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2014/08/14

Palestina: vero e falso

La questione palestinese attraverso una attenta analisi e un diverso punto di vista: quello reale, non costruito a tavolino.
Tutto quello che nessuno vi aveva mai detto!

Quanto si affronta la questione palestinese, c’è una cosa che è necessaria prima di tutto – sgombrare il campo dall’idea che ci troviamo di fronte a un problema di “autodeterminazione dei popoli”. La questione palestinese non è una questione di “autodeterminazione” e non ha niente a che fare, per esempio, con le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani, dei fiamminghi o degli scozzesi.
L’autodeterminazione, in effetti, rappresenta il diritto di una determinata comunità a autogestirsi all’interno di un ambito solitamente (ma non necessariamente) territoriale, al fine di perseguire un proprio sviluppo sociale, economico e culturale. E’ un concetto che implica dei rapporti pacifici e di tipo orizzontale con le altre comunità politiche e pertanto presuppone il riconoscimento del valore della diversità, della pluralità istituzionale e della convivenza.

La “causa palestinese” per come si è presentata fino a questo momento non è la rivendicazione pacifica e difensiva di una patria nazionale per il “popolo palestinese”, all’interno della quale si declini una statualità. Se l’obiettivo fosse stato questo, sarebbe stato già conseguito da tempo, e la quantità gigantesca di denaro che negli anni è stata iniettata a favore dei palestinesi dai paesi arabi, dall’Occidente e dallo stesso Israele sarebbe stata più che sufficiente per garantire la praticabilità economica del nuovo Stato e il graduale raggiungimento della completa autosufficienza. La causa palestinese, purtroppo è stata ben altro – è stata un progetto imperialista e aggressivo mirante alla “riconquista” dello Stato di Israele e, quindi, alla negazione dei valori fondamentali alla base del principio di autodeterminazione dei popoli, cioè la pacifica convivenza, il riconoscimento e il rispetto dell’”altro”.

Dopo il disimpegno israeliano da Gaza, i palestinesi non hanno utilizzato lo spazio politico apertosi nella Striscia per “autogovernarsi”, bensì hanno de facto organizzato la Striscia come base della guerriglia antiisraeliana. Ritenere che vi possa essere una legittimità nella riconquista violenta da parte dei palestinesi di terre che sono sotto l’amministrazione israeliana è sbagliato. Non ha senso parlare di ritornare ai confini di Oslo o del 1967 o del 1947, per il semplice motivo che non è ammissibile che i palestinesi continuino a pensare di poter scatenare guerre, perderle e poi pretendere che si faccia finta di nulla e si torni alla situazione ex ante.
E’ inevitabile che i palestinesi paghino il fatto di essere stati sempre dalla parte sbagliata (dalla parte dell’aggressore e dello sconfitto) in tutte le guerre. Incidentalmente giova ricordare che, anche prima dei conflitti araboisraeliani, la leadership palestinese si schierò apertamente con i Nazisti nella seconda guerra mondiale. Peraltro nel ventesimo secolo i palestinesi non sono certo gli unici a avere perso dei territori o a avere conosciuto esodi. Noi italiani ricordiamo certamente la perdita dell’Istria, di Fiume e di Zara e la fuga di tanti nostri connazionali da quelle terre. 

La Germania ha vissuto questa situazione molto più in grande, vedendosi sottratti tutti i territori a Est dell’Oder Neisse; dodici milioni (!) di tedeschi furono costretti a andarsene. E anche i confini della Polonia usciti dalla guerra avevano poco a che fare con quelli precedenti al conflitto, con milioni e milioni di polacchi che hanno dovuto trasferirsi.

Va detto, tra l’altro, che negli anni successivi alla proclamazione dello Stato di Israele, almeno 850.000 ebrei sono stati espulsi da paesi arabi nei quali le loro famiglie avevano vissuto per centinaia di anni. Nei fatti ci fu uno “scambio di popolazioni”, nel quale moltissimi ebrei hanno dovuto abbandonare tutto quello che avevano costruito in generazioni nei paesi arabi di origine – eppure questi profughi ebrei sembrano non rientrare mai nell’equazione politica. Un’altra fase storica che ha prodotto una grande quantità di rifugiati è stata il processo di decolonizzazione. Si pensi agli italiani di Libia, ai pieds noirs d’Algeria, alla diaspora rhodesiana, ai retornados portoghesi del Mozambico e dell’Angola o agli indo-olandesi. Si tratta, nel complesso, di milioni di persone, ma nessuna di queste comunità oggi rappresenta in alcun modo una questione politica. Il fatto è che tutti i rifugiati che il ventesimo secolo ha prodotto si sono sempre rapidamente integrati  nelle rispettive madri patrie o in paesi culturalmente omogenei e sono diventati elementi pienamente produttivi nelle loro “nuove società”.

Questi “immigrati invisibili” hanno fatto di necessità virtù e, armati di dignità e di etica del lavoro, hanno ricostruito un futuro per loro e per i loro figli. Noi non abbiamo stipato per settant’anni a Gorizia i profughi giuliani e dalmati educandoli alla guerra e all’odio contro gli slavi. Né i tedeschi lo hanno fatto con i rifugiati della Pomerania, della Slesia e della Prussia. Né i vari presidenti francesi hanno addestrato per cinquant’anni gli esuli algerini a preparare la riconquista di Algeri. Invece per i quasi venti anni in cui la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono stati sotto il controllo dell’Egitto e della Giordania, i rifugiati palestinesi sono rimasti in campi profughi, a crescere in numero e in disperazione.

Di fatto la “questione palestinese” è stata creata a tavolino per precisa scelta politica dai paesi arabi che, anziché integrare i profughi hanno scelto di conferire loro il ruolo di riserva permanente di guerriglia antisionista. Il crimine più grave che sia stato compiuto finora contro i palestinesi è quello di averli illusi che fosse possibile riportare indietro l’orologio della Storia e averli incoraggiati in questi decenni a sacrificare collettivamente la propria esistenza a una guerra infinita senza speranza alcuna.

In un certo senso i palestinesi hanno combattuto una guerra non loro perché i veri beneficiari della loro lotta sono stati i leader delle élites politiche dei vari paesi arabi che nella retorica filopalestinese trovavano a buon mercato una legittimazione del proprio potere presso le masse. Naturalmente, da un simile punto di vista, è del tutto irrilevante il fatto che la guerra non possa avere alcuno sbocco positivo per i palestinesi. Non serve affatto che sia vinta, basta che sia combattuta – e anzi più è dolorosa e luttuosa per gli stessi palestinesi, più genera un capitale politico per i suoi “stakeholders”.

Naturalmente il patimento accumulato dai palestinesi in decenni di guerra e di guerriglia è tale che praticamente ogni palestinese ritiene di avere forti ragioni personali per continuare la lotta. Se ci si arrendesse a questa logica tuttavia, il mondo intero vivrebbe in una guerra permanente. Ogni guerra, infatti, porta con sé come esito le ragioni potenziali per farne un’altra. Ogni guerra ci lascia con ingiustizie da riparare, innocenti da vendicare, martiri in nome dei quali combattere affinché non siano morti invano. Eppure a un certo punto l’odio deve piegarsi alla realtà.
Sia consentito, ancora, un paragone storico: dopo la prima guerra mondiale, Adolf Hitler prese il potere in Germania cavalcando da posizioni ultranazionaliste la frustrazione per la pace ingiusta, per le condizioni vessatorie imposte dal Trattato di Versailles. Fece leva sull’orgoglio e “revanchismo” per inquadrare la popolazione tedesca in un terribile progetto imperialista. 

Per riprendersi Danzica e il suo “corridoio”, scatenò una nuova guerra mondiale ancora più sanguinosa di quella precedente. La perse e quello che ne seguì non fu certo una pace più generosa per la Germania. Il paese uscì dalla guerra con terribili ferite economiche, politiche e morali. Il massacro di Dresda, la perdita a Oriente di regioni storiche, le vendette sovietiche sulla popolazione civile, l’occupazione da parte delle potenze vincitrici e così via. Quante buone ragioni ci sarebbero state perché i tedeschi alla prima occasione decidessero di dotarsi di un nuovo Hitler che li riscattasse dalla “punizione collettiva” che era stata inflitta loro?

Eppure, anziché dare un’altra possibilità al nazionalismo estremo, la Germania ha scelto le straordinarie opportunità di sviluppo economico e sociale offerte dalla pace – anche se questo, evidentemente, ha richiesto la capacità di elaborare il lutto della sconfitta ed intraprendere un percorso di autocritica storica e politica. La scelta di pace dei tedeschi ci sembra assolutamente ovvia e scontata; non ci parrebbe proprio concepibile una scelta diversa. Non potremmo immaginare che la gioventù tedesca anziché godersi e costruirsi la vita preferisse arruolarsi in una nuova guerra. Non potremmo immaginare che dei genitori anziché vedere i propri figli laureati e felicemente sposati, preferissero che si immolassero per riguadagnare Breslavia, Danzica o Königsberg. Chiunque di noi, anche trasversalmente all’appartenenza politica, lo riterrebbe non solo folle ma anche profondamente inumano.

Eppure troppi, anche in Occidente, sono disposti a giustificare che generazioni e generazioni di palestinesi siano coscritte a vita in una battaglia ideologica nazionalista. Da questo punto di vista, la migliore sintesi della questione israelo-palestinese è probabilmente quella che fu fatta da Golda Meir. “La pace sarà possibile solo il giorno in cui i palestinesi ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”. La pace sarà possibile solamente se per un padre di Gaza il fatto che suo figlio diventi un bravo avvocato, ingegnere, ristoratore, commerciante o idraulico, si sposi e viva tranquillo con la sua famiglia sarà più importante di conquistare Gerusalemme. La “questione palestinese”, in altre parole, sarà risolta solo quando i palestinesi si renderanno conto dello straordinario valore che avrebbe per loro il dividendo economico e sociale della pace.

Significherebbe la fine delle limitazioni alle attività economiche nei territori e al movimento delle persone e dei beni. Significherebbe la possibilità di attrarre investimenti economici che oggi sono fortemente ridotti a causa delle incertezze e dei rischi dello status quo, avviando così un importante sviluppo a livello industriale, agricolo, tecnologico e turistico. Ma se i palestinesi continueranno a preferire l’illusione della “vittoria” alle ragioni della pace, nessuna simpatia, vicinanza, comprensione, giustificazione, condiscendenza è possibile. Il messaggio che va mandato oggi deve essere inequivoco: è tempo che i palestinesi si arrendano alla pace. 

E alla storia. (qui)

Malati di burocrazia

Storie di ordinaria follia burocratica in un Paese tecnicamente fallito e con l'acqua alla gola. Leggiamole inseme e se a qualcuno viene da ridere si accomodi, non ci offendiamo.

Il mancato pagamento

Un imprenditore ha effettuato un intervento di manutenzione sull’impianto di una piccola azienda e non è stata pagato. Si è quindi rivolto all’avvocato per recuperare il credito.
“Avvocato, ha depositato il ricorso per decreto ingiuntivo?”
“Si, ma se ne riparla a novembre”
“A novembre? Ma siamo a metà luglio!”
“Si, ma il decreto ingiuntivo deve essere emesso dal giudice, poi notificato dall’ufficiale giudiziario e poi occorre attendere che decorra il termine di 40 giorni, ma da inizio agosto a metà settembre i termini non decorrono essendo bloccati per la sospensione feriale”
“Mi scusi avvocato, ma se la banca mi chiede il rientro dei fidi, mi da tre giorni di tempo; e io cosa le dico, che mi ci sono voluti quattro mesi solo per iniziare la procedura per recuperare i miei crediti?”
“Veda lei cosa dire: le regole sono queste”.

La procedura esecutiva continua e si arriva alla richiesta di pignoramento dei beni mobili presenti nell’azienda debitrice; l’avvocato informa l’imprenditore dell’esito della procedura.
“L’ufficiale giudiziario ha pignorato un computer e una stampante e l’Istituto Vendite Giudiziarie li ha venduti all’asta … per 200 €”
“Ma il mio credito era molto superiore!!”
“… però la procedura di vendita è costata 450 € e dunque Lei deve 250 € all’Istituto Vendite Giudiziarie ”.
Pagati i 250 € e la parcella dell’avvocato, l’imprenditore contatta il commercialista.
“Il cliente è sparito e non mi ha pagato: per cortesia provveda dunque a recuperare le tasse che ho già dovuto pagare”
“Va bene, provvederò a recuperare le imposte dirette”
“Come sarebbe a dire che provvederà per le imposte dirette; e per l’iva?”
“In base al DPR 633/72 ed alla risoluzione n. 195/E del 16/5/08 dell’Agenzia delle entrate, se il cliente sparisce lei non può recuperare l’iva”
“Mi sta coglionando, vero?”
“Eh, no; vede per recuperare l’iva, lei deve essere in grado di dimostrare che il suo cliente è fallito, o comunque che è terminata la procedura di concordato”
“Ma le ho detto che questo è sparito; non risponde più al telefono, il capannone è vuoto; non ho la più pallida idea di dove sia finito”
“Ecco vede, è proprio come le dicevo: lei non è in grado di dimostrare che il cliente è fallito né che ha concluso la procedura di concordato, e dunque non può recuperare l’iva”.

Il giovane

Un giovane ingegnere, viste le difficoltà a trovare un lavoro subordinato, non volendo rimanere senza fare nulla, si attiva per iniziare un’attività professionale.
In questo periodo non è facile trovare clienti, ma il giovane si impegna e riesce a trovare il suo primo cliente: si tratta di un’azienda che ha bisogno di consulenze in una materia che lui conosce bene. Non è stato facile trovare questo cliente, in tanti prima gli hanno detto no; ma ora è fatta, ha trovato quest’azienda, che crede nei giovani e ha deciso di affidarsi a lui. Si reca quindi dal commercialista per aprire la partita iva.
“So che è prevista una partita iva agevolata per i giovani”
“Si, è il regime agevolato previsto dal DL 98/11: non deve però superare i 30.000 € di fatturato all’anno. Senta, ma lei quanti clienti ha?”
“Sono all’inizio, ho molte cose in ballo, ma al momento ho un solo cliente. Sono poi in trattativa con un altro..”
“Ah. Quindi non esclude di avere la gran parte del suo fatturato con uno stesso cliente e di svolgere attività per quel cliente per più di otto mesi all’anno?”
“Ma cosa vuole che escluda! Come le ho detto, inizio con un cliente, poi spero se ne aggiungano altri; le consulenze che mi darà questo cliente sono impegnative, in termini di tempo: poi, più me ne darà e meglio è, visto che abbiamo pattuito un corrispettivo per ogni consulenza”
“Allora, in base all’art. 69 bis del DLgs 276/03, deve avere un utile di almeno 19.400 €, perché in caso contrario perderà la partiva iva agevolata; inoltre sarà difficile che il suo cliente le affidi gli incarichi, perché rischia sia presunta la natura subordinata del rapporto di lavoro”
“L’utile sono i ricavi meno le spese, giusto?”
“Certo”
“Come spese avrò quelle per acquistare le attrezzature e quelle per svolgere l’attività: quest’anno ne avrò per almeno 6.500 €”
“Allora dovrà avere un fatturato di almeno 26.000 €”
“Cioè, mi faccia capire: il mio fatturato deve essere di almeno 26.000 €, per il DLgs 276/03, ma non deve superare 30.000 €, per il DL 98/11 ?”
“Esatto”.
“Mi scusi, ma io volevo fare il professionista, mica l’equilibrista!“
“Eh in effetti…”
“Riassumendo: mi sbatto per cercare i clienti, mi indebito per acquistare le attrezzature… non ho neppure iniziato e già mi trovo ad affrontare questi problemi”
“Li consideri un saluto di benvenuto, visto che sono solo l’antipasto…”
“Mmh…”
“ Comunque giovanotto, bando alle ciance: non era venuto per aprire partita iva ed iniziare la sua attività?”
“Eh si… ma ci rifletto ancora un poco… Arrivederci (a mai più)”

L’appalto pubblico

Paolo Rossi ha una piccola impresa ed ha acquisito l‘incarico di effettuare un intervento di manutenzione su un edificio di un ente pubblico: valore del lavoro 400 €.
Prima di iniziare il lavoro, il cliente gli chiede di compilare una serie di moduli e dichiarazioni in merito alla sicurezza. Il piccolo imprenditore si consulta con il consulente del lavoro.
“Dottore, la chiamo perché un cliente mi ha chiesto di compilare una marea di moduli e dichiarazioni relativi alla sicurezza”
“Hanno ragione, è previsto dal decreto 81/08”
“Si, ma impiego più tempo a compilare i moduli che a fare il lavoro”
“Compili, lo prevede la legge”
“Si, ma mi chiedono un sacco di cose..! Che senso ha tutta questa carta per un piccolo intervento come il mio… mi chiedono, tra l’altro, di indicargli anche la procedura di primo soccorso!”
“E cioè ?”
“La procedura che la mia impresa prevede di applicare nel caso mi faccia male”
“Beh… gliela indichi!”
“Vado a fare il lavoro da solo… se mi faccio male che procedura vuole che applichi…. al massimo posso lamentarmi”
“Ecco, bravo… scriva quello”.
Il piccolo imprenditore, pazientemente, compila moduli e dichiarazioni; non ha ancora terminato, che l’ente pubblico gli riscrive, chiedendogli un’ulteriore dichiarazione. Altra telefonata al consulente del lavoro.
“Mi chiedono un’altra dichiarazione: hanno citato il decreto 163/06”
“Certo, le chiederanno di dichiarare che non ricorrono le cause di esclusione dagli appalti pubblici, previste dall’art. 38 del decreto 163”.
“Ma vogliono che la dichiarazione sia resa dall’amministratore, dal responsabile tecnico e dal socio di maggioranza dell’impresa”
“E beh, fatela”
“Il socio di maggioranza non lavora in azienda, è un mero socio di capitale: in questo momento, per esempio, si trova negli Stati Uniti”
“Cosa vuole che le dica: o lo rintracciate o lo aspettate”.
L’installatore esegue il lavoro ed invia la fattura. Neppure il tempo di alzare la testa ed è già in arrivo un nuovo modulo, quello relativo al DURC; di nuovo al telefono con il consulente del lavoro.
“Questa volta vogliono che compili un modulo per richiedere il DURC”.
“E lei lo compili”
“Ma non posso inviargli direttamente il DURC ?”
“No. Gli enti pubblici non possono più chiedere il DURC ai privati, devono acquisirlo direttamente dall’Inps:
è una delle semplificazioni introdotte dal DL 5/12”
“Semplificazione ? Prima mandavo il DURC, ora devo compilare un modulo con un sacco di dati; impiego molto più tempo”
“Se dicono di avere semplificato, avranno semplificato, no…?”.
Appena compilato il modulo del DURC arriva la richiesta di un’altra dichiarazione, questa volta ai sensi della legge 136/10.
“Dottore….”
“Ancora lei ?”
“Eh si, non ci crederà, ma mi chiedono di compilare un’altra dichiarazione: fanno riferimento alla legge 136/10”
“Hanno ragione, si tratta del conto corrente dedicato: deve indicare le generalità delle persone che possono operare sul conto corrente su cui l’ente pubblico effettuerà il pagamento”
“Quindi devo compilare anche questa dichiarazione ?”
“Si; la legge 136/10 ha previsto questa procedura per contrastare le infiltrazioni della mafia negli appalti pubblici”
“Combattono le infiltrazioni della mafia negli appalti pubblici con le dichiarazioni ?”
“Si… beh, non solo, hanno poi anche previsto il CIG, il CUP, insomma … diverse cose”
“Ah ho capito … hanno deciso di sfiancare la mafia a suon di moduli e dichiarazioni… in effetti sarà terrorizzata ”.

L’incarico a altra impresa

Un’impresa ha acquisito da un cliente l’incarico di realizzare un lavoro: ne effettua direttamente una parte e, con il consenso del cliente, subappalta il resto ad altra impresa. Il lavoro viene terminato, il cliente paga, e l’impresa appaltatrice si accinge a pagare l’impresa subappaltatrice, quando interviene trafelato il commercialista.
“Prima di pagare, avete acquisito la dichiarazione ai sensi del DL 83/12 e successive modifiche ?”
“E cosa è?”
“È una dichiarazione con la quale l’impresa subappaltatrice dichiara di avere versato le ritenute sui loro dipendenti”
“Perché dobbiamo chiedere questa dichiarazione?”
“Se non lo fate e non hanno pagato le ritenute, in base alla legge, siete esposti al diritto di rivalsa”
“Diritto di rivalsa??”
“Si, per esempio l’Inps ha diritto di pretendere da voi i soldi che loro non hanno versato”
“Cioè, mi faccia capire: loro non pagano i contributi e l’Inps impone di pagarli a me?”
“Esattamente, entro i limiti del valore dell’appalto”
“Ma che senso ha?”
“Nessuno; e infatti l’avevano previsto anche per l’iva, che però è un’imposta europea, e l’Europa ha detto che non si poteva fare”
“Ah ecco… allora hanno poi cancellato la norma”
“Si, l’hanno eliminata per l’iva, ma non per le ritenute sul lavoro dipendente, che sono nazionali”
“Quindi devo richiedere questa dichiarazione?”
“Si”
“Ma devo chiederla solo a questa impresa?”
“No, a tutte le imprese a cui affida dei lavori, ad esempio anche all’impresa che pulisce i vostri uffici”
“Va bene una dichiarazione generica?”
“Nooh !! Deve contenere gli estremi degli F24 pertinenti, come indicato nella Circolare 40/E/12 dell’Agenzia delle entrate”
“Mi scusi, ma se mi fanno una dichiarazione falsa?”
“Ah, lei comunque è a posto”
“Ma secondo lei, uno che non versa le ritenute per i dipendenti, per essere pagato si pone poi tanti problemi a farmi una dichiarazione non veritiera?”
“In effetti …”
“E allora a cosa serve questa norma: a farci perdere altro tempo e a far girare altra carta?”
“Beh… non solo; serve anche ad esporre a rivalsa tutti coloro che non sanno di dover richiedere questa dichiarazione oppure che, oberati dagli adempimenti burocratici, non la richiedono”.

2014/08/10

Renzi: mille promesse, zero risultati

Matteo Renzi comincia ad arrancare, è chiaramente in difficoltà: l’economia non decolla anche perchè le promesse valgono per un po' ma poi si smontano da sole quando i risultati non arrivano.
Alla prova dei fatti la spesa pubblica non si riduce e per dare demagogicamente 80 euro a qualcuno Renzi ne ha presi molti di più a tanti altri e anziché avviare riforme serie ci si è impantanati in questioni secondarie. Il premier si avvicina già al suo capolinea?

Credo che voglia cambiare soprattutto la legge elettorale e poi andare ad elezioni per blindare i suo fedelissimi e per questo sta cercando di crearsi una legge elettorale a proprio beneficio personale che è lo stesso obiettivo di Berlusconi perché entrambi hanno bisogno di fare eleggere solo una cerchia di pretoriani fedelissimi e che dicano soprattutto sempre di sì.

Forse Napolitano dovrebbe cominciare ad esprimersi e a preoccuparsi su serio.
Se di fatto viene tolto di mezzo il senato e se tutto il potere passa alla Camera (il che non è poi così sbagliato) come si può impostare un sistema elettorale di liste bloccate dove chi vince anche per un solo voto e prendendone comunque pochi anche pochi conquista una maggioranza assoluta che poi può nominar e decidere tutto, eleggendo perfino il Presidente della Repubblica compreso?

Non è giusto, soprattutto se i cittadini non potranno neppure eleggere i propri rappresentanti ma solo indicare il partito o la coalizione, senza preferenze o serie “primarie” che pre-indichino i candidati. Non prendiamoci in giro con l’ ok alle preferenze “salvo il capolista di ogni collegio” perché in quasi tutti i collegi sarà eletto il solo capolista!

Un sistema più snello è doveroso, il superamento del bicameralismo pure, ma ci sia libertà di scelta dei candidati per scegliere i migliori e i più credibili, non persone solo obbedienti ai leader e che già in passato hanno fatto solo disastri, a destra come a sinistra. 

Ma all’Italia servono soprattutto altre riforme a cominciare dal controllo della spesa pubblica, non basta “cacciare” Cottarelli per far finta di nulla: in campo economico il fallimento di Renzi purtroppo è totale e l’Europa e i mercati temo che presto ne prenderanno atto.
Se volete divertirvi su come Renzi parli l'inglese guardate intanto questo video:


Uno degli esempi di come il governo Renzi stia affrontando i problemi con demagogia assoluta è la situazione delle province.
Si potrà anche pensare che non servano più e vadano abolite certo, ma contemporaneamente bisognerebbe però chiarire a chi andranno affidati i servizi svolti dagli enti provinciali.

Non basta tagliare i fondi alle province per poi prendere atto che le strade provinciali sono senza manutenzione e senza sgombero della neve, così come è ridicolo non trasmettere più i fondi per la manutenzione delle scuole di competenza provinciale: chi ci pensa?.

Visto che il prossimo Senato sarà composto quasi interamente da consiglieri regionali sarà anche interessante vedere come opererà per eventuali tagli alle regioni che sono – molto più delle province! – la causa del dissesto economico italiano in termini di sprechi.