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2012/10/01

L'espatriato come scelta o necessità?


Emigranti italiani a Ellis Island, New York
Leggo su facebook una discussione nella quale mi ritrovo inconsapevolmente sul banco degli accusati a causa di un mio articolo sull’opportunità di cambiar vita riciclandosi in Vietnam. La discussione parte dal Vietnam e vira con disinvoltura verso opinioni diverse riguardo il lavorare o meno all’estero come espatriato, brutta parola molto usata in Italia per indicare colui che va all’estero a lavorare per brevi o medio lunghi periodi ma che prima o poi rientrerà a vivere nel bel paese. È solo uno spunto per iniziare il discorso che spazierà sopra e sotto l’argomento analizzando paure e motivazioni di chi sceglie o viene scelto per una vita lontano da casa fino a quando il resto del mondo diventa la sua casa o si ritorna in Italia.

Partiamo dalla storia, noi italiani siamo famosi per l’alto numero di emigranti negli ultimi due secoli. In effetti l’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei caratteri più singolari e caratteristici della storia contemporanea del nostro paese. L’interesse per il tema rimane tuttora forte, a causa dei recenti, diffusi fenomeni di xenofobia verificatisi in una nazione a lungo protagonista di flussi verso l’estero, e per l’ampio dibattito riguardante il voto degli italiani all’estero. Appare utile quindi riandare con la memoria a quando l’Italia divenne protagonista del fenomeno.
‘Nce simmo a la partenza... io mme ne vaco... addio... Napule bello mio, non te vedraggio cchiù. Quanto ’nc’è de cchiù caro dinto de te se ’nzerra... addio... addio. ’A chiagnere mme vène, Napule bella, addio... addio... addio... lo paraviso mio, sempe pé me tu sí...
Loro, gli emigranti in partenza, i loro fratelli, le loro madri, i loro figli che restavano in patria, non dicevano mai addio, dicevano:
“Guagliù, Carmè, oj mà, nun dico: - Addio! - pecché ve porto dint’ ’o core mio!”2.Partivano, ma in cima ai loro pensieri restava sempre e solo Napule, perché... ogne napulitano vo’ a Napule campà...e llà vo’ murì…. Là, ’nterra ’a banchina, si dicevano: “tuorn’ampressa”, “turnarraggio”; “scriveme”, “te scrivarraggio”.
Anche la giovane donna di cui parla Viviani in Chistu è ’o vapore, pur disperata per la prematura separazione, così mescolava commozione e speranza mentre lui partiva per la “terra promessa”: “...me restarrà fora ’a banchina, malata ’pucundria... sola comm’ ’a Maria; partarrà pe’ fa’ fortuna... pe’ ce puté spusà”.
Non tutti partivano da soli. Con il cuore in lacrime, ma colmo di speranze, c’era chi portava con sé tutto ciò che aveva, la famiglia: “E lasso ’a patria mia, l’Italia bella, pe’ ghi luntano assaie, ’nterra straniera. E sott’a n’atu cielo e n’ata stella, trasporto li guagliune e la mugliera”.
La maggior parte di loro non parti' per l'America col progetto di restarci, anzi erano considerati uccelli di passaggio e in quanto tali ritenuti inaffidabili. Un motivo in più per guardarli con sospetto. Furono migliaia i nostri concittadini che specialmente tra la fine dell'800 e i primi anni del 900 sbarcarono nei porti di Baltimora, Boston, New Orleans, New York e Philadelphia. Il il 75% degli immigrati erano agricoltori in Italia ma non aspiravano ad esserlo negli Stati Uniti (in quanto questo implicava una permanenza che non era nei loro piani). Al contrario, si diressero verso le città dove c’era richiesta di lavoratori e dove le paghe erano relativamente alte. Molti uomini lasciarono a casa mogli e bambini, perché convinti di ritornare (e molti, moltissimi lo fecero), ma i napoletani non ripudiarono mai la loro città, anzi continuarono a vivere secondo il loro stile di vita tutto partenopeo. È anche certo che vari cognomi furono trascritti erroneamente a causa della scarsa diligenza e conoscenza dell’italiano da parte del personale di bordo addetto e – sembrerà incredibile ma molti emigranti non erano in grado di indicare correttamente il proprio cognome , ma mai si scordarono il paese di provenienza , la provincia e la loro terra natia.
Lo skyline di New York negli anni '40

Trattandosi di un argomento prolungato e complesso, è auspicabile l’individuazione delle varie fasi, diverse tra loro per caratteristiche demografiche e sociali; cronologicamente, la classificazione più diffusa ne propone cinque:
-la prima, dal 1861 al 1900;
-la seconda, dal 1900 alla prima guerra mondiale;
-la terza, tra le due guerre;
-la quarta, dal dopoguerra agli anni ‘60/’70;
-la quinta, dal 2007 ad oggi a causa della perdurante crisi finanziaria.
(la prima rilevazione ufficilale risale al 1876 e della fase precedente esistono solo stime, che aiutano comunque a comprendere l’evoluzione di un fenomeno non riconducibile alla sola età contemporanea).
Tra il 1861 e il 1985 sono state registrate più di 29 milioni di partenze dall'Italia. Nell'arco di poco più di un secolo un numero quasi equivalente all'ammontare della popolazione al momento dell'Unità d'Italia (25 milioni nel primo censimento italiano) si trasferì in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in parte del Nord Africa.
Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1861 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni settentrionali, con tre regioni che fornirono da sole il 47% dell'intero contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) ed il Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con quasi tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, e quasi nove milioni da tutta Italia.
Già nel tardo medioevo si evidenziano alcune tipologie ricorrenti: il ruolo di polo attrattivo delle ricche città del settentrione d’Italia, i flussi dal contado alla città, i movimenti dei mercanti italiani verso l’Europa e le colonie veneziane; la persistente mobilità di alcuni gruppi (militari, studenti, religiosi): tutti esempi uniti dalla temporaneità dell’emigrazione, che non intaccava il forte legame con la terra d’origine.
In età moderna si verifica il declino del ruolo delle città (comunque importanti fattori d’attrazione), la nascita di Stati regionali autori di politiche demografiche strutturate. Nel complesso, il paese appare diviso in tre aree: il nord, area sottopopolata che utilizzava l’emigrazione come risorsa economica; il centro, caratterizzato dalla mezzadria e da spostamenti brevi ma spesso definitivi; il sud, latifondista, con flussi bracciantili stagionali dovuti allo sfalsamento dei ritmi agricoli. In aggiunta, le isole rimanevano un’area difficilmente inquadrabile: la Corsica restava terra di partenza soprattutto per i suoi militari, dalla fama diffusa; la Sardegna, priva di flussi e la Sicilia, da sempre terra d’immigrazione. Rimangono forti, nel periodo, gli spostamenti “religioni causa” e quelli dei mercanti, che giungono a creare alcune comunità nazionali nei vari paesi.
Agli inizi del 1800 quindi si registrano soprattutto movimenti politici, specie verso la Francia, e controlli più accurati degli Stati sui flussi, indirizzati verso le aree sottopopolate o da bonificare: come si vede, al momento della “grande emigrazione” la società italiana è abituata all’idea della migrazione come via d’uscita da una condizione di disagio. Questa “eredità immateriale” necessita solo di alcune concause per svilupparsi.
Le cause avanzate per spiegare l’imponente crescita dei flussi sono varie, e si concentrano per lo più sul mondo delle campagne, il “serbatoio” inesauribile di emigranti. La società agraria appare attraversata da una crisi profonda, strutturale, non riconducibile esclusivamente alla pur grave crisi agraria dovuta all’invasione dei grani americani che, sfruttando i progressi della navigazione a vapore e beneficiando della meccanizzazione del settore che consentiva costi di produzione infinitamente minori, annientarono, semplicemente, ogni agricoltura aperta al mercato. Innanzitutto, va sottolineata la crescente pressione fiscale dello Stato unitario, ben più rigida, al Sud, delle precedenti. Inoltre, la vendita dei beni della Chiesa, l’abolizione degli usi civici e la liquidazione dei demani avevano favorito l’ascesa dei nuovi ceti borghesi, privando il mondo contadino di antichi diritti comunitari che, spesso, costituivano importanti voci nei bilanci familiari.
Secondo recenti statistiche, gli italiani all’estero sarebbero 4 500 000. Gli oriundi, secondo il Ministero degli Esteri, sono 58 500 000; un’altra Italia.
La Tour Eiffel a Parigi, Francia
Perchè espatriare?

La vita da espatriato è tra le più facili: personalmente il tagliare i ponti con il proprio ambiente non è costato molto, sono chiuso di carattere, riservato e gli amici... gli amici sono rimasti sempre gli stessi. Prima ci si sentiva al telefono, in seguito un’email era il mezzo più semplice oggi c’è facebook che non te ne fa perdere di vista neppure uno. Gli amici non ti mancano quando decidi di tagliare i ponti con un tuo recente passato per crearti un nuovo futuro, speri che sia migliore del tempo appena trascorso e ci metti tutto l’entusiasmo per riuscire ma non sempre dipende da te. La sfida più grande è inserirsi senza danno in altre culture a volte diversissime, esporsi a personalità, situazioni, pericoli estremi; lanciarsi verso l'ignoto senza un paracadute a attutirne l’atterraggio spesso morbido ma non necessariamente, ricreare relazioni di lavoro e sociali, e tornare a tagliare i ponti, ricominciare da capo, con altre sfide, altri rischi, altre culture.
È un percorso che in genere inizi da solo, probabilmente non ti sei neppure sposato, non convivi, se avevi una fidanzata probabilmente ti ha lasciato o vi siete lasciati quando le hai comunicato l’intenzione di voler partire. Non va sempre così intendiamoci, non è la regola ma fa parte della casistica, viene considerata dalla maggior parte degli analisti, studiata. Ci sono due tipologie di italiani inclini a partire per cercare nuove esperienze fuori dai confini: chi già possiede un bagaglio di esperienze familiari e chi decide di tentare la carta dell’estero come alternativa a quello che ha in Italia.
Nel primo caso la strada risulta spianata almeno a livello emozionale, in genere si cerca di ripercorrere la strada compiuta dai genitori, non necessariamente andando alla ricerca delle passate emozioni.
Condividere tutto ciò con una persona amata diviene più complicato. Le priorità, le scelte, le sofferenze sono affrontate in due, ma il rispetto delle esigenze di due persone spesso non combacia con i tempi e l'assenza di normalità di un mercato del lavoro sregolato come quello dell'espatrio.
Le parole chiave divengono mediazione, adattamento, flessibilità. E gioia di scelte comuni.
È luogo comune che la vita di chiunque cambia radicalmente con l'arrivo di figli.
Nel caso di un espatriato, si amplifica all'estremo la sensibilità ed il senso di responsabilità e protezione per i propri figli, esposti, non per scelta, ad una vita che “normale” non é. Ma la “carriera” da espatriato diventa la quadratura del cerchio, tra esigenze e tempi di lavoro che non combaciano coi tempi della vita di famiglia, la scuola dei figli, proposte che non si possono rifiutare in tempi e luoghi impossibili per una vita di famiglia.
Cape Town, South Africa sullo sfondo della Table Mountain

L'espatrio con famiglia condivide con le altre forme di espatrio tutte le difficoltà, ma le amplifica: gli assignments sono più lunghi, a causa dei costi che le società sono costrette a supportare: doppi biglietti aerei, a volte tre, quattro o undici persone come, un caso limite, capitò in Cina dove il Capo Cantiere aveva moglie, otto figli e la nonna che non poteva essere lasciata sola a casa, e comunque le condizioni di vita e di esposizione ai esasperano quelle che sono le costanti dell'espatrio.
Spesso si lavora sono in luoghi remoti in paesi in cima alla lista di quelli più poveri del mondo, a volte in città senz'acqua potabile nè luce, e sono una selezione formidabile per chi vuole continuare in quest'ambito. Spesso l'equilibrio psicologico viene messo sotto pressione dalle atrocità viste e vissute, dalla familarità con la morte e la miseria, e le contraddizioni del mondo del consumo globale esplodono come un re nudo nella parola che meglio definisce la relazione tra paesi ricchi e poveri: inequità. E tutto questo si ripercuote nell’ambito familiare creando inutili tensioni e alla fine ci si domanda se ne vale veramente la pena.
Molti mi hanno chiesto se è possibile fare una vita normale, con una famiglia, e continuare a sentirsi un espatriato o voler vivere da espatriato a questo punto non si nemmeno più se per scelta o necessità. Quasi sempre prendo un bel pò d'aria nei polmoni prima di rispondere, e penso alle spiagge con la sabbia bianca e finissima, a un mare color zaffiro, a una vegetazione fitta, a mia moglie e mio figlio abbronzati e felici. E, dopo aver squadrato con occhio clinico l'interlocutrice o interlocutore, rispondo (quasi sempre) di sì.
Certo, non è facile, e il tasso di separazioni e divorzi in espatrio è più alto che quello medio nei nostri paesi d'origine; certo, lavorando all’estero è ancora più difficile perché l'incertezza sul futuro è altissima, e le ferite psicologiche accumulate lasciano profonde cicatrici.
Se ti guardi allo specchio e ti chiedi chi sei e che ci fai qui, se tua moglie si innamora di un altro, se tuo marito s'innamora di un'altra, non hai la tua rete di protezione, le tue amiche e i tuoi amici più fidati sono distanti qualche migliaia di chilometri, e molto spesso non hai la possibilità di prenderti tempo o spazio per te stesso, spesso perché sei sotto i riflettori, hai una posizione da difendere, un lavoro importante, la responsabilità di un certo numero di persone che dipendono da te, dalle tue capacità di gestire gli imprevisti, di uscire dalle situazioni pericolose, dal progredire sempre e comunque secondo i programmi non fermandosi – apparentemente – di fronte a nulla. Da qualche anno benedetti siano l'e-mail, le chat ed i telefoni voip, skype e messenger, i telefoni cellulari, l’iphone e molti altri smart phones che accorciano le distanze (ma perché gli italiani non leggono mai le loro e-mail?).

Espatriare per scelta o necessità?

Impossibile da definire, dopo la prima volta quasi sempre per necessità, diventa per scelta, la trepida attesa di una telefonata, un’email, la prossima proposta sul prossimo paese diventa di colpo l’obittivo da raggiungere, il target dei desideri, ci si proietta con i sogni nella nuova destinazione: africa, asia, america. Non importa dove sia, vi vedete già li. Ci sarà la scuola inglese? È un paese sicuro? La città ha una vita culturale? Le donne possono vivere normalmente? Le relazioni sociali sono aperte, tollerate? Riusciremo a comunicare con una delle 4 lingue che conosciamo? Se ne parla con la famiglia, con moglie e figli quando questi sono in grado di emozionarsi, di condizionare le nostre scelte. Loro i figli non decidono mai almeno fino ai dieci anni, poi diventano la vostra ancora, il peso che vi tiene fermi, che non vorrebbero mai partire. Il cane, parliamo anche di animali, mai sottovalutare la loro presenza,
che ho adesso tutte le volte che si deve partire gioca a nascondino, lei vorrebbe restare a casa, non importa quale casa, l’ultima dove ha vissuto momenti felici, apprezzato l’ambiente e le persone. Si nasconde, si nega, recalcitante a farsi infilare in una stretta e buia gabbia per viaggiare lontano. Noi no, alla prima email via a cercare informazioni su internet, sottoponendo a stressanti conversazioni gli amici, quelli che ci sono già stati, quelli che ne hanno sempre parlato bene. Lunghe chiacchierate, e quando abbiamo quasi deciso hop, arriva un'altra mail. Altro continente, altre condizioni, altro paese, altra cultura, altra lingua - e le stesse domande. E quando pensi di aver preso la decisione, ti dicono che ora quella posizione è “già coperta”. E via, si ricomincia.
La Grande Muraglia, Cina

Un rischio della vita dell'espatriato è di vivere come una specie di parentesi, più o meno avventurosa o gratificante, della tua vita. Nulla di più rischioso. La tua vita è oggi, radicata nel tuo ieri e proiettata nel domani; e sebbene il tuo oggi da espatriato sia radicalmente diverso dal tuo ieri, ed il tuo domani stia nelle mani dell'oracolo di Delfi, è il tuo oggi, qui, che definisce e scandisce il tuo essere vivo. Oggi, nel mondo della comunicazione totale e delle sue contraddizioni, la figura dell'espatriato è una figura di precursore della mobilità estrema e dei mercati globali. Sempre più contratti a tempo, sempre più pressione sul lavoro, sempre più incertezza e flessibilità, sempre più necessità della capacità di analizzare la complessità, e prendere veloci decisioni (sul lavoro, nella vita) sulla base di una lettura rapida dei segni della situazione. Dicono che le cose che più generano stress nella vita di una persona sono, nell'ordine, un lutto, il divorzio ed un trasloco. Nei 34 anni passati ho cambiato casa 16 volte, in 14 paesi differenti, ed ogni volta è stato un rinascere, una reincarnazione. Amo cambiare, adoro scoprire un paese nuovo, conoscere gente nuova, imparare con umiltà i mille segni della cultura di un popolo nuovo e delle sue idiosincrasie, ricominciare a relazionarmi e prendere le misure in un ambiente sconosciuto.
Casa, dolce casa. 

Dov'è, per voi “casa”? È il luogo di ritrovo della famiglia fra un viaggio e l’altro oppure l’ultimo tetto dove avete vissuto più o meno intensamente, è l’avventurosa vita ai confini del mondo, magari in una capanna di legno e paglia o quella bella villa che una vita di lavoro da espatriato ha permesso di acquistare? Le risposte sono tra le più svariate, anche se sembra esserci una regola di base che separa le coppie di una stessa nazionalità da quelle miste. Tra queste ultime, sono parecchie le coppie che visitano un paese d'origine un anno, e l'altro l'anno seguente; ma quelle con figli in età di studi universitari sparsi in diversi paesi le cose si complicano. È per questo che per molti espatriati l'idea del “ritorno a casa” assume un valore assai relativo; diventa un ritorno a una normalità che ci si era dimenticati, di una vita piatta dalla quale si era fuggiti, anche se lo avete pianificato, anche se lo sapevate fin dall’inizio che prima o poi fosse previsto un “ritorno a casa” di colpo diventa come la fine di una fase della vostra vita, spesso tornare a casa viene vissuto in modo assai traumatico, fino a non riuscire a reinserirsi in una vita normale. Chissà, forse perché non esistono ritorni al punto di partenza, perchè “home” cambia in conseguenza del vostro status, della collocazione dei vostri interessi, della vita che vi siete costruiti e anche delle scuole dei figli da cui non vorreste staccarvi mai, cercando di mantenere un cordone ombellicale virtuale con loro dimenticando che la vita è anche quello.
All'altro lato del ventaglio stanno gli espatriati che non tornano mai, nemmeno in vacanza, al paese d'origine, e che negano parte del passato, novelli emigranti nomadi e raminghi nel mondo, apolidi privilegiati. Infine, esiste una categoria particolare di espatriati che ricostruiscono, altrove, le stesse dinamiche che avevano in precedenza, con puntigliosa dedizione.

Espatriati per scelta, espatriati per forza.

Questi ultimi si chiamano figli, che non scelgono, bontà loro, di esserlo - ci si trovano, semplicemente, come condizione di vita. E quante domande, quanti dubbi - gli stessi di tutti i genitori, solo ampliati in alcuni aspetti non trascurabili. Come sarà l'equilibrio psicologico, la capacità di relazionamento sociale, di questi figli di nomadi per lavoro, scelta o necessità, figli che cambiano ambienti e amici con una regolarità maniacale da orologio svizzero? Figli che si ritrovano proiettati dalle foreste dell’Amazzonia alle caotiche vie di New York, o dalle calde spiagge delle Fiji al freddo pungente della Danimarca? Come sarà la loro relazione con concetti diversi ogni volta e pletore di valori, che i loro coetanei apprendono ancora  sempre nello stesso ambiente stabile e invariabile? Che cultura penseranno propria? Saranno girovaghi incapaci di adattarsi ad un posto solo, o al contrario vorranno radicarsi perché non l'han mai fatto da piccoli? Quanto influirà sulla loro personalità l'aver interrotto le relazioni d'amicizia, aver avuto migliori amici spezzettati e a singhiozzo? Quanto sarà utile l'essere passati attraverso una serie di traumi ed adattamenti? Che visione potranno avere del mondo, dopo averlo vissuto come un ambiente unico e dinamico, se un giorno metteranno radici in qualche sua parte? Sarebbe meraviglioso vedere i figli crescere saggi, aperti, permeabili, con una capacità di adattamento e di lettura dell'esistente ad un livello ben differente dai loro coetanei, forse nella realtà sarà così? Pagheranno lo scotto di non riconoscere i mille riferimenti non detti di una cultura, ma spazieranno con agilità e libertà d'opinione su varie culture, con un'apertura di spirito ed una disponibilità al conoscere invidiabile alla quale nessuno dei coetanei vissuti sempre nello stesso nido sarà mai capace di accedere.

Equilibrium (Vietnam 2012) 
L'espatrio è un momento di solitudine e un'esperienza in generale incompresa.

Quando ti trasferisci in un nuovo paese ti devi inserire, con tutte le difficoltà a ciò legate, quando torni nessuno capisce il tuo senso di estraneamento. Soprattutto in questa fase è molto importante essere supportato da qualcuno che ha già vissuto la stessa esperienza, altrimenti diventa tutto più difficile e doloroso. Il rientro è infatti uno dei momenti in assoluto più duri.

Ma tu sei espatriato per scelta o necessità?


2012/09/29

Il Senso della Vita


Titolo emblematico che deve far pensare.
Non voglio scomodare i pensatori dello scorso secolo tutti impegnati a mostrarci la via per una vita a senso orientata verso i classici valori che possano includere la famiglia i figli e creare valori materiali per i propri discendenti.

Oggi voglio parlare di cosa è lecito aspettarsi dalla vita nel momento in cui qualcuno - i genitori - decide che è venuto per voi il momento di nascere fino a quando qualcun altro - la vita - deciderà che è venuto il vostro momento. Non sono fatalista, ognuno si costruisce mattone per mattone la propria vita che in parte è già disegnata da quel bagaglio biologico che il DNA assegna e che difficilmente si potrà modificare.

Perché questo pensiero?
Difficile da tradurre in semplici parole, sono una persona che legge molto, in questo periodo leggo i forum, sono uno scrittore, penso e vivo a contatto della gente e ho notato che il pensiero comune oggi in Italia è quello di fuggire dal bel paese per cercare un lavoro umile, dignitoso. Perché umile o dignitoso o perché entrambi?
Leggo sul mio dizionario preferito online la definizione di umilta':
umiltà[u-mil-tà] s.f. inv.
1 Mancanza di orgoglio, di superbia, virtù di chi riconosce e accetta i propri limiti SIN modestia
2 Atteggiamento rispettoso, sottomesso SIN deferenza: comportarsi con u. verso un superiore
3 Bassa estrazione sociale: vergognarsi dell'u. dei propri natali
4 Caratteristica, condizione di ciò che è semplice, modesto, povero: u. del tenore di vita
• sec. XIII[/quote]
e poi quella di dignitoso:
dignitoso[di-gni-tó-so] agg.
1 Di persona, che ha il senso della dignità e che, quindi, non si abbassa a comportamenti volgari o arroganti: un uomo molto d.; estens. di aspetto, atteggiamento e sim., che denota compostezza, misura: dolore d.
2 Che rispetta il valore, i meriti della persona SIN decoroso: paga d.
3 estens. Di qualità intermedia tra l'ottimo e lo scadente, tra il misero e il lussuoso SIN accettabile, passabile: albergo d.
• avv. dignitosamente, in modo d.
• sec. XIII
a cui aggiungiamo quella di dignita':
dignità[di-gni-tà] s.f. inv.
1 Considerazione in cui l'uomo tiene se stesso e che si traduce in un comportamento responsabile, misurato, equilibrato SIN rispettabilità, decoro: d. umana; dimostrare una grande d.; estens. compostezza, decoro che denota rispetto per sé e per gli altri: volto, pieno di d.
2 Importanza che viene a una cosa dal significato spirituale, culturale, sociale che l'uomo le annette, e che la rende degna di rispetto: lo richiede la d. dello Stato
3 Carica, ufficio importante
• sec. XII

Una volta chi lasciava l’Italia emigrando sostanzialmente nelle Americhe, o in Europa oppure in Australia lo faceva per andare a cercar fortuna che, tradotto in un linguaggio moderno, significava andare a guadagnare di più di quello che si potesse mai aspirare restando in patria. È chiaro, ma non è chiaro per quale motivo gli italiani che desiderano oggi andarsene, debbano per forza aspirare a posizioni dignitose o umili, per quale motivo si cerca una condizione la più bassa possibile in una scala di valori assolutamente senza limiti?

E qui torniamo al senso della vita.
Prole, continuare “il genere umano”, creare i valori materiali per i discendenti. 
È inutile dilungarsi sui valori della famiglia come è inutile parlare dela prole, non necessariamente vanno intesi con la famiglia, qui parliamo del creare valori materiali per i discendenti.

Einstein dice: “Colui che considera la sua vita destituita di qualsiasi significato, non solo è infelice, ma è anche incapace di vivere”.  Egli parte dal presupposto che il conoscere il perchè delle cose e soprattutto il senso della vita è l’assillo che affiora spesso nella ricerca dell’uomo. Nell’esperienza del singolo, nel suo impatto con la nascita, la morte, la sofferenza, l’interrogativo si ripropone, magari con veemenza. Pertanto, è ragionevole e importante trovare un orientamento per la vita.

Perché vivere dunque? Ogni uomo volendo ragionevolmente progettare la sua vita, va alla ricerca di un senso, di una ragione per agire. La domanda fondamentale è: Perchè vivere? Essa si fa ancora più pressante di fronte alle diverse  situazioni “insensate” ed assurde della creazione (la condizione transitoria delle creature: nascono, soffrono, muoiono, si eliminano a vicenda in nome dell'ecosistema, soccombono a causa di eventi catastrofici della natura) e della storia (le contraddizioni degli uomini espresse nel male che essi compiono: guerre, violenze, ingiustizie).

Il saper creare valori materiali per i discendenti potrebbe anche includere avere successo, una vita di successo che mal si adatta all'umiltà' e ancor meno al dignitoso.
Perché' ne con una ne con l'altra si riesce a emergere in questa nostra società fatta, composta, di individui che vogliono venir fuori dalla melma primordiale che li avvolge e diventare un qualcuno, non importa se ricco o povero, un qualcuno riconosciuto, additato e perché no, ricordato nei secoli. E questa è la vera ricchezza.
Restando al presente che cos’è la nostra vita? E' un gioco? Il bene e il male sono null’altro che sogni. Il lavoro, l'onestà sono fiabe per donnette? la verità è che il senso della vita esiste. Esso è lo sviluppo della coscienza qualitativo e quantitativo.
Lo sviluppo qualitativo comprende il perfezionamento intellettuale ed etico, nonchè l'affinarsi della consapevolezza. Quello quantitativo è l’accrescimento diretto della quantità dell’energia della consapevolezza fine. 
Qualitativo e quantitavo non vanno d’accordo con umiltà e dignitoso.
Non vanno nemmeno d’accordo con il ricercare un lavoro decisamente inferiore a quello che potremmo trovare utilizzando semplicemente le nostre conoscenze e l’esperienza (per chi ne possiede in quantità apparentemente illimitata).
Il sospetto che si fa strada nella mente riporta alla ragione dell’emigrare, non già espatriare per cercar fortuna ma per sopravvivere in questa Italia che a torto viene considerata in declino, forse siamo noi suoi abitanti a essere in declino e fuggire è solo non voler riconoscere di quanto in basso siamo arrivati.

Quando ero giovane, imberbe e di belle speranze pensavo che solo attraverso lo studio si potesse trovare la chiave della felicità, della fortuna, della ricchezza. Il concetto mi era chiaro pur nella sua complessità: un buon titolo di studio porta un buon lavoro che a sua volta porta a diventare ricco in tempi relativamente brevi.
Giusto e sbagliato.
È pur vero che lo studio apre a maggiori probabilità di ambiziosi posti di lavoro, da manager, direttore, CEO e via discorrendo, ma è altresì vero che per essere imprenditori non occorre essersi laureati a Harvard. Che poi essere colti serva anche nel mondo imprenditoriale non è un concetto ma una realtà, basterebbe guardare a chi conduce oggi la Fiat, la Pirelli, le grandi industrie italiane che hanno origini “familiari” sono gestite da managers con almeno un master in una università di prestigio.
Ritornando al nostro senso della vita rimane evidente che a decidere di partire sono per la maggioranza quegli italiani che in patria non hanno saputo dare un senso alla propria vita, che si rendono conto degli errori compiuti in passato, da loro stessi o dai parenti da cui discendono. È però necessario analizzare questa esigenza, questo desiderio come ultima spiaggia, mollare tutto e partire alla ricerca di un’altra vita, non importa se meglio o peggio di quella attuale, o forse si, sicuramente meglio perché è quello che si crede, tanto peggio dell’Italia non sarà mai, dimenticandosi che lasciare la propria Italia è come fare un salto nel buio, senza sapere dove si atterra.

2012/09/23

Paris, Paris!


È illusorio pensare di poter conoscere Parigi. Nemmeno dopo tanti anni, dopo averci vissuto per lunghi o brevi periodi. Nemmeno i parigini la conoscono veramente, si limitano a convivere con la città, la sopportano e l’amano ma nessuno la conosce veramente. Sembra che nessuno voglia effettivamente approfondire la conoscenza, forse hanno paura di essere respinto?
Parigi, lo sappiamo, è la Francia. Non c’è nessun altra nazione al mondo la cui capitale identifica un intero Paese. Tutto ruota attorno a Parigi e se a qualcuno può venire in mente che ci sono altre città, anche importanti e anche lontane da Parigi, dove apparentemente la vita scorre in modo indipendente, ecco che le cifre intervengono in aiuto.
Nell’Ile de France vive poco più di un sesto della popolazione della Francia metropolitana, secondo l’ultimo censimento erano 65 milioni gli abitanti nel 2011. Anche aggiungendo i territori d’oltremare e le colonie il rapporto non cambia. Se confrontiamo Parigi con Roma notiamo subito la differenza. Roma vanta circa 2,8 milioni di abitanti, vale a dire 1/21o della popolazione italiana. Niente a che vedere con Parigi. L’Île de France e’ la regione dove tutto ruota attorno alla capitale. Tutto il resto è “provincia” una parola pronunciata non con disprezzo ma con distacco. Gli altri francesi subiscono malvolentieri questa condizione di sudditanza, ma non riescono a ribellarsi, l’accettano come fosse una legge naturale alla quale possono opporre soltanto un fiero sentimento di antipatia verso i fratelli apparentemente piu’ fortunati.
Apparentemente, perché Parigi soffre dei mali tipici delle megalopoli, la delinquenza, il sovraffollamento, il traffico di superficie che genera alti tassi di inquinamento atmosferico e acustico, gli ingorghi a volte impossibili che lasciano sul campo immobili serpentoni di autoveicoli. La spocizia, in particolare nelle banlieue, c’è sempre nonostante i grandi sforzi di tutte le amministrazioni municipali per mantenere una abilita’ decorosa.
Ma allora perché Parigi è la meta preferita, nonostante questi tempi di crisi, di orde di turisti dal mondo intero che l’affollano, la rigirano come un calzino per cogliere tutte le sue peculiarità da poter ricordare assieme agli amici o forse vantarsene?
La prima sensazione che si prova arrivando in città e quella di essere capitati in un luogo dove la vita scorre più in fretta. Per la strada, nella metro, nei grandi magazzini, all’Opera, la gente è sempre di corsa, li avete mai incontrati i parigini in un giorno qualsiasi? Se non fate attenzione vi urtano, vi calpestano, vi guardano come se foste marziani, venuti da un altro mondo. Ed è realmente un altro mondo, nessuna altra città regge il paragone con Parigi, è angosciante lo so, viverci non attenua questa sensazione, nemmeno dopo anni riesco a liberarmene.