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2014/03/05

2013

La notte di Capodanno per tradizione si butta il "vecchio" e si apre al "nuovo".
E nei primi giorni del nuovo anno siamo tutti pronti a lanciarci in nuovi obiettivi, sfide, propositi e piccoli e grandi desideri. Un nuovo anno, lo sappiamo, porta nuovi inizi, e uno stato che ci spinge a voler spezzare le cattive abitudini e diventare la persona che si vuole essere o almeno proviamo a incamminarci in quella direzione. Mantenere la rotta nel voler diventare una persona migliore durante tutto l'anno potrebbe non essere difficile se vi è un cambio di prospettiva, di motivazioni. Partire da noi stessi tuttavia non basta, bisogna guardare alle occasioni che la vita ci offre. Dobbiamo ricordarci però che un nuovo anno è solo una data sul calendario, nessun nuovo evento astronomico nè planetario. L'uomo ha identificato il trascorrere del tempo attraverso un mero calcolo matematico, naturalmente considerando la rotazione del pianeta nel nostro sistema solare giusto per avere un riferimento sicuro. Ma è proprio questa sicurezza, questo ripetersi all'infinito, anno dopo anno, o meglio questo continuo moto di rivoluzione attorno al sole, stella eterna, per quanto ci riguarda, fonte di vita e speranza, che deve far riflettere. Esso non ha mai fine, non ha tempo, non ha una meta ne un punto di inizio. Se, per assurdo, tutti gli abitanti della terra ordinassero alla terra, nello stesso momento, di cambiare rotta, resterebbero delusi, perché essa continuerebbe a seguire regole che nessuno ha scritto e ordinato. 


Fermatevi e riflettete.


Spesso si ha la tendenza a santificare automaticamente chi muore, dimenticando come per magia tutte le sfaccettature della loro personalità e dei loro trascorsi personali e pubblici. La verità è che non tutti i morti sono santi, anche se sono famosi: di certo hanno scritto la storia, spesso nel bene e qualche volta anche nel male. Senza voler sembrare troppo cinico, non posso non citare il detto "ogni giorno c’è qualcuno che trapassa", perché in questo 2013 la lista delle defezioni eccellenti sembra volersi allungare ogni giorno di più. 

Risulta dunque lungo e triste l’elenco dei morti famosi dell'anno appena passato. Si è aperto con la morte di Mariangela Melato a gennaio, a cui sono susseguiti una serie di altri celebri decessi, più o meno inaspettati. Alcuni sono deceduti a causa dell’età avanzata, come Giulio Andreotti, altri, invece, si sono spenti dopo una lunga malattia, come il presidente sudafricano Nelson Mandela. Quale che sia la causa, è certo che il mondo dello spettacolo, della musica, della religione, della cultura, della moda, della scienza, della politica e dello sport ha perso alcuni dei suoi migliori rappresentanti, tra cui l’amatissimo Don Gallo e la bravissima Mariangela Melato. 

Ricordiamoli così, in questa breve carrellata a cui seguiranno, per chi se lo merita, gli ultimi applausi alla memoria:


Nelson «Madiba» Mandela 
Politico, icona, Prenio Nobel per la Pace
(Mvezo, 18 luglio 1918 – Johannesburg, 5 dicembre 2013)


Uomo politico sudafricano e leader dell'African National Congress, è stato presidente della Repubblica Sudafricana, il primo eletto dopo la fine dell'apartheid, il regime di segregazione della popolazione di colore e contro il quale lo stesso Mandela ha combattuto per tutta la vita rivendicando parità di diritti per i neri. Incarcerato per oltre 25 anni, nel 1993 è stato insignito del premio Nobel per la pace.



Giulio Andreotti 
Politico
(Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) 


È stato probabilmente il più noto - e controverso - tra i politici italiani della cosiddetta Prima Repubblica. Esponente di spicco della Democrazia Cristiana, è entrato in Parlamento a 26 anni e vi è poi rimasto fino alla fine dei suoi giorni (era senatore a vita). Più volte ministro, è stato otto volte presidente del Consiglio. Non è mai riuscito ad ottenere i consensi sufficienti per diventare presidente della Repubblica, nonostante sia stato più volte considerato un «papabile» per il Colle.



Margareth Thatcher 
Politico
(Grantham, 13 ottobre 1925 – Londra, 8 aprile 2013)


Chi non se la ricorda? È stata forse la donna più potente sel suo tempo. Britannica, membro di punta del partito conservatore, è stata premier fra il 1979 e il 1990, unica donna ad avere mai ricoperto quel ruolo. Soprannominata «lady di ferro» per la sua forte determinazione e intransigenza, ha affrontato tra le altre anche la crisi delle Falkland-Malvinas e della guerra lampo che ne è scaturita contro l’Argentina, da cui il Regno Unito uscì vittorioso.



Margherita Hack 
Scienziata
(Firenze, 12 giugno 1922 – Trieste, 29 giugno 2013) 


Astrofisica, docente all'università di Trieste, vegetariana, amante degli animali, attivista politica per i diritti delle donne, simpatizzante della sinistra. E' stata autrice di diversi libri e negli ultimi anni ha condotto un programma di divulgazione scientifica per ragazzi sul canale satellitare DeaKids. E' uscito postumo il suo ultimo libro "Italia sì, Italia no".



Peter O'Toole
Attore
(Connemara, 2 agosto 1932 – Londra, 14 dicembre 2013)


Leggere il suo nome forse vi dirà poco, ma il suo nome è legato per l’eternità al personaggio di Thomas Edward Lawrence, reso immortale nel film Lawrence d’Arabia di David Lean nel 1962. Grazie a quel film, Peter O’Toole diventa un sex symbolo assoluto a soli due anni dal suo esordio al cinema: da lì in poi è stato un crescendo in una carriera segnata dal record di otto nomination all’Oscar come migliore attore protagonista (mai vinto, purtroppo). Per rimediare, l’Academy nel 2003 gli ha conferito la statuetta alla carriera.



Stefano Borgonovo 
Calciatore
(Giussano, 17 marzo 1964 – Giussano, 27 giugno 2013)


Ex calciatore di Serie A nel Milan e nella Fiorentina, colpito da Sla, è stato uno dei testimonial delle battaglie contro questa malattia grazie alla fondazione creata nel 2008 che porta il suo nome. Dopo esser stato colpito dalla malattia Borgonovo è stato insignito di importanti riconoscimenti (Ambrogino d’Oro a Milano nel 2008, Abbondino d’oro a Como nel 2009 e Fiorino d’oro a Firenze nel 2010, benemerenza civica e massima onorificenza per un cittadino non fiorentino. Nel 2008 aveva dato vita alla Fondazione Stefano Borgonovo Onlus, che sostiene la ricerca per vincere la SLA, di cui egli stesso era affetto. Sempre nel 2008, Borgonovo aveva iniziato una collaborazione con il quotidiano sportivo La Gazzetta dello Sport.




Doriano Romboni 

Motociclista
(Lerici, 8 dicembre 1968 – Latina, 30 novembre 2013)


Ex motociclista professionista. una delle tre «frecce tricolori» degli anni Novanta assieme a Max Biaggi e Loris Capirossi. E' morto a seguito di un incidente a Latina durante le prove del «Sic Supermoto Day», meeting motociclistico organizzato in memoria di Marco Simoncelli.



Enzo Jannacci 

Cantautore
(Milano, 3 giugno 1935 – Milano, 29 marzo 2013)


Enzo Jannacci cabarettista e attore italiano, è stato uno degli interpreti della milanesità in chiave musicale, il suo successo è stato sempre di rilievo nazionale anche grazie alle numerosi partecipazioni a programmi televisivi. Tra i maggiori protagonisti della scena musicale italiana del dopoguerra. Caposcuola del cabaret italiano, nel corso della sua cinquantennale carriera ha collaborato con svariate personalità della musica, dello spettacolo, del giornalismo, della televisione e della comicità italiana, divenendo artista poliedrico e modello per le successive generazioni di comici e di cantautori.

Autore di quasi trenta album, alcuni dei quali rappresentano importanti capitoli della discografia italiana, e di varie colonne sonore, Enzo Jannacci, dopo un periodo di ombra nella seconda metà degli anni novanta, è tornato a far parlare di sé ottenendo vari premi alla carriera e riconoscimenti per i suoi ultimi lavori discografici. È ricordato come uno dei pionieri del rock and roll italiano, insieme ad Adriano Celentano, Luigi Tenco, Little Tony e Giorgio Gaber.


Don Andrea Gallo 

Religioso
(Genova, 18 luglio 1928 – Genova, 22 maggio 2013)


Sacerdote, già partigiano, è stato fondatore della comunità di di San Benedetto al Porto di Genova, fortemente impegnata in campo sociale, in particolare nel recupero degli emarginati e delle prostitute. Di simpatie comuniste, è sempre stato considerato un prete anomalo e controcorrente. E' stato in prima fila al G8 di Genova del 2001al fianco di Dario Fo e Franca Rame. Ha scritto, come autore o con altri, anche una ventina di libri, tra cui l'autobiografia «Angelicamente anarchico».




2014/02/01

Don Carlo Masseroni

Ricevo da un amico il seguente messaggio che pubblico immediatamente.


E’ mancato ieri (il 28 Gennaio 2014 NdR), a 89 anni, Don Carlo Masseroni, per una vita missionario in Burundi, una di quelle tante persone che in silenzio hanno dedicato la vita agli altri, ma che sicuramente lasciano una traccia. Altri lo ricorderanno meglio di me, io non posso dimenticare i giorni e le notti passati insieme sugli altipiani dell’Africa Centrale dove le stelle sono così grandi e la gente così povera. Non posso dimenticare gli orrori della guerra, la rivoluzione che ci ha visti coinvolti nell’aprile del 1994 quando 
per un pelo l’abbiamo scampata o le ore tragiche del luglio del 2000 quando, colpito da un proiettile di kalashinov al volto sparatogli a bruciapelo, riuscì comunque a sopravvivere per una serie di incredibili circostanze e subito, miracolosamente guarito, ritornò in Burundi dove pur sapeva che avrebbe di nuovo rischiato la vita.

Don Carlo aveva sempre voluto fare il missionario, ma in Burundi approdò solo a 42 anni nel 1967 e sempre ci rimase salvo qualche fuga precipitosa in occasione dei colpi di stato o delle terribili guerre tribali tra tutsi e hutu. 

Sono tanti i ricordi, intimi, tragici o stupendi che gli hanno permesso di trasmettere a così tante persone un senso della vita tutto speciale. Le sue famose “lettere” (quasi 300!) che prima a ciclostile e poi via internet spediva puntualmente a centinaia di suoi amici sparsi in tutta Italia e che erano un ponte speciale di frammenti di vita, reportage originali e preziosi di un’Africa piena di problemi ma anche di speranze.

Chissà come mai gente come Don Carlo e le migliaia e migliaia di persone che gratuitamente offrono la propria vita per gli altri non sono quasi mai proposti per il Nobel per la Pace. Tra l’altro anche loro sono e sono stati per anni “Italiani all’estero” eppure così pochi hanno considerato quanto hanno fatto per l’immagine e la credibilità del nostro paese in giro per il mondo.

Ricordo un sabato pomeriggio, dopo una Messa in una succursale, avvicinato da una famiglia che gli annunciava la morte imminente di una donna. Entrammo in quella baracca angusta, umida, buia  e puzzolente. Per terra su una stuoia stava contorta una persona agonizzante. Don Carlo le prese una mano e la tenne stretta nella sua mormorando una preghiera. Quel corpo si rilasciò quasi assorbisse serenità e Don Carlo le chiuse gli occhi. Me lo rivedo in cammino sulle coline di Rwarangabo, la sua parrocchia con oltre 60.000 cristiani e le messe oceaniche che non finivano mai, sempre su e giù per le colline di terra rossa, polverose o piene di fango a seconda della stagione. 

Il suo mitico “Maggiolino” grigio che riusciva sempre a sfangarsi e al quale una volta, salendo verso Murehe, sostituii la cinghia di trasmissione con una corda, l’unica riparazione meccanica mai fatta in vita mia, ma che ci permise di arrivare prima di sera nella missione dove ci aspettava Don Giancarlo. Ho una foto di quel giorno, circondati da una turba di ragazzini vocianti e che ci spingevano in salita… chissà quanti di loro sono rimasti vivi dopo l’eccidio di massa che scoppiò pochi giorni dopo.

Rwanda, Uganda, Burundi: terre martoriate e lontane, ai margini dell’attenzione del mondo. L’ultima mia visita a Kiremba fu nel 2012 quando mi ero da poco dimesso da deputato. Come sempre quei giorni d’Africa mi disegnarono altre priorità regalando serenità mentre seguivo Don Carlo a visitare ogni giorno i malati in ospedale. Un ospedale così diverso dai nostri con centinaia di malati ma fatti anche dal vociare di parenti e cucine da campo, sporcizia, mosche, odori, galline che giravano per le corsie, morenti in un angolo e anche spesso con due malati distesi nello stesso letto.

Un ospedale dove ormai tutti i medici bianchi se ne erano andati dopo che pochi mesi prima era stato ucciso un collaboratore e una suora missionaria assaliti proprio lì, a dieci passi dalla canonica. Erano scappati tutti, ma Don Carlo era restato e aveva sempre una parola per tutti, un sorriso, una carezza. Due mesi fa, tornato in Italia, mi raccontò che uno degli ultimi giorni di Burundi prima del rientro – quando già forse aveva capito di stare poco bene – in quello stesso ospedale dove aveva assistito decine di migliaia di persone chiese ad un’infermiera se poteva provargli la pressione. “Non sono pagata per provare la pressione a un bianco come te!” gli fu risposto e, nel raccontarmelo, Don Carlo non si lamentava, ma sorrideva. 

In quel sorriso c’era una grande risposta ai problemi e alle rabbie cieche che qualche volta covano in ciascuno di noi quando ci lamentiamo delle cose che non vanno o pensiamo di essere oggetto di una discriminazione o di una ingiustizia. Un modo per far capire a tutti che i “grazie” spesso non sono di questo mondo, ma soprattutto non sono necessari. Il ricordo di Don Carlo è piuttosto un impegno, perché la Sua risposta e il Suo esempio sono una questione che ci turba, e che ci sentiamo forte nel cuore.

(Grazie Marco)

Chi era Don Carlo Masseroni?

Don Carlo Masseroni era decano dei Fidei Donum e Patriarca delle Missioni Novaresi.
Nato il 27 gennaio 1925 a Fontaneto d’Agogna, ultimo di 10 fratelli. Entrato da ragazzo nel Seminario Diocesano con i cugini Giuseppe ed Eugenio, completati gli studi venne ordinato sacerdote da Mons. Leone Ossola nel giugno del 1949.

Dopo l’impegno pastorale come coadiutore del parroco nelle parrocchie di Suno, a Santa Cristina di Borgomanero e Arona, nel 1967 partì come missionario in Burundi, insieme a don Francesco Ciampanelli e più tardi raggiunto dal cugino don Giancarlo Masseroni. Dal 1967 al 1980 svolse la sua attività di promozione umana e di evangelizzazione nella Parrocchia di Rwarangabo dove praticamente, partendo da zero, costruì la Chiesa parrocchiale e numerose Cappelle in diverse succursali, nonché creando dei servizi sociali e sanitari. Nel 1980, a causa della difficile situazione venutasi a creare nel piccolo paese africano tra le etnie Hutu e Tutsi, ritornò in Italia dove per un anno fu amministratore parrocchiale a Cesara e Arola. Ma l’amore per la sua gente, il desiderio di condividere la vita del suo popolo, fece sì che nel 1981 ritornò in Burundi, sempre a Rwarangabo, riprendendo le molteplici attività che aveva lasciato.

La sera del 6 luglio del 2000 un malintenzionato si introdusse nella sua casa con lo scopo di ucciderlo e gli sparò con un fucile d'assalto un colpo in pieno volto. Ferito gravemente, venne trasportato all’Ospedale di Nairobi, in Kenya, dove si riprese, anche se perdette l’uso di un occhio e parzialmente l’udito. Rientrato in Italia vi rimase per un lungo periodo di convalescenza fino a dicembre, ma nel gennaio del 2001 riprendeva l’aereo per il suo amato Burundi. Questa volta venne destinato alla Parrocchia di Murehe dove rimase fino a qualche tempo fa, quando si unì ai Fidei Donum della diocesi di Brescia all’Ospedale di Kiremba dove passò gli ultimi anni consolando e amministrando i sacramenti ai degenti di quell’Ospedale.

«Le avvisaglie del male incurabile che lo avrebbe stroncato, si fecero sentire sempre più forti il che portò don Carlo a prendere la decisione di rientrare in Italia, cosa che avvenne l’estate scorsa quando pose la sua dimora all’amata Frazione La Croce di Fontaneto, circondato dall’affetto dei parenti e in modo particolare dei nipoti, visitato da molti amici che volevano fargli arrivare la loro solidarietà per la malattia che lo stava divorando» dice don Mario Bandera, direttore del Centro Missionario Diocesano.

2013/12/14

Tributo a Nelson Mandela


La notizia che Nelson "Madiba" Mandela, primo presidente nero del Sud Africa, era morto, l’ho appresa attraverso internet. Non guardo da diverso tempo programmi televisivi, sia perché non condivido la cultura televisiva della nazione che mi ospita, troppo simile a quella italica dalla quale ho preferito andar via, sia perché i soliti programmi televisivi non mi appagano a sufficienza, preferisco un buon film o documentario oppure leggere le news online. 

La mia reazione è stata di incredulità. Ho allora cercato la notizia su altri media, quasi sperando in una smentita. Il primo sentimento che ho provato è stato, a sorpresa, di risentimento. Ho sempre considerato positivamente la sua esperienza, già quando fu rilasciato dal carcere e anche durante la successiva e ovvia presidenza, anche durante poi il pensionamento forzoso, non era sua volontà ritirarsi ma gli fu imposto e comunque mi era sembrato giusto che facesse spazio ai giovani, nuove idee, nuove proposte e poi durante i suoi ultimi anni, tutto veniva a formare un quadro molto positivo di lui. Eppure ho provato un forte senso di risentimento. Mi chiedevo perché.

Dopo qualche introspezione, ho capito. Tutti i media elogiavano Mandela. Era diventato un santo. La stragrande maggioranza di coloro che in quei giorni hanno ricordato l’ex-presidente sudafricano lo ha eretto ad una sorta di “eroe planetario”. Un quotidiano di sinistra portoghese lo ha perfino paragonato a Gesù Cristo. Sicuramente ha vissuto per gli altri, ha anche perdonato coloro che lo avevano imprigionato, ha combattuto un regime brutale con parole di pace; ha ispirato molti sudafricani a unirsi, diventando un'icona per il mondo, e così via. Una lettura puramente agiografica della vicenda umana e politica di Nelson Mandela presenta, senza dubbio, un notevole fascino, ma rappresenta al tempo stesso un approccio non soddisfacente, perché non rende giustizia alla complessità della storia politica sudafricana. Eppoi certe notizie sembravano solo la ripetizione di un testo scritto da altri. Chi fa del proprio mestiere l’informazione dovrebbe essere obiettivo, dovrebbe fornire notizie corrette e non edulcorate per vendere più pagine di carta o abbonamenti internet o tv. Queste dovrebbero essere imparziali. È necessaria una visione più equilibrata.


Con Nelson Mandela se n’è andata una delle figure più importanti, conosciute e “simboliche” del ventesimo secolo. In primo luogo, Nelson Mandela è stato qualcuno che per davvero doveva essere ammirato, dato che fin dall'inizio la sua vita era piuttosto privilegiata (non sono pazzo, era una predestinato anche prima di essere imprigionato), decise di vivere e lavorare per il suo popolo, per farlo uscire da quello stato di schiavitù mascherata da libertà. Era un popolo libero solo a parole, nella realtà costretto a lavorare e servire quello dominante per poi essere ricambiato con la violenza e l’odio. Mandela combatteva contro quel destino avverso. Ciò non di meno era davvero un privilegiato. Il suo clan era quello di Madiba, un clan che ha fornito molti re per la sua Aba Thembu (Thembu=persone, regno di persone). Queste persone, a causa della loro lingua, furono chiamati "Xhosa", il popolo Thembu erano un popolo indipendente fino a poco tempo fa. Per chi ha sempre pensato al popolo bianco usurpatore delle terre africane vorrei aggiungere che contrariamente alla credenza popolare, la stragrande maggioranza dei neri in Sud Africa non sono nativi, ma sono arrivati a milioni dai paesi limitrofi solo dopo che i boeri crearono una nazione con una fiorente economia, vaste opportunità di istruzione e notevoli benefici medici. Era quindi sbagliato considerare il popolo nero indigeno dell’estremo territorio africano del sud e estraneo il popolo dei bianchi europei. In questa visione realistica l’unico popolo che avrebbe potuto vantare diritti territoriali fu quello dei boscimani, praticamente scomparso poche decine di anni dopo l’insediamento delle colonie boere nelle province del Capo di Buona Speranza. 

Mandela era un appartenente al popolo Thembu, di origine Bantu e provenienti dall’Africa centrale e non uno Zulu come molti media nostrani hanno indicato. Mandela è andato alle scuole private a pagamento, e frequentò Fort Hare, che era l'unica università per i neri in Sud Africa a quel tempo. Davvero un privilegiato.

E anche questo è parte del risentimento. I genitori di molti miei amici sudafricani bianchi erano rifugiati. Non avevano privilegi, i bambini dei rifugiati non andavano nelle scuole private ne tantomeno ammessi alle università di prestigio anche se di casta e certamente essi non avevano ne potevano vantare nessuna origine nobile di fantasia, reale o altro. Torniamo dunque a Mandela senza dimenticare che il rischio di una analisi affrettata è quello di sacrificare tanto l’analisi storica, quanto quella politica al bisogno collettivo (e mediatico) di costruire eroi e di evidenziare contrapposizioni manichee. 
Mandela presenta, nei fatti, non solo momenti “alti”, ma anche passaggi più controversi, incluso il ricorso a mezzi non sempre giustificati dai fini. E parlo della violenza. Naturalmente, quando una persona scompare, è buona regola parlare innanzitutto dei suoi meriti, almeno quando ciò è possibile, e nel caso di Nelson Mandela ciò è sicuramente possibile. Il più grande merito di Nelson Mandela è quello di aver gestito con notevole maturità la riconciliazione sudafricana, negli anni immediatamente seguenti alla fine dell’apartheid.


Mandela arrivò a un punto, comprensibile, dove decise di creare un movimento rivoluzionario comunista, per rovesciare il sistema con la violenza. Perché è meglio che si sappia. L’ANC e il suo braccio violento contro l’Apartheid era stato creato e voluto da Mandela, per rovesciare i dominatori bianchi boeri con gli stessi mezzi usati da questi contro la sua gente. Questa è la verità, lo stesso vincitore del Premio Nobel per la Pace e leader del Congresso Nazionale Africano (ANC) Albert Luthuli inorridì quando si seppe che alla base della campagna di violenze contro il regime c’era Nelson Mandela!(2)(3)

In seguito, e a malincuore, Luthuli diede una benedizione qualificata per la "Lotta di classe" (modificata per essere più appetibile per i sostenitori occidentali in "lotta per la libertà"). Luthuli era prima di tutto e sempre un cristiano e quindi comprensibilmente non entusiasta di fondare un'organizzazione di guerriglia marxista. Più tardi, diede la sua benedizione, ma non fu mai un sostenitore attivo della politica dell’ANC.

Nella cultura tradizionale africana esiste un complesso sistema di obblighi a incastro che vanno d’accordo con l'appartenenza a un clan o a una famiglia allargata. Questi includono legami matrimoniali, ma anche la spiritualità e l'organizzazione sociale. Luthuli, come cristiano, avrebbe messo se stesso al di fuori di questi legami, mentre Mandela è rimasto nel "sistema". Questo gli diede il tipo di influenza che non avrebbe altrimenti avuto.


In contrasto con Luthuli, Mandela sentì che la violenza era necessaria. Sentiva che tutte le altre vie per trattare con il governo dell'apartheid si erano esaurite, non era realmente così, fu portato a credere che fosse così, quindi creò Umkhonto we Sizwe (Lancia della Nazione), un'organizzazione guerrigliera di stampo comunista. Non è vero, quindi, che Mandela era un pacifista e poneva innanzitutto una resistenza pacifica contro l'apartheid. All’apparenza si, ma dietro le quinte, in una realtà che doveva restare nascosta fu tutto il contrario e lo scrivo qui senza il timore di essere smentito, queste informazioni derivano dai fatti, da fatti, concreti(1). Il Mandela di quel tempo era tutto a favore della rivoluzione armata. La domanda che sorge spontanea è: qual era lo scopo di questa rivoluzione? Era la democrazia? Ne dubito fortemente. Le loro parole a quel tempo (e che ora negano di averle mai pronunciate) erano pura terminologia comunista. Nessuno ha mai citato gente come Edmund Burke, Jean Jacques Rousseau e Thomas Jefferson. Hanno solo citato Marx, Lenin, Mao e gli altri killer professionisti. Tutti ideologi nei loro paesi, molti di loro ricusati dai loro stessi concittadini e morti in miseria. Lo stesso Lenin e poi Mao, leader acclamati da vivi e mal considerati una volta trapassati. Alcuni dei leader di ANC ancora citano queste mummie comuniste come la soluzione di tutti i mali non accorgendosi che il mondo cambia, è cambiato tanto rapidamente da permettere l’abbattimento dei muri veri, o virtuali, di divisione fra il mondo comunista e quello capitalista. 

Torniamo per un momento a Mandela e a quel 1993. Io c’ero, ero li, a Johannesburg e poi a Cape Town. Io vidi con i miei occhi tutto e posso affermare con certezza e riportare al mondo quello che vidi e ho avuto modo di vivere. Nel 1993 il Sud Africa era un paese lacerato e quindi erano presenti tutti gli ingredienti per uno scenario di guerra civile. Gruppi paramilitari bianchi ben organizzati e pronti all’azione, una popolazione nera esasperata ed ideologizzata e violente contrapposizioni tra African National Congress e Inkhata nella provincia del Kwazulu-Natal. In questo delicato contesto si inserì Nelson Mandela, canalizzando i sentimenti rivoluzionari dei neri in un progetto gradualista ed al tempo stesso a conquistare presso l’elettorato bianco quel tanto di fiducia che bastava per legittimare il nuovo assetto politico. 

Parole, apparenza, fumo negli occhi, un camaleontismo collaudato. Il Mandela buonista volto di Giano bifronte che sorrideva al nemico bianco, mentre dall’altra l’MK e il Mandela reazionario girato dall'altra parte. L’ANC aveva aderito alla guerra fredda al fianco dell’Unione Sovietica, della Cina comunista che passavano loro le armi e gli esplosivi per uccidere innocenti, bianchi certo e boeri, ma sempre innocenti. Era una guerra contro un sistema, non solo ideologico ma totale. Bianco contro nero per l’annientamento finale. Che poi annientamento non ci fu, anche a causa di forti pressioni da parte di altre potenze schierate all’altro lato della barricata, gli Stati Uniti d’America in primo luogo. Si disse che a soffiare sul fuoco di liberazione sudafricano ci fossero gli USA. Niente di più falso. Era vero che agli americani il regime non faceva più comodo, era anche vero che cercarono in diverse occasioni di “scippare” il grande business dell’oro e dei diamanti ancora saldamente in mano a organizzazioni boere, ma era anche evidente che entrare come un elefante in una cristalleria nel fragile momento sudafricano equivaleva a distruggere quelle possibili opportunità di poter metter mano un giorno sulle grandi ricchezze della nazione arcobaleno come Desmond Tutu ebbe a chiamarla.


In quegli anni non tutti furono contrari al nuovo sistema che pensavano dovesse venire instaurato. Durante la fine dell’era coloniale, di cui una parte ha coinciso con la guerra fredda, molte persone altrimenti decenti erano disposte a tollerare i crimini del comunismo al fine di contrastare più efficacemente la Gran Bretagna, la Francia o il Belgio nelle loro lotte per l'indipendenza. In altre parole, coloro che hanno combattuto per i loro fondamentali diritti umani, della democrazia multipartitica e la libertà di parola, hanno combattuto idealmente a fianco dell’URSS che schiacciava i sogni di libertà e indipendenza del popolo ungherese! Quello non era il comportamento di un uomo di pace! Mandela e la sua organizzazione non erano nello stesso campionato come Mahatma Gandhi o il Dalai Lama!

Tuttavia Nelson Mandela non fu solamente un pacifista e pacificatore. Fu anche, nei fatti, il leader di un movimento che a lungo ha seguito strade politiche violente e aderito a visioni politiche marxiste e filosovietiche. Nella delicata questione sudafricana, l’African National Congress è stato per decenni parte del problema, non parte della soluzione. L’ideologia comunista dell’ANC e il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica rappresentavano un elemento di assoluta incomunicabilità con l’opinione pubblica bianca che negli anni si compattava sempre di più a sostegno del National Party al governo come pure di partiti alla sua destra. Tanto più i neri erano visti come rivoluzionari, tanto più nel dibattito politico bianco si indebolivano le posizioni dei verligtes (riformatori) a favore dei verkramptes (conservatori) e tanto più il Sud Africa bianco percepiva di trovarsi di fronte alla scelta binaria tra comunismo e apartheid.

Andando quindi in ordine cronologico, quando nel 1942 Mandela si unì all’ANC un partito “gemello” di quello di Gandhi, ma dallo stile decisamente diverso, fondò al suo interno la Youth League; e qualche anno dopo diventa comandante dell’ala armata del partito, la Umkhonto we Sizwe, o Lancia della Nazione come detto precedentemente. Mi seguite? Non ci siamo persi nulla nella disanima dell’uomo Mandela. Mi si dirà che le persone cambiano, che adesso è troppo facile sparare sull’uomo Mandela che non può difendersi, che forse non sono informato a sufficienza o di parte. Nel 1962 Mandela viene arrestato a causa delle sue attività, e sommando due processi gli viene comminato l’ergastolo. Sulla base di un processo giusto, riuscì a evitare la condanna a morte. Questo è quanto ci dicono i media “ufficiali”. Ma nessuno ci dice il perché. Forse la commissione Amnesty International che rifiutò di appoggiare il suo caso sbagliò, ritenendo che Mandela non fosse un prigioniero politico ma un “terrorista violento, condannato nell’ambito di un giusto processo”?

Mandela fu arrestato e trovato colpevole non di volere la democrazia e la libertà, anzi di aver cercato di rovesciare il governo legalmente costituito e eletto dal popolo sudafricano seppur format dai soli bianchi. Senza dubbio egli aveva delle buone ragioni per volerlo. Nessun governo, democratico o meno, può tollerare chi cerca di rovesciare il sistema con la violenza. Quindi, Nelson Mandela trascorse 18 anni a Robben Island. Poi fu trasferito in condizioni molto più confortevoli nella prigione di Polsmoor e in seguito agli arresti domiciliari presso la prigione Victor Verster. Non meravigliatevi. Nelson Mandela un domicilio reale non l’aveva più da quasi trentanni, l’ultimo conosciuto era quello di una prigione, dorata rispetto alle precedenti dove aveva trascorso I suoi anni peggiori, sempre un luogo di detenzione.

Quando Mandela fu rilasciato, il mondo era cambiato e lui era abbastanza grande per cambiare con esso. Fu capace quindi di scavare in profondità nella cultura africana tradizionale, dove esisteva un concetto che meritava di essere ampiamente pubblicizzato. Si chiamava Ubuntu. Significa "umanità". Mandela, a differenza del suo predecessore Luthuli non era Cristiano, era stato battezzato ma non aveva abbracciato mai la religion Cristiana, non si riconosceva in essa, invece aveva utilizzato l'antico concetto di umanità. Come Gesù Cristo 2000 anni prima era pronto a riconciliarsi con i suoi ex nemici e aguzzini. Era pronto a mettere da parte qualunque sentimento personale che potesse aver avuto e considerare il bene comune di tutto il popolo del Sud Africa. E così Nelson Mandela spostato dall'essere solo un altro rivoluzionario comunista/socialista del Terzo Mondo cominciò a essere considerato uno statista. Lui stesso sentiva che poteva diventarlo, anzi agiva come se lo fosse. Il passo fu breve. Dopo la sua elezione, nel 1994, lavorò instancabilmente per unire i sudafricani, e vorrei dire che è riuscito in questa sua opera immane.

Rispetto profondamente Madiba e ora che è morto, posso senza remore salutare un uomo rispettabile che, attraverso la riconciliazione e la visione, ha contribuito a iniziare un nuovo capitolo nella storia del South Africa.

Ma si dice spesso che era una visione viziata e lo era veramente. 

Non voglio tuttavia costruire un santuario per il presunto santo. 
Saluto lo statista. Onore delle armi.

Riposa in pace, Madiba!

Note:








2013/12/11

Leon, tributo in onore di un amico fedele


Il 18 Novembre di quest'anno Leon ci ha lasciato, questa volta per sempre.
Altre volte ci aveva lasciato, anche per giorni, si infilava nel cancello lasciato aperto e spariva nella foresta, e poi rientrava dapo giorni di girovagare e lo sentivi fuori dalla recinzione quando chiamava per farsi aprire: wouff, wouff...

E’ impossibile che una persona che ha trascorso lunghi anni in compagnia del proprio cane possa restarne privo senza sentire di aver perso qualcosa di sé, anche se si tratta di un cane anziano. Se la morte arriva improvvisa, la perdita è straziante. Leon non era solo il cane di Melissa. Era anche il mio migliore amico. Aveva vissuto con noi per più di quattordici anni. Eravamo preparati a questo, sapevamo che prima o poi la morte di uno dei nostri cani sarebbe stata inevitabile. ma credevamo che Luna ci avrebbe lasciati prima. il fila brasileiro infatti vive dai nove ai dieci anni. Luna e' nata nel 2003, dieci anni li aveva raggiunti, il giorno della dipartita poteva essere vicino. Avevamo anche gia' chiesto al veterinario che fare nel caso che... perche' con i suoi cinquanta kg sarebbe stata difficile da gestire la sua morte e invece... 
Leon aveva, in un certo senso, determinato il nostro modo di vivere. Dopo la sua scomparsa, la sensazione di solitudine e' immensa. La prima sensazione che si prova, spesso è quella di non accettazione: “non è possibile” “non è vero”. Poi si deve affrontare la realtà.

La morte di un cane non è certo traumatica come la perdita di un familiare, ovviamente. Ma forse è proprio questo il lato più ostico della cosa. Il dolore lo dobbiamo spesso affrontare da soli, senza la comprensione del mondo esterno, senza poterci sfogare con chi ha motivi “più validi” per soffrire, quasi vergognandoci di star male per un cane. “E’ solo un cane” minimizzano in molti. Questo è davvero difficile da sopportare. “E’ solo un cane”, pensiamo alle volte anche noi, provando quasi un senso di colpa per il nostro dolore, perché inconsciamente lo mettiamo in competizione con quello che dovremmo provare per le persone che ci hanno lasciato.

Piangere e manifestare i propri sentimenti è, più che mai, imbarazzante. Gli psicologi dicono che dovremmo esprimere il dolore e non reprimerlo. Non è saggio isolarsi ed è umano piangere, ma tutte le persone ci invitano a non farlo. Siamo costretti a far finta di niente ed è tutt’altro che facile.

Non tutti gli umani reagiscono comunque allo stesso modo. Il dolore non si manifesta secondo uno schema fisso. Le varie reazioni possono sovrapporsi ed essere di diversa durata, a seconda della persona e delle circostanze.
La morte di un cane ancora giovane è senz’altro l’avvenimento più grave. Tutto d’un tratto, il nostro cane apparentemente sveglio e normale, non c’è più. Incidenti, avvelenamenti, malattie fulminati, sono le cause più comuni. La fonte della più grande felicità diviene di colpo quella del più sconfinato dolore. 

Razza strana l’essere umano, una sola forma un solo volto un solo colore del sangue, ma molto divisi tra noi, il bianco si sente superiore al nero, il ricco non può avere legami col povero, i diversi… tutto ciò che ci è diverso deve tenere le distanze dal nostro io, dal nostro saper essere super uomini, diverso, perché, e da cosa si e' diversi , se alcuni uomini sono diversi da noi ciò vuol dire che noi siamo diversi da loro, allora perché i diversi sono loro? Se noi siamo diversi allo stesso tempo da chi ci è diverso, quindi i diversi siamo noi? E i cani? Si sentono diversi anche loro?

Leon viveva con la sua Luna, anzi per dirla breve era Luna che viveva con Leon, lei era l'ultima arrivata nella sua vita, ingombrante e predominante fila brasileiro che pretendeva tutto dal piccolo beagle Leon. Eppure erano inseparabili, per questo adesso Luna non sa darsi pace, piange tutto il giorno nonostante siano passati i giorni.

Cosa avra' pensato il piccolo Leon negli ultimi giorni prima di morire? Per capire il comportamento di un cane è essenziale esaminare il modo in cui affronta la morte. Noi uomini sappiamo tutti che un giorno moriremo e ci comportiamo di conseguenza; il cane, invece, non ha il concetto della morte e quindi non può prevederla, per quanto malato si senta. Per un cane, o per qualunque altro animale, la malattia rappresenta qualcosa di spiacevole che lo sta minacciando. Se avverte dolore, si considera preda di un’aggressione. Per lui è diffìcile distinguere tra un tipo di dolore e un altro quando cerca di capire cosa c’è che non va. Se il dolore diventa acuto, il cane sa di essere fortemente in pericolo, ma se non vede da dove proviene il pericolo, non può voltarsi per affrontarlo e difendersi mordendo: non c’è niente contro cui prendersela. A questo rimangono soltanto due strategie alternative: scappare o nascondersi. Se il dolore sopravviene mentre il cane sta «pattugliando» il suo territorio, la sua reazione naturale sarà quella di cercare di nascondersi dal suo «aggressore» e, scorgendo un riparo lì vicino, o qualche altro nascondiglio l’animale vi si dirigerà e rimarrà lì nascosto da solo, aspettando che la minaccia svanisca o che il dolore cessi. Il nostro amico non osa uscire, Temendo che ciò che ha causato il dolore sia in agguato, e quindi rimane lì a morire da solo, in privato. Nonostante le osservazioni precedenti degli scrittori a proposito di questo argomento, nel momento della sua morte il cane non sta pensando ai sentimenti del suo padrone, ma semplicemente su come può proteggersi dal terribile e inosservato pericolo che gli sta causando tanto dolore.

2013/06/20

Tributo a James Gandolfini



James Gandolfini era un grande, di quelli che non si vedono spesso. Nella vita come nella finzione. Quando succede che la dama nera prende uno tra i più grandi non fai a tempo a sederti davanti alla tv che già lo sanno tutti. Il computer ti riporta all’istante tutto quello che potevi sapere sulla fine tragica di questo personaggio amato dal pubblico di casa nostra e oltre oceano, forse del mondo interno. James Gandolfini è morto oggi, stroncato da un infarto a 51 anni, è morto a Roma capitale di quella nazione che comprende la Sicilia. Tony Soprano era un mafioso siciliano e James Gandolfini si immedesimava alla perfezione nel personaggio tanto da venire additato anche egli come un mafioso, buono per carità, simpatico, di quelli che, nel mondo da lui interpretato, spereresti di incontrare qualche volta ma non succede mai. Una notizia di quelle che sorprendono, una breaking news destinata a rimbalzare ai quattro angoli del pianeta alla velocità della luce.

Sarebbe insomma davvero inadatto propinarvi un riassunto della carriera di James, perchè sarebbe un’inutile ripetizione, ormai tutti in rete hanno scritto di lui, che dovrei mai scrivere io che sono l’ultimo arrivato? Parto da un pensiero dunque, come succede quando a lasciarci è un amico, uno di quelli cari, che si conoscono da sempre. Parto dalle condoglianze alla famiglia, ricordando l’uomo, prima di tutto padre, marito e attore. Parlo del dolore dei colleghi lasciando per ultimi i fans, soprattutto di quelli che sono impazziti per i Soprano, non perché li vedo male, del resto sono loro che apprezzando fin da subito la serie culto che ha cambiato la storia della televisione del costume americano hanno creato e elevato al rango di grande James. No, perché tutto sommato, e per quanto questa partenza senza ritorno improvvisa possa generare confusione, dolore e rimpianti, sono sicuro che lui rimarrà nel cuore della gente solo fino a quando un altro personaggio bucherà lo schermo appropriandosi dei fans del nostro James. 

Allora preferisco salutare questo grande attore parlando di lui, della sua umanità, del suo essere, nonostante tutto, alla mano, disponibile, nella vita come nel lavoro. Lui James, alias Tony, alias James, era uno di noi. Non dimenticatevelo. Lui non era solo una gran signore, gentile, modesto, un mattatore, simpatico, lui era un vero fuoriclasse del set. E questo anche se la sua fama è legata inevitabilmente alla televisione e al ruolo di Tony Soprano, boss nel New Jersey alle prese con inverosimili crisi di panico. Lui aveva collezionato una serie notevole di successi nella sua carriera cinematografica. Una su tutte: "L'uomo che non c'era", magnifico noir dei fratelli Joel ed Ethan Coen, in cui recitava accanto a Billy Bob Thornton e Frances McDormand. Il film nel quale è riuscito a fondere alla perfezione l'intensità sentimentale con la fisicità bestiale che caratterizzava i suoi personaggi. Era un uomo speciale, un grande talento, che con il suo straordinario senso dell’umorismo, il suo calore e il suo rispetto, ha toccato il cuore a molte persone.

Cosa rimane a chi ha saputo apprezzarlo? La consapevolezza che con James se ne vanno anche le residue speranze di poter assistere un giorno o l'altro a un clamoroso ritorno dei Soprano. Difficile evento, molto improbabile come è tradizione dei Serials americani, qualcuno aveva ben sperato. Ormai da oggi assolutamente impossibile. Sarebbe come girare una nuova avventura episodio del maghetto Harry Potter senza Daniel Radcliffe. Quando muore un personaggio di livello, uno di quelli che bucano lo schermo, ti sembra che niente sarà come prima. Poi, per fortuna, la vita ti fa cambiare idea. Ma oggi no, oggi siamo tutti con lui, il nostro James Gandolfini. 

Grazie di tutto James, ci mancherai.









Un gestaccio certo, alla morte che pure l'ha portato via. R.I.P.

2013/03/05

When a Star Dies - Reeva Steenkamp Tribute


R.I.P. Sweet Reeva

How do you react when a Star (understood as a familiar face of TV, Radio, Movies and Sports) dies as a result of a violent act?

We react badly, 'cause we are deeply convinced that becoming famous enhances the security awareness. I don't know about you, but for me it is. We do not expect someone to die at the hands of those who should have protected her.

In this case, too damn often, that's our personal defenses do not work, even the stars, seen as prima donnas of the star system, they become victims of violent brutes who do not care who the person is, when they decide to end a relationship uncomfortable or want to vent aberrant instincts.

Life is not a talk show. If it was that a show, after a sad news it would enable the dancers to dance, breasts and thighs fill the screen, along with toothpaste smiles. Life is not a talk show, where everything is on the same level, serious things and others do not, in the end you do not understand what is important and what is not.
Hope dies when a woman dies, she dies when dies emancipation, progress, reconciliation. 
Almost psychotherapy hope, over the din of frantic shouting, and it kills, and enjoys looking in the mirror of their own stupidity. 
Hope dies when a woman dies, one of many, one of too many. A symbol dies and win the world upside down, what reasoning upside down.


Whether it is a mere coincidence or a mocking fate is unknown. A beautiful woman, Reeva Steenkamp, ​​was slaughtered to death by her boyfriend Oscar Pistorius.

Reeva was a young woman full of life attentive to the problems of being a woman in a country where violence against women has become almost normal. Reeva had added to the network last photo that was about violence against women. The image was published to commemorate Anene Booysen, a girl of only 17 years, raped, mutilated and murdered on February 2 at a yard near Bredasdorp, South Africa. The photo was published by the model the 10th February, writing, among other things: "I woke up in a safe house and happy. Not everyone understood. We have to take side against sexual violence in South Africa. Rip Anene Booysen. "

Unfortunately it was not so. Reeva also was the victim of "violence" by "her" man, the big, no more big, paralympic athlete Pistorius. 

Such violence will never end? It has been said all of this brutal murder, claiming various excuses to defend not the memory of the victim already known and appreciated in a world that does not involve people emotionally, but of her killer, an athlete who had shown courage and dedication to achieve his goals while being an athlete crippled the amputation of both legs.

This is how our subconscious leads to mourn the athlete even if murderess, athlete and therefore representative of an icy world of purity, consistency, determination. Not the victim who has suffered the athlete man became man beast. The beast in man has arrogated to itself the right to kill, to massacre a beautiful woman for trivial reasons.

In which world do we live in where a man arrogates to himself the right to decide the lives of others on the basis of petty reasons, reasons senseless, it was easier to say no and let live? This is a world where violence, like instinct, is still permitted? We are aware that continue to be violent towards women, women of this planet, wrongly identified as representatives of a weaker sex that proves stronger than us, brings nothing but the moral catastrophe of all our highest values​​?

Violence, all violence must be fought and defeated. Do not hide ourselves behind fake truth. The man who kills in war does not kill for violence, kill or be killed, kills a sacred right to life, not his but that of an entire people. I will say that the war is absurd, it might be true but it is not violence, if so then they would all deaths that we see daily in the environment where we live, both on the road in factories, homes, hospitals, schools and barracks. But violence is inherent in the human soul and shall be eradicated, annihilated, otherwise she will eventually destroy us.

Violence is abuse of power and control that is manifested through the physical and sexual abuse, psychological and economic. This happens particularly when we know who uses violence and we are tied to the individual who is a man or woman, it does not constitute grounds for differentiation, but here I discuss violence against women and then identify a male and then be strong, bound by a relationship emotional relationship with the victim - the partner, the parents, some friends - even in aggression suffered by foreign physical violence is made ​​of threats, humiliation, restriction of freedom. What is the point of all this? I am told that the men need to vent their instincts aberrant? For this reason there are bullfights, wars, violent sports that teach man anything but to continue to cultivate the same violence?

We must combat violence against women, against children, against those who can not defend themselves, fight forms of mental cruelty, psychological violence, lack of respect that demeans the dignity and offends. We say no to those who constantly criticizes, demeans, makes a mockery of the woman in front of others, insults, pursues and controls, annihilates with jealousy, lack of trust, from seeing friends or family. Say no to those who threaten to harm them.

Say no to violence for a better world.







































†  Rest in Peace Reeva.