornalisti chiedano a gran voce di coprire Hamas e siano ostacolati da teppisti e minacce, generalmente non è così. Ci sarebbero molti modi a basso rischio per segnalare le azioni di Hamas, se ce ne fosse la volontà: come editoriali da Israele oppure in forma anonima oppure citando fonti israeliane. I giornalisti sono pieni di risorse, quando vogliono.

Il fatto è che l’intimidazione Hamas è in gran parte fuori luogo perché sono le azioni dei palestinesi a essere fuori luogo: La maggior parte dei giornalisti a Gaza crede che il proprio compito sia  quello di documentare la violenza diretta da Israele contro i civili palestinesi. Questa è l’essenza della storia di Israele. Inoltre, i giornalisti sono in affanno per le scadenze e spesso a rischio e molti non parlano la lingua e hanno solo la più tenue delle prese su ciò che sta accadendo realmente attorno a loro. Essi dipendono dai colleghi palestinesi e da faccendieri che o temono Hamas oppure sostengono Hamas oppure entrambe le cose. I giornalisti non hanno bisogno che Hamas li costringa lontani da fatti che infanghino la semplice storia che sono stati inviati a raccontare.

Non è un caso che i pochi giornalisti che hanno documentato i combattenti di Hamas e i lanci di razzi in aree civili questa estate non provengano in genere, come ci si potrebbe aspettare, dai grandi organi di informazione permanentemente stanziati a Gaza. Erano per lo più giornalisti frammentari, periferici e occasionali, appena arrivati, un finlandese, un team indiano, pochi altri. Queste povere anime non avevano letto il promemoria.

Che altro non è importante?

Il fatto che gli israeliani poco tempo fa avessero eletto governi moderati che cercavano la riconciliazione con i palestinesi, e che sono stati compromessi dai palestinesi, è considerato poco importante e raramente menzionato. Queste lacune sono spesso non sviste, ma una questione di politica. All’inizio del 2009, per esempio, due miei colleghi avevano ottenuto informazioni sul primo ministro israeliano Ehud Olmert e sulla sua significativa offerta di pace verso l’Autorità palestinese, diversi mesi prima, che i palestinesi aveva ritenuto insufficiente. Questo non era stato ancora segnalato ed era, o avrebbe dovuto essere, una delle più grandi storie dell’anno. I giornalisti avevano ottenuto conferma da entrambi i lati e uno aveva anche visto una mappa, ma i capo redattori dell’ufficio hanno deciso di non pubblicare la storia.

Alcuni membri dello staff erano furiosi, ma non è servito. Il nostro racconto era che i palestinesi erano moderati e gli israeliani recalcitranti e sempre più estremisti. Segnalare l’offerta di Olmert – come scavare troppo in profondità Hamas – avrebbe fatto sembrare una sciocchezza quel racconto. Così siamo stati incaricati di ignorarla e così s’è fatto, per più di un anno e mezzo.

Questa decisione mi ha insegnato una lezione che dovrebbe essere chiara ai consumatori della storia di Israele: molte delle persone che decidono quello che leggerete e vedrete da qui vedono il loro ruolo non come esplicativo ma come politico. La copertura è un’arma da mettere a disposizione del lato che loro prediligono.

Come è contestualizzata la storia di Israele?

La storia di Israele è contestualizzata negli stessi termini in uso fin dai primi anni ’90, quelli della ricerca di una “soluzione dei due stati”. Viene ritenuto che il conflitto sia “israelo-palestinese”, il che significa che si tratta di un conflitto posto sul territorio che Israele controlla – lo 0,2 per cento del mondo arabo, in cui gli ebrei sono una maggioranza e gli arabi una minoranza. Il conflitto sarebbe ben più accuratamente descritto come “arabo-israeliano” oppure “arabo-ebraico”, cioè un conflitto tra i 6 milioni di ebrei di Israele e i 300 milioni di arabi nei paesi circostanti. (Forse “israelo-musulmano” sarebbe più esatto, prendendo in considerazione l’inimicizia di stati non arabi come l’Iran e la Turchia e, più in generale, di un miliardo di musulmani in tutto il mondo.) Questo è il conflitto che si è dispiegato in diverse forme per un secolo, prima che Israele esistesse, prima che Israele conquistasse i territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania e prima ancora che il termine “palestinese” venisse mai utilizzato.

L’inquadratura “israelo-palestinese” permette agli ebrei, una piccola minoranza in Medio Oriente, di essere raffigurati come la parte forte. Essa comprende anche il presupposto implicito che se il problema palestinese fosse in qualche modo risolto, il conflitto finirebbe, anche se nessuna persona informata oggi riterrebbe ciò minimamente vero. Questa definizione permette anche di descrivere il progetto degli insediamenti israeliani, che credo sia un grave errore morale e strategico da parte di Israele, non come quello che è, uno dei sintomi più distruttivi del conflitto, ma piuttosto come la sua causa.

Un osservatore esperto del Medio Oriente non può evitare l’impressione che la regione sia un vulcano e che la lava sia l’Islam radicale, un’ideologia le cui diverse incarnazioni stanno ora plasmando questa parte del mondo. Israele è un piccolo villaggio sulle pendici del vulcano. Hamas è il rappresentante locale dell’Islam radicale ed è apertamente dedicato alla eradicazione della enclave minoritaria ebraica, in Israele, proprio come Hezbollah è il rappresentante dominante dell’Islam radicale in Libano, lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, i talebani in Afghanistan e Pakistan e così via.

Hamas non è, come si afferma liberalmente, parte dello sforzo di creare uno stato palestinese a fianco di Israele. Essa ha diversi obiettivi su cui è molto sincera e che sono simili a quelli dei gruppi qui sopra elencati. Dalla metà degli anni ’90, più di ogni altro protagonista, Hamas ha distrutto la sinistra israeliana, ha fatto vacillare gli israeliani moderati nei confronti di eventuali cessioni territoriali e sepolto le possibilità di un compromesso a due stati. Questo sarebbe un modo più preciso di inquadrare la storia.

Un osservatore potrebbe anche legittimamente inquadrare la storia attraverso la lente delle minoranze in Medio Oriente, che sono tutte sotto forte pressione da parte dell’Islam: quando le minoranze sono impotenti, il loro destino è quello degli Yazidi o dei cristiani del nord dell’Iraq, come abbiamo appena visto, quando sono armate e organizzate possono reagire e sopravvivere, come nel caso degli ebrei e (dobbiamo sperare) dei curdi.

Ci sono, in altre parole, molti modi diversi di vedere ciò che sta accadendo qui. Gerusalemme è a meno di un giorno di viaggio da Aleppo o da Baghdad e dovrebbe essere chiaro a tutti che la pace è piuttosto sfuggente in Medio Oriente, anche in luoghi dove gli ebrei sono totalmente assenti. Ma i giornalisti in genere non possono vedere la storia di Israele in relazione a qualsiasi altra cosa. Invece di descrivere Israele come uno dei villaggi adiacenti il vulcano, descrivono Israele come il vulcano.

La storia di Israele è incorniciata in modo tale da sembrare che non abbia nulla a che fare con gli eventi nelle vicinanze perché la “Israele” del giornalismo internazionale non esiste nello stesso universo geo-politico, come l’Iraq, la Siria, o l’Egitto. La storia di Israele non è una storia riguardo gli eventi attuali. Si tratta di qualcosa di diverso.

Il Vecchio Schermo Vuoto

Per secoli gli ebrei apolidi hanno svolto il ruolo del parafulmine per le cattiva volontà delle popolazioni maggioritarie. Erano il simbolo di tutte le cose che erano sbagliate. Volevi puntualizzare che l’avidità è un male? Gli ebrei erano avidi. La codardia? Gli ebrei erano codardi. Eri comunista? Gli ebrei erano capitalisti. Eri capitalista? In tal caso, gli ebrei erano comunisti. Il fallimento morale era il tratto essenziale dell’ebreo. Era il suo ruolo nella tradizione cristiana, l’unica ragione per la quale la società europea sapesse o si curasse di loro in prima battuta.

Come molti ebrei che sono cresciuti nel tardo 20° secolo nelle amichevoli città occidentali, mi congedai da tali idee derubricandole a febbrili memorie dei miei nonni. Una cosa che ho imparato, e non solo da questa estate, è che è stato stupido averlo fatto. Oggi le persone in Occidente tendono a credere che i mali della nostra epoca siano il razzismo, il colonialismo, e il militarismo. L’unico paese ebraico del mondo ha provocato meno danni rispetto alla maggior parte dei paesi della terra e anche maggior bene, eppure quando la gente va alla ricerca di un paese che simboleggi i peccati del nostro nuovo mondo dei sogni post-coloniali, post-militaristi e post-etnici, il paese prescelto è proprio questo.

Quando le persone con la responsabilità di spiegare il mondo al mondo, i giornalisti, coprono la guerra degli ebrei come maggiormente degna di attenzione rispetto a quelle di qualsiasi altro, quando si ritraggono gli ebrei di Israele come la parte ovviamente dalla parte del torto, quando si omettono tutte le possibili giustificazioni per le azioni degli ebrei e si nasconde il vero volto dei loro nemici, quello che si sta dicendo ai propri lettori – lo si intendono fare o meno – è che gli ebrei sono le persone peggiori sulla terra. Gli ebrei sono la simbolizzazione dei mali che alle persone civili viene insegnato, fin dalla più tenera età, ad aborrire. La rassegna stampa internazionale è diventata un’operetta morale che ha come protagonista un familiare dalla cattiva reputazione.

Alcuni lettori potrebbero ricordarsi che la Gran Bretagna ha partecipato all’invasione nel 2003 dell’Iraq, i cui effetti collaterali hanno ucciso più di tre volte il numero di persone mai rimaste uccise in tutto il conflitto arabo-israeliano; eppure in Gran Bretagna i manifestanti condannano furiosamente il militarismo ebraico. I bianchi di Londra e Parigi, i cui genitori non molto tempo fa erano loro stessi sventagliati da persone di pelle scura nei salotti di Rangoon o di Algeri, condannano il “colonialismo ebraico”. Americani che vivono in luoghi chiamati “Manhattan” o “Seattle” condannano gli ebrei per il trasferimento del popolo nativo di Palestina. Giornalisti russi condannano le brutali tattiche militari di Israele. Giornalisti belgi condannano la tratta degli africani in Israele. Quando Israele ha inaugurato un servizio di trasporto dedicato ai lavoratori palestinesi nella Cisgiordania occupata, pochi anni fa, i consumatori americani di notizie potevano leggere  di “segregazione sugli autobus” in Israele. Ci sono poi un sacco di persone in Europa, e non solo in Germania, che godono nell’udire gli ebrei accusati di genocidio.

Non è necessario essere un professore di storia, o uno psichiatra, per capire cosa sta succedendo. Avendo riabilitato se stessi, contro qualunque probabilità, in un minuscolo angolo della terra, i discendenti di gente senza potere, che era stata espulsa dell’Europa e del Medio Oriente islamico, sono diventati ciò che i loro nonni erano stati – la sputacchiera del mondo. Gli ebrei di Israele sono lo schermo su cui è diventato socialmente accettabile proiettare le cose che odi di te e del tuo paese. Lo strumento attraverso il quale viene eseguita questa proiezione psicologica è la stampa internazionale.

A chi importa se il mondo riceve una storia di Israele sbagliata?

Perché una voragine si è aperta qui tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui esse vengono descritte, le opinioni sono sbagliate, le politiche sono sbagliate e gli osservatori sono regolarmente resi ciechi agli eventi. Queste cose sono già successe. Negli anni che portarono alla dissoluzione del comunismo sovietico nel 1991, come l’esperto di cose russe Leon Aron ha scritto in un saggio per Foreign Policy nel 2011, “praticamente nessun esperto, studioso, funzionario o politico occidentale previde l’imminente crollo dell’Unione Sovietica”. L’impero stava marcendo da anni e i segni erano tutti lì, ma le persone che avrebbero dovuto avvedersene e raccontarlo fallirono e quando la superpotenza implose tutti ne furono sorpresi.

Venne il tempo della guerra civile spagnola: «All’inizio della mia vita avevo già notato che nessun evento sia mai riportato correttamente in un giornale, ma in Spagna, per la prima volta, ho osservato dei racconti sui giornali che non mostravano alcuna relazione con i fatti, nemmeno il rapporto che è implicata in una menzogna ordinaria. … Ho visto, infatti, una storia scritta non in termini di ciò che era accaduto, ma di ciò che avrebbe dovuto accadere secondo le varie ‘linee di partito’». Questo era George Orwell, scrivendone nel 1942.

Orwell non scese da un aereo in Catalogna, stando accanto a un cannone repubblicano e facendosi filmare mentre ripeteva con fiducia ciò che chiunque altro andava dicendo, descrivendo ciò che qualsiasi sciocco avrebbe potuto vedere: armi, macerie, corpi. Guardò al di là delle fantasie ideologiche dei suoi coetanei e sapeva che ciò che era importante non era necessariamente visibile. La Spagna, capì, aveva davvero poco a che fare con la Spagna, si trattava di uno scontro tra sistemi totalitari, tedesco e russo. Sapeva che era testimone di una minaccia per la civiltà europea, lo scrisse e aveva ragione.

Capire quello che è successo a Gaza questa estate significa comprendere Hezbollah in Libano, l’ascesa dei jihadisti sunniti in Siria e in Iraq e lunghi tentacoli dell’Iran. Richiede di cercare di capire perché paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita ora vedono se stessi come più vicini a Israele che a Hamas. Soprattutto, ci impone di comprendere ciò che è chiaro a quasi tutti in Medio Oriente: le forza in ascesa in questa parte del mondo non sono la democrazia e la modernità. È piuttosto una potente vena dell’Islam che assume forme diverse e talvolta contrastanti e che è disposta a impiegare una violenza estrema in una missione di unificazione della regione sotto il proprio controllo al fine di confrontarsi con l’Occidente. Coloro che colgono questo fatto saranno in grado di guardarsi intorno e di unire i puntini.

Israele non è un’idea, un simbolo del bene o del male o una cartina di tornasole per le chiacchiere in una cena liberal. Si tratta di un piccolo paese situato in una spaventosa parte del mondo che sta diventando sempre più paurosa. Va riportato criticamente come qualsiasi altro luogo e compreso in modo contestuale e proporzionato. Israele non è una delle storie più importanti del mondo e neanche del Medio Oriente; qualunque sia l’esito di questa regione nel prossimo decennio, esso avrà tanto a che fare con Israele quanto la seconda guerra mondiale ebbe a che fare con la Spagna. Israele è un puntino sulla mappa – un evento secondario a cui tocca il destino di farsi carico di un’insolita carica emotiva.

Molti in Occidente preferiscono chiaramente l’antico conforto dell’analisi delle carenze morali degli ebrei e la familiare sensazione di superiorità a cui questo li porta, piuttosto che confrontarsi con una realtà infelice e confusa. Essi possono così autoconvincersi che tutto questo sia solo un problema degli ebrei e che in effetti sia colpa degli ebrei. Ma i giornalisti si impegnano in queste fantasie al costo della propria credibilità e di quella della loro professione. Come Orwell ci direbbe, il mondo si intrattiene in fantasie a proprio rischio e pericolo.

By Matti Friedman fonte: http://www.rightsreporter.org/