L'immagine mostra ambedue i presidenti di Stati Uniti e Cina.
Perché ho inserito questa fotografia e non una del virus?
Semplicemente le ragioni sono da ricercarsi nel continuo rimbalzo di responsabilità o colpe che i paesi rappresentati dai due presidenti si rinfacciano l'un l'altro. Con questa analisi basata su dati reali e verificati, certo non definitivi ma siamo molto vicini alla verità, si chiude il cerchio delle polemiche e viene fissata un'origine naturale e non elaborata in qualche laboratorio.
Ovviamente il virus si è formato in un ambiente favorevole come lo sono i mercati come li si trova in molti paesi asiatici. Ho visto personalmente mercati in Vietnam dove animali vivi in attesa di macellazione vengono sistemati in ambienti scarsamente igienici. La possibilità che si sviluppi una forma virologica in quelle condizioni è molto alta, questa volta è toccato alla Cina, la prossima chissà...
Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio
Origine (non a Wuhan), tempi (ben prima di gennaio), genetica: le nuove acquisizioni scientifiche contro le teorie del complotto offrono l’occasione per riassumere quanto sappiamo su SARS-CoV-2
I tanti Napalm 51 dell’infosfera — i veri protagonisti dell’infodemia in corso — hanno in questa fase ottimi sostegni: l’Amministrazione di quella che resta, chissà per quanto, la superpotenza egemone (leggi le dichiarazioni del 15 aprile del Segretario di Stato Mike Pompeo, con tanto di indagine dell’intelligence annunciata); altri governi occidentali, anche se con posizioni più sfumate (Macron); un Nobel della Medicina (Luc Montagnier), il cui totale (e ormai pluridecennale) discredito presso la comunità scientifica può venire letto da alcuni — a rovescio — come una forma di eresia illuminata; un certo numero di «addetti ai lavori», ben compendiati in un’inchiesta di Jeanna Bryner per Live Science.
L’occasione mancata dei complottisti
La tesi di fondo è nota: l’agente patogeno SARS-CoV-2 (alla base della sindrome Covid-19) potrebbe essere «scappato al controllo» del «laboratorio» di Wuhan (in realtà il locale Istituto di Virologia). Nella versione hard, il virus sarebbe stato deliberatamente «manipolato ad hoc» prima di venir liberato come arma biologica; in quella soft, tutto si limiterebbe alla «fuga» (di quale «versione» del virus nessuno precisa) per un deficit tecnico-procedurale incompatibile col livello di «massima sicurezza» (BL4) in cui è inscritto l’Istituto. Varianti patafisiche di queste ore (vedi il Figaro): la condizione socioeconomica disperata di certi ricercatori dell’Istituto, che avrebbero venduto «cavie infettate» ai wet markets (i mercati di animali selvatici, già volàno di altri patogeni come la Sars) per integrare le loro magre retribuzioni. Risultato, come ricorda il biologo/immunologo Eric Muraille dell’Fnrs di Bruxelles in un intervento per Sud Ouest, il 23% degli americani e il 17% dei francesi crede ciecamente a quella tesi (ma sono percentuali in crescita).
Nell’intento — didatticamente e «politicamente» nobile — di contro-argomentare e smantellare quella tesi, Muraille sembra fornire paradossalmente carburante ai complottisti; di più, dar loro la possibilità di spingere l’acceleratore fino in fondo. Oltre ad argomenti tecnici specifici, di ordine virologico e genetico/genomico (su cui si tornerà più avanti), riconosce infatti — con la trasparenza insita nel metodo scientifico — l’effettiva fallibilità di Istituti e laboratori; quindi, alimenta la legittimità di diffidenze e sospetti, specie verso gli oltre 30 laboratori BL4 oggi sparsi per il mondo. In generale, Muraille ricorda da un lato come la Convenzione dell’aprile 1972 (che vieta messa a punto, fabbricazione e stoccaggio di armi-batteriologico-biologiche) sia stata oggetto di diverse violazioni, su tutte quella sovietica, con la continuazione di programmi di ricerca in tema (il famoso Biopreparat) anche a Convenzione firmata; dall’altro come gli «incidenti» si siano susseguiti lungo la Guerra Fredda e oltre. Vedi, tra gli altri, i due legati all’antrace: quello di Sverdlovsk del ’79 (66 morti per il carbonchio provocato dalla fuga della «spora»); e quello del settembre 2001, in un primo momento attribuito a Al Qaeda e invece opera del microbiologo Bruce Irvins del BL4 dell’Us Army (5 morti e 17 intossicati). In particolare, rievoca invece una sequenza misconosciuta o rimossa: l’unico precedente di «incidente» in tema di coronavirus, proprio in terra cinese, quando — alla fine della recidiva di Sars, il 22 aprile 2004 — due studenti dell’Istituto Nazionale di Virologia di Pechino (Nivl), originari dell’Anhui, contraggono la malattia, contagiando congiunti e colleghi (un’infermiera), per un totale di 9 casi (e un morto). Il 23 — come documenta il rapporto dettagliato del Cnc di Atlanta — l’Istituto viene chiuso e tutto rientra, poco prima dell’archiviazione cinese della Sars (18 maggio). Ma l’episodio — rafforzato dagli antefatti storici appena evocati — sembra tagliato su misura per fare da «precedente» dell’«incidente» di Wuhan. Strano non sia stato ancora utilizzato: forse altri elementi della trama si presentano più conturbanti e quindi più funzionali.
Batwoman
È tornata prepotentemente in primo piano, in questi giorni — col riaffiorare della teoria complottista — la figura di Shi Zhengli, la 55 enne virologa specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e, soprattutto, responsabile del Centro malattie infettive dello stesso Istituto di Wuhan. Come un Giano sottoposto a due visioni deformanti, Shi è idealizzata per un verso come una vittima inerte del Partito e della Dittatura: decifrato il genoma di SARS-CoV- 2 in tre giorni, avrebbe visto i suoi risultati occultati e le sarebbe stata «messa la museruola», fino a una specie di silenziamento punitivo. Per un altro — proprio in ottica complottista — è vista come l’artefice luciferina dell’«incidente», o almeno come la responsabile della «fuga» del patogeno e della sua penetrazione prima a Wuhan e poi nel mondo. Qualche tratto di verità — come vedremo — traspare forse dalla prima delle due visioni deformanti; ma per avere un’idea credibile della sua persona e della sua parabola (umana e scientifica) bisogna ricorrere a contributi come quello esemplare di Jane Qiu su Scientific American (Le Scienze di marzo), magari integrandolo con qualche altra fonte.
Come arriva, Shi, alla sera del 30 dicembre 2019? Alla sera, cioè, in cui viene raggiunta da una chiamata del suo «capo» (la direttrice generale Wang Yanyi) che le ordina di lasciare subito Shanghai — dove sta partecipando a una conferenza — e di precipitarsi a Wuhan per esaminare i primi campioni di malati di Covid-19? Tutto comincia proprio durante la recidiva di Sars, nella primavera del 2004, quando — nell’ottica di approfondire l’epidemia più o meno scampata e di prevenirne di successive — una Shi 40enne raggiunge coi colleghi Nanning, popolosa città del Guangxi, regione che insieme alla confinante Yunnan e al celeberrimo Guangdong (capitale Guangzhou-Canton), costituisce quell’ampia area della Cina del sud-est in cui si concentrano vaste popolazioni di pipistrelli portatori di coronavirus. Quella prima spedizione lungo grotte «profonde e strette, su terreni ripidi» (rivestite di «colonne di calcare e stalattiti bianco-latte», ma spesso «fetide» all’olfatto) non sarà trionfale: appena una dozzina di chirotteri catturati in 30 cavità, col metodo delle reti disposte agli imbocchi delle caverne per bloccare la loro uscita notturna. Né andranno meglio quelle successive, se dopo otto mesi Shi e i colleghi non hanno ancora riscontrato presenza di coronavirus nei chirotteri. Interverrà, per fortuna, la serendipity, il «volto buono» del caso: utilizzando sui pipistrelli dei kit diagnostici impiegati di solito per testare gli anticorpi prodotti da pazienti umani, il gruppo di ricerca ne trova tre (tra i mitici «ferro di cavallo») con anticorpi specifici per la SARS, deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a qualche anno».
Da quel momento, per Shi e la sua equipe sarà un accumularsi di successi e acquisizioni, il tutto operando specialmente nello Shitou, sito dello Yunnan (in cui le grotte sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le arance, le noci e il biancospino) selezionato dopo aver rastrellato decine di province cinesi. Giusto per fissare qualche tappa-chiave: nel 2012- indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea montuosa di Mojiang (sempre Yunnan) scoprono che 6 minatori colpiti da polmonite atipica (2 moriranno) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul guano dei chirotteri locali (modalità di contatto da aggiungersi come variabile a quella dei wet markets); l’anno dopo trovano una sequenza genomica coincidente al 97% tra pipistrelli e zibetti, togliendo ogni dubbio sul nesso tra ospiti «serbatoio» e «intermedi» nella SARS; a ottobre 2015 scovano tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi simili a quelli della SARS nei pipistrelli stessi (a riprova di possibili «convivenze» asintomatiche); a fine 2016 intuiscono la presenza di un nuovo morbo legato alla dissenteria acuta (SADS) che stermina 25.000 maiali della zona, evento particolarmente preoccupante perché l’università di Zhejiang (sud-est, sotto Shanghai) ne vede la trasmissibilità verso roditori, polli, primati e umani; e nel 2019 (con studi-break su Viruses e Nature Review Microbiology) pubblicano degli «avvertimenti» su possibili coronavirus pandemici.
Torniamo così alla sera del 30 dicembre, quando Shi rientra al laboratorio chiamata dal suo superiore. D’impatto, proprio alla luce della sua lunga esperienza, si chiede se l’autorità sanitaria municipale «si stia sbagliando». Conoscendo cioè come nessuno le regioni potenziali di un innesco zoonotico, è incredula e disorientata («Non avevo mai pensato che una cosa del genere potesse succedere a Wuhan, nella Cina centrale»), costringendosi alla domanda cruciale: «Se i colpevoli erano i coronavirus, potevano essere arrivati dal nostro laboratorio?».
Da vera scienziata, sa che è altamente improbabile, ma non impossibile: e si infila così nella «settimana peggiore» della sua vita. Sedici anni di conoscenze convergono nelle verifiche a tappeto, in quattro tappe: genomi dei pazienti sottoposti alla reazione a catena della polimerasi (che riesce a rilevare un virus amplificando il suo materiale genetico); sequenziamento completo del genoma stesso; test degli anticorpi nei campioni di sangue; test sulla capacità del virus di contagiare gli umani in una capsula di Petri. In attesa degli esiti (in lunghe notti «senza chiudere occhio»), Shi riesamina anche, febbrilmente, tutta la documentazione sulla gestione dei «materiali sperimentali» per individuare eventuali errori o imperizie, specie nella fase di smaltimento.
Il 7 gennaio 2020, la sentenza liberatoria: nessuna delle sequenze genomiche analizzate corrisponde a quelle campionate dal suo team. Eppure, da quel momento, i suoi rapporti con le istituzioni si opacizzano (eufemismo) e la sua immagine si demonizza. Il 14 manda una mail ai collaboratori in cui comunica di aver accertato la trasmissione umana del virus (ma lo stesso giorno l’Oms la nega); e il 3 febbraio pubblica su Nature uno studio (in parte anticipato da un «report» del 23 gennaio) in cui analizza il coronavirus di pipistrello ferro di cavallo (il già mitico RaTG13) coincidente al 96% con quello umano che diverrà SARS-CoV-2, ma — o forse proprio per questo — diventa la «madre del diavolo». A poco serviranno le sue reazioni, tra rabbia e incredulità: «Giuro sulla mia vita che il virus non ha nulla a che vedere col laboratorio».
Anziché concentrarsi sulle omissioni e i ritardi del Governo (su tutti: la «bomba biologica» del Capodanno lunare di Wuhan), una parte dei media e dell’opinione pubblica interna e internazionale elegge Shi e il suo laboratorio a innesco occulto della pandemia. Ancora in questi giorni, c’è chi invoca una sua «confessione». Così come a poco serviranno, a scagionarla, l’enorme credito di cui gode, riassunto in testimonianze come quella di James Le Duc, Direttore del Galveston National Laboratory, centro di biocontenimento ad alta sicurezza in Texas («È una superba scienziata e una persona squisita») e soprattutto, la prova che ha fornito e sta fornendo in questa pandemia. La condanna per lei e il suo laboratorio sembra senza appello. A meno che…
Dal pipistrello al pangolino, e ritorno
Secondo uno degli adagi ricorrenti, le «prove della scienza» sulla (o meglio contro la) tesi-ipotesi del coinvolgimento del laboratorio di Wuhan, in versione hard o soft (arma biologica o semplice «fuga») sarebbero scorporabili da eventuali «prove dell’intelligence», come se queste ultime avessero la possibilità di bypassare o addirittura confutare evidenze genetico-genomiche ed epidemiologiche. È forse il caso, allora, di ripercorrerle, quelle «prove» — o meglio acquisizioni — scientifiche, in un riassunto cronologico-tematico.
Il break — dopo il contributo di Shi — è l’ormai celebre studio su Nature Medicine del 17 marzo (ne ha riferito prontamente e in modo esemplare su questo giornale Edoardo Boncinelli) in cui si identifica il pangolino come possibile ospite «intermedio» tra l’ospite serbatoio o reservoir (il pipistrello) e l’uomo, dove per pipistrello si intende il citato «ferro di cavallo» dello Yunnan. Il pangolino della Malesia (Paese nella cui lingua si esprime l’etimo del suo nome, «colui che si appallottola») è infatti non solo uno dei cardini della medicina popolare cinese (per via delle sue scaglie taumaturgiche), ma anche uno dei piatti prediletti nella cucina glamour del sud-est.
Starebbe quindi a SARS-CoV-2 come lo zibetto (o civetta delle palme) alla prima Sars: e questo nonostante il suo commercio sia ufficialmente (ma blandamente) vietato dal 2016. Con una differenza: il genoma dello zibetto corrisponde a quello umano (SARS-CoV) al 99,8%; mentre la corrispondenza tra il coronavirus «respiratorio» del pangolino e quello umano non è tout court al 99%, ma al 90,3%; il 99 riguarda una sezione, peraltro decisiva, quella del receptor-binding domain o Rbd (dominio di legame al recettore) cioè quella in cui le punte (o spyke) del virus agganciano la cellula umana (nel dettaglio, il recettore angiotestin converting enzyme o Ace2) per entrarvi e utilizzarla per riprodursi. È questo il passaggio-chiave. Secondo gli studiosi di Nature quell’«affinamento» specifico della configurazione molecolare del virus dipenderebbe da una pressione selettiva (nel senso di selezione naturale per mutazioni random) esercitata nell’ospite intermedio o direttamente nell’uomo, a spillover avvenuto (lo si capirà in seguito); ed escluderebbe in modo categorico («irrefutably») un intervento di manipolazione in laboratorio.
Lo stesso Muraille, del resto, nella sua requisitoria citata in apertura, riassume e chiosa bene il tutto. Ricorda brutalmente — quanto alla manipolazione — come il genoma di SARS-CoV-2 non contenga «sequenze residuali» relative ai «sistemi vettoriali» usati nella prassi per il trattamento dei virus; mentre insiste — quanto alla semplice «fuga» — sul fatto che la versione del virus «scappata al controllo» avrebbe dovuto essere adattata all’uomo secondo la configurazione appena descritta, resa cioè «compatibile» con l’assetto dei recettori della cellula umana.
Ma siamo solo all’inizio. Uno dei co-autori più autorevoli dello studio di Nature (e di interventi subito successivi su Cell e Lancet) è il virologo evoluzionista inglese Edward C. «Eddie» Holmes, vecchia conoscenza dei lettori di Spillover di Quammen (che lo intervista ai tempi della Pennsylvania University) e ora accasato a Sydney, Charles Perkins Centre. Pochi padroneggiano come lui la materia dei virus a Rna e in particolare dei coronavirus, tanto che il suo testo-principe (The Evolution and Emergence of RNA Viruses, Oxford, 2008) rimane una delle pietre angolari sul tema. In tre interventi severi e misurati sul sito accademico (27 marzo, 9 e 16 aprile), Holmes affronta molti aspetti della pandemia in corso, partendo dal rimpianto drammatico per le lezioni inascoltate al tempo della SARS, fattore decisivo nell’attuale «buco nell’acqua». Richiama, quindi, la necessità di provvedere adesso a quegli aspetti a cui si sarebbe dovuto provvedere allora: su tutto, le azioni tempestive e consistenti sui wet markets e la ricerca — in prospettiva di altri shock pandemici — non solo di un vaccino, ma anche di «un antivirale universale», che pure al momento sembrerebbe poco meno di un Graal. In più, prende posizione sulla questione della manipolazione-fuga dell’agente patogeno. Invitando a «mettere tranquillamente a dormire la teoria del complotto» (e riconducendone la «comprensibile» esplosione all’abnormità dell’evento, del suo carattere eccezionalmente inusuale), Holmes torna ai tratti biologico-evoluzionistici, focalizzando un punto-chiave: il virus del pipistrello scoperto da Shi Zhengli (RaTG13) e SARS-CoV-2 mostrano un livello di «divergenza genomica» consistente in una distanza temporale media di 50 anni — e un minimo di 20 — di cambiamento evolutivo (selettivo). Un «effetto» di ricombinazione molto difficile da ottenere in laboratorio. E aggiunge due elementi: il pangolino resta l’«ospite intermedio» più probabile, ma non sono esclusi, nello stesso ruolo, altri animali; e Wuhan è probabilmente solo un crocevia in un’emersione epidemica «molto più complessa». In effetti, su questo secondo punto stanno emergendo molte novità, riportandoci verso quel sud-est che è non solo l’habitat cinese dei pangolini, ma — come ormai tutti sanno — dei pipistrelli.
Wuhan o la penultima verità
Ha indotto giustamente meraviglia, a partire dal giorno della pubblicazione, il 7 aprile, uno studio pubblicato su PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences di Washington), in cui alcuni autorevoli scienziati — su tutti il genetista di Cambridge Peter Forster e l’eminente archeologo Colin Renfrew, col contributo decisivo dell’Istituto di Genetica Forense di Münster — provvedono a un’analisi comparata del complesso network filogenetico di SARS-CoV-2. In estrema sintesi: ricostruiscono, grazie a un algoritmo matematico, il percorso evoluzionistico del genoma «ancestrale» del virus nell’ospite umano, seguendone spostamenti e mutazioni, almeno nei suoi primi spostamenti. Il metodo è consolidato, in quanto già usato in 10.000 studi filogenetici: per esempio, nei primi anni ’90, il network filogenetico di cromosoma Y (presente solo nei maschi) e DNA mitocondriale (ereditato solo dalle femmine) è utile per risalire al movimento delle popolazioni preistoriche in varie zone del pianeta. Ma è la prima volta che viene usato in ambito virologico-epidemiologico: con l’effetto primario, oltretutto — come mostra una spettacolare traduzione infografica della «filodinamica» sulla prima pagina di Le Monde — di ricordarci la matrice «darwiniana» della pandemia, il suo somigliare a «un’invasione barbarica» di miliardi e miliardi di microorganismi (o meglio zombie molecolari) penetrati nelle nostre società più o meno ordinate per seminarvi il caos.
Non tutto, in questo «adattamento» virologico-epidemiologico del metodo, è a fuoco: come ricorda Forster, le mutazioni sono troppo rapide per non «ingarbugliare» l’albero: tant’è che lo studio — fondato su 160 genomi umani campionati tra il 24 dicembre e il 4 marzo — è appunto «un’istantanea» delle prime fasi epidemiche, «una supernova prima dell’esplosione». Gli esiti sono comunque carichi di implicazioni. Il gruppo di Forster ha trovato in sostanza tre varianti di SARS-CoV-2: una variante A (ancestrale, la più prossima al genoma del pipistrello) diffusa in Cina e in certe aree dell’America e dell’Australia; una derivata B, diffusa soprattutto in Asia orientale (compresa Wuhan); e una C, diffusa soprattutto in Europa ma anche in altre aree asiatiche.
Le indicazioni dei flussi sono risolutive su diversi aspetti: per esempio, nella risalita ai «pazienti zero» a livello nazionale (Italia, Messico, Brasile e così via); ma soprattutto — in coerenza con l’obiettivo primario della ricerca — gettano nuova luce sull’«innesco» epidemico, in particolare collegando la variante A a «quattro individui» del Guangdong (la regione di Guangzhou-Canton da cui è partita la prima SARS); dato tanto più interessante se accostato a quello di un uomo dell’Ontario che si ritrova contagiato il 27 gennaio dopo un viaggio in Cina, e le branche del cui genoma virale rispondono alla variante A di Foshan e Shenzhen (sempre nel Guangdong). Il «fantasma» allusivo di questi flussi viene esplicitato da Forster in un’intervista del 17 aprile a Stephen Chen del South China Morning Post, in cui lo studioso riassume la ricerca pubblicata su PNAS traendone, pur con tutte le cautele («Se fossi pressato a una risposta») due considerazioni-spartiacque: la retrodatazione dell’outbreak a un range cronologico esteso tra il 13 settembre e il 7 dicembre e la probabile collocazione dello stesso proprio nelle regioni della Cina meridionale, quelle per tanti anni perlustrate da Shi Zhengli, e da cui anche lei si aspettava (più che a Wuhan, semmai area di primo focolaio e di espansione) l’emersione di uno spillover.
Per confermare e affinare quest’ipotesi — aggiunge Forster — sarebbero necessari studi su altri genomi di pipistrelli o di possibili ospiti intermedi alternativi, oltre ai campioni di tessuti di pazienti affetti da Covid-19 tra settembre e dicembre, eventualmente conservati negli ospedali cinesi. Integrazione non trascurabile dello studio di PNAS è un contributo di questi giorni (ne riferisce sempre Chen sullo stesso giornale) del gruppo dell’epidemiologa Li Lanjuan dell’Università del Zhejiang, in cui l’analisi random dei ceppi virali di 11 pazienti di Hangzhou (capoluogo della regione) ha evidenziato una trentina di mutazioni.
Gli elementi interessanti sono due:
a) il notevole differenziale tra i ceppi a livello di carica virale (semplificando: di quantità di virus espressa) e quindi di citogenicità (capacità di danneggiamento cellulare), fino a 270 volte maggiore nei più aggressivi rispetto ai più deboli;
b) tornando alla filodinamica di PNAS, il fatto che una delle mutazioni alla base dei ceppi più aggressivi si ritrovi prima in molti Paesi europei e poi nell’area di New York (scenario confermato da uno studio indipendente) rispetto ai ceppi «medi» (meno letali) dello Stato di Washington e di altre aree americane.
Pur ricordando come tratti simili debbano poi interagire col quadro bio-immunologico e clinico del soggetto contagiato (così che ceppi deboli possono a volte risultare ugualmente letali), emergono discrimini finora impensati, da tenere presenti nel (ri)valutare la gestione politico-epidemiologica di tanti Paesi.
La teiera celeste
A conclusione di questo lungo percorso, dovrebbero essere chiare le ragioni che rendono «fantasiosa» (Holmes) l’ipotesi del virus da laboratorio (sia hard che soft): biologico-evoluzionistiche, genetico-genomiche, epidemiologiche. Se inoltre, nell’ottica introdotta nello studio di PNAS, Wuhan (e il suo mercato del pesce) risultassero il «penultimo» gradino nella risalita geo-cronologica al vero «outbreak» epidemico (pur restando il primo focolaio e la prima area di irradiazione), scemerebbero anche ragioni logiche e persino logistiche. Eppure, per un complottista doc (per un vero Napalm 51) tutto questo rischia di risultare insufficiente, se non irrilevante. Una letteratura sterminata — tra psicologia e psichiatria, specie in ottica evoluzionistica — ha ormai messo a fuoco ogni tratto delle «teorie cospirative», dal compiacimento soggettivo venato di irrisione sprezzante («io non ci casco») alla funzione aggregativo-identitaria (gruppi di eletti che irridono le «verità ufficiali» in una delle tante declinazioni del «noi contro di loro»). Alla base, il complottismo non è altro che la «degenerazione» di un impulso adattativo ancestrale: quello di scremare ordine dal caos, regolarità dall’irregolarità, senso dal nonsenso. Anche noi, come i nostri antenati del Neolitico, mescoliamo cioè effettive relazioni di causa-effetto nella lettura di fenomeni e processi con false correlazioni e ipotesi meta o patafisiche.
Con una differenza non da poco: per i nostri antenati, il ricorso a quel mix era l’unico modo per vincere l’ansia e l’angoscia di un ambiente carico di incognite; per noi, diventa spesso il fondamento di un pregiudizio antiscientifico socialmente ed economicamente devastante, esteso dalle posizioni anti-ogm a quelle No vax. Posizioni, a proposito di No vax, cui è ormai associato anche Luc Montagnier, citato in apertura come alfiere del neo-complottismo su Wuhan (con una bizzarra teoria fanta-genomica che vedrebbe mescolate nell’RNA di SARS-CoV-2 sequenze di Dna di HIV); anche se — come dimostra Gilberto Corbellini nello spietato «necrologio in vita» che gli dedica sul Dubbio del 20 aprile — tutta la parabola dello scienziato francese è un equivoco mediatico, a cominciare da un Nobel abusivo che sarebbe dovuto andare solo alla co-vincitrice, la sua dotatissima allieva Francoise Barré-Sinoussi. Come unica (e molto parziale) attenuante per certi atteggiamenti complottisti, va ricordato l’impiego a volte «censorio» con cui gli anti-complottisti compulsivi (sì, c’è anche quella categoria) chiudono ogni discussione a proposito di fatti specifici o passaggi storici delicati (vedi Piazza Fontana o il delitto-Moro), trattando allo stesso modo la teoria cospirativa e l’esercizio critico. Ma sono sfumature fuori all’orizzonte cognitivo di un complottista doc.
Così come rischia di essere fuori dal suo orizzonte cognitivo la metafora provocatoria della «teiera celeste» di Bertrand Russell, evocata da Muraille. Secondo quella metafora, a un interlocutore che sostenesse l’esistenza di una teiera di porcellana orbitante intorno al Sole — tra la Terra e Marte — si dovrebbe rispondere che spetta a lui «l’onere della prova», non a chi dovrebbe smentirla; e questo dovrebbe valere per tutte le teorie «non falsificabili», cioè non scientifiche. Il punto è che tutti dovremmo concentrarci — vertici governativi in primis — sulle vere questioni inevase in Cina dai tempi della SARS, peraltro molto più difficili da affrontare dell’eventuale chiusura di un Istituto di virologia: la questione dei wet markets, quasi insormontabile sia per le resistenze antropologico-culturali che per l’incidenza che avrebbe la loro chiusura sull’economia cinese, con un danno tale (75 miliardi di dollari e 14 milioni di disoccupati) da spingere alla clandestinità; e quella della mancanza di trasparenza politico-mediatica sulle origini (luoghi, modi, tempi) e sulla gestione della pandemia, già evidente ai tempi della SARS e recidiva con COVID-19, strutturale in un Paese che si ostina a non comprendere le ricadute globali di eventi «locali». Sul secondo aspetto, le pressioni internazionali — a partire dagli Usa — cominciano a essere marcate. È in quella direzione che bisognerebbe insistere, anziché inseguire teorie della consistenza di teiere volanti.
STUDI E ARTICOLI
L’articolo-spartiacque di Shi Zhengli e colleghi sul virus del pipistrello associato a SARS-CoV-2 (RaTG13) è uscito su Nature il 3 febbraio 2020; quello sul pangolino come possibile «ospite intermedio» (di Kristian C. Andersen e colleghi) su Nature Medicine il 17 marzo (con un commento di Edoardo Boncinelli sul Corriere il 20 marzo).
Il ritratto di Shi Zhengli scritto da Jean Qiu è uscito su Scientific American l’11 marzo (la traduzione italiana di Lorenzo Lilli su Le Scienze il 16 marzo).
La ricerca di Peter Forster e colleghi sulla «dinamica filogenetica» di SARS-CoV-2 è stata pubblicata da PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences) il 7 aprile; l’intervista di Stephen Chen a Forster (South China Morning Post) il 17 aprile; l’articolo di Chen sulla ricerca dell’Università del Zhejiang (con intervista all’epidemiologa Li Lanjuan), il 20 aprile.
L’articolo di Eric Muraille, biologo-immunologo dell’FNRS di Bruxelles, è uscito su Sud Ouest il 17 aprile.