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2012/08/13

La tratta degli Schiavi.


Nel sedicesimo secolo, le grandi potenze europee iniziarono la colonizzazione delle Americhe. Gran parte dei vantaggi economici che le colonie americane potevano garantire erano legate alla creazione di piantagioni, principalmente canna da zucchero durante la penetrazione portoghese in Brasile, a questo si aggiunse la prospettiva di ricavare dalle colonie risorse minerarie. In entrambi i casi erano neccessarie grandi quantità di manodopera per il lavoro pesante. In una prima fase, gli europei tentarono di far lavorare come schiavi gli amerindi; questa soluzione tuttavia risultò insufficiente, soprattutto a causa dell'alta mortalità delle popolazioni native dovuta a malattie importate dai conquistatori europei, vaiolo e infezioni sessuali decimarono le popolazioni locali mentre la loro conformazione fisica non era adatta a quel genere di lavoro. Nello stesso periodo, gli europei entrarono in contatto con la pratica nordafricana di far schiavi i prigionieri di guerra. I re locali delle regioni nella zona dei moderni Senegal e Benin spesso barattavano gli schiavi con gli europei. Gli schiavi africani erano decisamente più adatti, dal punto di vista fisico, a sopportare il lavoro forzato, perciò i portoghesi e gli spagnoli prima se li procurarono per mandarli nelle colonie americane, dando inizio al più grande commercio di schiavi della storia, quello attraverso l'Oceano Atlantico. La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico assunse rapidamente proporzioni senza precedenti, dando origine nelle Americhe a vere e proprie economie basate sullo schiavismo, dai Caraibi fino agli Stati Uniti meridionali. Complessivamente, qualcosa come 12 milioni di schiavi attraversarono l'oceano.
In tempi moderni si riparla di tratta degli schiavi, pur con alcune differenze: il nome prima di tutto, oggi nessuno alluderebbe più ad una tratta, semmai viene vista come un'esigenza di muovere determinate fette di popolazione indigenti rispetto alle altre che compongono il tessuto sociale residenziale, verso aree geografiche o paesi che hanno maggiori possibilità di mantenerle. Non potendo muovere migliaia di individui la soluzione facilmente attuabile è quella di delocalizzare le lavorazioni affinchè siano eseguite da quegli individui che percepiranno quindi un reddito rapportato al territorio in cui essi vivono e producono ma decisamente inferiore rispetto al correspettivo dovuto agli individui che sono impiegati nella nazione di appartenenza del produttore. Questo procedimento porta a sostanziali risparmi sui costi della manodopera ma anche negli interventi ritenuti socialmente utili per mantenere una costante attenzione e la produzione a livelli accettabili. Quella che una volta veniva definita “tratta degli schiavi” oggi si chiama "Globalizzazione", un problema che vede interessato l’intero genere umano, è argomento di discussione nei talk-show, ma è anche e soprattutto un grande business propagandistico a tutti i livelli (Per la cronaca il primo ad avere utilizzato il termine “globalizzazione” in un contesto economico è stato Theodore Levitt nel 1983).

La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo fu un colpo di fortuna, diciamocelo francamente. Il navigatore era convinto che navigando verso ovest prima o poi avrebbe raggiunto le Indie perchè credeva fermamente nella teoria tolomeica del pianeta, una palla sospesa ferma nello spazio con il sole e tutte le stelle che girano intorno. E se il mondo era una palla navigando in senso inverso alle rotte comunemente utilizzate dai navigatori dell’epoca per raggiungere le Indie si dovevano ritrovare queste ultime. Cristoforo non ebbe mai la percezione di avere scoperto un nuovo continente. Anzi, nel suo immaginario cosmologico la possibilità che esistessero continenti ancora da scoprire appare assente, nonostante egli conoscesse bene i passi della Bibbia e le pagine degli antichi - a cominciare da Seneca - che sembrano aver adombrato quest’ipotesi, se non proprio questa consapevolezza. Colombo pretese fino all’ultimo istante della sua esistenza, di esser giunto, "buscando el Oriente para el Occidente" alle estreme propaggini dell’Asia, alle favolose Indie.

Ma, com’è noto, si sbagliava. La sua teoria non poteva prevedere che fra l’antico mondo e le Indie ci fosse un nuovo mondo. L’America. Nemmeno la famosa espressione “Nuovo Mondo” fu colombiana. Essa risale a un mercante fiorentino, Amerigo Vespucci, che aveva aiutato Colombo a organizzare la sua terza spedizione al di là dell’Oceano. Divenuto a sua volta navigatore, Vespucci scrisse di un "Mundus Novus" in una lettera inviata nel 1505 ai suoi vecchi principali ormai divenuti signori di Firenze, i Medici. Tempestivamente data alle stampe, la lettera del Vespucci, che si esprimeva ormai senza più dubbi sul fatto che le terre scoperte da Colombo appartenevano non all’Asia, ma ad un nuovo e fin ad allora sconosciuto continente, fece davvero epoca. 

Si può quindi affermare che già nel 1492 e più tardi nel 1505, come forma embrionale più volte rimessa in discussione, iniziò la globalizzazione moderna. Andando ancora più indietro nel tempo, a partire dall’anno zero del nostro calendario, con l’opera di evangelizzazione e cristianizzazione da parte di fedeli esaltati e propagandisti politici (ma anche religiosi) è iniziata la crudele storia del Villaggio Globale. Il cristianesimo è lo spirito santo del villaggio globale. Oggi si osserva globalizzazione nella sfera economica, sociale, culturale, politica, e religiosa. La globalizzazione economica riguarda la convergenza di metodi e modelli di produzione e di consumo e la conseguente omogeneizzazione di stili di vita e culture, riguarda la convergenza di prezzi, salari, tassi di interesse, ma anche standards, norme, tipologie di prodotti, verso gli standard stabiliti dai paesi sviluppati. La globalizzazione dell’economia dipende anche dalle migrazioni, dal commercio internazionale, dai movimenti di capitale e dalla integrazione dei mercati finanziari. Il fondo monetario internazionale nota la crescente interdipendenza dei vari paesi a livello mondiale attraverso il crescente volume e la varietà di transazioni tra paesi, i flussi internazionali liberi di capitali e la più rapida ed estesa diffusione della tecnologia. 

Tornando alla scoperta dell’America è presto detto quello che è successo: è bastato uno starnuto dei conquistadores perché le popolazioni locali morissero, e quelli che non morirono per colpa delle nostre malattie sono stati massacrati dalla Chiesa e dalla politica del colonialismo. L’Europa si è trovata così fra le mani un territorio immenso che non ha esitato a sfruttare; oggi, l’America dei grandi spazi non esiste quasi più, perché ogni dove è contaminato o da una multinazionale o da uno stabilimento chimico o atomico. L’America è diventata la sede principale delle multinazionali, comprese quelle giapponesi, che hanno acquistato ampie fette del suolo americano mettendoci dentro così le sedi principali delle loro multinazionali.


Perchè non essere (o essere) a favore della globalizzazione?


L'opinione pubblica è contraria a un aumento del grado di apertura del proprio paese al commercio internazionale. L'integrazione produce benefici netti a livello aggregato, ma genera effetti redistributivi.

Quindi se il protezionismo non è una scelta efficiente, al fine di evitare tensioni sociali la politica deve attuare forme e soluzioni di redistribuzione del reddito a livello nazionale. Gli economisti, si sa, difficilmente vanno d’accordo. Le differenze di opinione su molte questioni di interesse pubblico sono solitamente marcate e animano accesi dibattiti sui principali temi economici, dalla riforma delle pensioni alla gestione del debito pubblico. Su una questione, invece, sembrano essere tutti d’accordo: il commercio internazionale. Da un punto di vista tecnico, infatti, vi è in generale consenso sull'obiettivo di ridurre le tariffe commerciali, ovvero le imposte che gravano sulle importazioni, rendendole più costose. Tale convergenza si basa sui risultati dell’analisi teorica la quale dimostra che il commercio internazionale genera benefici netti totali. Ma questo consenso è generato dall’esigenza non troppo celata, di aumentare gli utili. Con una metà del pianeta in crisi e l’altra metà che spera di non cadere anch'essa nel baratro, la possibilità di ottenere maggiori introiti fa si che il mondo imprenditoriale sia favorevolmente orientato verso la globalizzazione purchè sia un vantaggio e non uno svantaggio per le proprie casse di fatto svuotate da un sistema fiscale ingordo ed incapace di guardare al di là del proprio naso. Nel mezzo ci siamo noi, costretti a pagare sempre di più affinchè qualcuno guadagni sempre di più e condannati a spendere per mantenere in vita un mondo che oramai non ci appartiene, nell’era consumistica i diritti dei consumatori sono immolati all’altare del dio commercio, costi quel che costi.

Da qui si evince che gli schiavi siamo noi. La tratta degli schiavi non è mai morta, esiste sin dalla notte dei tempi, oggi si chiama globalizzazione, la sostanza però non è mai cambiata.

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