<bgsound loop='infinite' src='https://soundcloud.com/sergio-balacco/misty'></bgsound>

pagine

2012/08/20

Emergenze


Immagina: vivi in Lombardia e vedi alla TV un servizio dal vivo, in diretta, di un catastrofico incendio in Toscana. Tua moglie e tuo figlio si trovano lì, trascorrono le vacanze in un agriturismo perso nelle campagne del grossetano (la cronaca di questi giorni aiuta la fantasia)!
Provi a telefonare, ma le linee sono intasate, le chiamate non arrivano a destinazione. Cosa si può fare?
Contatti la Croce Rossa Italiana, provi a visitare il sito web per cercare un numero di telefono, un’informazione, quell’informazione che ti tranquillizzi. Trovi il numero, chiami, al telefono risponde una voce assonnata, si fa ripetere più volte la storia, sei nervoso, ansioso, non ottieni risposte da ore e quell’astioso funzionario sta solo facendoti perdere del tempo. Per la terza volta ti richiede di fornire informazioni specifiche come il nome della vittima e l'indirizzo o numero di telefono. Vittima? Quale vittima? Ancora non sai se sono stati coinvolti nel colossale incendio, e questo idiota ti parla di vittime? Sbatti la cornetta con violenza e chiami i Carabinieri, la Guardia di Finanza (che non conosce la situazione), la Guardia Forestale “si sappiamo qualcosa ma è nel grossetano, noi siamo in Sardegna... riprovi con la Toscana” Come fai a chiamare la Toscana se il numero è unico per tutta Italia? Alla fine realizzi che forse i Vigili del Fuoco ne sanno di più... Chiami e nemmeno loro ma, la voce dall’altro capo del filo è un padre come te, capisce la tua angoscia, la paura. “Aspetti” ti dice “faccio una prova, vediamo...”
E dall’altra parte ti rispondono i Vigili del Fuoco di Grosseto, professionali e sereni pur nel caos che un incendio di quelle dimensioni può generare. “Stia tranquillo, non ci sono vittime e i nomi che mi ha dato non risultano” ti senti scoppiare, vorresti abbracciarlo, senti il cuore che va a mille “Mi dia il suo numero di telefono, non si potrebbe ma a volte facciamo un eccezione...” A volte i miracoli avvengono, e quando senti tuo figlio al telefono “Papà’” la tensione lascia spazio alla commozione e piangi a dirotto, sono salvi, sono salvi!

E se sei tu la possibile vittima e devi lasciare la tua casa? Come puoi far sapere a tutti di star bene? Sei uscito di fretta, non ha potuto chiamare, informare nessuno, le linee telefoniche erano intasate. Fuori gente spaventata come te. Sali con altri sui pulmann che ti portano lontano da casa tua, nella concitazione perdi il telefono, non sai dove ti trovi, perdi la cognizione del tempo e nessuno ti aiuta...
Quando pensi di impazzire e arguisci che questa volta l’infarto ti prende ecco una voce “Signore la posso aiutare?” Ti volti, c’è un giovane, distinto serio, tranquillo, ti porge un  cellulare e tutto assume contorni nitidi e decisi.
Vorresti abbracciarlo, ti sorride, sembra un angelo. “Sto bene, sono vivo, sono in salvo...”

Questo in Italia, pensate se fosse successo di là dell’oceano.

Siete nel vostro appartamento al ciquantesimo piano di un grattacielo a New York, moglie e figlio sono in vacanza nel Vermont, alla TV parlano di un grandioso incendio, proprio lì, adesso. Panico, che faccio?
Niente panico, andate sul sito web della Croce Rossa americana, e iscrivete nella lista delle possibili vittime il nome dei vostri cari, a stretto giro di posta verrebbe da dire, in Italia siamo ancora legati alla posta come gli americani al pony express solo che per loro è un vecchio e caro ricordo, per noi una dolorosa attualità, un pop-up ti dice che nella lista delle vittime non ci sono i loro nomi.  

Un link vi spiega come ottenere assistenza, un altro vi invita a lasciare il messaggio "contattare i familiari". Fornire le stesse informazioni specifiche che il poco solerte funzionario italiano cercava di conoscere con modi irritanti, vi sembrerà quasi normale, siete orgogliosi di lasciare i loro nomi, l'indirizzo, il numero di telefono. Loro si sono registrati, lo sai, le regole son fatte per essere rispettate, riceverai presto un loro messaggio e nel frattempo loro riceveranno il tuo.
In minuti, non ore o giorni, minuti!

Non aspetterai ore di angoscia ma minuti di serenità, la chiamata arriva presto, “Siamo in salvo, ci vediamo a casa, che paura papà....”

Questo è come dovrebbe funzionare. La Croce Rossa dovrebbe aiutare le famiglie sfollate a comunicare dalla zona del disastro con i propri cari al di fuori dell'area. Le vittime sono obbligate a registrarsi, si registrano selezionando e pubblicando messaggi standard per la famiglia e gli amici che indicano che sono al sicuro e in un rifugio, albergo, o un altra casa, e si metteranno presto in contatto, non appena possibile.

Questa si chiama organizzazione, da noi assume un nome diverso, angosciante, che spaventa, da noi si chiama “Arte del sapersi arrangiare”. Meno male che ogni tanto incontriamo un angelo e le tensioni si allentano. Possiamo vivere così noi?

Tutti dalla Croce Rossa Italiana ai Vigili del Fuoco, dai Carabinieri alla Polizia passando per la Guardia Forestale, la Guardia di Finanza e le Guardie Carcerarie (mettiamoci anche loro) dovrebbero sapere quanto sia importante il contatto famiglia durante un'emergenza, sia per le vittime che per i loro cari. Purtroppo in Italia La Croce Rossa non serve più per queste emergenze, ha assunto più un ruolo rappresentativo, istituzionale, di circostanza lasciando il compito del soccorso ad altre forze che nulla possono nei confronti del cittadino inerme in confronto con quelle della natura. Dovrebbero saperlo, conoscere queste emergenze e fronteggiarle con professionalità e invece....

Questa è l’Italia!

2012/08/16

Tempo di amare



Non so voi, io spesso sento che non potrò restituire tutto quanto ho ricevuto.
Quando mi guardo intorno e vedo le persone che mi vogliono bene, le esperienze che ho avuto, le cose che ho, sento che il mio cuore è pieno. Credo sia una sensazione comune, vi potete sentire allo stesso modo. Quando guardo tutto quello che succede nel mondo: la povertà, la miseria, le guerre, la fame e tutto ciò che da essa scaturisce, mi sento che non potrò mai fare abbastanza per respingere quello tsunami di bisogni. Mi sento indifeso di fronte a tutto questo.

La risposta a entrambi i problemi è la stessa. Amare, dare amore e riceverne proprio ora, in questo momento. Amore immateriale nelle piccole cose di tutti i giorni, un gesto gentile sul tram, al parcheggio, amore per gli animali, quando cediamo il posto ad un anziano sull’autobus o aiutiamo ad attraversare la strada qualcuno che da solo non può farcela. Questo è sufficiente, quello che io posso dare in amore arriva ad ogni capo del mondo, il mio amore viene condiviso, ognuno condividerà l’amore che ha ricevuto con altri che a loro volta lo scambieranno con altre persone e tutto il mondo vivrà di questa grande condivisione di amore anche se io non potrò mai incontrarli. In tutti i casi, rispondendo ai bisogni più elementari della gente è già un gesto d’amore e fa la differenza. Non sono in grado di risolvere tutto da solo e per sempre, ma è tutto quello che posso fare io in questo momento.

E così si può! Davvero.

Bisogna rispondere in modo significativo ai bisogni più elementari del mondo. Noi, tu ed io possiamo davvero fare la differenza. Le risorse ci sono. Dobbiamo solo aprire le mani e dare quello che possiamo oggi. Puoi farlo anche tu. Non importa se pensi che non hai conoscenza, risorse, un mio piccolo gesto, il tuo piccolo gesto possono risolvere il problema più grande di questo mondo.

C'è abbastanza speranza, pace, cibo, acqua, amore per tutti.

E' tempo per rispondere.


2012/08/13

La tratta degli Schiavi.


Nel sedicesimo secolo, le grandi potenze europee iniziarono la colonizzazione delle Americhe. Gran parte dei vantaggi economici che le colonie americane potevano garantire erano legate alla creazione di piantagioni, principalmente canna da zucchero durante la penetrazione portoghese in Brasile, a questo si aggiunse la prospettiva di ricavare dalle colonie risorse minerarie. In entrambi i casi erano neccessarie grandi quantità di manodopera per il lavoro pesante. In una prima fase, gli europei tentarono di far lavorare come schiavi gli amerindi; questa soluzione tuttavia risultò insufficiente, soprattutto a causa dell'alta mortalità delle popolazioni native dovuta a malattie importate dai conquistatori europei, vaiolo e infezioni sessuali decimarono le popolazioni locali mentre la loro conformazione fisica non era adatta a quel genere di lavoro. Nello stesso periodo, gli europei entrarono in contatto con la pratica nordafricana di far schiavi i prigionieri di guerra. I re locali delle regioni nella zona dei moderni Senegal e Benin spesso barattavano gli schiavi con gli europei. Gli schiavi africani erano decisamente più adatti, dal punto di vista fisico, a sopportare il lavoro forzato, perciò i portoghesi e gli spagnoli prima se li procurarono per mandarli nelle colonie americane, dando inizio al più grande commercio di schiavi della storia, quello attraverso l'Oceano Atlantico. La tratta degli schiavi attraverso l'Atlantico assunse rapidamente proporzioni senza precedenti, dando origine nelle Americhe a vere e proprie economie basate sullo schiavismo, dai Caraibi fino agli Stati Uniti meridionali. Complessivamente, qualcosa come 12 milioni di schiavi attraversarono l'oceano.
In tempi moderni si riparla di tratta degli schiavi, pur con alcune differenze: il nome prima di tutto, oggi nessuno alluderebbe più ad una tratta, semmai viene vista come un'esigenza di muovere determinate fette di popolazione indigenti rispetto alle altre che compongono il tessuto sociale residenziale, verso aree geografiche o paesi che hanno maggiori possibilità di mantenerle. Non potendo muovere migliaia di individui la soluzione facilmente attuabile è quella di delocalizzare le lavorazioni affinchè siano eseguite da quegli individui che percepiranno quindi un reddito rapportato al territorio in cui essi vivono e producono ma decisamente inferiore rispetto al correspettivo dovuto agli individui che sono impiegati nella nazione di appartenenza del produttore. Questo procedimento porta a sostanziali risparmi sui costi della manodopera ma anche negli interventi ritenuti socialmente utili per mantenere una costante attenzione e la produzione a livelli accettabili. Quella che una volta veniva definita “tratta degli schiavi” oggi si chiama "Globalizzazione", un problema che vede interessato l’intero genere umano, è argomento di discussione nei talk-show, ma è anche e soprattutto un grande business propagandistico a tutti i livelli (Per la cronaca il primo ad avere utilizzato il termine “globalizzazione” in un contesto economico è stato Theodore Levitt nel 1983).

La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo fu un colpo di fortuna, diciamocelo francamente. Il navigatore era convinto che navigando verso ovest prima o poi avrebbe raggiunto le Indie perchè credeva fermamente nella teoria tolomeica del pianeta, una palla sospesa ferma nello spazio con il sole e tutte le stelle che girano intorno. E se il mondo era una palla navigando in senso inverso alle rotte comunemente utilizzate dai navigatori dell’epoca per raggiungere le Indie si dovevano ritrovare queste ultime. Cristoforo non ebbe mai la percezione di avere scoperto un nuovo continente. Anzi, nel suo immaginario cosmologico la possibilità che esistessero continenti ancora da scoprire appare assente, nonostante egli conoscesse bene i passi della Bibbia e le pagine degli antichi - a cominciare da Seneca - che sembrano aver adombrato quest’ipotesi, se non proprio questa consapevolezza. Colombo pretese fino all’ultimo istante della sua esistenza, di esser giunto, "buscando el Oriente para el Occidente" alle estreme propaggini dell’Asia, alle favolose Indie.

Ma, com’è noto, si sbagliava. La sua teoria non poteva prevedere che fra l’antico mondo e le Indie ci fosse un nuovo mondo. L’America. Nemmeno la famosa espressione “Nuovo Mondo” fu colombiana. Essa risale a un mercante fiorentino, Amerigo Vespucci, che aveva aiutato Colombo a organizzare la sua terza spedizione al di là dell’Oceano. Divenuto a sua volta navigatore, Vespucci scrisse di un "Mundus Novus" in una lettera inviata nel 1505 ai suoi vecchi principali ormai divenuti signori di Firenze, i Medici. Tempestivamente data alle stampe, la lettera del Vespucci, che si esprimeva ormai senza più dubbi sul fatto che le terre scoperte da Colombo appartenevano non all’Asia, ma ad un nuovo e fin ad allora sconosciuto continente, fece davvero epoca. 

Si può quindi affermare che già nel 1492 e più tardi nel 1505, come forma embrionale più volte rimessa in discussione, iniziò la globalizzazione moderna. Andando ancora più indietro nel tempo, a partire dall’anno zero del nostro calendario, con l’opera di evangelizzazione e cristianizzazione da parte di fedeli esaltati e propagandisti politici (ma anche religiosi) è iniziata la crudele storia del Villaggio Globale. Il cristianesimo è lo spirito santo del villaggio globale. Oggi si osserva globalizzazione nella sfera economica, sociale, culturale, politica, e religiosa. La globalizzazione economica riguarda la convergenza di metodi e modelli di produzione e di consumo e la conseguente omogeneizzazione di stili di vita e culture, riguarda la convergenza di prezzi, salari, tassi di interesse, ma anche standards, norme, tipologie di prodotti, verso gli standard stabiliti dai paesi sviluppati. La globalizzazione dell’economia dipende anche dalle migrazioni, dal commercio internazionale, dai movimenti di capitale e dalla integrazione dei mercati finanziari. Il fondo monetario internazionale nota la crescente interdipendenza dei vari paesi a livello mondiale attraverso il crescente volume e la varietà di transazioni tra paesi, i flussi internazionali liberi di capitali e la più rapida ed estesa diffusione della tecnologia. 

Tornando alla scoperta dell’America è presto detto quello che è successo: è bastato uno starnuto dei conquistadores perché le popolazioni locali morissero, e quelli che non morirono per colpa delle nostre malattie sono stati massacrati dalla Chiesa e dalla politica del colonialismo. L’Europa si è trovata così fra le mani un territorio immenso che non ha esitato a sfruttare; oggi, l’America dei grandi spazi non esiste quasi più, perché ogni dove è contaminato o da una multinazionale o da uno stabilimento chimico o atomico. L’America è diventata la sede principale delle multinazionali, comprese quelle giapponesi, che hanno acquistato ampie fette del suolo americano mettendoci dentro così le sedi principali delle loro multinazionali.


Perchè non essere (o essere) a favore della globalizzazione?


L'opinione pubblica è contraria a un aumento del grado di apertura del proprio paese al commercio internazionale. L'integrazione produce benefici netti a livello aggregato, ma genera effetti redistributivi.

Quindi se il protezionismo non è una scelta efficiente, al fine di evitare tensioni sociali la politica deve attuare forme e soluzioni di redistribuzione del reddito a livello nazionale. Gli economisti, si sa, difficilmente vanno d’accordo. Le differenze di opinione su molte questioni di interesse pubblico sono solitamente marcate e animano accesi dibattiti sui principali temi economici, dalla riforma delle pensioni alla gestione del debito pubblico. Su una questione, invece, sembrano essere tutti d’accordo: il commercio internazionale. Da un punto di vista tecnico, infatti, vi è in generale consenso sull'obiettivo di ridurre le tariffe commerciali, ovvero le imposte che gravano sulle importazioni, rendendole più costose. Tale convergenza si basa sui risultati dell’analisi teorica la quale dimostra che il commercio internazionale genera benefici netti totali. Ma questo consenso è generato dall’esigenza non troppo celata, di aumentare gli utili. Con una metà del pianeta in crisi e l’altra metà che spera di non cadere anch'essa nel baratro, la possibilità di ottenere maggiori introiti fa si che il mondo imprenditoriale sia favorevolmente orientato verso la globalizzazione purchè sia un vantaggio e non uno svantaggio per le proprie casse di fatto svuotate da un sistema fiscale ingordo ed incapace di guardare al di là del proprio naso. Nel mezzo ci siamo noi, costretti a pagare sempre di più affinchè qualcuno guadagni sempre di più e condannati a spendere per mantenere in vita un mondo che oramai non ci appartiene, nell’era consumistica i diritti dei consumatori sono immolati all’altare del dio commercio, costi quel che costi.

Da qui si evince che gli schiavi siamo noi. La tratta degli schiavi non è mai morta, esiste sin dalla notte dei tempi, oggi si chiama globalizzazione, la sostanza però non è mai cambiata.

Il senso dello scrivere



Più alto e più oltre

E finalmente sono finite le Olimpiadi di Londra.
Per due settimane tutti i media hanno scritto di tutto su questo evento passando dalla carta igienica dei cessi del villaggio olimpico fino al colore delle scarpe delle atlete statunitensi.
Diciamo che si sono sbizzarriti, a briglia sciolta a mostrarci il lato nascosto di un evento epocale che si ripeterà puntualmente fra quattro anni a Rio de Janeiro in Brasile.

Hai aperto un blog per parlarci (anche tu) delle Olimpiadi?

No di sicuro, ho aperto un blog per parlarvi di me, della mia passione inconfessabile, della scrittura, del desiderio folle di essere uno scrittore, non necessariamente uno scrittore di successo perchè quello (il successo) lo si costruisce giorno per giorno attraverso gli scritti ed i pensieri che riusciamo a mettere in ordine lettera su lettera in un foglio di carta bianca, perchè il successo non viene da solo ma va cercato, rincorso, afferrato e convinto a non abbandonarti più e con lui tutte le schiere di affezzionati lettori che attendono ansiosi la prossima opera, affamati di cultura e di storie che li possa emozionare.

Ma quanto conosco io di questa vita che pure è trascorsa senza troppi sussulti, senza drammi e dolori grandi, senza la percezione dello scorrere intenso del tempo.
Nulla, non conosco nulla. Cerco di spremere i ricordi e man mano che essi scaturiscono dalla mente li trascrivo in perfetto ordine in queste pagine per antica e nuova memoria affinchè qualcuno, in un giorno lontano, abbia a dire: io c'ero, l'ho conosciuto.

Ci fu qualcuno che condannava la letteratura come un "vizio", sintomo di inettitudine e di malattia, chiedendosi provocatoriamente che posto possa avere la letteratura in una società capitalistica in cui il potere economico ha soppiantato ogni altro valore, in cui cresce sempre di più la divaricazione tra realtà e apparenza, tra essere e avere. Scrivere è un involontario banco di prova per una ridefinizione del rapporto vita-letteratura, anticipazione, in un gioco di specchi, lo scrittore compone e scompone l'esistenza ricreando il passato alla luce delle esperienze successive con la fluidità che la parola possiede e la sua capacità di dire e nel contempo di non dire, di affermare ma anche di insinuare dubbi sulla veridicità di quanto affermato.

La scrittura dunque come memoria del passato, testimone di una identità conquistata che fissa il presente e accoglie le fantasticherie del futuro. E' con la scrittura che si crea l'illusione di scampare alla condanna terrena del non più essere, l'io scrittore si immedesima nel personaggio principale e lo fa suo raccontando la propria vita o quella di un altro individuo, a questo punto non è importante sapere chi è o chi fu, ma chi sarà in modo da trasformarlo in un racconto a finale aperto, mai concluso, mai definitivo che richiama il lettore a rimisurarsi con i propri scritti per cercare quella fine che rimbalza, con una palla impazzita, e non si svela mai.
La fatica letteraria quindi sottrae al caos della realtà la propria esistenza e in quest'operazione scrittura privata, epistolare e letteraria si fondono. La scrittura corregge il reale come il ricordo, corregge il passato ricomponendo gli avvenimenti, grezzi, stonati e disordinati per sempre o mai, in una superiore armonia che sfugge nell'atto e nel momento.

E' attraverso la scrittura che la macchina disorganizzata della vita può ricomporsi. I fatti hanno così poca importanza perchè indifferenti al corso delle cose, si fondono nella supponenza e scompaiono alla vista di chi vorrebbe ma non sa, in se sono nulla, ricomposti in uno scritto prendono corpo, eccitano spingono, emozionano, sollecitano quello che transiterebbe meccanicamente nella perfetta indifferenza nella vita dello scrittore per avviarsi all'oblio più assoluto. Solo la scrittura diventa il testimone della vita, della capacità di fondere il pensiero con il sogno e creare la storia. Da surrogato della vita la scrittura diventa un mezzo d'elezione per superare i confini angusti dell'esistenza, i limiti dello spazio e del tempo.

Solo la letteratura può correggere la vita,  può riplasmare la vita vera in una finzione da tutti accettata in modo da non riconoscerla da quella reale, ha quindi una funzione compensativa, niente affatto trascurabile che si giustifica e si scagiona da sé, rendendo in definitiva paradossalmente superiore la dimensione contemplativa.

Perchè scrivi?

Scrivo per compensare quello che la vita non mi ha dato, di quello che mi ha dato ma ho perso, forse per creare un ideale prolungamento ed illudermi di essere immortale, per creare una ipotetica e alquanto insicura magica protesi di me stesso che mi proietti in una quarta dimensione al di là dello spazio e del tempo. Se percorro il cammino tracciato dalle idee che improntano le opere dei maggiori autori del Novecento trovo prevalentemente, anche se esclusivamente a livello teorico, un'idea riduttiva e negativa della scrittura. 

Chi scrive non sa vivere o forse conosce il segreto della vita e non ha il coraggio di appropriarsene, di farlo suo e sfruttarlo per vivere meglio, le nostre paure allora si fondono in un desiderio di esternare le ansie in questa forma metafisica che è il bisogno di scrivere perché non si sa vivere. 

La scrittura sembrerebbe una specie di surrogato della vita. Una brutta copia senza sapore, scolorita della realtà, da cui, altri, gli altri, pescano a grandi mani quanto resta del mio sapere.