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2014/02/21

Lacrime e Sangue




Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia, come conferma anche la testimonianza resa dal prof. Alain Parguez, altro importante protagonista degli eventi di quegli anni.  E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese.

Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: l’Italia. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ questa la drammatica testimonianza di Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, resa sia in occasione del primo meeting MMT di Rimini (24-26 febbraio 2012) sia, in seguito, a Claudio Messora per il blog “Byoblu”.

Leggiamo come ascoltare dalla sua voce cosa accadde in quegli anni di cui egli fu co-protagonista.

All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.

Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave:

l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”;
l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di      Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione      eversiva fondata da Renato Curcio, ma le Br di Mario Moretti, «fortemente      collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani      e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più      potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva      minacciato Moro di morte poco tempo prima».
Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo.

Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa.

A congelare la democrazia italiana avrebbe poi provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.  Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale.

Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il Paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».

Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato.

L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro di Berlino, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese, “promosso” nel club del G7, era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Si giunge così allo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche sono un altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattrocento trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose».

La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva a immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite».

Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A soffrire è l’intero sistema-Italia, fin da quando – nel lontano 1981 – la finanza pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato non solo la moneta, ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile.

Esistono, secondo Galloni, vie d’uscita? E se sì, quali?

Anzitutto bisogna archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il concetto del debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico».

L’alternativa è procedere come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco. 

La domanda è: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia, ma anche contro gli altri popoli e Paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?».

O forse, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro.

Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale: «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”.

Purtroppo non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy in poi, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «a aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.

E l’odiata Germania? Non diventerà mai leader, afferma Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta.

Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando a affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il Paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Lo scopo di avere meno moneta circolante e salari più bassi è forse quello di contenere l’inflazione? Falso: gli USA hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981».

Il passo fondamentale, da attuare subito, è una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate.

La scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute».

Naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine». (fonte)

Il terzo colpo, la fine. Nel libro Morire di austerità, Lorenzo Bini Smaghi, l’ex board della Bce che oggi presiede la Snam Rete Gas, ha scritto che nel 2011 Silvio Berlusconi aveva “ventilato in colloqui privati con i governi di altri Paesi dell’Eurozona l’ipotesi di una uscita dall’euro”.

Per questo, sarebbe poi stato costretto a dimettersi da Palazzo Chigi.

In realtà, il Cavaliere non si sarebbe solo limitato a “ventilare” questa ipotesi, ma aveva addirittura già avviato le trattative in sede europea per uscire dalla moneta unica. A rivelarlo è Hans-Werner Sinn, presidente dell’istituto di ricerca congiunturale tedesco, Ifo-Institut, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung.

Tocchi l’Europa e muori. Più si mettono insieme i pezzi del puzzle, più sembra chiaro che quello che inizialmente sembrava un vero e proprio attacco speculativo ai danni dei nostri titoli di Stato per far cadere il governo Berlusconi, adesso assume i toni di una resa dei conti ai danni del Cavaliere.

L’allora presidente del Consiglio sarebbe stato fatto fuori perché, per non voleva far morire il Paese dell’austerità imposta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, aveva deciso di tirar fuori l’Italia e gli italiani dal giro della moneta unica. Quella moneta unica, l’euro, che un altro ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, aveva super valutato gettando l’economia del Belpaese nella recessione.

Come riporta anche l’Huffington Post, Sinn ammette che, nell’autunno del 2011, Berlusconi aveva “avviato trattative per far uscire l’Italia dall’euro”. Intervenendo in un dibattito sulla crisi economica e sugli effetti disastrosi che stava avendo sui paesi meridionali dell’Eurozona, il presidente dell’Ifo-Institut ha ammesso di “non sapere per quanto ancora l’Italia ce la farà a restare nell’Unione Europea: l’industria nel nord del paese sta morendo, i fallimenti delle imprese sono ormai alle stelle e la produzione industriale è in continuo calo”.

Fonte

2014/02/17

Li maccaroni


LI MACCARONI 

poesia di Ercoli Aristide (1878-1913)

Che delizzia che so' li maccaroni!
Sprofumata bontà, che sciccheria!
Ma come se fa a di' che nun so' bòni?
Io, pe' me tanto è la passione mia.

Si me parli de penne, rigatoni,
regginelle, spaghetti e...via via,
manicotti de frati, lasagnoni,
sur subbito me metto in alegria.

Che t'ho da dì?...Pe' me, so' un gran ristoro,
conniti cor butiro e er parmiciano,
coll'alice, coll'ajo e er pommidoro.

Mezzo chiletto ar giorno, sano sano,
lo vojo magnà sempre e, quanno moro,
vojo spirà cor maccarone in mano!

2014/02/14

Mistero


Andiamo idealmente a (ri)trovare alcuni personaggi scientifici del nostro pianeta che hanno avuto la possibilità di sperimentare l’antimateria o perlomeno qualcosa di simile.
Come è nel nostro costume, utilizziamo sempre le scoperte scientifiche innanzi tutto per fini militari e poi, se permesso, per scopi d’avanzamento della società civile. La scoperta dell’antimateria non si è sottratta alla regola e per fortuna non si è arrivati a livelli critici, pur essendo stata sempre considerata esclusivamente "raggio della morte".

Effettivamente c’è stato un antico progetto militare teso a realizzare un’arma capace di bloccare a distanza qualsiasi motore di automezzo e soprattutto di annientare truppe nemiche durante un conflitto. È mia opinione che questa nuova possibilità scientifica sia da attribuirsi alla genialità di Nicola Tesla, il quale si pronunciò in materia solamente verso la fine degli anni ’30 per calmare delle dicerie scaturite da alcune sue affermazioni. 

Nel 1938, nel corso di una cena offerta per il suo compleanno al New York Hotel, fu chiesto a Tesla se fosse stato in grado di produrre sulla Luna un fenomeno luminoso capace di poter essere osservato con un potente telescopio. Rispose di sì, precisando che alla prima fase lunare crescente vi avrebbe fatto comparire un fascio di luce rossa a dimensione di una stella, addirittura visibile senza telescopio. Non si tardò a spargere la voce che Tesla avesse inventato un raggio terribile, immediatamente battezzato "Raggio della Morte". Naturalmente lo scienziato smentì una simile applicazione ma le sue idee erano state verificate da altri personaggi già un po’ di tempo prima.

In questo campo probabilmente Harry Grindell Matthews, un eccentrico sperimentatore inglese, è stato il primo a comunicare la notizia al mondo. Nel 1924 egli dichiarò alla stampa di aver inventato un singolare raggio che riusciva a bloccare i motori in movimento. Aveva messo in pratica un congegno che probabilmente si basava sull’idea di Tesla di teletrasportare energia elettrica, attraverso un principio di fisica completamente nuovo. Era chiaro che un simile apparato sarebbe stato in grado di produrre effetti nocivi assai elevati. La scoperta di Grindell Matthews, nato nel 1880 e educato nel College Merchant Vensures di Bristol, fu mostrata in pubblico. 

Produceva un raggio invisibile che, oltre alla proprietà di arrestare i motori a scoppio, poteva far esplodere a distanza delle polveri, far saltare in aria le cartucce, portare all’incandescenza il filamento di una lampadina elettrica senza che in essa circolasse altra corrente, uccidere insetti o piccoli animali che rimanevano stecchiti dopo pochi secondi d’esposizione. Matthews chiedeva addirittura a uno spettatore di mettere in moto un motociclo a diversi metri da lui, puntava il suo strumento verso il motore ed immediatamente s’arrestava. Inoltre se la moto stava sul cavalletto, allontanando la direzione del raggio, questa riprendeva regolarmente a funzionare.

Era logico pensare che con armi di questo tipo, le guerre dovessero essere svolte molto diversamente. Per la verità non ce ne sarebbero più state poiché la nazione che avesse avuto un simile armamento, avrebbe vinto qualsiasi battaglia sul nascere.
Il destino volle che Grindell Matthews e la sua macchina globale non avessero successo. In Inghilterra c’era stato l’interessamento del Ministro dell’Aviazione che non fu convinto da quest’invenzione tanto che la bocciò. Ciò probabilmente dipese dal fatto che la macchina avesse una portata di circa 18 metri per arrestare i motori e produrre tante altre cose. Nacque pure il dubbio della mistificazione. L’unica cosa concreta che la macchina "rivoluzionaria" aveva causato al suo scopritore fu una grande lesione che si procurò a un occhio, frutto dei potenti raggi misteriosi e a nulla valse il ricovero presso una famosa clinica oculistica di New York nel Luglio del 1924. 

Nel Marzo del 1925 ritornò in Gran Bretagna dove riferì che aveva venduto il suo brevetto agli Stati Uniti. Da quel momento, non si sentì più parlare di Grindell Matthews se non in sporadiche occasioni come quella in cui affermò di voler fare della pubblicità proiettando appositi fasci di luce sulle nuvole. Nel 1935 si venne a sapere che stava lavorando per il Governo Britannico in un bunker sotterraneo ed impenetrabile per realizzare la difesa della città di Londra da attacchi degli aerei nazisti. Morì nel Settembre 1941 nella cittadina inglese di Clydach. La storia ci ricorda che i nazisti bombardarono ripetutamente Londra con mezzi volanti del tipo V1 e V2, ma dell’intervento del raggio mortale non si ebbe alcuna notizia, tanto che la città fu seriamente devastata.


Un altro grande personaggio che arrivò a costruire un sistema capace di generare il famigerato "raggio della morte" fu l’italiano Guglielmo Marconi, la cui figura è stata ripetutamente al centro di discussioni e critiche. Innegabile è tuttavia il suo valore di sperimentatore entusiasta, dotato di grande intuito. Il Marconi che tutti conosciamo è passato alla storia come l’inventore della radio, un mezzo che ha letteralmente modificato il modo di vivere dei terrestri. Marconi ebbe, infatti, una grandissima intuizione e una gran fede nell’avvenire mondiale della radio, sin dai primi anni dalla sua scoperta. Invenzione che, in effetti, è da attribuire a Nikola Tesla, come stabilito dal tribunale di New York di recente. 

Nel 1933 Marconi eseguì altre prove di trasmissioni in radiotelegrafia e radiotelefonia per mezzo di microonde. Egli utilizzò la radio come mezzo curativo per combattere batteri e malattie virali. A complicare gli anni più intensi della sua vita, vale a dire gli anni trenta, per Marconi furono alcune intuizioni incredibili: la televisione, l’antigravità, la captazione di voci dal passato ma soprattutto il raggio della morte. Il "raggio della morte" è stato una cosa seria che è passato alla leggenda, anche se avvolto da forti dubbi ancora oggi non chiariti. Una fonte autorevole d’informazione però è esistita, della quale rimane un’autobiografia. Si tratta di Rachele Mussolini, la moglie del Duce, che nel suo libro "Mussolini Privato" descrive un importante esperimento condotto verso la fine del mese di Giugno 1936 sulla strada che da Roma conduceva a Ostia.

"Verso la fine di Giugno di quello stesso anno, Benito Mussolini ebbe nuovamente la possibilità di cambiare il corso degli eventi: Guglielmo Marconi aveva messo a punto un’invenzione rivoluzionaria. Con l’aiuto di un raggio misterioso, poteva interrompere in circuito elettrico dei motori di qualsiasi tipo di veicolo, che funzionassero con un magnete. In altre parole, poteva fermare a distanza automobili e motociclette. Poteva abbattere anche gli aerei. Anche a me capitò, in quei giorni, di vivere una stranissima avventura. 

Ho parlato di proposito di "avventura vissuta" perché, senza volerlo, io stessa mi trovai testimone di una prova del raggio mentre ero nella mia automobile. Quel giorno, a pranzo, avevo detto a Benito che nel pomeriggio mi sarei recata a Ostia per controllare dei lavori che stavano facendo in una piccola proprietà agricola. Mio marito aveva sorriso e mi aveva risposto: "Trovati sull’autostrada Roma-Ostia fra le tre e le tre e mezza. Vedrai qualcosa che ti sorprenderà...". Verso le tre, dunque, lasciai Villa Torlonia, la nostra residenza nella capitale, per recarmi in automobile a Ostia, come previsto. Ero sola con l’autista, un poliziotto in borghese dei servizi di sicurezza. 

Durante la prima parte del percorso, tutto andò bene. Sull’autostrada, benché fosse in funzione già da parecchi anni (dal 1929 o dal 1930, credo), non c’era molto traffico: in quel periodo non tutti potevano permettersi un’automobile. Eravamo a circa metà strada, quando il motore si fermò. L’autista scese brontolando, e infilò la testa nel cofano della macchina. Frugò, avvitò, svitò, riavvitò, soffiò dentro certi tubi: niente da fare. Il motore non voleva ripartire. Un’altra automobile, che marciava nella nostra stessa direzione, si fermò poco più avanti. Il conducente scese e andò anche lui a mettere il naso nel motore. Poi, come succede dappertutto in casi simili, si mise a discutere col suo compagno di sventura, cioè col mio autista. Qualche centinaio di metri più avanti, ma nel senso contrario, altre automobili si erano fermate, e anche delle motociclette. Ero sempre più incuriosita e ripensai a quello che mi aveva detto mio marito a pranzo. 

Guardai l’orologio: erano le tre e dieci. A dir la verità, non ci capivo niente, ma una cosa era certa: attorno a noi, in entrambi i sensi dell’autostrada Roma-Ostia, per alcune centinaia di metri, tutto ciò che funzionava a motore era in panne. Ci potevano essere una trentina di veicoli, di tutti i tipi: non uno che funzionasse. Chiamai l’autista e gli dissi: "Aspettiamo fino alle tre e mezza. Se l’auto non vorrà ripartire, chiameremo un meccanico". "Ma, Eccellenza, sono solo le tre e un quarto! Perché dobbiamo aspettare fino alle tre e mezza, se riesco a trovare prima il guasto?". "Certo... certo". Alle tre e trentacinque gli chiesi di riprovare. Beninteso, il motore ripartì al primo colpo. Gli altri conducenti che si trovavano vicini a noi, vedendo la nostra automobile ripartire, fecero la stessa cosa: tutto funzionava come se niente fosse accaduto... La sera a cena, notando che mio marito mi osservava con un sorrisetto, gli raccontai la storia della panne collettiva, suscitando la curiosità e le domande di tutti. Vittorio e Bruno, che erano piloti, parlavano in termini tecnici, specialmente Bruno che era esperto di motori. 

Secondo Romano e Anna Maria, invece, io avevo sognato. Nessuno trovava una spiegazione a questo mistero. Infine mio marito disse: "La mamma ha ragione. Questo pomeriggio hanno fatto un esperimento in alcuni punti dell’autostrada Roma-Ostia. Lei stessa ha visto i risultati". Detto questo, mio marito smise di parlare e non volle più rispondere a nessuna domanda... Appena fummo soli, mi disse: "Sai, Rachele, questo pomeriggio hai assistito a un esperimento segretissimo. È un’invenzione di Marconi che può dare all’Italia una potenza militare superiore a quella di tutti gli altri paesi del mondo". 

E mi spiegò, grosso modo, in che cosa consistesse questa scoperta che alcuni, aggiunse, avevano chiamato il "raggio della morte". "Il raggio - precisò - è ancora in fase sperimentale. Marconi sta continuando le ricerche. Come puoi bene immaginare, se riuscirà a realizzarla, l’Italia avrà in mano, in caso di guerra, un’arma tale da bloccare ogni movimento del nemico e praticamente renderci invincibili". Mi mancava il respiro. Sapevo di cosa era capace Guglielmo Marconi... Quattro anni dopo eravamo in guerra. Il "raggio della morte" avrebbe potuto cambiare il nostro destino se l’Italia lo avesse posseduto. Ma, purtroppo, le cose si erano avviate per un’altra strada. Sua Santità Pio XI, terrificato da questa scoperta e dall’enorme portata che poteva avere, chiese a Marconi di non proseguire le ricerche e, se possibile, addirittura distruggere i risultati già acquisiti. Marconi, che era molto affezionato a Benito ed era un sincero fascista, gli aveva fedelmente riferito il colloquio con il Papa e gli aveva chiesto che posizione doveva prendere di fronte al caso di coscienza che si poneva alla sua fede di cattolico. Benito non voleva rendersi nemico il Papa della Conciliazione né andar contro agli scrupoli religiosi di Marconi. Inoltre il mondo era in cerca di pace e non di guerra e le ricerche di Marconi erano costosissime. Optò quindi per autorizzare la sospensione delle ricerche, ma non la distruzione della scoperta. L’anno dopo, il 1937, Marconi improvvisamente morì..."

Effettivamente Marconi ebbe rapporti molto stretti col Vaticano, non solo per aver istallato la prima stazione radio nell’Aprile del 1933 ma soprattutto per aver ottenuto nel 1929 l’annullamento del suo matrimonio dalla Sacra Rota. All’epoca questo fatto rappresentò un evento clamoroso per l’opinione pubblica e perciò fu sempre riconoscente e disponibile nei confronti del Papa. A parte questi retroscena, all’epoca si misero in circolazione notizie preoccupanti su questo raggio della morte. Si affermò che in un pascolo dei castelli romani, dove lavoravano ricercatori dell’Università di Pisa, fu trovato stecchito un intero gregge di pecore. Si disse poi che nella maremma toscana vennero fermati i motori di due aerei in volo e che altri due aeroplani senza piloti a bordo fossero esplosi in un impressionante bagliore di luce.
Lo stesso Duce del resto lo confermerà il 20 Marzo 1945 al giornalista Ivanoe Fossati, che lo intervistò nell’isoletta di Trimellone, sul lago di Garda, di fronte a Gargnano: "È vero, sulla strada di Ostia, nei pressi di Acilia, Marconi ha fermato i motori delle automobili, delle motociclette, dei camion. L’esperimento fu ripetuto sulla strada di Anzio. A Orbetello, apparecchi radiocomandati furono incendiati a oltre duemila metri d’altezza. 

Marconi aveva scoperto il raggio della morte. Sennonché egli, che negli ultimi tempi era diventato religiosissimo, ebbe uno scrupolo di carattere umanitario e chiese consiglio al Papa, e il Papa lo sconsigliò di rivelare una scoperta così micidiale. Turbatissimo, venne a riferirmi sul suo caso di coscienza. Io rimasi esterrefatto. Gli dissi che la scoperta poteva essere fatta da altri ed utilizzata contro di noi, contro il suo popolo quindi, e che io non gli avrei usato nessuna violenza morale, preferendo che risolvesse da solo il proprio caso di coscienza, sicuro che i suoi sentimenti d’italiano avrebbero avuto il sopravvento. Pochi giorni dopo Marconi ritornò e sul suo volto erano evidenti i segni della tremenda lotta interiore tra i due sentimenti, il religioso e il patriottico. Per rasserenarlo, lo assicurai che il raggio della morte non sarebbe stato usato se non come estrema soluzione. Avevo ancora fiducia di poterlo convincere dell’assurdità dei suoi dubbi. Infatti lo scienziato non è responsabile del cattivo uso che si può fare della sua invenzione. Invece Marconi moriva improvvisamente, forse di crepacuore. Da quel momento temetti che la mia stella cominciasse a spegnersi...".
Ufficialmente nessuno riuscì a penetrare nelle segrete conoscenze di Guglielmo Marconi, nemmeno i nazisti che credettero che il famigerato "raggio della morte" non poteva essere che la scoperta del radar.

C’è stato però un altro ricercatore che ha conosciuto il Guglielmo Marconi segreto. Il suo ruolo è stato quello di aiutante nascosto, o per meglio dire non ufficiale, di un collaboratore silente ma prolifico d’idee e di sperimentazioni. Questo signore si chiama Pier Luigi Ighina.


l’atomo magnetico che è stato fotografato nel laboratorio di Pier Luigi Ighina nell’anno 1940, per mezzo di un microscopio atomico, con ingrandimento di un miliardo di volte.
Nella foto dell'atomo magnetico si vedono i cinque canaletti d’atomi assorbenti che servono a frenare l’atomo magnetico; nel centro si nota la dilatazione prodotta dalla pulsazione dell’atomo stesso.
Ognuna di queste pulsazioni produce e lancia attorno all’atomo magnetico un’energia, che nella foto è raffigurata dal sottile circoletto luminoso attorno all’atomo centrale. Il circoletto luminoso si espande a sua volta tanto da formare un circolo più grande così fino all’esaurimento della sua pulsazione. Il susseguirsi dei circoletti generati dalle pulsazioni produce l’adagiamento dei circoletti stessi uno sempre più vicino dell’altro, come a coprire e nascondere completamente, come uno scudo protettivo, l’atomo centrale. Quest’atomo è il più piccolo di tutti gli altri atomi e per legge atomica più piccolo è l’atomo più veloce è la sua pulsazione. Esso è quello che imprime a tutti gli altri atomi il loro movimento diventando così promotore di essi. (Informazioni riprese dal libro: "La scoperta dell’atomo magnetico" di P.L.Ighina).

Tornando al concetto di monopolo, ho chiesto direttamente a lui spiegazioni più dettagliate. Il signor Ighina ha così risposto:
"Il monopolo è il principio positivo o negativo dell’energia solare. L’energia solare è la parte principale della polarità; bloccandola e riflettendola, diventa negativa. L’energia solare arriva sulla Terra, viene bloccata e riflessa e quindi diventa energia terrestre. Dall’interazione dell’energia solare con quella terrestre si produce materia. Tutto qui. Semplice no?"
Ho chiesto poi come avevano, lui e Marconi, applicato la conoscenza sul monopolo. La risposta è stata immediata e scioccante:

"Difatti Marconi è morto per quello. Io ero dal ’36 che abitavo già qui a Imola. Glielo avevo detto: 'Mi raccomando Guglielmo, telefona se hai bisogno di fare qualche esperimento, mi raccomando...'. Lo avevo già salvato due volte. In una stavo per rimetterci la pelle anch’io. Perché lui adoperava i monopoli con facilità. E i monopoli cosa fanno? Fanno la scomposizione della materia sulla materia stessa. Lui ha fatto l’esperimento e c’è rimasto. Si, effettivamente aveva messo lo schermo magnetico, ma non era sufficiente. Quando sono andato a Roma a vederlo nella bara, ho notato che egli aveva sotto la pelle come degli gnocchetti neri. Allora ho capito che era morto perché non era più circolato il sangue. I medici avevano detto che aveva una cosa nel cuore, come la chiamano loro? Boh... Tutti dicevano che Marconi era morto di Angina Pectoris..."

Detto questo, egli ha continuato con la sua spiegazione:
"Ho portato avanti tutto quello che Marconi mi ha lasciato. I monopoli, la composizione della materia, le lumache, ecc.. Ho ripetuto tutto quello che mi diceva quando era vivo." Ighina mi ha spiegato poi che la materia è tenuta insieme dalla colla magnetica. Le due energie, solare e terrestre, producono la colla magnetica. Quindi la differenza sostanziale tra due materie di diversa natura consiste nel possedere più o meno energia. È come il cemento. Se nell’impasto si mette molto cemento, la materia diventa più dura; se ne viene messo poco allora si ottiene una materia morbida. Mi è nata spontanea, a questo punto, una domanda sulle energie nucleari, come tutte le energie elettromagnetiche, generate dalla nostra società attuale possono causare danni irreparabili.

Ighina, con la massima cortesia, ha dato la seguente risposta:
"Non è che disturbano. Dunque... la colla magnetica è formata da due energie, come dei fili invisibili che sono nell’aria. Se questi fili invisibili sono perturbati in continuazione da qualsiasi altra sostanza come i campi magnetici, telefoni, energia nucleare e cose similari, creano continuamente della corrosione vale a dire vanno a distruggere il campo magnetico che è poi quello che crea la colla magnetica. Ciò produce lo scioglimento della materia."

Il Vortex

Ho potuto visitare il suo laboratorio e tutte le varie apparecchiature da lui costruite. È stato per me un incontro proficuo, ma ho avuto netta l’impressione che il signor Ighina avesse rivelato una minima quantità delle sue conoscenze e che non avesse voluto parlare assolutamente dei suoi più importanti esperimenti. L’ultima occasione è stata la visita nel suo giardino di una macchina capace di controllare le nuvole nel cielo. Mentre aspettavamo che il cielo si aprisse per effetto dell’energia sprigionata dalla macchina attraverso le sue due pale rotanti, Ighina mi ha raccontato molti fatti, molti aneddoti sulla sua lunga sperimentazione. Mi ha infine fatto notare che sotto il terreno di sua appartenenza ha sepolto diversi quintali di polvere d’alluminio per trasformare il prato in un grande monopolo magnetico. Ho potuto dedurre poi che i suoi studi, effettuati nella collaborazione con Guglielmo Marconi, hanno portato alla seguente considerazione: unendo o separando i monopoli si può comporre o scomporre la materia.
Questi due ricercatori hanno però scelto diverse strade per promuovere le scoperte suddette. Marconi si è inserito nella logica terrestre e non si è potuto esimere dall’influenza del potere politico, economico, militare e religioso. Ighina invece è rimasto nell’ombra, consapevole che se l’umanità avesse cambiato la sua logica di vita, poteva tranquillamente esprimere le proprie conoscenze per il benessere dell’umanità stessa.

La morte misteriosa di Marconi innescò un’altra leggenda che lo volle in Sud America insieme con altri 98 scienziati (incluso il suo fedelissimo Landini) per costruire una città segreta nel cratere spento di un vulcano situato nella giungla nel sud del Venezuela. Marconi, del resto, aveva lasciato un filone di studio che, nonostante le varie situazioni contingenti, si basava sull’amore per la natura. Egli desiderava che l’uomo seguisse gli insegnamenti dei Maestri e si sforzasse di capire Madre Natura e le sue esigenze. Se questo si realizzasse, sicuramente non ci sarebbero più catastrofi e il pericolo della scomparsa della vita sulla Terra. Nikola Tesla si trovò nella stessa condizione di Marconi, ma anche lui non cedette alle lusinghe del potere. Per puri scopi propagandistici le dicerie su raggi d’ogni genere si diffusero durante la seconda guerra mondiale ed anche dopo. Ciò non toglie che alcuni scienziati avessero intuito e probabilmente realizzato veramente qualcosa che avrebbe potuto cambiare definitivamente il corso della storia. Emerge però che nei quattro personaggi citati la loro coscienza abbia evidenziato il fatto che l’uomo non era ancora in grado di usufruire una generosa sorte e perciò ognuno di loro ha trovato un rimedio adeguato per non diffondere una probabile arma globale. Sono stati amanti della vita e naturalmente codesta invenzione doveva salvare l’umanità e non distruggerla.









2014/02/10

F 35, le false verità



Sull’F35, il velivolo prodotto principalmente da Lockheed Martin e partecipato da Alenia Aermacchi (cui spetta la produzione di 800 ali), abbiamo letto di tutto. Attacchi preventivi. Proposte irrazionali. Ideologia e provincialismo da parte di un buon numero di politici. C’è chi ha detto «Basta F 35, vogliamo asili nido». Come se fossero due elementi comparabili. Chi ha diffuso numeri a caso senza alcun fondamento pur di dimostrare che l’Italia dovrebbe tirarsi fuori dal progetto. Il che significherebbe non acquistarli, ma nemmeno assemblarli nella base piemontese di Cameri o ripararli (sempre a Cameri). 

L’Italia è infatti l’unico Paese oltre gli Usa che avrà una Faco (Final Assembly and Check Out) che servirà da garage per tutti i caccia europei e per quelli Usa stanziati in Europa e nel Mediterraneo. Eppure agli occhi della sinistra e di gran parte dell’intellighenzia italiana questi velivoli continuano a essere dipinti come il male assoluto. E, al contrario, la loro eliminazione apparirebbe come la panacea per il debito pubblico italiano. Si tratta di 12 miliardi di euro di spesa in circa una dozzina di anni.

Certo non poco. Ma nemmeno troppo se si pensa che senza un velivolo di quinta generazione saremo destinati a restare ai margini della Nato. Una spiegazione che non difficilmente può fare leva sulle logiche di pensiero di Nichi Vendola. O di chi vuole abolire a tutti i costi le armi. Ma ciò non vale in assoluto per la sinistra italiana, che almeno su questo aspetto appare strabica.

Pochi mesi fa, Rid (Rivista Italiana Difesa) ha diffuso (rilanciati daL’Espresso) i dati sulla spesa militare tricolore. E, sorpresa delle sorprese, il programma Eurofighter (partecipato da Inghilterra, Spagna, Italia e Germania) è fino a ora venuto a costare 21,1 miliardi di euro. «Non solo: il prezzo risulta aumentato di ben 3 miliardi rispetto alla previsione formulata lo scorso anno, che si fermava a 18,1 miliardi», scrive il settimanale. «Nel corso del 2013 soltanto per comprare gli Eurofighter il ministero dello Sviluppo Economico ha speso 1,282 miliardi di euro, mentre quello della Difesa sborsa mezzo miliardo per gli F-35». I numeri sono corretti. Dunque, ci saremmo aspettati una vera e propria insurrezione da parte di Sel, di un’ala del Pd e del Movimento Cinque Stelle. Invece silenzio totale.

Elenco fornitori componenti dell'F 35 


Nessun attacco politico. Anche se la cifra è quasi doppia rispetto ai preventivi dell’F35. Senza contare che bisogna aggiungere circa 900 milioni di euro che lo Stato ha dovuto sborsare per via dei ritardi del caccia europeo, noleggiando trentaquattro F16 tra il 2003 e il 2013. Il che porta il conto finale a 22 miliardi di euro. Ci siamo chiesti a questo punto se la sinistra italiana, muta di fronte al costo degli Eurofighter Typhoon, avesse verificato che questi soldi a differenza degli F 35 costituiscano un volano più forte per la nostra economia. Che forse gli anti militaristi di Sel non attacchino Finmeccanica perché dà lavoro a molti pugliesi o campani o piemontesi? Che per questo valga la pena non condannare un programma anche se militare? Sembrerebbe un buon motivo. Ma i numeri un'altra volta ci dicono qualcosa di diverso.

Eurofighter e F 35 a confronto

Non è facile mettere sullo stesso piano i due velivoli. Il primo è un multiruolo. Ma anche il secondo inoltre è un caccia stealth. Il primo serve per la difesa aerea, il secondo anche per l’attacco al suolo. Un po’ come pesare mele e pere. Però, siccome sempre di frutta si tratta, proviamo a farlo. I sostenitori dell’europeismo a tutti i costi spiegano che l’Eurofighter si può modificare anche per l’attacco al suolo. È vero ma ciò richiede costi aggiuntivi spropositati (il 40% in più rispetto all’acquisto di un F 35) e comunque non diventerebbe mai competitivo quanto i velivoli nati per l’attacco al suolo. Stesso discorso per la trasformazione VTOL vale a dire aereo a decollo verticale imbarcabile su portaelicotteri o portaerei tascabili. Il problema principale dell'Eurofighter è l'ala a delta che limita la trasformazione, è possibile ma bisogna aggiungere altri milioni, tanti e finora non sono stati quantificati, questo era uno dei motivi per cui l'Italia aveva aderito al programma F 35.

Poi ci sono i costi operativi. Per un’ora di volo del Typhoon si spendono circa 40mila euro (fonte aperta: dalle dichiarazioni del generale Domenico Esposito Direttore della Direzione Armamenti Aeronautici) mentre per il “cugino” americano l’importo scende a 24mila dollari l’ora (fonte: parlamento Olandese). Il 10% in più del costo orario di un F 16, tecnologicamente meno avanzato. Inoltre nella valutazione di un programma militare bisogna calcolare le esigenze operative. Diversamente da quanto potrebbe sembrare, cancellare il JSF (il programma dell’F 35, ndr) non si tradurrebbe in un risparmio di 10,5 miliardi, come sostenuto da gran parte della carta stampata. 

«Sulla portaerei Cavour i JSF dovranno andarci comunque, per il semplice motivo che la portaerei che la Marina insegue da oltre 75 anni è troppo piccola per ospitare aerei a decollo convenzionale e che nel mondo non esistono altri aerei da combattimento a decollo verticale», ha sostenuto recentemente Gregory Alegi, giornalista e docente esperto di aeronautica. «Se l’Italia uscisse dal programma industriale dovrebbe comunque spendere 2-2,5 miliardi per sostituire gli ormai alienati AV-8B Harrier II+. L’Aeronautica ha in teoria più scelte, ma quando si tratterà di sostituire gli AMX e i Tornado avrà comunque bisogno di un centinaio di macchine. Per avere una linea unica dovrebbe scegliere l’Eurofighter, il cui costo non è certo inferiore al JSF: ecco altri 10-11 miliardi. Sorpresa: 12-13,5 miliardi da spendere in più». 

I fornitori italiani coinvolti nel programma F 35 


Infine c’è l’aspetto industriale che agli occhi della spesa pubblica diventa quello più importante e interessante per capire se il denaro sborsato è un mero costo o un investimento. Il ritorno industriale dell’Eurofighter è già definito. Per 100 euro spesi, 79 vanno a Germania, Spagna e Inghilterra. Ventuno restano in Italia. Dunque su oltre 21 miliardi spesi dall’Italia, quattro e mezzo sono rimasti nella penisola (Finmeccanica ha un ruolo molto maggiore nella parte elettronica, in particolare il radar, ma buona parte dell’attività viene fatta negli stabilimenti inglesi). I rimanenti 16,5 miliardi sono finiti negli altri tre Paesi Ue.

Nel programma Jsf l’Italia ha investito 2 miliardi. Circa 600 milioni sono tornati in contratti di lavoro. Le aziende italiane coinvolte nel programma Eurofighter sono 49, una decina scarsa del gruppo Finmeccanica. Una sessantina partecipa anche al consorzio Eurojet che si occupa dei motori. Sul fronte opposto quelle al momento attive nel progetto JSF sono sessanta. Solo sei del circuito Finmeccanica. Mentre i motori sono Pratt&Withney. Nel complesso se non ci saranno variazioni e «mantenendo il nostro impegno nel programma JSF», ha dichiarato il generale responsabile del progetto al Parlamento, «queste aree di lavoro, a fondo corsa, porteranno una stima di circa 14 miliardi di dollari di lavoro in Italia». Più di quanto investito complessivamente.

C’è anche un elenco di contro. Alcuni radar leggerebbero l’F 35, e la capacità dei suoi missili non è ancora del tutto testata. Non si tratta di un consorzio come per l’Eurofighter e i ritorni industriali non sono scritti nero su bianco. Dunque potrebbero rivelarsi inferiori alle stime. E i potenziali ritardi del progetto, i problemi sorti lo scorso anno, anche se rientrati, erano comunque campanelli d’allarme, altri problemi potrebbero appesantire i costi in futuro. Anche se su quest’ultimo fronte il JSF sarebbe in ottima compagnia. A partire dal Typhoon.

La posizione di Finmeccanica

Durante i ripetuti attacchi politici all’F 35 il colosso italiano della difesa non si è particolarmente speso a sostegno del programma JSF, anche se coinvolto direttamente con la controllata Alenia. Probabilmente, a livello di holding, l’azienda di piazza Monte Grappa si sente più legata al progetto europeo (l'elenco fornitori in calce). Dal bilancio consolidato del 2012 si vede che i debiti finanziari verso Eurofighter GmbH (controllata al 21%) ammontavano a 124 milioni contro i 47 del 2011. I crediti commerciali sono cresciuti da 193 milioni del 2011 ai 261 del 2012. I ricavi provenienti dalla quota sono passati dagli 800 milioni del 2011 agli 880 del 2012. Nel 2010 era 980 e nel 2009 868. Valori importanti che se l’Italia abbandonasse in tutto e per tutto il Typhoon si ridurrebbero sensibilmente.

Di contro, Alenia Aermacchi ha firmato un contratto con Lockheed Martin da 141 milioni di euro per la prima produzione di ali. Di fatto un investimento e una scommessa ancora lontana dal generare ricavi. Appare chiaro che per l’azienda della difesa italiana in questo momento resta più profittevole andare avanti con l’Eurofighter piuttosto che spingere sul velivolo di quinta generazione. Una scelta di fatto attenta ai conti e connessa a strategie industriali che in momenti di crisi impongono la necessità di raccogliere più frutti possibili da un programma prima di abbandonarlo. L’Italia in questa battaglia tra Eurofighter e F 35 dovrà basarsi su logiche, se necessario, diverse.

Guardare con una visione ventennale. Investire e non spendere. Altrimenti succederà come con l’F104. Per risparmiare, nel 1975, l’Italia non aderì al programma F-16 per sostituire i vecchi F-104 Starfighter, dei quali acquistò nel 1976 altri 40 esemplari. Negli anni successivi furono necessari due programmi di ammodernamento (ASA e ASA-M), comunque insufficienti a mettere lo Starfighter in grado di difendere i cieli italiani durante l’emergenza nei Balcani, comprese le operazioni in Bosnia e Kosovo (1994-1999). Di fronte ai ripetuti ritardi dell’Eurofighter fu necessario l’oneroso noleggio dei Tornado ADV (1995-2004), seguito da quello… degli F-16, dei quali il primo arrivato nel 2003 e l’ultimo destinato a partire nel 2012 ma ancora in forze a causa dell'indecisionismo italiano. Alla fine si è finito con lo spendere molto di più. 

Resta solo una domanda.

Perché la sinistra italiana vuole abbattere gli F 35, mentre lascia tranquillamente parcheggiati negli hangar gli Eurofighter? Per quale motivo oggi, dopo le minacce nemmeno troppo velate, di uscire dalla UE a opera del M5S, si ritorna a parlare di Eurofighter? Non sarà per caso che la Germania spaventata dai dietrofront italici voglia imporre l'Eurofighter ai vertici politici per salvarsi almeno il posteriore?

CUI PRODEST? o meglio CUI BONO?


2014/02/09

What a dangerous world


Gran parte della popolazione mondiale è abituata a vivere nelle città, circondata da comodità e al sicuro da molte insidie naturali. 
Esistono però luoghi così pericolosi che è difficile credere che qualcuno sia disposto a viverci. Coraggio, intraprendenza e spirito di adattamento, queste sono le capacità necessarie per vivere in questi luoghi: ecco gli otto luoghi più pericolosi dove vivere sulla terra.

Il polo del freddo (Verkhoyansk, Russia)

Nel cuore della Siberia, tra la tundra ghiacciata, Verkhoyansk è la più antica città al di sopra del circolo polare artico. Da oltre tre secoli i Russi hanno colonizzato questo luogo, vivendo in un continuo inverno per oltre nove mesi l’anno.
Verkhoyansk è definita la città più fredda al mondo (il record è di -67 gradi centigradi), senza dimenticare che da settembre a marzo le ore di luce sono meno di cinque al giorno. Oggi questa città attrae molti “turisti estremi”, attratti soprattutto dal freddo indescrivibile di questa città fuori dal comune.

La montagna di fuoco (Mount Merapi, Indonesia)

Questo vulcano, sull’isola di Java, ha eruttato oltre 60 volte negli ultimi cinque secoli, causando migliaia di morti tra le popolazioni locali. Ma questo non ha scoraggiato gli oltre 200.000 abitanti che vivono nei villaggi intorno al vulcano.




La tempesta perfetta (Gonaives, Haiti)

Questa città, che è la più grande di Haiti, si trova nel golfo di Gonave, lungo il percorso naturale che molti cicloni seguono nel Mar dei Caraibi. Gonaives negli ultimi anni è stata flagellata dalle tempeste tropicali, ma nonostante questo continua a essere uno dei centri più vivaci e ferventi dell’isola di Haiti.



Il lago della morte (Lake Kivu, Repubblica Democratica del Congo/Rwanda)

Il Kivu è uno dei più grandi laghi africani, situato lungo i confini del Congo e il Rwanda. Al di sotto della sua superficie, ci sono oltre due trilioni di metri cubi di gas metano e biossido di carbonio. Se rilasciati dalle sue profondità, questi gas potrebbero uccidere oltre due milioni di persone che vivono sulle sponde del lago.


Le isole effimere (Maldive)

Le Maldive sono tra i paradisi tropicali più in pericolo nel mondo: il loro nemico è l’innalzamento dei mari. Le 1190 isole e atolli che compongono le Maldive hanno un’altezza massima di circa due metri sul livello del mare. Negli ultima anni il presidente della Confededazione sta investendo molti dei soldi incassato con il turismo per programmi di rilocazione per le popolazioni locali. Negli ultimi anni infatti oltre il 30% della popolazione ha perso la casa, buona parte a causa dello tsunami del 2004.

La capitale degli uragani (Grand Cayman)

Le Isole Cayman, territorio inglese situato a circa 180 chilometri a sud di Cuba, sono conosciute per le immersioni e per gli alberghi di lusso. La più grande delle tre isole, Grand Cayman è la capitale mondiale degli uragani. Negli ultimi 150 anni quest’isola è stata colpita da oltre 60 tempeste, spesso con risultati catastrofici. L’ultimo, l’uragano Ivan, è stato nel 2004, una tempesta di categoria 5 che ha squassato l’isola per giorni.

Il corridoio dei tornado (Oklahoma City/Tulsa, Oklahoma)

Lungo la statale 44 si trovano le città di Oklahoma e Tusla, due delle città più popolate dello stato di Oklahoma. Ogni primavera l’aria fredda e secca delle Montagne Rocciose scende lungo le pianure e l’aria calda e umida del Golfo del Messico sale verso nord, le due correnti si ritrovano lungo quella che è chiamata la Tornado Alley, il “corridoio dei tornado”, giusto in tempo per la stagione delle grandi trombe d’aria. 
Dal 1890, oltre 120 tornado hanno colpito Oklahoma City e le aree circostanti, uccidendo centinaia di persone e distruggendo migliaia di case.

Il deserto che cammina (Minquin County, Cina)

Un tempo era un’oasi fertile, poi dopo una decade di siccità questa zona è diventata un vero e proprio deserto di sabbia che dal 1950 ha inghiottito oltre 150 chilometri quadrati di terra. Dal 2004 il deserto cresce al ritmo di 10 metri l’anno ma nonostante questo la popolazione continua a lottare con le pessime condizioni climatiche di questi luoghi.