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2015/07/21

... bambini che muoiono di fame

Fotografia di Patrizia Masuri


Sono così educati i bambini che muoiono di fame:

non parlano con la bocca piena, non sprecano il pane,

non giocano con la mollica per farne palline,

non fanno mucchietti di cibo sul bordo del piatto,

non fanno capricci, non dicono: “Questo non mi piace!!”,

non arricciano il naso quando si porta in tavola qualcosa,

non pestano i piedi a terra per avere caramelle,

non danno ai cani il grasso del prosciutto,

non ci corrono tra le gambe, non si arrampicano dappertutto…

hanno il cuore così pesante, e il corpo così debole, che vivono in ginocchio…

per avere il loro pasto, aspettano buoni, buoni…

qualche volta piangono, quando l’attesa è troppo lunga…

No, no, state tranquilli, non grideranno, non ne hanno più la forza: 

solo i loro occhi possono parlare…

incroceranno le braccia sul ventre gonfio, 

si metteranno in posa per fare una bella foto…

moriranno piano piano, senza far rumore, senza disturbare…

Quei bimbi lì…sono così educati.

Si, sono così educati i bambini che muoiono di fame…


--Roberto Clandestino--

2015/07/16

La bomba atomica in Iran

L'Iran avrà la promessa bomba atomica. L'accordo firmato è un'elegante beffa gestita con pazienza e capacità ("abbiamo trattato a lungo, ha detto il capo delegazione iraniano Zarif, e siamo riusciti ad affascinare l'Occidente"): le ispezioni programmate con un mese d'anticipo e rifiutabili da una commissione sono uno scherzo; dieci o quindici anni di tempo ridicoli rispetto alla possibilità successiva di armare la bomba atomica sotto gli occhi di tutti; l'apertura al mercato delle armi in cinque anni esteso a otto per i missili balistici; la diluizione dell'uranio già arricchito e il basso arricchimento sono assurdi quando si resta in possesso di 6000 centrifughe e degli impianti "sperimentali" e "medici" che possono trasformarsi. L'Iran era in grado di mettere in funzione una bomba atomica in due mesi; adesso gli ci vorrebbe un anno. In sostanza, è evidente che quello che deve giocare qui è la fiducia fra le parti, l'idea che l'Iran vuole davvero fermare la corsa al nucleare. 



Ma l'Iran vuole solo che entrino nelle sue casse i 1500 miliardi di dollari delle sanzioni che nel giro di un anno andranno a rimpinguare le casse che finanziano gli Hezbollah per occupare il Libano e difendere Assad, gli Houti che si sono impossessati dello Yemen, le Guardie della Rivoluzione di stanza in Iraq. Serviranno anche a finanziare le imprese terroristiche in cui l'Iran è campione in tutto il mondo e a rafforzare i Basiji, la milizia che tiene il suo tallone su un Paese sofferente non solo per la miseria. La legge shariatica prevede l'impiccagione degli omosessuali, e nelle campagne ancora si incontra la lapidazione, nei tribunali la donna vale metà; si chiudono i giornali e i giornalisti vanno in galera. Ma come si fa a fidarsi, come fa Obama, di un accordo con un Paese che per vent'anni ha trattato tirando in lungo per seguitare ad arricchire l'uranio mentre illudeva l'interlocutore che l'accordo fosse dietro l'angolo?

Durante le trattative dell'EU3 (Inghilterra, Francia e Germania) a Teheran nel 2004, il presidente Rouhani, allora capo dei negoziatori, ha poi detto ai giornalisti iraniani rivendicando il ruolo di costruttore del nucleare: "Coi colloqui siamo riusciti a provvedere il tempo necessario per completare il lavoro a Ishfahan “una centrale importante" così il mondo fu costretto a capire che l'equazione era del tutto cambiata". Rouhani portò il numero delle centrifughe da 164 a 1500, ora restiamo con le seimila della trattativa. E l'Iran, lentamente perché deve pagare un pedaggio per le sanzioni, può seguitare a guadagnare tempo nella sua marcia verso il nucleare, l'egemonia sciita nel mondo islamico, l'egemonia islamica nel mondo occidentale. 

Senza peli sulla lingua: allora tanto vale cercare anche un accordo con l'Isis, perché no? Chiediamogli di presentarsi con educazione a Vienna e trattiamo: non dovranno rinunciare né alla sharia né alla guerra per il califfato ma per dieci anni lascino terrorismo e taglio delle teste; in cambio, stabiliremo un'ambasciata a Raqqa e consentiremo grandi transazioni economiche, petrolifere e commerciando nei reperti archeologici. I barbuti col turbante, pure selvaggi, tuttavia non sono meno determinati a imporre sul mondo l'egemonia islamica, solo la guardano dal punto di vista sunnita, e non sciita.

Noi europei e americani ("occidentali" è una parola ormai senza senso) non ascoltiamo mai perché siamo poco seri: se malediciamo qualcuno, se lo minacciamo di morte domani cambieremo idea, qualcuno ci vedrà presto a braccetto col nostro nemico a prendere un caffè. Inoltre, noi non ricordiamo la nostra storia: non sappiamo più molto, noi europei, delle guerre che ci hanno contrapposto, del desiderio di divorarci che ha posseduto a turno i nostri Paesi finché la Germania ci ha battuto tutti col nazismo, non ricordiamo altro che il recente irenico desiderio di pace, seppelliamo sotto la sabbia l'odio e il rancore per comodità e per superficialità. 

L'Islam non è come noi, ricorda e sa: l'Iran sa la storia sciita e prima ancora quella dell'Impero persiano. Tre giorni fa, subito prima dell'accordo col P5+1 una enorme piazza con la guida suprema Khamenei gridava "Morte all'America" e "distruggeremo Israele". Il suo urlo di piazza deve essere inteso in forma estesa, include anche noi, ed è serio. Quando Khomeini, il grande ayatollah esiliato a Parigi tornò in patria nel 1979 a fare la rivoluzione, gli chiesero cosa sentiva tornando in Iran. Rispose "Niente". Era vero: non era l'Iran che gli interessava ma la grande rivoluzione islamico sciita che avrebbe portato, come ha spiegato più volte, a tutto il mondo. 

Questa grande guerra avrebbe portato il Mahdi a salvare la Terra, sarebbe giunta la fine dei tempi e la redenzione, come pensa lo shiita credente. Con l'Iran proprio come con l'Isis, non si cerca di evitare il "MAD", Mutual Assured Distruction che la Guerra Fredda gestì fra Russia e America evitando che ci ammazzassimo tutti. Al contrario, per far giungere il Mahdi, e Ahmadinejad furioso antisemita e antiamericano lo ripeté anche all'ONU, bisogna creare il caos, non lo si deve evitare. La nuclearizzazione è l'arma migliore per farsi padrone di Gog e Magog, e per questo l'Iran l'ha scelta.

2015/07/14

Porti d'Italia allo sfascio.....


L’Italia è uno dei primi venti paesi al mondo per lunghezza delle coste, il terzo in Europa dopo Grecia e Regno Unito: ne ha circa 7.600 chilometri. Per la sua favorevole posizione (in mezzo al calmo Mediterraneo, a un paio di migliaia di chilometri dal canale di Suez) è stata a suo tempo detta la “piattaforma logistica del Mediterraneo”, un ideale punto di sbarco per le portacontainer, le navi su cui viaggiano quasi tutti gli oggetti che acquistiamo, e per le petroliere. Il soprannome ha ormai perso valore, dopo essere sopravvissuto per parecchi anni nei convegni del settore.

L’Italia ha infatti un’impossibilità strutturale ad assumere questo ruolo, quello di punto di arrivo da mare e smistamento via terra delle merci da distribuire verso il nord dell’Europa. Le ragioni sono in primo luogo morfologiche: la costa italiana, anche se molto estesa, è troppo frastagliata e la maggior parte dei grandi porti commerciali hanno a ridosso delicate e complesse zone urbane. All’interno, poi, gli Appennini tagliano trasversalmente in due il paese, rendendo problematici i trasporti su strada. In secondo luogo c’è una ragione prettamente logistica che aggrava e amplifica il problema morfologico: la faticosa macchina burocratica italiana. Una merce sbarcata in Italia dal mare per essere libera di circolare deve avere il nulla osta da 18 enti diversi, determinando tempi di sdoganamento medi di quattro giorni, contro il giorno e mezzo dei porti del Nord Europa. La World Bank quest’anno ci piazza al ventesimo posto nel mondo (su 160, dopo quasi tutti i paesi del Vecchio Continente) per performance logistica, l’anno scorso l’Europa a 28 al ventesimo (i criteri di valutazione sono differenti, ma in entrambi i casi veniamo dopo quasi tutti i paesi d’Europa).

Europa
Di conseguenza sono sempre stati i porti del nord Europa la porta di accesso del traffico marittimo diretto e in partenza dall’Europa, invece della piattaforma logistica del Mediterraneo. Ci sono i Paesi Bassi, piatti e con una burocrazia molto più efficiente della nostra, la Germania con il suo impeccabile sistema di trasporto interno e il Belgio. Tre paesi, tre porti: Rotterdam, Amburgo e Anversa, che da soli intercettano il 62% del traffico in arrivo in Europa (qui la classifica mondiale, dominata dalla Cina). L’anno scorso il solo porto di Rotterdam ha movimentato 11 milioni di container da venti piedi, più o meno lo stesso traffico di questo tipo movimentato nello stesso anno da tutti i porti italiani messi insieme (i primi per traffico di questo tipo sono Gioia Tauro, Genova e La Spezia, che fanno insieme 6,4 milioni di container).

Italia
L’Italia sembra quindi un piccolo paese marittimo, ma non è così. Come abbiamo detto, è un paese differente dal nord Europa, così la carenza logistica interna viene compensata dal grande numero di approdi che caratterizzano in generale una penisola. Se quindi nei singoli porti il confronto è impietoso, il fatto che abbia tanti chilometri di costa dà al contrario un indubbio vantaggio: quello di poter contare su molti più approdi. Finora ci siamo soffermati su un solo tipo di traffico, il container, che rappresenta soltanto una piccola parte delle tipologie di traffico via mare. C’è il petrolio per esempio, ma neanche qui l’Italia può vantare particolari primati (anche se Trieste e Genova, che intercettano le due grandi direttrici di traffico adriatica e tirrenica, se la cavano bene).

Trasporto marittimo
Il trasporto marittimo nel mondo si può dividere grossomodo in tre categorie: solido (container e rinfuse solide, per esempio il grano), liquido (petrolio e gas) e passeggeri (crociere e cabotaggio, il traffico a corto raggio, per esempio quello diretto in Sardegna e alle Eolie). Ecco la prima buona notizia: sommando tutte queste categorie, l’Italia nel 2012 risulta terza in Europa, dopo Olanda e Regno Unito.

Ma è nei passeggeri che il nostro paese da il meglio di sé. Meta turistica per eccellenza, l’Italia movimenta passeggeri come nessuno in Europa. Ogni anno sono quasi 40 milioni quelli trasportati. È la regina d’Europa, prima di Grecia e Danimarca. Capri, un’isola di appena 10 chilometri quadrati (meno della metà di San Benedetto del Tronto), nel 2012 ha movimentato sei milioni di passeggeri (Messina e Napoli circa otto milioni ciascuna).
I porti italiani moderni nacquero nel 1994, con l’arrivo della legge di riforma 84/94, Riordino della legislazione in materia portuale, che ha tra l’altro costituito il Corpo delle Capitanerie di Porto, e ha sostanzialmente sostituito con le autorità portuali i consorzi e gli enti autonomi che gestivano tutti gli scali con una cospicua attività merci e passeggeri.

Autorità portuali
Oggi le autorità portuali sono ventiquattro, ciascuna ha un presidente, un comitato portuale (formato da armatori, imprenditori, spedizionieri, agenti marittimi e autotrasportatori, sindacati, Regione e Comune), un segretario generale e un collegio di revisori dei conti. Disegnano il piano regolatore e possono richiedere l’autorizzazione al dragaggio dei fondali, opera periodica fondamentale per accogliere le navi cargo transoceaniche che seguendo le economie di scala diventano ogni anno più grandi. L’autorità portuale è un organismo pubblico-economico con compiti di “indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali” (art. 6 legge 84/94). In sostanza non può fare affari (a differenza di alcuni porti nordeuropei che somigliano a una spa) ma solo regolamentare e coordinare i soggetti imprenditoriali portuali che li fanno, oltre a programmare e indirizzare gli investimenti infrastrutturali. La sua principale fonte di incasso sono i canoni delle concessioni demaniali degli spazi portuali, per lo più banchine e cantieri nautici.

In Italia le ventiquattro “authorities” danno lavoro a più di 1.200 persone, dipendenti sottoposti al regime di impiego di diritto privato. La forma giuridica di questo ente pubblico-economico è simile a quella del Corpo Forestale dello Stato: è di fatto un’emanazione del ministero dei Trasporti, che approva il bilancio, l’organico e nomina il presidente ogni quattro anni di concerto con l’ente regionale dove risiede il porto, scegliendolo da una terna di nomi presentata rispettivamente dal Comune, dalla Camera di Commercio e dalla Provincia interessati.

Con un impianto normativo di questo tipo i porti italiani potrebbero sembrare un organismo moderno, rapido, efficiente. Ma la maggior parte delle ventiquattro autorità portuali italiane registra pesanti conflitti di interesse all’interno del comitato portuale. Ogni anno si ripete uno scontro silenzioso tra ministero dei Trasporti e dell’Economia. Quest’ultimo a ogni nuova Finanziaria vuole far valere l’elenco ISTAT degli enti pubblici, in cui è inclusa (pagina 16) l’autorità portuale, affinché anche le authorities rientrino nei tagli alla spesa o nel blocco del personale. 

Il confronto finora è stato sempre vinto dal ministero dei Trasporti che è sempre riuscito a proteggere l’autorità portuale in nome del regime di impiego “privato” dei dipendenti (è una vecchia questione controversa e particolarmente noiosa, un approfondimento si trova qui). I piani regolatori sono approvati in tempi biblici, i dragaggi vengono richiesti ma non sempre approvati perché bisogna avere prima il VAS, poi il VIA, forse nessuno dei due, forse entrambi. Infine le autorità portuali tendono ad accumulare grossi crediti sui canoni demaniali. L’esempio più eclatante è quello di Napoli, dove la principale azienda che gestisce il terminal container deve all’authority diversi milioni di euro per anni di concessioni non pagate, e siede nel comitato portuale che tra le altre cose stabilisce proprio le regole da adottare sulle pratiche creditizie.

Burocrazia e commissariamenti
Nei porti italiani si radunano tutti i problemi della pubblica amministrazione, e con essi le vicissitudini di tanti politici sia in cerca di potere che in attesa di sistemazione migliore. Nonostante l’articolo 8 della legge 84/94 stabilisca che il presidente deve essere un esperto di “massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale”, un “tecnico”, capita spesso di vedere a capo di un porto deputati o senatori in cerca di parcheggio. L’esempio più recente c’è stato a Cagliari. Nel dicembre 2011 è stato nominato all’Autorità portuale il chirurgo e senatore Pdl Piergiorgio Massida. A settembre 2013 il Consiglio di Stato aveva dichiarato illegittima la sua nomina, essendo appunto un medico senza alcuna esperienza diretta nei trasporti. A novembre dello stesso anno il ministro dei Trasporti Lupi lo ha nominato commissario (di se stesso). Infine a gennaio scorso il Consiglio di Stato ha fatto decadere anche la sua carica di commissario straordinario.

Il fenomeno del commissariamento delle autorità portuali italiane è il sintomo principale dello stato in cui si trova questa macchina pubblica. Attualmente, su ventiquattro autorità portuali ben nove sono sotto regime commissariale, il 37,5% del totale. Dalla prima all’ultima commissariata, sono: Manfredonia (da quando è nata, otto anni fa, non ha mai avuto un presidente ma solo commissari), Catania (dicembre 2012), Napoli (marzo 2013), Piombino (luglio 2013), Olbia (settembre 2013), Cagliari (novembre 2013), Augusta (dicembre 2013), Gioia Tauro e Ancona (entrambe a maggio di quest’anno). Nella maggior parte dei casi i commissari nominati sono militari delle Capitanerie di porto o gli ex presidenti.

Perché così tanti commissariamenti nei porti italiani? Fondamentalmente perché il meccanismo di nomina dei presidenti è logoro. Non ci si decide (o non ci si vuole decidere) sulla terna dei nomi e così, alla scadenza dei termini, scatta il regime commissariale che, dando un discreto vantaggio gestionale al ministero da cui dipende, da temporaneo diventa a tempo indefinito (come per Napoli, ad oggi senza governance da 523 giorni) o addirittura indeterminato (come nel caso di Manfredonia). Altre volte sono gli stessi enti locali (Comune, Provincia, Camera di Commercio) a non decidersi a dare un nome ciascuno al ministero dei Trasporti, altre volte è la commissione Trasporti che se alla Camera vota sì al candidato proposto dal ministero, lo boccia al Senato. 

C’è un delicato “equilibrio partitico” da mantenere nelle poltrone delle presidenze delle autorità portuali, per cui a volte i tempi di negoziazione si allungano, fino a paralizzarsi. Ma può anche capitare che il presidente dell’Autorità portuale sia indagato, com’è successo a Napoli nel 2008 all’allora presidente Francesco Nerli sotto inchiesta per concussione. Attualmente l’Italia ha più di un terzo dei suoi porti commissariati, scali che non possono programmare, non possono investire, non possono crescere.

Buoni esempi
Non mancano però gli esempi virtuosi. C’è Genova, storico porto italiano dall’antica tradizione, con una buona organizzazione e una dirigenza relativamente coesa per gli standard italiani. Trieste con la sua zona franca, La Spezia con i suoi container, Venezia che fa miracoli con i passeggeri, anche se adesso le navi da crociera si sono fatte troppo grandi per il delicato canale di San Marco. Napoli con uno dei golfi più affollati al mondo in estate. E poi c’è la romantica avventura imprenditoriale del porto di Gioia Tauro, piana di aranceti fino al 1993, quando storia vuole che l’imprenditore genovese Angelo Ravano, tornando a casa con l’aereo, vide gli spazi dove realizzare il grande terminal container che è oggi, uno dei primi del Mediterraneo.

Il Partito Democratico ha proposto una riforma della legge 84/94 che mira principalmente a sfoltire questo folto popolo di porti. Curata e presentata ad aprile dal senatore Marco Filippi, accorpa e riduce le autorità portuali a 14, vorrebbe velocizzare l’approvazione dei piani regolatori e regolamentare i servizi tecnico-nautici (ormeggio, rimorchio e pilotaggio). Non è chiaro però in che modo intenda intervenire sui meccanismi di nomina dei presidenti e sui vincoli alle loro qualifiche professionali.

Riforma
Le scuole di pensiero per riformare i porti italiani possono riassumersi in due posizioni, entrambe valide ed entrambe con le loro controindicazioni. La prima è quella che intende mantenere l’attuale approccio “statale”, ed è ovviamente preferita dai politici. Si sceglie di riformare la “testa”, la governance ministeriale dei porti. Una strada potrebbe essere la riforma della pubblica amministrazione, una nuova regolamentazione sugli appalti, il ripristino di quello che una volta si chiamava ministero della Marina Mercantile. La seconda scuola di pensiero è quella privatistica, logicamente preferita dagli imprenditori portuali, che interviene direttamente sulla natura giuridica delle autorità portuali seguendo il modello di efficienza nordeuropeo.

Il segretario generale viene sostituito dall’amministratore delegato e il presidente politico da un presidente-manager. Questo modello è quello più utilizzato nel mondo, soprattutto nei paesi dove il trasporto delle merci via mare è una quota considerevole (Cina, Olanda, Germania, Belgio, Stati Uniti, Brasile, solo per citarne alcuni). Stabilisce una specie di organizzazione federale dei porti: godono di autonomia finanziaria, potendo trattenere parte del loro gettito fiscale, possono acquistare terminal o costruirne di nuovi (l’Autorità portuale di Rotterdam sta ultimando il terminal container più grande d’Europa, il Maasvlakte 2, esteso più di mille campi di calcio).

Le due scuole di pensiero hanno entrambe i loro vantaggi, ma entrambe sono complicate da attuare in tempi brevi in Italia. Il modello statale potrebbe soltanto peggiorare la situazione, per esempio moltiplicando le spese e la burocrazia (si pensi al ritorno del “ministero del mare”), a meno che non porti con sé una vera riforma della pubblica amministrazione. Il secondo modello, quello “federale”, potrebbe portare a enormi speculazioni. Al momento si è scelto la strada dell’immobilismo, e il commissariamento di un terzo dei porti in Italia ne è la prova evidente. Forse per la fine dell’anno potrebbe arrivare la riforma del PD, che riducendo il numero delle autorità portuali faciliterebbe perlomeno la loro gestione, riducendo significativamente anche il fenomeno dei commissariamenti.

2015/06/27

Quando l'Europa.... il destino della Grecia


Gad Lerner è l'autore dell'articolo pubblicato sotto.
Per cui quando trovate scritto "ripubblico" in effetti è lui che ha ripubblicato sul suo blog l'articolo, o il saggio, in questione. Vorrei doverosamente aggiungere un appunto. L'autore non mi è mai piaciuto, troppo aggressivo per certi aspetti, troppo di parte per altri, significa che secondo il mio pensiero siamo di fronte a un opinionista economico ondivago, dipendente dal vento, quello che tira dove lui vorrebbe.

In questo articolo tuttavia si esprime al riguardo della Grecia e della situazione ormai insostenibile che si è venuta a creare, arbitro del nostro stesso destino futuro perché tutte le volte che qualche nostro politico si affretta a allontanare dall'Italia i funesti pericoli di contagio ecco che essi puntualmente si verificano. Guardatevi dunque la spalle, i prossimi siamo noi.

Ripubblico un mio articolo uscito su “Repubblica” il 5 novembre 2011 perché mi pare che l’establishment finanziario e politico europeo stia reagendo col medesimo fastidio, quattro anni dopo, all’idea che i cittadini greci possano decidere democraticamente il loro futuro. La differenza è che oggi c’è Tsipras al posto di Papandreou, e quindi il referendum convocato non verrà soppresso.

Fino a che punto le regole vigenti nell’economia mondiale sono tuttora compatibili con l’esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall’Ue.

Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un “lancio di dadi”. Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile “perdita di tempo”. Quanto alle reazioni dell’establishment di casa nostra, basti per tutti l’aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul “Corriere della Sera”, liquida il referendum indetto da Papandreou: “Scellerato”.

Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.

Per giustificare un tale ricorso allo stato d’eccezione che contemplerebbe la sospensione dell’esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all’opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all’aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un’arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.

Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l’Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell’Unione europea, o sobbarcarsi l’incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. E’ vero che se un’analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l’eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C’è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?

Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un’élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che “il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse”, e quindi “ogni altro interprete è peggiore”, allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l’attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l’acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l’autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli “euroburocrati”, salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.

Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un’economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull’ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell’inutile tentativo di boicottare i referendum sull’acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei “beni comuni”. Tutti scellerati?

Gad Lerner su Repubblica, Novembre 2011 e Gad Lerner Blog Giugno 2015.

L'articolo e' stato pubblicato sul sito internet di Gad Lerner. Per leggere l'originale cliccate sul nome.

Discorso di Piero Calamandrei sulla Scuola, 1950


Alla fine quello che Piero Calamandrei temeva si è verificato, si sta verificando. Precipitiamo in quel baratro in cui la nomenclatura di partito svuoterà di contenuti la nostra scuola per dare una formazione partito orientata ai nostri figli.
La colpa di tutto questo non è solo di Renzi e del Partito Democratico ma vostra, si cari cittadini, siete voi i colpevoli di questo sfascio, vi siete venduti l'anima al diavolo PD per 80 miseri euro che loro si sono ampiamente ripresi tagliando il tagliabile -in tema di privilegi ma anche di diritti- e tassandovi a dismisura. Adesso che c'è da fare?
Pedalare signori miei, oppure è arrivato nuovamente il tempo di liberare l'Italia dal gioco dei partiti, dal gioco della politica, dalle multinazionali, dall'Europa e da quell'Euro che ci sta massacrando tutti.
Il momento di dire basta è arrivato, rivoluzione e ghigliottina per tutti.




Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950

Cari colleghi,

Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualche cosa di più alto. Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l’art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà.

La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue.

La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società.

A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione.

Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni.

Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.

La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.

Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna di­scutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: (1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito.

Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla. E venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.

Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno .

Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito.

Poi, nella riforma, c’è la questione della parità. L’art. 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: “La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali”. Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo Stato, lo dice lo stesso art. 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo Stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo Stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo Stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità.

Però questa riforma mi dà l’impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c’era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c’è il cacciatore con il fucile spianato. È la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell’avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.

E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave. È il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. È il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.